Il trono di sangue (A. Kurosawa, 1957)
Il trono di sangue (Kumonosu-jō)
di Akira Kurosawa – Giappone 1957
con Toshiro Mifune, Isuzu Yamada
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Rivisto in DVD.
Nel trasportare la vicenda del “Macbeth” dalla Scozia al Giappone feudale dei samurai, Kurosawa compie un’operazione apparentemente rischiosa ma che porta ottimi frutti. Complice anche l’universalità dei testi di Shakespeare (che, non a caso, continuano a essere rappresentatissimi in tutto il mondo a distanza di oltre cinque secoli; e non sono pochi gli allestimenti che si prendono libertà nel setting o nella collocazione temporale: vedi anche, per restare al cinema, i film di Kenneth Branagh), il lungometraggio che ne risulta è senza dubbio uno dei migliori, più fedeli e più “potenti” adattamenti cinematografici di un dramma del grande bardo e ne veicola alla perfezione il tema dell’ambizione e della sete di potere che porta un guerriero coraggioso e leale al delitto, al tradimento e all’autodistruzione. Kurosawa, che tornava ad ambientare un film nell’impetuoso Giappone delle guerre civili dopo il grande successo de “I sette samurai”, ripeterà l’operazione quasi trent’anni dopo, sempre con risultati eccellenti, quando trasformerà il “Re Lear” nello spettacolare “Ran”. Il critico Richard Marienstras ha lodato il regista nipponico, “che riesce a naturalizzare Macbeth in modo da permettere a un occidentale di riconoscere Shakespeare e a un orientale di ritrovarvi un film giapponese storicamente documentato”. E Kurosawa stesso, nel spiegare la genesi di un film così sperimentale (agli stilemi del dramma occidentale ha sostituito quelli del teatro Nō), ha spiegato: “Il mondo descritto da Shakespeare nelle sue grandi tragedie a sfondo storico somiglia talmente al nostro medioevo e al nostro Cinquecento che a noi giapponesi pare di leggere un autore giapponese. [...] Ambíentare questa tragedia dell'ambizione nel Giappone dell'epoca delle guerre civili è stata quindi per me la cosa più naturale del mondo”.
Toshiro Mifune è il generale Washizu/Macbeth: mentre ritorna vittorioso da una dura battaglia, attraversando la foresta che circonda il maniero del suo signore Tsuzuki/Duncan (il Kumosonu-jō, ossia “il castello della ragnatela”, che è poi il titolo originale della pellicola), incontra un misterioso spirito che gli prevede un futuro apparentemente radioso: proprio lui, infatti, succederà al suo padrone come signore del castello; ma la sua stirpe sarà di breve durata, e il regno passerà al figlio del suo miglior amico, il generale Miki/Banquo (Minoru Chiaki). Washizu è un suddito fedele e non certo ambizioso, o almeno così vorrebbe mostrarsi: sarà sua moglie Asaji/Lady Macbeth (la mizoguchiana Isuzu Yamada), una donna senza scrupoli, a risvegliare i suoi peggiori impulsi e a spingerlo affinché faccia avverare la profezia, uccidendo a tradimento il suo signore mentre si trova ospite da lui. Non sarà l’unico delitto: anche l’amico Miki verrà decapitato, nel timore che si possa avverare la seconda parte della profezia. Divenuto un tiranno sanguinario, e con la sua fortezza sotto assedio da parte dell’esercito guidato dagli eredi di coloro che ha ucciso, Washizu si sente sicuro di uscirne comunque trionfatore, visto che lo spirito gli ha anche predetto che non perderà una battaglia fino a quando gli alberi della foresta non marceranno contro di lui: cosa che avverrà puntualmente quando gli assedianti useranno tronchi e frasche per mimetizzarsi mentre circondano il castello.
Anche se rispetto al testo di Shakespeare non mancano i cambiamenti (al posto delle tre streghe c'è uno solo spirito, inquietantemente bianco e luminoso, intento a tessere all'arcolaio come le Parche), il ruolo di alcuni personaggi di contorno viene ridotto (come quello di Noriyasu/Macduff) e numerosi dialoghi sono eliminati o rappresentati solamente attraverso soluzioni visive, tutte le scene più importanti e significative del dramma originale sono presenti, a partire dalla follia che assale Washizu e Asaji (il primo vede il fantasma dell’amico ucciso, la seconda impazzisce e tenta inutilmente di lavarsi via il sangue dalle mani). Ma è soprattutto la grandiosa ambientazione – con le brughiere spoglie e invase dalla nebbia, la labirintica foresta, i castelli feudali (ricostruiti sul monte Fuji), la stanza insanguinata, le armi e le armature medievali – a giocare un ruolo chiave nella riuscita del film, così come risultano incredibilmente efficaci le suggestioni formali del teatro Nō (riscontrabili in particolare nella figura di Asaji, il cui volto è sempre una maschera impassibile, ma anche nell'espressione irosa dello stesso Mifune e in generale nello stile dei dialoghi e dei monologhi, secchi e semplici ma espressivi). Memorabile, nel finale, la scena in cui gli stessi soldati di Washizu, spaventati dall’incedere degli alberi, si ribellano contro di lui e lo sommergono di frecce: la sequenza è stata girata senza effetti speciali, con arcieri professionisti che scagliavano i dardi verso Mifune mentre l'attore, agitando le braccia, comunicava loro in quale direzione stava per muoversi!