Post tenebras lux (C. Reygadas, 2012)
Post tenebras lux (id.)
di Carlos Reygadas – Messico 2012
con Adolfo Jiménez Castro, Nathalia Acevedo
*1/2
Visto al cinema Apollo, in lingua originale (rassegna di Cannes).
Una famiglia (padre, madre e due bambine piccole) si trasferisce a vivere in aperta campagna. Il rapporto fra marito e moglie non va benissimo, e l’uomo – ossessionato dalla pornografia – rimane vittima di un’aggressione da parte di El Siete (“Sette”), uno sbandato che si guadagna da vivere con lavoretti non sempre legali e che aveva tentato di svaligiargli la casa: ma saprà perdonarlo, aiutandolo a rintracciare a sua volta la propria famiglia. Il cinema di Reygadas non è certo facile e lineare: lo spettatore è chiamato a districarsi in una successione di scene lunghe e criptiche, che solo in parte presentano un collegamento fra loro (alcune sembrano davvero avulse dal resto: la sequenza con gli scambisti nella sauna, l’incontro di rugby, la riunione di famiglia). Si fatica a trovare un filo conduttore che vada oltre una pretenziosa collezione di esperienze, sogni, desideri o fantasie personali. Il film è infatti da leggere in chiave semiautobiografica (non a caso le due bambine – Rut ed Eleazar – sono interpretate dalle figlie stesse di Reygadas). Questo tipo di approccio può essere soddisfacente se ci si lascia “catturare” dalla ragnatela di immagini e dalla suggestione dei possibili significati (si pensi a Tarkovskij, a Lav Diaz o a certe cose – non tutte – di Lynch); fallisce miseramente quando – come in questo caso – si ha la sensazione di assistere al semplice montaggio di sequenze in libertà (o, peggio, ai filmini delle vacanze) di un regista senza idee che si limita ad accatastare materiale sperando che sia poi lo spettatore a connettere il tutto al posto suo. Certo, è innegabile la bellezza di alcune sequenze (come quella d’apertura, con la bambina piccola – scopriremo poi che si tratta di un sogno – che si aggira sul campo, fra le pozzanghere, in mezzo agli animali che corrono, mentre il sole tramonta e lentamente cala il buio), pur distorte da curiose scelte stilistiche (il filtro sulla telecamera, che dona alle immagini un fastidioso “effetto lente”). Ma è troppo poco, anche perché a tratti la pellicola scade invece nel ridicolo involontario, soprattutto quando cerca di proporre grossolane suggestioni soprannaturali (il demonio rosso, il finale in cui un personaggio si stacca la testa con le mani). Difficile da condividere la decisione di assegnargli a Cannes il premio per la miglior regia, un riconoscimento peraltro in linea con le assurde Palme d’Oro regalate negli ultimi due anni ad altri film su questa falsariga, lo “Zio Boonmee” di Weerasethakul e "The Tree of Life" di Malick.
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