28 febbraio 2013

La parola ai giurati (Sidney Lumet, 1957)

La parola ai giurati (12 angry men)
di Sidney Lumet – USA 1957
con Henry Fonda, Lee J. Cobb
****

Visto in TV, con Sabrina.

In un’afosa giornata estiva, al termine di un dibattimento, una giuria popolare si ritira in una piccola aula privata del tribunale di New York per deliberare su un caso di parricidio. Gli indizi e le testimonianze sembrerebbero non lasciare dubbi, e infatti undici dei dodici giurati sono subito pronti, senza alcuna esitazione, a dichiarare colpevole il diciottenne dei bassifondi che è accusato di aver pugnalato il padre che lo maltrattava. Ma uno dei giurati vota invece per l’assoluzione: non perché sia convinto al cento per cento che il ragazzo sia innocente, ma perché ritiene che sussista ancora un “ragionevole dubbio” (di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza) e soprattutto perché, essendoci una vita in gioco (l’imputato, se giudicato colpevole, andrebbe sulla sedia elettrica), pensa che sia giusto discuterne almeno un po’ prima di prendere una decisione frettolosa. Poiché in un caso del genere è necessaria l’unanimità, gli altri undici giurati cercano di convincere il loro compagno delle proprie ragioni: ma durante la discussione, inaspettatamente, sono invece loro che, uno a uno, finiscono col rendersi conto della superficialità, dei pregiudizi o delle ambiguità che potrebbero aver offuscato le proprie conclusioni. A parte le brevi sequenze iniziali e finali, il film si svolge tutto in una stanza, e può dunque essere iscritto a quel particolare genere di “cinema da camera” (che rispetta le unità di luogo, azione e tempo) cui appartengono pellicole come “Nodo alla gola” di Hitchcock o “Carnage” di Polanski. Oltre che una perfetta descrizione delle dinamiche del dibattito, della psicologia sociale e dei meccanismi di “costruzione del consenso” all’interno di un gruppo di persone di età, cultura e origine differente, è anche un caposaldo del cinema giudiziario, sebbene non mostri il processo in sé ma solo la discussione della giuria popolare (che negli Stati Uniti è formata da cittadini comuni, estratti a sorte): la vicenda viene ricostruita pezzo a pezzo, a beneficio dello spettatore, proprio attraverso i commenti dei giurati, che – fra liti, conflitti e ragionamenti vari – fanno emergere pian piano nuovi particolari. Memorabile la caratterizzazione dei dodici personaggi (nessuno dei quali identificato da un nome, a parte quelli interpretati da Fonda e da Sweeney che si scambiano le presentazioni nel finale, ma solo da un numero): si va dal bigotto razzista e pieno di pregiudizi (Ed Begley) al rappresentante che spera solo di concludere la discussione in fretta perché ha in tasca un biglietto per una partita di baseball (Jack Warden), dall’immigrato dell’Europa dell’Est che nutre un’appassionata fiducia nel sistema giudiziario americano (George Voskovec) all’agente pubblicitario che si lascia influenzare continuamente dalle opinioni altrui (Robert Webber), dal presidente della giuria, allenatore di una squadra di football liceale, che cerca a fatica di gestire con equilibrio la discussione (Martin Balsam), al timido impiegato di banca che inizialmente è messo in soggezione dagli altri ma trova poi il coraggio delle proprie idee (John Fiedler), dal freddo e analitico agente di borsa che cerca di considerare i fatti con razionalità (E. G. Marshall), al “tifoso del Baltimora” che proviene a sua volta dai bassifondi e dunque empatizza con il ragazzo (Jack Klugman), dall’imbianchino paziente e rispettoso (Edward Binns) all’anziano saggio e riflessivo (Joseph Sweeney), per finire con le due figure principali, l’antagonista e il protagonista del film: l’esagitato uomo d’affari che – come si scoprirà alla fine – intende condannare il ragazzo per “punire” in qualche modo il suo stesso figlio, fuggito da casa e con il quale aveva un rapporto difficile (Lee J. Cobb), e il coscienzioso architetto (Henry Fonda) che è il primo a nutrire qualche dubbio su come i fatti sono stati ricostruiti e portati in tribunale. Da notare che il film si conclude senza rivelare se il ragazzo imputato sia effettivamente innocente: anzi, probabilmente è colpevole, solo che gli indizi contro di lui non permettono di affermarlo “oltre ogni ragionevole dubbio”, appunto. Tratto da una magistrale sceneggiatura di Reginald Rose, inizialmente pensata per un adattamento televisivo, il film segna il debutto alla regia cinematografica di Sidney Lumet, autore in seguito di altri capolavori (come “Quel pomeriggio di un giorno da cani”). Verrà rifatto quarant'anni dopo, nel 1997, da William Friedkin, con Jack Lemmon e George C. Scott nelle due parti principali.

27 febbraio 2013

Il giovane Toscanini (F. Zeffirelli, 1988)

Il giovane Toscanini
di Franco Zeffirelli – Italia/Francia 1988
con C. Thomas Howell, Elizabeth Taylor
*1/2

Visto in TV.

Romanzatissimo biopic sugli anni giovanili, gli amori e le prime esperienze artistiche del grande direttore d'orchestra Arturo Toscanini (C. Thomas Howell), ambientato nel 1886, quando il musicista aveva solo diciannove anni. Dopo essere stato scartato a un provino alla Scala come violoncellista, Toscanini viene ingaggiato dall'impresario Claudio Rossi (John "Gimli" Rhys-Davies) per una tournée in Brasile. Fra i suoi compiti c'è quello di preparare i cantanti (tra cui l'irraggiungibile Nadina Bulichoff, interpretata da una mediocre Elizabeth Taylor) per una rappresentazione dell'Aida da effettuare al cospetto dell'imperatore Dom Pedro II (Philippe Noiret). Durante il viaggio, Toscanini si innamorerà della giovane suora laica Margherita (Sophie Ward), si prenderà a cuore le sorti dei bambini poveri, otterrà la possibilità di dirigere l'opera dopo che il precedente maestro abbandona il palco in polemica con il resto della troupe, e convincerà anche la Bulichoff a perorare la causa dell'abolizione della schiavitù presso l'imperatore, di cui la diva è l'amante. Un film piatto e melenso sull'intreccio fra musica, amore e vita, che mescola in maniera inconsistente le prime esperienze professionali di Toscanini con una sottotrama a sfondo sociale che c'entra come i cavoli a merenda. Budget a parte, sembra quasi di assistere a una fiction di Rai 1. A poco valgono la fotografia patinata e la regia retorica di Zeffirelli, così come il notevole cast internazionale (ci sono anche Franco Nero, Pat Heywood e Jean-Pierre Cassel, il padre di Vincent), assai svogliato e in gran parte sprecato. L'unico piacere per lo spettatore è dato dalle sequenze dell'Aida mostrate nel finale (la voce della Taylor è quella di Aprile Millo).

24 febbraio 2013

Re della terra selvaggia (B. Zeitlin, 2012)

Re della terra selvaggia (Beasts of the Southern Wild)
di Benh Zeitlin – USA 2012
con Quvenzhané Wallis, Dwight Henry
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

La piccola Hushpuppy, una bambina di cinque anni, vive con il padre nelle lagune della Louisiana, nei pressi della "Grande Vasca", come gli abitanti della zona chiamano il bacino di un'enorme diga che di fatto li taglia fuori dal resto del mondo. Quando un uragano (Katrina?) devasta la regione, i due rinunciano ostinatamente ad essere evacuati e si danno da fare per sopravvivere in mezzo all'inondazione insieme a un nutrito gruppo di membri della loro comunità. Una grave malattia del padre costringerà la bambina a confrontarsi e vincere le proprie paure (impersonate da colossali bestie preistoriche, sorta di mammuth giganti che lo scioglimento dei ghiacci del polo ha riportato alla luce) e, forse, a rintracciare la madre che li aveva abbandonati anni prima. Pellicola d'esordio del regista indipendente Benh Zeitlin, che gli è valsa la Camera d'Or a Cannes, il premio della giuria al Sundance Film Festival e ben quattro candidature agli Oscar (quella alla piccola protagonista, la strepitosa Quvenzhané Wallis, è la nomination più "giovane" mai attribuita dall'Academy), oltre al plauso di un entusiasta Barack Obama (che lo ha preferito a "Lincoln" e "Django Unchained"): ha i suoi pregi nella descrizione di un mondo "fuori dal mondo", parallelo alla realtà moderna, povero e semplice ma non avaro di ottimismo, di fascino e di bellezza, e soprattutto in una protagonista che in ogni inquadratura cattura lo spettatore con la sua forza interiore, il suo dinamismo, la sua natura "elementale" e indipendente. Certo, il film è anche molto "americano" nella filosofia (l'autodeterminazione, l'importanza della forza, la negazione dell'infanzia: per superare le difficoltà è indispendabile "mostrare i muscoli") e nei contenuti: mantenersi legati al proprio territorio sembra essere la cosa più importante, anche più della propria sopravvivenza. Scenari, fotografia e suggestioni fantasy lo rendono piacevole, ma si corre facilmente il rischio di sopravvalutarlo. Il titolo italiano stravolge, chissà perché, quello originale (che recita "Le bestie del selvaggio sud", in riferimento agli Auroch, gli animali preistorici che tormentano i sogni di Hushpuppy).

19 febbraio 2013

Dodes'ka-den (Akira Kurosawa, 1970)

Dodes'ka-den (id.)
di Akira Kurosawa – Giappone 1970
con Yoshitaka Zushi, Noboru Mitani
***1/2

Visto in DVD, con Sabrina.

In una baraccopoli alla periferia di Tokyo, fra cumuli di detriti e di spazzatura che fanno da sfondo al parallelo degrado umano e civile, un variopinto gruppo di personaggi porta avanti le proprie vite in maniera corale e intrecciata. Il giovane Rokuchan (Yoshitaka Zushi) trascorre le proprie giornate "guidando" un tram invisibile per le vie del quartiere, producendo con la bocca il rumore del passaggio sulle rotaie (il titolo del film, "Dodes'ka-den", si riferisce proprio all'onomatopea del tram che sferraglia), per il dispiacere e il dolore rassegnato di sua madre (Kin Sugai). I due operai Masuda e Kawaguchi (Hisashi Igawa e Kunie Tanaka), amici e ubriaconi, si scambiano con nonchalance le case e le mogli (Hideko Okiyama e Jitsuko Yoshimura). Un barbone (Noboru Mitani) che abita con il figlioletto (Hiroyuki Kawase) nella carcassa di un'automobile, sogna di costruire una moderna casa con piscina su una collina erbosa: ma i suoi progetti di fantasia andranno in frantumi quando il bambino – che si procurava da mangiare per sé e per il padre, chiedendo avanzi nei ristoranti nei dintorni – morirà per un'intossicazione alimentare. Il tenebroso e taciturno Hei-San (Hiroshi Akutagawa), che vive in isolamento in una baracca metallica, riceve la visita della moglie (Tomoko Naraoka), che aveva ripudiato in seguito a un tradimento: anche se lei è pentita, lui non riuscità a perdonarla. La quindicenne Katsuko (Tomoko Yamazaki), affidata agli zii che l'hanno adottata (Tatsuo Matsumura e Tsuji Mari), viene sfruttata, costretta a lavorare come una schiava (fabbricando fiori di carta) e persino violentata dallo zio, che approfitta di una breve assenza della moglie: in preda a un impulso di follia autodistruttiva, tenterà di suicidarsi e di portare con sé nella morte anche l'unica persona che la trattava con gentilezza, un garzone del negozio di sakè. Il giovale Ryo (Shinsuke Minami) è sposato con una donna che lo tradisce in continuazione (Yoko Kusunoki), al punto che deve darsi da fare per convincere i propri figlioletti di essere effettivamente il loro genitore (probabilmente non lo è, ma a lui non importa: quello che conta sono i sentimenti che li legano insieme). Il mite impegato Shima (Junzaburo Ban), afflitto da una cospicua serie di tic nervosi, è benvoluto da tutti; così non è per sua moglie (Kiyoko Tange), sgradevole e sgarbata. Ma lui, di fronte agli amici che lo consigliano di cacciarla di casa, la difende appassionatamente. L'anziano artigiano Tamba (Atsushi Watanabe) ha mantenuto buon senso e saggezza anche di fronte alla miseria: convince un energumeno ubriaco a calmarsi (disarmandolo con la frase "Mi sembri stanco, vuoi che prenda il tuo posto?"), offre di propria volontà del denaro a un ladro che era penetrato nella sua abitazione, e riesce – con uno stratagemma – a scoraggiare un uomo che aveva deciso di suicidarsi. Sullo sfondo, un gruppo di donne perennemente intente a lavorare presso una fontana commenta – come un coro – le vicende del quartiere.

Definito dai critici "tragico e trascendente", "Dodes'ka-den" è un film fondamentale, di svolta e di rottura, tanto nella carriera quanto nella vita di Kurosawa. Primo film senza Toshiro Mifune dopo diciassette pellicole consecutive (regista e attore avevano litigato per l'interpretazione troppo solenne fornita da Mifune nel precedente "Barbarossa", che Kurosawa avrebbe voluto ritratto in maniera più umana), primo film a colori (e che colori!), primo film girato in maniera indipendente (e dunque in piena libertà artistica ed espressiva, senza imposizioni da parte dei produttori), primo film realizzato dopo una pausa di ben cinque anni (in precedenza, tra un lavoro e l'altro, non ne erano mai passati più di due). Dopo il successo critico ma il flop commerciale di "Barbarossa", nessun produttore giapponese sembrava ormai disposto a finanziare un nuovo film di un regista che, è vero, aveva sfornato grandi successi come "Rashomon", "I sette samurai" e "Yojimbo", ma che si era anche sempre rivelato un intransigente perfezionista, facendo lievitare parecchio tempi e costi. Alcuni tentativi di lavorare con gli americani non andarono a buon fine (uno di questi progetti, "A trenta secondi dalla fine", verrà realizzato in seguito da Andrei Konchalovsky). "L'imperatore" decise allora di dare vita, insieme a tre altri colleghi (Kon Ichikawa, Koisuke Kinoshita e Masaki Kobayashi), a una casa di produzione indipendente (chiamata "Yonki-no-kai", ovvero "I quattro cavalieri") per poter realizzare ambiziosi progetti senza scendere a compromessi artistici. Il primo fu appunto "Dodes'ka-den", che per la sua coraggiosa scelta di mettere in scena la vita in una bidonville andò incontro a un clamoroso insuccesso: non dimentichiamo che erano gli anni in cui il Giappone si beava di un boom economico senza precedenti. Il fallimento della società e l'ostracismo degli altri produttori portarono Kurosawa sull'orlo della depressione e del suicidio (un tentativo in effetti ci fu, anche se non si sa quanto convinto: è da ricordare, a tal proposito, che anche il fratello maggiore di Akira, Heigo, si era suicidato a trent'anni). Per fortuna il grande regista fu salvato dall'apprezzamento e dalle proposte di lavoro dei suoi ammiratori stranieri, in primis russi e americani, che gli consentirono di realizzare i suoi capolavori successivi ("Dersu Uzala" i russi, "Kagemusha" e "Ran" gli americani) e di trovare così una nuova vitalità e una nuova giovinezza anche in patria ("Sogni", "Rapsodia in agosto" e "Madadayo").

Il film è l'adattamento di alcuni racconti di Shugoro Yamamoto, "scrittore contemporaneo particolarmente attento all'indagine sulla vita e i sentimenti delle classi diseredate". Nel suo libro, "Quartiere senza sole", i racconti erano quindici ed erano ambientati in epoche differenti; Kurosawa ne ha scelti otto e ha deciso di "fonderli insieme", collocandoli tutti nella stessa epoca e nello stesso luogo. Montagne di detriti e di rifiuti a perdita d'occhio, senza un filo d'erba o l'ombra della natura (l'unico albero è secco: "Un albero morto non è più un albero", commenta la moglie di Hei-sam, paragonandolo al marito). L'argomento, l'ambientazione e la struttura della pellicola possono ricordare il precedente "I bassifondi", anche se Kurosawa aveva già raccontato in parecchi suoi lavori la sofferenza e la disperazione degli emarginati ("L'angelo ubriaco", "Vivere", "Barbarossa") e si è sempre distinto per un profondo umanesimo che è forse il vero filo conduttore della sua produzione, persino nelle pellicole epiche (come non ricordare i contadini de "I sette samurai"?). Qui però c'è più astrazione e maggior stilizzazione, che rendono l'affresco ancora più universale. Se l'ambientazione è contemporanea, non è però ben definita: potrebbe svolgersi negli anni immediatamente successivi alla guerra, quando macerie e povertà erano uno scenario più comune; oppure mostrare come, anche negli opulenti anni settanta del boom economico e in una delle nazioni più ricche e fiorenti del pianeta, potevano esistere oasi di degrado e di infelicità (che portano con sé, di converso, anche violenza, pazzia e psicosi). E pure le scelte artistiche, come l'uso dei colori, ammantano l'affresco di una luce ultraterrena e lo staccano dalla concretezza tipica delle pellicole neorealiste. Non siamo dalle parte di Mizoguchi, nemmeno per un momento. E infatti non tutto è nichilismo e pessimismo: oltre a poveri, disperati, pazzi, schizofrenici e violenti, ci sono anche uomini saggi, benvoluti, equilibrati, compassionevoli, che conservano buon senso e dignità (Shima, Tamba, la zia di Katsuko, il ragazzo del sakè). Tamba, in particolare, ricorda a tratti il pellegrino Tahei de "I bassifondi", quello che insegnava che "ogni essere umano è degno di stima": è lui, per esempio, l'unico a confortare il barbone alle prese con la malattia del figlio (alle comari che gli stanno lontane, temendolo perché irascibile e violento, ribatte: "è solo timido"). C'è poi chi, pure in mezzo alla miseria, sogna un improbabile futuro migliore, almeno con l'immaginazione (il barbone stesso) o con la pazzia (Rokuchan): sono queste forme "creative" (e dunque "artistiche") a impedire loro di vedere lo squallore che li circonda e a consentirgli di sorridere con ottimismo di fronte al dolore e alle incertezze della vita.

Per la prima volta alle prese con i colori, da artista par suo (non dimentichiamo che in gioventù, prima che quella di regista, stava per intraprendere la carriera di pittore) Kurosawa non può che farne un uso espressionistico. Per molti versi la pellicola anticipa "Sogni", e non solo per l'essere un collage di otto differenti storie (che qui si dipanano in parallelo, anziché essere separate l'una dalle altre). La tavolozza a disposizione della fotografia è variopinta e intensa: si va dai colori caldi dei tramonti o delle scene di torbida passione (l'abito di una delle donne alla fontana, il "letto di fiori" sul quale viene violata Katsuko, il rosso e il giallo dei due amici-ubriachi che si scambiano le mogli) ai colori freddi e smorti del dolore e della malattia (su tutti i grigi, i viola e i blu che accompagnano la malattia del bambino e il volto sempre più smunto e "orchesco" del padre, che sembra uscire da un dipinto di Munch o di Van Gogh; ma anche l'atmosfera cupa nella baracca del marito tradito che non riesce a perdonare la moglie). A tratti, appunto, sembra di assistere in anticipo ai segmenti più disperati e macabri di "Sogni". L'episodio-cornice, quello di Rokuchan con il suo tram fantasma, pare invece quasi girato in bianco e nero, a parte naturalmente i colori del cielo, del sole, della luna e delle stelle che circondano il suo vagare nella bidonville. L'espressività delle immagini è accompagnata da quella delle musiche del grande compisitore Toru Takemitsu, che in seguito tornerà a collaborare con Kurosawa realizzando la colonna sonora di "Ran". La durata del film, inizialmente prevista di quattro ore, è stata ridotta in fase di montaggio a circa due ore e mezzo: e chissà che alcuni dei segmenti non siano stati un po' sacrificati. In effetti, non tutti gli episodi presentano la stessa intensità. Di fronte alla drammaticità di alcuni, altri risultano più leggeri, quasi comici (gli amici che si scambiano le mogli), altri spingono forse eccessivamente sul patetico (quello di Ryo e dei suoi cinque figli) e altri semplicemente si limitano a fare da sfondo. In ogni caso, a rendere più ricco e poetico il film, aprendo ampie finestre sul mondo esterno e permettendo allo spettatore di "respirare" oltre i limiti angusti della baraccopoli, ci sono quei magnifici squarci surreali (il tram di Rokuchan, la casa immaginaria del barbone, i tic di Shima) e tante immagini che valgono da sole più di mille parole (le scenografie, le pennellate, i sogni).

14 febbraio 2013

La caduta (Oliver Hirschbiegel, 2004)

La caduta - Gli ultimi giorni di Hitler (Der Untergang)
di Oliver Hirschbiegel – Germania 2004
con Bruno Ganz, Alexandra Maria Lara
***

Visto in divx, con Sabrina.

Gli ultimi giorni di Hitler nel bunker di Berlino, sotto le cannonate dell’esercito russo che si apprestava a prendere la città, prima del suo suicidio (insieme a Eva Braun) e della fine della guerra. La pellicola, sceneggiata da Bernd Eichinger, si ispira ai libri di storici quali Joachim Fest, nonché alle memorie e alle testimonianze di personaggi che furono testimoni di quegli eventi, come la segretaria personale di Hitler, Traudl Junge (di cui sono mostrati, in apertura e chiusura di film, alcuni spezzoni di un'intervista), e "l'architetto del nazismo" Albert Speer. Per quasi tutto il suo svolgimento il film – cupo e rigoroso nella sua messa in scena, ma capace di coinvolgere e di suscitare profonde emozioni a 360 gradi – non perde di vista l'oggetto di cui intende parlare, a parte il breve controfinale in cui, dopo la morte del Führer, assistiamo alla caduta di Berlino e al destino finale dei personaggi sopravvissuti (una coda forse eccessivamente lunga). Ottime le interpretazioni: a svettare è naturalmente quella superlativa di Bruno Ganz, che si cala in maniera perfetta nei panni di Hitler come forse non aveva fatto mai nessun attore prima di lui. La sua recitazione è da apprezzare soprattutto in lingua originale, vista la cura con cui l'attore (di padre svizzero e di madre italiana) riesce a riprodurre persino l'accento austriaco del Führer. Notevole, comunque, anche l'immedesimazione fisica, per esempio dal punto di vista della mimica o del modo in cui riproduce il tremore della mano (Hitler era stato ferito durante un tentativo di attentato). Non che il ritratto degli altri personaggi risulti meno intenso: dalla Eva Braun che organizza balli e divertimenti anche nel bunker, come in un Titanic che sta affondando, ma che pure rimane a fianco del suo uomo fino a seguirlo nella morte; al fanatismo ferreo e ottuso di Joseph Goebbels; dal terribile atto della moglie di Goebbels, Magda (un'eccezionale Corinna Harfouch), che avvelena i propri figli prima che il bunker cada (in una scena dal fortissimo impatto emotivo); al generale Weidling, che ha il disperato compito di gestire l'ultima resistenza tedesca di fronte all'attacco dei russi; dal colonnello medico Schenk, che si dà da fare per alleviare le sofferenze dei soldati e dei tanti civili durante l'assedio; al piccolo Peter, il bambino che impara a sue spese quanto dolore possa portare la guerra e che alla fine stringe un improvvisato sodalizio con la segretaria Traudl Junge, attraverso i cui occhi osserviamo gran parte degli eventi. Curatissimo nella ricostruzione storica, nelle scenografie e nei dettagli (sia pure romanzati), il film ha infranto diversi tabù in Germania (è stato per esempio uno dei primi a far interpretare Hitler da un attore di lingua tedesca, senza usare immagini di repertorio) e ha suscitato numerose polemiche per aver voluto mostrare Hitler come un essere umano e non solo come un mostro, rivelandone le debolezze e anche i momenti di gentilezza, sia pure all'interno di una personalità disturbata e schizofrenica che passa continuamente da istanti di calma edi rassegnazione ad altri di ira o di veemente desiderio di riscatto, a volte priva di contatto con la realtà (come quando continua ad autoconvincersi che la guerra possa ancora essere vinta). In certi momenti il Führer suscita addirittura compassione. In fondo, nulla sarebbe più sbagliato del pensare che il male del nazismo sia stato qualcosa di estraneo all'animo umano: fingendo che Hitler non fosse un uomo come gli altri, si troverebbe una facile scusa, un "diavolo" sul quale scaricare ogni colpa. Più che la sconfitta di un singolo "mostro", il film vuole invece raccontare la sconfitta di un popolo, se non addirittura dell'intera umanità. Una curiosità: successivamente alla sua uscita, la popolarità della pellicola è cresciuta ulteriormente anche grazie al fatto che su internet circolano numerose parodie di diverse scene (in particolare di quella in cui Hitler fa una sfuriata contro i suoi generali, prima di ammettere finalmente che "la guerra è persa") con sottotitoli che ne alterano i dialoghi e fanno riferimenti a eventi dei giorni nostri, nei campi della politica, dello sport o dell'intrattenimento.

12 febbraio 2013

My rainy days (Yuri Kanchiku, 2009)

My rainy days (Tenshi no koi)
di Yuri Kanchiku – Giappone 2009
con Nozomi Sasaki, Shosuke Tanihara
**1/2

Visto in DVD, con Sabrina, in originale con sottotitoli inglesi.

La diciassettenne Rio Ozawa non è certo una studentessa modello: si dedica alla prostituzione o agli appuntamenti dietro compenso ("enjo kōsai"), al bullismo sulle compagne di classe (anche per "vie traverse"), alla manipolazione dei sentimenti altrui, e in generale sembra incapace di stabilire un autentico legame affettivo. Quando però incontra Kouki Ozawa (che curiosamente ha il suo stesso cognome), insegnante universitario di storia con il doppio dei suoi anni, se ne innamora perdutamente; e per lui decide di cambiare vita e di mettere la testa a posto. Ignora però che l'uomo ha i giorni contati per via di un tumore al cervello... Commedia/dramma a sfondo romantico che ha fra i suoi punti di forza la caratterizzazione e l'originalità del personaggio principale, non privo di retroscena scabrosi, e un lieto fine non così scontato. Interessanti anche le sottotrame che coinvolgono le compagne di scuola di Rio, dalla timida Tomoko, che viene risucchiata nello stile di vita dell'amica, alla problematica Naoko, che pur di non perdere il suo affetto compie la scelta più estrema. Punto debole è invece la recitazione poco convincente. Come il regista Yuri Kanchiku, esordiente, anche Nozomi Sasaki è praticamente al suo debutto: si tratta di un'ex modella di lingerie, qui praticamente al suo primo (e finora unico) ruolo di protagonista cinematografica. L'immagine della coppia che condivide un ombrello (che nella pellicola ritorna spesso) è un classico simbolo degli innamorati nel paese del Sol Levante ("Ai ai gasa"). Il film è tratto da un "romanzo per cellulare", una particolare forma di letteratura distribuita ai lettori (o meglio alle lettrici, visto che il target è in gran parte femminile e i soggetti sono spesso romantici) attraverso messaggi di testo sui telefonini: nata in Giappone, si è poi sviluppata in tutto il sud-est asiatico.

8 febbraio 2013

Lincoln (Steven Spielberg, 2012)

Lincoln (id.)
di Steven Spielberg – USA 2012
con Daniel Day-Lewis, Sally Field
*1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina.

Mentre la guerra di secessione americana è agli sgoccioli, l’appena rieletto presidente Abramo Lincoln cerca in ogni modo di convincere il parlamento ad approvare il tredicesimo emendamento alla costituzione degli Stati Uniti, quello che abolisce espressamente la schiavitù. Più che un film biografico a tutto tondo, la pellicola di Spielberg sceglie di concentrarsi sugli ultimi mesi della vita di Lincoln, ovvero quelli in cui il presidente – anche con metodi "machiavellici" (il fine giustifica i mezzi: come quando ritarda apposta l’incontro con i rappresentati dei Sud, e dunque il processo di pace, perché teme che senza la guerra verrebbe meno l’appoggio all’emendamento da parte delle frange più estreme della camera) o non proprio legali (la compravendita dei voti dei rappresentanti dell’opposizione) – si batte per realizzare il suo sogno di rendere il paese davvero libero per tutti. Ne risulta un film ingessato e monolitico, proprio come il personaggio che vuole ritrarre, un vero e proprio monumento americano che non può essere incrinato da una sfumatura o da un’ombra di dubbio. Lincoln è rispettosamente osservato dall’esterno, senza lasciare mai che lo spettatore possa penetrare nella sua mente, nei suoi pensieri e nelle sue emozioni (a parte le brevi scene, pretestuose e tipicamente spielberghiane, in cui è alle prese con la famiglia, ovvero con la moglie e i due figli), mentre eventi e personaggi che lo circondano risultano semplificati o banalizzati sull'altare del tema portante. Opinioni, sentimenti e correnti di pensiero vengono dati per scontati o “filtrati” dal vissuto odierno, senza un’analisi approfondita della situazione storica, assai più delicata e ambigua di quanto si voglia far credere, e senza collocare gli eventi – se non superficialmente – nel loro contesto. La sceneggiatura fa ampio ricorso a frammenti di discorsi, di lettere e di testi attribuiti al presidente, comprese le tante storielle e gli aneddoti che dispensa a piene mani. Ma le interminabili sequenze delle contrattazioni politiche, senza un adeguato “ritorno” emozionale per lo spettatore, rendono la pellicola abbastanza pallosa, pur se è da apprezzare la cura nella ricostruzione storica, nelle scenografie e nei costumi (che belle tutte quelle barbe e quei cappelli a cilindro!). L’assassinio di Lincoln è mostrato “fuori scena”: forse Spielberg non voleva competere con la memorabile sequenza girata nel 1915 da Griffith in “Nascita di una nazione”. L’interpretazione di Daniel Day-Lewis ha riscosso unanimi consensi, ma forse più a causa dell’ottimo lavoro di trucco e della straordinaria rassomiglianza (o immedesimazione) con il personaggio che non a un’effettiva ricchezza espressiva o comunicativa. Personalmente mi ha convinto di più quella, intensa e sofferta, di Tommy Lee Jones nei panni di Thaddeus Stevens, il repubblicano radicale che, ancora più di Lincoln e per motivi anche personali, si batte per l’approvazione dell’emendamento. Nel cast figurano anche James Spader, Tim Blake Nelson, Hal Holbrook, David Straitharn e molti altri. Non granché il doppiaggio italiano: a dare la voce a Lincoln è Pierfrancesco Favino, che però recita in maniera troppo "teatrale" e distaccata, finanche monocorde. Una curiosità: come si può notare, un tempo le posizioni politiche di democratici e repubblicani erano praticamente invertite rispetto a quelle odierne: i primi erano conservatori (e filoschiavisti), i secondi progressisti. Lo dimostra anche il fatto che, esaminando l’andamento dei voti nelle varie elezioni presidenziali, fino agli anni trenta (quando Roosevelt fece svoltare il partito “a sinistra”) e in parte addirittura fino agli anni ottanta, i democratici trionfavano regolarmente al Sud e negli stati più religiosi e integralisti (quelli della “bible belt”) che invece oggi sono appannaggio dei repubblicani (e viceversa).

7 febbraio 2013

Non c'è due senza quattro (E.B. Clucher, 1984)

Non c'è due senza quattro
di E.B. Clucher – Italia 1984
con Bud Spencer, Terence Hill
**1/2

Rivisto in TV.

Il sassofonista Greg Wonder (Bud) e il cascatore Elliot Vance (Terence) vengono assunti da un'agenzia specializzata in sosia di personaggi famosi per sostituire per una settimana, alla vigilia della firma di un importante contratto, i ricchissimi cugini brasiliani João Bastiano e Antonio Coimbra de la Coronilla y Azevedo, ai quali somigliano come due gocce d'acqua. Con il loro comportamento rozzo ed eccentrico porteranno scompiglio nell'ambiente snob dei due cugini, ma scopriranno anche chi è il misterioso individuo che complottava contro di loro. Spencer e Hill tornano a girare un film in Brasile (dopo "Più forte, ragazzi!") e sfornano forse il loro titolo migliore degli anni ottanta: a prima vista potrebbe sembrare un tipico prodotto della fase calante del duo, se non fosse che la trovata di "sdoppiare" i due protagonisti funziona a meraviglia, anche per merito della recitazione ironica e fuori dalle righe dei due attori (soprattutto di Bud Spencer), impagabili in versione sofisticata e leggermente effemminata. Alla fine, ciò che si ricorda di più di questa pellicola non sono certo i momenti in cui il dinamico duo interpreta i suoi classici personaggi, bensì quelli in cui si cala nei panni dei raffinati cugini Coimbra. Come dimenticare, in particolare, battute di Bud come "Non trevi?", "Nel fengo... Siamo finiti nel fengo", "Ah, già... obliavo", "L'unica volta che ho alzato la voce è stata all'età di cinque anni per via di certe fragoline"? Da sottolineare anche la gag, ripetuta fino allo sfinimento, del nome completo dei due cugini (tutti, persino loro in persona, si dimenticano sempre di aggiungere lo "y Azevedo" finale). La trama, comunque, è un po' inconsistente: alla fine si scopre che la vendetta del misterioso avversario non c'entra nulla con il contratto che i due cugini dovevano firmare. E allora perché, per esempio, lo psicanalista cerca di ottenere da Bud (con l'ipnosi) informazioni proprio su quel contratto? Da notare anche alcune scene quasi da commedia sexy (con i... sederi delle ballerine brasiliane), che stonano un po' con il cinema della coppia. Ma forse, avendo scelto di ambientare la pellicola a Rio, si trattava di un pedaggio inevitabile, così come la sequenza ambientata allo stadio. Nella scazzottata finale, grazie a trucchi ottici, possiamo goderci ben due Bud e due Terence contemporaneamente! Nello Pazzafini è "Tango", il killer al servizio dei cattivi (come dice Terence Hill: "Il fatto, caro cugino, che il signore cattivo si faccia chiamare Tango nel paese della Samba, ti fa capire immediatamente che razza di stronzo sia!"), che i nostri ribattezzano "Giocondo" quando gli giocano uno dei loro tiri. La colonna sonora, con la canzone "What's goin'on (in Brazil)", è di Franco Micalizzi.

5 febbraio 2013

Sulle mie labbra (Jacques Audiard, 2001)

Sulle mie labbra (Sur mes lèvres)
di Jacques Audiard – Francia 2001
con Emmanuelle Devos, Vincent Cassel
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Rivisto in divx, con Giovanni, Rachele, Paola, Eleonora, Claudia, Francesca, Fausto, Florian, Sabine.

Carla, ragazza sorda e solitaria che lavora come segretaria in un ufficio immobiliare, assume come assistente personale Paul, un giovane ladruncolo appena uscito di prigione. Oltre che per il piacere di avere finalmente un uomo accanto, la donna approfitta dei suoi metodi e della sua spregiudicatezza per prendersi – non sempre in maniera lecita – qualche rivincita nell’ambiente di lavoro (dove i colleghi tendono a isolarla e a ridicolizzarla). A sua volta, Paul sfrutterà la capacità di lei di leggere le labbra per coinvolgerla nel tentativo di “soffiare” la refurtiva a tre malviventi che hanno appena compiuto una rapina in banca. Insolito ed elegante thriller esistenziale che a una prima parte a sfondo “sociale”, tutta ambientata in un contesto lavorativo quotidiano e frustrante, ne fa seguire una seconda dai toni più “polar”, che si dipana nel sottobosco della malavita parigina come un film d’azione. Fondamentale la caratterizzazione dei personaggi, descritti come figure a tutto tondo e piene di luci e ombre (più che una relazione sentimentale – anche se il sottotesto sessuale è sempre presente, e alla fine la storia d’amore si concretizza – entrambi “usano” le capacità dell’altro per il proprio beneficio e il proprio riscatto: persino lei non si fa scrupolo a infrangere la legge). La fotografia è scura e avvolgente, le riprese con la macchina a mano si soffermano spesso e volentieri su primissimi piani e su particolari ravvicinati dei corpi, dei volti e delle mani dei protagonisti, mentre il sonoro gioca con il particolare modo in cui Carla percepisce il mondo intorno a sé (come quando si toglie l’apparecchio acustico per non essere disturbata o infastidita dai rumori che la circondano, affidandosi totalmente agli altri sensi, la vista in primis). Buone e intense le interpretazioni di Emmanuelle Devos (che per questo ruolo ha vinto il premio César) e Vincent Cassel: i due reggono quasi tutto il peso del film sulle loro spalle, lasciando pochissimo spazio ai comprimari (fra i quali spicca Olivier Perrier nei panni dell’assistente sociale di Paul, protagonista di un’insolita sottotrama che lo vede alle prese con la scomparsa della moglie). Il tema della comunicazione attraverso un linguaggio straniero o comunque “diverso” (qui quello dei sordi che leggono le labbra) rimarrà una costante di tutto il cinema di Audiard (si pensi alla musica in “Tutti i battiti del mio cuore” o al dialetto ne “Il profeta”), così come quello dell’handicap (fino al recente, anche se meno riuscito, “Un sapore di ruggine e ossa”).