31 gennaio 2009

Un'ora d'amore (Ernst Lubitsch, 1932)

Un'ora d'amore (One hour with you)
di Ernst Lubitsch – USA 1932
con Maurice Chevalier, Jeanette MacDonald
***1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Remake sonoro del muto "Matrimonio in quattro" (realizzato da lui stesso nel 1924), questa splendida commedia musicale è un esempio perfetto del cosiddetto "tocco di Lubitsch", capace di infondere vivacità e malizia a un soggetto piuttosto semplice (una storia di seduzioni, tentazioni e tradimenti incrociati) senza mai perdere di vista leggerezza e ironia, e dimostrando ancora (come in "Mancia competente") di padroneggiare alla perfezione dialoghi e musica a pochissimi anni di distanza dalla nascita del sonoro. I coniugi parigini Andre e Colette Bertier sono fedeli e innamoratissimi, ma il loro rapporto è messo a dura prova dagli intrighi della rubacuori Mitzi, miglior amica di lei e intenzionata a sedurre lui. In occasione di una sontuosa cena da loro organizzata, entrambi i coniugi cedono alla tentazione della corte di un elemento "perturbatore": ma alla fine il loro idillio ne uscirà più forte che mai. Anziché mettere alla berlina l'istituzione del matrimonio, Lubitsch la esalta preferendo scatenarsi contro l'ingombrante apparato di sentimenti e di consuetudini "morali" che questa si porta appresso, dalla fedeltà alla gelosia. Tutti, in fondo, non vogliono altro che "un'ora d'amore". Chevalier e la MacDonald (la stessa coppia di "Amami stanotte" di Mamoulian e di tanti altri film di Lubitsch di quel periodo) sono perfetti nei rispettivi ruoli: lui si rivolge direttamente al pubblico, guardando in macchina e chiedendo consiglio, conforto o complicità, mentre lei appare radiosa e sexy come non mai. Dai dialoghi pieni di doppi sensi e ammiccamenti (spesso a sfondo sessuale) alle canzoni perfettamente inserite nel contesto (al punto che talvolta non c'è nemmeno bisogno dell'accompagnamento musicale: i personaggi parlano in rima e in metrica anche quando non cantano), dai formidabili "assoli" di Chevalier (su tutti l'incredibile "Ohh... that Mitzi!" con cui rivela di essere affascinato dalla sfrontatezza dell'amica seduttrice) alla gag ripetuta dei bigliettini segnaposto scambiati, dai vivaci confronti fra Andre e il marito di Mitzi (la fiera delle allusioni e degli eufemismi) alla spudorata scena della finta visita medica ("Three times a day"), viene quasi l'impressione che il codice Hays sia stato introdotto (un paio d'anni dopo) come legge ad personam, per mettere un freno alle arditezze di Lubitsch! Inutile dire che oggi tutte queste finezze maliziose nei dialoghi, nelle canzoni, nelle immagini e nelle inquadrature risultano innocue e anzi deliziose, tipiche di un mondo d'altri tempi dove bastava un cravattino slacciato per far sospettare un uomo di adulterio. Molte le battute memorabili ("In Svizzera c'è una legge molto curiosa: se un uomo uccide la propria moglie, finisce in carcere", "Hai il diritto di sbagliare. Sei una donna. E le donne sono nate per sbagliare", "Madame, penserà che sono un vigliacco... ma lo sono!"). Una curiosità: George Cukor è accreditato come assistente alla regia. Sul Mereghetti si legge che inizialmente il film avrebbe dovuto essere diretto interamente dal giovane allievo e che Lubitsch, insoddisfatto del suo lavoro, sia intervenuto prendendo personalmente in mano le redini della pellicola.

29 gennaio 2009

Amanti criminali (F. Ozon, 1999)

Amanti criminali (Les amants criminels)
di François Ozon – Francia 1999
con Natacha Régnier, Jérémie Renier
**1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Una coppia di adolescenti uccide un coetaneo e poi fugge nei boschi per seppellirne il corpo. Dopo essersi smarriti, i due ragazzi trovano una casupola nella quale vive un cacciatore-orco che li sequestra: per divorarli o per iniziare il ragazzo all'omossualità? Quasi una rilettura adulta e macabra della fiaba di Hänsel e Gretel (ma già le favole dei fratelli Grimm non erano certo prive di elementi dark e crudeli), il film di Ozon si districa fra eros e thanatos con il suo solito tocco lucido e personale: non si tratta infatti di un horror, bensì di un film di psicologie su due personaggi in cerca di una via di fuga da sé stessi, ambientata in un mondo strano e oscuro. Alice, fredda e dominante, è il "motore" della coppia e spinge l'amico a compiere l'omicidio i cui retroscena vengono narrati in una serie di flashback; Luc, sottomesso e impotente (in realtà inconsapevolmente gay), elimina quello che in fondo era il suo oggetto del desiderio e si affeziona poi all'orco che li tiene prigionieri. Che si tratti di una fiaba è sottolineato (ironicamente?) dalla scena in cui i ragazzi fanno l'amore nella foresta, osservati dagli animali del bosco come se si trattasse di una sequenza di "Biancaneve". Il boscaiolo è interpretato dal "kusturiciano" Miki Manojlovic. La Régnier si era già vista in "La vita sognata degli angeli".

28 gennaio 2009

La ragazza che cosa ha dimenticato? (Y. Ozu, 1937)

La ragazza che cosa ha dimenticato? (Shukujo wa nani o wasureta ka)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1937
con Kayoko Kuwano, Tatsuo Saito, Sumiko Kurishima
***

Rivisto in DVD, con sottotitoli (registrato da "Fuori Orario").

La musica allegra e le prime immagini (che mostrano un'automobile da cui scende una signora impellicciata) lasciano subito intendere come il tono del film sarà più leggero rispetto ai lavori di Ozu immediatamente precedenti. Incentrata su un piccolo episodio di conflitto in famiglia, la pellicola è comunque un vero gioiellino per lo studio dei personaggi, l'approfondimento psicologico e l'attenzione ai cambiamenti in atto nella società giapponese. La protagonista Setsuko è infatti una ragazza "moderna" che si reca da Osaka a Tokyo per visitare gli zii (lui è un professore universitario, lei una casalinga vecchio stile). I suoi atteggiamenti anticonformisti (beve, fuma, guida, risponde in malo modo) infastidiscono la donna: con lo zio, invece, sembra trovarsi in maggiore sintonia, forse perché anche lui amerebbe prendersi maggiori libertà di quelle che la moglie gli lascia. Costretto dalla consorte a recarsi controvoglia fuori città per giocare a golf, per esempio, il professore decide di rimanere in segreto a Tokyo, ospite del suo allievo e assistente Okada. Trascorre così la serata a bere e in un locale di geishe. Istigato dalla nipote, quando la moglie gli chiede spiegazioni si dimostra per la prima volta autoritario e la schiaffeggia. L'episodio, con le successive scuse e il chiarimento che ne seguirà, permetterà alla famiglia di raggiungere un nuovo equilibrio. Con stile semplice ed elegante, Ozu racconta una vicenda minimalista: il rapporto fra i personaggi deve raggiungere il punto di rottura per potersi ristabilire su basi nuove e più solide. Molto efficace la descrizione dell'ambiente sociale, dalle chiacchiere "audaci" fra la zia e le sue amiche (che la invidiano per lo schiaffo che ha ricevuto) alle diverse vedute di Setsuko e dello zio su come bisogna trattare una moglie. Dopo alcuni film più drammatici, Il regista torna a ricorrere anche a numerose gag come ai tempi dei suoi lavori muti: vedi lo studente che si addormenta durante le lezioni, i bambini che giocano con il mappamondo, Okada in difficoltà di fronte ai problemi di aritmetica delle scuole medie.

Nota: Pochi mesi dopo aver terminato le riprese di questo film (che, fra le altre cose, è di fatto la sua ultima commedia e una delle prime pellicole incentrate su quella borghesia medio-alta che sarà protagonista di quasi tutte le opere degli anni cinquanta), Ozu viene richiamato dall'esercito e inviato a combattere in Cina, dove rimane per due anni. Al suo ritorno, il panorama cinematografico giapponese è parecchio cambiato: i nazionalisti e i conservatori non tollerano più pellicole che mostrano comportamenti occidentalizzati, situazioni frivole o critiche alle strutture sociali e familiari. Anche per questo motivo, nei dieci anni successivi Ozu girerà soltanto due film.

27 gennaio 2009

Il clan dei siciliani (H. Verneuil, 1969)

Il clan dei siciliani (Le clan des siciliens)
di Henri Verneuil – Francia 1969
con Alain Delon, Jean Gabin
**1/2

Visto in DVD.

Il rapinatore e killer solitario Roger Sartet evade con l'aiuto di una famiglia siciliana trapiantata a Parigi e organizza insieme a loro uno spettacolare furto di gioielli. Il colpo avviene ad alta quota, a bordo di un aereo di linea diretto a New York che viene dirottato su un'autostrada in costruzione. Ma la relazione fra Roger e la moglie di uno dei suoi figli scatena la sete di vendetta del "padrino", il che permetterà alla polizia di identificarli. Il primo polar diretto da Verneuil è un kolossal ad alto budget con un cast che comprende grandi nomi del genere (oltre a Delon e a Gabin ci sono anche – fra gli altri – Lino Ventura nei panni del commissario sulle tracce di Roger e Amedeo Nazzari in quelli del socio italo-americano; Irina Demick è invece la donna che rovinerà il piano perfetto). Tratto da un romanzo di Auguste Le Breton (lo stesso di "Rififi") adattato da José Giovanni, non sarà un capolavoro ma offre un buon intrattenimento per due ore, con ottimi momenti di tensione come la scena della rapina in aereo e quella, ambientata al mare, che mostra l'attrazione fra un Delon pescatore di anguille e la Demick che prende il sole nuda. Il personaggio che rimane più impresso è comunque quello di Gabin, un patriarca freddo e calcolatore, non malvagio ma incapace di passar sopra a un'offesa "d'onore". Cento volte meglio, in ogni caso, di roba odierna come "Ocean's Eleven". La bella colonna sonora è di Ennio Morricone.

26 gennaio 2009

Appaloosa (Ed Harris, 2008)

Appaloosa (id.)
di Ed Harris – USA 2008
con Ed Harris, Viggo Mortensen
***

Visto al cinema Apollo, con Hiromi.

Western solido e vecchio stile, che parte da un soggetto che sembra di aver già visto in chissà quanti film classici (o in chissà quante storie di Tex Willer): due pistoleri vengono assoldati dagli abitanti di un villaggio affinché riportino in città quell'ordine messo a repentaglio dagli uomini di un arrogante proprietario terriero che, fra l'altro, ha pure ammazzato il precedente sceriffo. La trama si complica però con l'arrivo di una vedova consolabile della quale il protagonista, uomo tutto d'un pezzo, si innamora: peccato che lei sia tutt'altro che fedele e che la sua presenza scompiglierà le carte in tavola. Sparatorie, inseguimenti, treni, saloon, amicizia virile, misoginia, integrità morale e bisogno d'affetto, regole d'onore e rispetto dei ruoli, duelli e persino gli indiani: alla sua seconda regia, Harris non si fa mancare nulla nel tentativo di riportare in auge il genere cinematografico per eccellenza. E l'operazione riesce grazie alla coerenza interna e a grandi interpreti (il migliore è Viggo Mortensen, ma ci sono anche Jeremy Irons, nei panni del cattivo, Lance Henriksen e Timothy Spall), a un certo afflato epico e ad alcuni tocchi di modernità (la voce fuori campo di Mortensen all'inizio e alla fine, per esempio, ma anche il personaggio "fuori dagli schemi" di Renée Zellweger). Bello il finale.

Caccia spietata (D. Von Ancken, 2006)

Caccia spietata (Seraphim Falls)
di David Von Ancken – USA 2006
con Pierce Brosnan, Liam Neeson
**

Visto in divx.

Dalle montagne innevate al deserto del Nevada, un ex colonnello nordista che ha combattuto nella guerra civile (da poco conclusa) viene braccato e inseguito da qualcuno che ha un conto da regolare con lui. Fra paesaggi mozzafiato e scene tesissime, "Caccia spietata" (complimenti al titolista italiano!) comincia molto bene, mostrando sullo schermo tutta la fatica e la tensione di preda e predatore, l'ostilità della natura, il sangue delle ferite e la crudeltà degli uomini, senza nemmeno specificare chi sia il buono e chi il cattivo: man mano che la storia va avanti, però, un certo schematismo e l'artificiosità di alcune situazioni minano il realismo della pellicola facendole perdere gradualmente appeal e sfilacciandola con una serie di tappe e di incontri sempre più implausibili che finiscono con l'annacquare la tensione dell'inseguimento. Superato l'inevitabile (ed eccessivamente melodrammatico) flashback che chiarisce le ragioni dell'odio fra i due personaggi principali, comincia una parte finale "metafisica" con facili allegorie bibliche che proprio non ho digerito (vedi l'incontro con il diavolo, vale a dire il personaggio di Anjelica Huston, che non a caso si chiama Louise C. Fair, ovvero Lucifer). E quello che sembrava un bel western moderno si rivela essere invece post-moderno, aggettivo che per me è quasi una parolaccia. Peccato: alla fine si rimane più delusi per l'occasione sprecata che soddisfatti per i momenti di ottimo cinema della parte iniziale, vista anche l'interpretazione dei due protagonisti, davvero bravi. Comunque merita la visione.

24 gennaio 2009

Paprika (Satoshi Kon, 2006)

Paprika - Sognando un sogno (Paprika)
di Satoshi Kon – Giappone 2006
animazione tradizionale
**

Visto in DVD con Hiromi, in originale con sottotitoli.

Al suo quarto film (ma fra "Tokyo Godfathers" e questo ha realizzato anche una serie televisiva, "Paranoia Agent", che devo ancora vedere), Satoshi Kon torna a fare quello che sa far meglio: descrivere un universo onirico dove sogni e realtà si fondono. Soltanto che questa volta i sogni prendono assolutamente il sopravvento e il film risulta eccessivamente debordante. "Paprika" è un concentrato di immagini surreali e stravaganti, tenute assieme da una trama forse non facile da seguire ma che alla resa dei conti si rivela abbastanza coerente. Una stupefacente invenzione che consente di penetrare nei sogni altrui, sviluppata da un laboratorio di ricerca a scopi terapeutici e psicanalitici, viene rubata da un ignoto terrorista che intende trasformare l'intera realtà in un sogno collettivo. Per recuperarla interverranno una ricercatrice (e soprattutto il suo alter ego onirico, Paprika) e un poliziotto tormentato da un incubo ricorrente nel quale si lascia sfuggire un misterioso assassino. I loro sogni, strutturati su più livelli, si uniscono a quelli di altri personaggi dando vita a un circo di immagini sempre più vasto e complesso che minaccia di inglobare tutta Tokyo. Colori, forme, luci, suoni, oggetti, giocattoli, ricordi, cinefilia, amore, memoria, percezione, psiche: i temi affrontati dalla pellicola sono tanti e producono un flusso di sensazioni che può lasciare confusi o storditi. Se il lato grafico e della pellicola è eccezionale, quello narrativo non sempre è soddisfacente: con echi di Otomo (comprensibili, visto che Kon ne è stato allievo) e Tsukamoto (che non a caso l'anno seguente girerà quasi una versione horror della stessa storia, "Nightmare detective"), il regista sforna un film carnevalesco, sicuramente molto personale ma anche meno equilibrato, coinvolgente e appassionante delle sue opere precedenti, che però ne conferma tutto il talento creativo e visionario.

23 gennaio 2009

Tokyo Godfathers (Satoshi Kon, 2003)

Tokyo Godfathers (id.)
di Satoshi Kon – Giappone 2003
animazione tradizionale
***

Rivisto in DVD, con Hiromi, in originale con sottotitoli.

Dopo i complessi e stratificati "Perfect Blue" e "Millennium Actress", Kon stupisce tutti con la sua opera apparentemente più accessibile e lineare, quasi mainstream, accusata a torto di buonismo soltanto per il fatto di presentarsi come una favola moderna di ambientazione urbana e natalizia. Anche questa pellicola in realtà è strutturata su più livelli e merita visioni ripetute, non solo per la sua eccellente fattura tecnica ma anche per la profonda umanità dei personaggi e per l'intensità della vicenda. I protagonisti sono tre senzatetto (un barbone che ha abbandonato la propria famiglia a causa dei debiti, un travestito che sogna una famiglia, una ragazzina fuggita di casa), emarginati non per colpa della società ma per loro precisa volontà, che trovano un neonato abbandonato in mezzo ai rifiuti. Anziché consegnarlo alla polizia, i tre si mettono in testa di rintracciare i suoi genitori. Intraprenderanno così un difficile viaggio attraverso una Tokyo innevata e inospitale, nel corso del quale dovranno fare i conti con il proprio passato e ripensare il proprio presente. Scenografie curatissime, personaggi ottimamente caratterizzati, momenti di pura commozione, haiku passeggeri: il film scorre senza intoppi verso l'inevitabile lieto fine, quando tutte le fila della vicenda vengono tirate, e non mancherà qualche colpo di scena. Per quanto possa sembrare strano, il film è alla lontana un remake del lungometraggio di John Ford "In nome di Dio – Il texano", che infatti in originale si intitolava "Three godfathers", nel quale John Wayne e due compagni fuorilegge trovavano un bambino nel deserto.

22 gennaio 2009

Millennium Actress (Satoshi Kon, 2001)

Millennium Actress (Sennen joyû)
di Satoshi Kon – Giappone 2001
animazione tradizionale
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Il secondo lungometraggio del geniale Kon (ma il primo a essere stato pensato direttamente per le sale cinematografiche) ripercorre un millennio di storia giapponese – e un secolo di storia del cinema – attraverso la biografia di un'attrice fittizia, Chiyoko Fujiwara, forse ispirata a Setsuko Hara anche se il suo ruolo è più quello di un "essere umano universale" (per usare le parole dello stesso regista). Il documentarista Genya Tachibana si reca a casa sua per intervistarla in occasione della demolizione degli studios nei quali ha lavorato tutta la vita. I ricordi della sua lunga esistenza (Chiyoko ha ormai oltre settant'anni) intrecciano in maniera indissolubile diversi piani: passato e presente (al punto che Genya e il suo collaboratore si ritrovano ad assistere agli eventi narrati come se ne fossero testimoni in prima persona) ma anche finzione e realtà (gli avvenimenti della vita di Chiyoko sono rivissuti attraverso le scene dei suoi film, che ci dipanano lungo le varie epoche della storia giapponese e soprattutto i generi e le ambientazioni cinematografiche più disparate: dall'era feudale dei samurai – con evidenti ispirazioni a "Il trono di sangue" di Akira Kurosawa – alle pellicole sui ninja, dal melodramma calato nel periodo fascista degli anni '30 alla spensieratezza dell'epoca Taishō – un setting che ricorda il manga "Mademoiselle Anne" –, dalle contraddizioni del conflitto in Manciuria alla catastrofe della seconda guerra mondiale, dai saloni delle geishe di Kyoto – e qui il pensiero corre a Mizoguchi – all'attacco dei mostri giganti di gomma in stile Godzilla, per finire con un'era futuristica segnata dall'esplorazione spaziale, le cui scene indicativamente aprono e chiudono la pellicola). Al centro di tutto c'è la continua ricerca, da parte di Chiyoko, di un amore eterno, ideale e impossibile, impersonificato da un misterioso pittore (di volta in volta ribelle, anarchico, rivoluzionario) in continua fuga da lei e dalle autorità, e del quale non ricorda più nemmeno il viso: una ricerca fine a sé stessa e ostacolata da personaggi come il malvagio poliziotto con la cicatrice, la rivale anziana (l'attrice Eiko Shimao) o il subdolo regista Otaki, che ricorrono a più riprese, indossando a seconda dei casi le vesti più adeguate all'ambiente circostante. E di mezzo sembra esserci anche la maledizione di una strega che la costringe a vivere per mille anni come una sorta di "olandese volante". Se Genya si lascia coinvolgere sempre di più dal racconto della grande attrice, spinto anche dalla venerazione che ha sempre nutrito per lei, ed entra così direttamente nella storia per aiutarla nei momenti più difficili della sua avventura, il giovane cameraman che lo accompagna rimane invece spesso in disparte, simbolo di una generazione incapace di comunicare con il passato (e mostra tutta la sua ignoranza quando, di fronte alla desolazione successiva alla seconda guerra mondiale, si chiede: "ma è fantascienza?"). È un film decisamente originale ed emozionante, anche se alla lunga forse un po' ripetitivo, con disegni, scenografie e animazioni di ottimo livello: rappresenta la consacrazione di Kon come "autore" e la dimostrazione che il cinema d'animazione non ha assolutamente nessun limite se non quello della fantasia.

21 gennaio 2009

Perfect Blue (Satoshi Kon, 1997)

Perfect Blue (id.)
di Satoshi Kon – Giappone 1997
animazione tradizionale
***1/2

Visto in divx.

Questo eccellente thriller psicologico animato segna l'esordio alla regia di Satoshi Kon, già disegnatore, sceneggiatore e collaboratore di Katsuhiro Otomo. Tratto molto liberamente da un romanzo di Yoshikazu Takeuchi (dal quale è stato poi realizzato anche un film dal vivo, molto più fedele alla storia originale), era stato prodotto inizialmente sotto forma di OAV, ossia come opera destinata solo al mercato dell'home video: ma vista la sua ottima fattura, venne deciso di distribuirlo anche nelle sale cinematografiche. La storia è incentrata su Mima, una pop idol (le giovanissime cantanti che in Giappone godono di un'enorme quanto effimera popolarità, destinate a essere soppiantate da altre ragazzine non appena la loro stella cessa di brillare) convinta dal suo produttore ad abbandonare la carriera canora per intraprendere quella di attrice. Costretta a recitare scene scabrose e traumatiche (fra cui quella di uno stupro) e a "sporcare" la propria immagine, si scopre perseguitata da un misterioso fan che pare non accettare questa sua metamorfosi. Ma anche la ragazza comincia a soffrire di una crisi d'identità: qual è la "vera" Mima, l'idol pura e innocente o l'attrice disposta a calarsi in un mondo finto, immorale e degradante? E come se non bastasse, una serie di impressionanti delitti rischia di far vacillare la sua sanità mentale. Sogno e realtà si confondono, al pari della "finzione" dello sceneggiato televisivo in cui Mima recita (che parla anch'esso di personalità multiple e di macabri omicidi). Lo spettatore viene disorientato come in un film di Hitchcock o di Lynch, al punto da dubitare più volte della reale interpretazione di ciò che sta guardando. Tutta la vicenda è un allucinante e inquietante viaggio fra dissociazioni, incubi onirici e déja vù. Alla fine, comunque, il mistero si risolve e come in un giallo c'è una spiegazione soddisfacente. La pellicola contiene anche alcuni curiosi riferimenti metacinematografici ("I thriller in questo paese fanno cagare", afferma un personaggio). Una pellicola adulta e insolita, un perfetto esempio di animazione non per bambini (e molti critici, soprattutto negli Stati Uniti, non sono riusciti a capire perché una storia di questo genere sia stata trasposta in animazione anziché essere realizzata in live action).

20 gennaio 2009

W. (Oliver Stone, 2008)

W. (id.)
di Oliver Stone – USA 2008
con Josh Brolin, James Cromwell
**

Visto in TV.

Proprio in queste ore, con l'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, termina il mandato di George W. Bush, da molti considerato uno dei peggiori presidenti degli Stati Uniti di sempre. Il ritratto che ne fa Oliver Stone in questo film biografico è quello di una persona fragile e insicura, complessata e immatura, sempliciotta e un po' cialtrona, perennemente condizionata dall'ingombrante presenza del padre, con il quale si confronta in continuazione e del quale cerca invano di ricevere rispetto, consenso o conforto. Persino la decisione di diventare presidente degli USA sembra essere stata presa solo per un senso di rivalsa verso il genitore: e se non si trattasse di una storia vera, il film potrebbe essere letto come una sorta di "Forrest Gump", con un personaggio inadeguato o inconsapevole che si ritrova in una posizione di potere. Attraverso una struttura a flashback, la pellicola alterna gli aspetti più personali e familiari della vita di Bush – dalla gioventù sregolata all'alcolismo, dalla passione per il baseball (forse l'unica vera passione della sua vita) al fanatismo religioso (che si mescola con l'opportunismo politico) – con i momenti più importanti degli otto anni della sua presidenza, scegliendo però di non mostrare il fondamentale giorno dell'11 settembre e preferendo concentrarsi sulla guerra in Iraq, con un Bush stretto fra il "falco" Cheney (ritratto come un perfido burattinaio) e la "colomba" Powell (che funge da contraltare assennato). Nel complesso il film, che non eccelle come documento politico (da questo punto di vista non sembra dire nulla di nuovo e appare a tratti semplicistico e parziale; sorvola persino sulla sua discussa elezione e sui suoi rapporti con le lobby), funziona bene come ritratto di un personaggio talmente mediocre e confuso da rendere quasi impossibile provare antipatia per lui. Buona l'immedesimazione degli attori (su tutti Richard Dreyfuss nei panni di Dick Cheney).

La principessa delle ostriche (E. Lubitsch, 1919)

La principessa delle ostriche (Die Austernprinzessin)
di Ernst Lubitsch – Germania 1919
con Ossi Oswalda, Victor Jansen
***1/2

Visto in DVD, con Marisa, Monica e Roberto.

Dopo aver letto sul giornale che la figlia del "re del lucido da scarpe" ha sposato un conte, anche la capricciosa rampolla di Mister Quaker, ricchissimo magnate americano soprannominato "il re delle ostriche", esige che il padre le procuri un marito di tutto rispetto. E poiché "è ben noto che il lucido da scarpe vale meno delle ostriche", la giovane Ossi non intende accontentarsi di meno che di un principe. Il prescelto, lo spiantato nobile europeo Nucki, preferisce mandare però in avascoperta il suo amico e segretario Josef, che naturalmente viene scambiato per il suo padrone e si gode il lauto banchetto di nozze. Già stufa del suo sposo dopo poche ore di matrimonio, la mattina dopo la bizzosa Ossi si invaghisce del vero Nucki che, ubriaco, è stato portato al circolo delle figlie dei miliardari contro l'alcolismo. Per fortuna i due giovani scopriranno di essere già sposati, visto che Josef aveva contratto il matrimonio usando il nome del padrone. Mediometraggio assurdo e "indiavolato", nello stile di un'operetta, che prende di mira i comportamenti eccentrici ed eccessivi dei ricchi americani, aiutato dalle maestose scenografie e da scene di massa con un numero incredibile di comparse. Come sottolinea Vieri Razzini nel suo commento (presente sul dvd), l'America viene ritratta come il regno dell'abbondanza e del superfluo, dove tutto è in numero straripante e ogni capriccio va esaudito. Il palazzo del re delle ostriche è un vero e proprio labirinto, dove bisogna addentrarsi con tanto di mappa. Durante il pranzo di nozze, camerieri e servi sembrano moltiplicarsi. Josef, lasciato attendere nella sala d'aspetto, non può far altro che seguire con i propri passi i disegni geometrici sul pavimento. Le geometrie ritornano anche all'esterno, come nella bella scena in cui Nucki "deposita" i suoi compagni di bevute sulle panchine del parco. Divertente e satirica anche la sequenza in cui le figlie dei miliardari si giocano, in un incontro collettivo di pugilato, il diritto di occuparsi dell'alcolizzato più bello, ovvero del principe Nucki. Mister Quaker, che – forte della propria ricchezza – per l'intera pellicola resta impassibile di fronte ai capricci della figlia o agli avvenimenti a essi legati, nel finale mostra finalmente la propria soddisfazione di fronte all'amore di Ossi per il principe: segno che, proprio come il barone Chanterelle de "La bambola di carne", quello a cui più tiene è la perpetuazione della propria stirpe.

19 gennaio 2009

La bambola di carne (E. Lubitsch, 1919)

La bambola di carne (Die Puppe)
di Ernst Lubitsch – Germania 1919
con Hermann Thimig, Ossi Oswalda
***

Rivisto in DVD, con Marisa, Monica e Roberto.

Il vecchio barone Chanterelle vorrebbe che il misogino nipote Lancillotto convolasse a nozze per lasciargli un erede, ma costui fugge dalle quaranta (!) pretendenti che lo inseguono e si rifugia in un monastero. Qui, d'accordo con i frati, decide di sposare per finta una bambola meccanica per accontentare lo zio. Si reca così da Hilarius, geniale costruttore di robot dalle fattezze femminili, ma la bambola prescelta viene danneggiata per errore dal giovane e pestifero assistente dell'inventore, e il suo posto – all'insaputa di tutti – viene preso da Ossi, figlia "in carne e ossa" di Hilarius. La ragazza farà del suo meglio per comportarsi come un automa, ma alla fine l'amore trionferà. Meraviglioso esempio di espressionismo comico, fra suggestioni tardoromantiche (come non riconoscere i riferimenti a "Coppelia" e ovviamente ai racconti di E.T.A. Hoffmann?) e ardite fusioni fra cinema e teatro, dove il regista si presenta all'inizio come un magico burattinaio che tira fuori da una scatola le quinte e i personaggi stessi per disporli davanti allo spettatore. Oltre a rappresentare un esempio di comicità del periodo muto ben diversa da quella delle produzioni americane, la pellicola si svolge in un mondo fittizio dove le scenografie sono dichiaratamente disegnate o dipinte (persino il sole e la luna hanno un volto, come nei film di Georges Méliès), bidimensionali e stilizzate. Non mancano aspetti di satira sociale (i frati gaudenti, gli avidi parenti del barone) e metafore linguistico-narrative che si concretizzano nella finzione scenica (i capelli di Hilarius che diventano bianchi, il cuore di Lancillotto che gli scende nei pantaloni). Fra i momenti di maggior comicità ci sono i numerosi inseguimenti (quello delle ragazze a Lancillotto, quello di Hilarius al suo apprendista) e soprattutto la mimica di Ossi Oswalda nei panni della bambola-burattino, quasi anticipatrice di Totò, capace di improvvise reazioni inaspettate e protagonista di gag (come quella in cui la ragazza, che sta mangiando, torna a "congelarsi" in una posa immobile ogni volta che Lancillotto gira lo sguardo verso di lei) che in seguito, nella storia del cinema, si rivedranno mille altre volte.

Mozart. Requiem (A. Sokurov, 2004)

Diario di San Pietroburgo: Mozart. Requiem
(Peterburgskij dnevnik: Mozart. Reqviem)
di Aleksandr Sokurov – Russia 2004
**1/2

Visto in divx.

Registrazione (girata in video con cinque telecamere) di un concerto messo in scena il 3 febbraio 2004 a San Pietroburgo, di cui lo stesso Sokurov ha curato l'allestimento. Dapprima vediamo il pubblico accomodarsi in sala, il regista inquadra e indugia sui volti degli spettatori come aveva fatto Bergman durante l'ouverture del "Flauto magico". E noi ci troviamo insieme a loro, in attesa delle magiche note di Mozart. Quando parte la musica, ci ritroviamo immersi in un'atmosfera solenne in compagnia di una delle composizioni più sublimi mai scritte da mano umana. I membri del coro entrano sullo sfondo, come delle ombre. Anziché stare fermi, camminano sul proscenio, spesso in maniera caotica e confusa, incrociandosi e salutandosi come pellegrini ammantati di pesanti cappe nere o come silhouette che si muovono fra l'oscurità e la penombra. Valentin Nesterov dirige con ritmo lento e solenne (a volte forse anche troppo lento, come nel Rex tremendae o nel Confutatis). Fra i brani più riusciti, lo splendido Tuba mirum e il suggestivo Lacrimosa. La mano di Sokurov è quasi invisibile, anche se – come lo stesso regista ha dichiarato – "il montaggio del film non è tradizionale. Non abbiamo cercato di rispettare la successione abituale dei valori dell’'inquadratura, né di seguire i solisti, né di sostenere il ritmo dell’'opera musicale attraverso il montaggio. Il ritmo del film è mutevole, non coincide sempre con quello della musica. Lo spettatore segue i cambiamenti della luce, i movimenti degli interpreti, i loro volti, le loro emozioni".

17 gennaio 2009

Piccoli gangsters (Alan Parker, 1976)

Piccoli gangsters (Bugsy Malone)
di Alan Parker – GB 1976
con Scott Baio, Florrie Dugger
**

Visto in DVD, con Hiromi.

Nella Chicago degli anni '20, per amore della ballerina Santa, Bugsy Malone rimane coinvolto nello scontro fra le bande di Lardo Sam (Fat Sam, nell'originale) e Dan lo Sciccoso (Dandy Dan). La peculiarità che rende unico questo film di gangster, ambientato ai tempi del proibizionismo (ma al posto degli alcolici viene spacciato il tamarindo), sta nel fatto che tutti i personaggi sono bambini che guidano automobili a pedali e si "eliminano" sparandosi bigné alla crema. Non si tratta di minorenni che vivono le loro avventure parallelamente, al fianco o all'insaputa degli adulti, come avveniva in classiche serie come "Our gangs" (alle quali Parker – al suo esordio, a parte un precedente film per la tv – potrebbe essersi ispirato), bensì di un mondo dove esistono solo bambini, che vestono tutti i ruoli che nell'universo "reale" sarebbero interpretati da adulti: poliziotti e gangster, barbieri e giornalisti, pugili e ballerine. Alcuni hanno addirittura i baffi! Francamente ammetto che il senso di un film del genere mi sfugge un po'. Alla fine è gradevole, anche per merito della ricostruzione d'epoca, delle scenografie e delle canzoni, ma resta una curiosità più che altro. L'unico nome noto del cast è quello di Jodie Foster, che interpreta la pupa del boss.

Tutti pazzi per Mary (B. e P. Farrelly, 1998)

Tutti pazzi per Mary (There's something about Mary)
di Bobby e Peter Farrelly – USA 1998
con Ben Stiller, Cameron Diaz
**

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Per rintracciare la bellissima Mary, la sua fiamma di quando andava al liceo, lo scrittore sfigato Ted assolta un investigatore tamarro e imbroglione (Matt Dillon), che si innamora a sua volta della ragazza. Ma non sarà l'unico, visto che la bionda e ingenua Mary sembra aver la capacità di attrarre gli individui più bizzarri, pronti a ogni inganno pur di conquistarla. Più che per la trama, il film ha fatto storia per le gag sopra le righe, non certo per tutti i gusti, e per le situazioni imbarazzanti e al limite della volgarità, qualche volta persino oltre quanto sarebbe lecito attendersi da una pellicola commerciale statunitense: scene come quella dello scroto incastrato nella cerniera lampo o dello sperma usato come gel da capelli non si dimenticano facilmente, nel bene o nel male. Eppure, nonostante tutto, si ride visceralmente (anche per le vicissitudini che capitano al povero cagnolino, narcotizzato, elettrificato, incendiato, buttato fuori dalla finestra e infine completamente ingessato) e dunque non si può non riconoscere che "Tutti pazzi per Mary", soprattutto in confronto ad altre pellicole simili, raggiunge pienamente il suo scopo. Adeguatissimo il cast, dove brilla in particolare Matt Dillon.

16 gennaio 2009

Bagdad Cafè (Percy Adlon, 1987)

Bagdad Cafè (Out of Rosenheim)
di Percy Adlon – Germania/USA 1987
con Marianne Sägebrecht, CCH Pounder
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Piccolo film di culto, surreale e divertente. Una grassa turista tedesca dal nome impronunciabile, Jasmin Münchgstettner, dopo aver litigato con il marito scende dalla macchina e si incammina a piedi nel deserto Mojave (in California). Giunge infine al Bagdad Cafè, una sperduta, disordinata e trasandata stazione di sosta con motel annesso, gestita in mezzo al nulla dalla vivace e irritabile Brenda, la quale a sua volta ha appena cacciato via il suo uomo. La strana apparizione della donna teutonica, con i suoi insoliti comportamenti (fra le altre cose, ha portato con sé per errore non la sua valigia ma quella del marito) mette a dura prova il comprendonio e dunque la pazienza di Brenda. Come se non bastasse, l'annoiata Jasmin comincia a pulire i locali e a fare ordine nella confusione in cui Brenda è abituata a sguazzare. Ma poco a poco l'amicizia fra le due donne cambierà completamente l'atmosfera del posto, coinvolgendo anche i due figli adolescenti di Brenda e gli altri abitanti della ristretta comunità, in particolare il pittore gentiluomo Rudi Cox (Jack Palance), che si invaghisce della nuova arrivata e la ritrae in una serie di dipinti sempre più "boteriani". E gli spettacoli di magia di Jasmin attireranno orde di clienti e di camionisti. Caratterizzato da una comicità rarefatta, quasi alla Kaurismäki, il film è un gioiellino che mette a confronto mondi assolutamente diversi (mitiche le differenze di vedute dei personaggi su come si debba bere il caffè: ristretto, all'europea, o allungato, all'americana), dimostrando come l'amicizia possa nascere ovunque: in fondo, grassi o magri, giovani o anziani, bianchi o neri, siamo tutti esseri umani. Il gioco dei contrasti è esemplificato da piccoli particolari, come lo sceriffo che in realtà è un indiano, o la ragazza dei tatuaggi che vuole andarsene "perché c'è troppa armonia". La fotografia colora (con filtri evidenti) i paesaggi e i cieli di rosso, giallo e blu, mentre le inquadrature – specie all'inizio – sono volutamente sbilenche. Bellissima la canzone "Calling you" di Jevetta Steele, che si sente a più riprese.

15 gennaio 2009

Bobby (Emilio Estevez, 2006)

Bobby (id.)
di Emilio Estevez – USA 2006
con William H. Macy, Freddy Rodriguez
**1/2

Visto in DVD, con Hiromi.

Il 5 giugno 1968, giorno dell'assassinio del senatore (e candidato alla presidenza degli Stati Uniti) Robert F. Kennedy, nelle stanze dell'hotel Ambassador di Los Angeles si trovavano centinaia di persone, molte delle quali furono testimoni diretti dell'attentato. Il film di Estevez (anche sceneggiatore) segue le vicende di una ventina di queste nelle ventiquattro ore immediatamente precedenti al colpo di pistola: il direttore dell'albergo (William Macy), che ha una tresca con una giovane centralinista (Heather Graham); sua moglie (Sharon Stone), parrucchiera e manicure, confidente di tutti; l'ex custode dell'hotel, ora in pensione (Anthony Hopkins), che passa le sue giornate nella hall in compagnia di un amico (Harry Belafonte); il capocuoco (Laurence Fishburne) e i suoi aiutanti messicani (Freddy Rodriguez e Jacob Vargas), uno dei quali vorrebbe andare a vedere una partita di baseball; il responsabile del personale della cucina (Christian Slater), licenziato per le sue idee razziste; una ragazzina (Lindsay Lohan) che vuole sposare un suo compagno di scuola (Elijah Wood) per impedirgli di partire per il Vietnam; una cantante alcolizzata (Demi Moore), che umilia suo marito (lo stesso Estevez); alcuni responsabili della campagna elettorale di Kennedy (Joshua Jackson e Nick Cannon); due giovani volontari che sperimentano per la prima volta l'LSD (Shia LaBeouf e Brian Geraghty) grazie a un pusher hippie (Ashton Kutcher); una cameriera della caffetteria dell'albergo, loro amica (Mary Elizabeth Winstead); un'altra centralinista, di colore (Joy Bryant); una coppia benestante che festeggia il decimo anniversario di nozze (Martin Sheen e Helen Hunt); una giornalista cecoslovacca che vorrebbe intervistare il senatore (Svetlana Metkina). Non amo particolarmente i film corali, perché è sufficiente che soltanto qualche elemento o qualche personaggio non funzioni appieno per rovinare irrimediabilmente tutta la pellicola. Non è il caso di questo film, fortunatamente, anche se di alcuni personaggi e di alcune storie ci importa relativamente poco. Ma con un cast simile è difficile sbagliare: certe scene, come i "duetti" fra Hopkins e Belafonte davanti alla scacchiera, o quello fra la Stone e la Moore durante la sessione di acconciatura, sono impagabili. Se apparentemente il film non ha un protagonista, secondo me invece ne ha due: l'albergo stesso e il "vero" Bobby Kennedy, abbondantemente presente attraverso spezzoni di interviste e filmati d'epoca. Nel complesso la pellicola riesce a ricostruire in maniera efficace l'atmosfera e le speranze di quegli anni: speranze non così dissimili, in fondo, da quelle che hanno accompagnato l'elezione di Barack Obama l'anno scorso.

14 gennaio 2009

Un matrimonio all'inglese (S. Elliott, 2008)

Un matrimonio all'inglese (Easy Virtue)
di Stephan Elliott – GB 2008
con Jessica Biel, Kristin Scott Thomas
**

Visto al cinema Apollo, con Hiromi.

Anni Venti: la bella, intelligente e vistosa sposa americana del giovane rampollo di una famiglia inglese deve fare i conti con l'ostilità e i pregiudizi della famiglia del marito, e in particolare della madre. Liberamente tratto dalla commedia teatrale "Easy Virtue" di Noël Coward (che era già stata portata sullo schermo nel 1927, nientemeno che da Alfred Hitchcock: ma pur non avendola vista, ho l'impressione che la versione di "Hitch" avesse un tono completamente diverso), il film affianca al tema del contrasto fra americani e britannici (la sposa yankee, emancipata – è persino una pilota automobilistica! – e indipendente, non si trova a proprio agio di fronte all'ipocrisia e alle regole ingessate della società inglese) quello ancor più annoso e proverbiale fra nuora e suocera (con quest'ultima che le muove guerra sin dal primo istante). E la protagonista, costretta a riflettere sulla reale portata dell'amore del marito, trova la sola anima affine nel padre di lui (un grande Colin Firth), l'unico della famiglia che in gioventù – durante e dopo la Grande Guerra – ha sperimentato la libertà e ha visto il mondo "reale". I pregi del film stanno negli attori, nell'ambientazione, nei dialoghi e in alcuni momenti che si stagliano su tutto il resto (come il tango ballato nel finale da Firth e dalla Biel); i difetti stanno nell'assoluta prevedibilità della vicenda e nella mancata evoluzione dei personaggi, che tali sono all'inizio e tali restano, come se il confronto fra i diversi modi di vivere fosse incapace di intaccare i rispettivi stili di vita. Amanti degli animali, attenzione: il chihuahua fa una brutta fine!

13 gennaio 2009

La marchesa von... (Éric Rohmer, 1976)

La marchesa von... (Die Marquise von O...)
di Éric Rohmer – Francia/Germania 1976
con Edith Clever, Bruno Ganz
***1/2

Visto in DVD.

Il primo film di Rohmer di ambientazione storica, vincitore del premio della giuria al festival di Cannes, è un affascinante ritratto della condizione femminile nel passato, tra violenza e amore, psicologia e pragmatismo, tratto da una novella del 1808 di Heinrich von Kleist. La vicenda si svolge alla fine del diciottesimo secolo, nel pieno delle guerre napoleoniche, in una città dell'Italia settentrionale assaltata dalle truppe russe. La figlia del comandante della cittadella, aggredita da alcuni soldati ma salvata proprio da un ufficiale dell'esercito invasore (interpretato dall'ottimo Bruno Ganz), scopre di essere misteriosamente rimasta incinta. Nessuno crederà alla sua innocenza, nemmeno la sua stessa famiglia, e così sarà costretta a pubblicare un annuncio nel quale chiede pubblicamente al "colpevole" di venire allo scoperto. Il folgorante stile puro e rigoroso dei precedenti "racconti morali" di Rohmer viene magistralmente trasposto nel passato, grazie a scenografie, dialoghi e attori che concorrono tutti insieme alla riuscita di un film neoclassico, teatrale, pittorico e letterario prima ancora che cinematografico (non a caso è una delle pellicole preferite, per sua stessa dichiarazione, da Peter Greenaway). Notevoli per esempio le citazioni di quadri, come "L'incubo" di Johann Heinrich Füssli nella scena del risveglio di Giulietta. La storia della marchesa e della sua gravidanza inconsapevole, "come la vergine Maria", diventa il pretesto per sferrare una forte critica ai valori della società borghese, al trionfo delle apparenze e all'ipocrisia del moralismo. Buono il cast, che comprende anche Peter Lühr (il padre), Edda Seippel (la madre) e Otto Sander (il fratello: quest'ultimo avrebbe poi recitato con Bruno Ganz anche ne "Il cielo sopra Berlino"), tutti di estrazione teatrale. Il film venne girato in tedesco, ma sul DVD della Bim ci sono solo le versioni doppiate in italiano e in francese. A quanto pare, anche la pellicola di Pappi Corsicato "Il seme della discordia" è ispirata alla stessa fonte letteraria.

12 gennaio 2009

π - Il teorema del delirio (D. Aronofsky, 1998)

π - Il teorema del delirio (Pi)
di Darren Aronofsky – USA 1998
con Sean Gullette, Mark Margolis
**

Rivisto in divx.

È il film d'esordio del pretenzioso Aronofsky. La prima volta che l'ho visto l'avevo detestato per l'assoluta inconsistenza della parte matematica, quella su cui in teoria si dovrebbe incentrare tutta la vicenda (oltre che per l'ennesima riproposizione del luogo comune dello scienziato come alienato e squilibrato, in grado di fare conti difficili senza calcolatrice ma incapace di socializzare: una visione che va di pari passo con quella secondo cui la conoscenza del mondo è arcana e inaccessible, e chi vi si addentra troppo non può che impazzire e autodistruggersi). Ora però queste cose mi hanno dato meno fastidio e ho rivalutato la pellicola, apprezzandone quanto meno l'aspetto estetico, formale e più prettamente cinematografico, con uno stile un po' cerebrale (e non molto originale, a dire il vero) che ricorda o si rifà esplicitamente a Lynch, Cronenberg o Tsukamoto. Fra lenti che distorcono, macchina a mano, primissimi piani e una fotografia sgranata e in bianco e nero, il regista racconta l'angoscia e il viaggio verso la follia di Max Cohen, un matematico prodigio convinto che ovunque in natura esistano degli schemi interpretabili mediante i numeri. Mentre cerca di trovare con il computer una formula che predica l'andamento della borsa, le sue intuizioni attirano l'interesse di una misteriosa multinazionale legata a Wall Street e di un gruppo di ebrei ortodossi che sta studiando la Torah attraverso la numerologia. La sceneggiatura, narrata in prima persona, mescola alla rinfusa teoria dei numeri e filosofia giapponese, cabala ebraica e meccanismi di borsa, struttura dell'universo e gioco del go, spirali e concezioni pitagoriche. In mezzo a tutto questo, però, cosa c'entri il pi greco che dà il titolo al film non è affatto chiaro (e la scena in cui Max traccia sul giornale formulette da scuola media è ridicola). Ed ecco i difetti di cui parlavo: ogni elemento è spiattellato senza motivo e senza legame con il resto, la matematica e l'informatica sembrano velate di misticismo e concetti come la sezione aurea o i numeri di Fibonacci vengono citati come se veicolassero chissà quali misteri, giusto per far colpo o suggestione su uno spettatore incapace di distinguere fra scienza e magia. In fondo la matematica vista da Max Cohen è come il cinema di Aronofsky, pura fuffa. Di buono resta il ritratto del protagonista: schizofrenico, paranoico, fobico, confuso, che soffre di allucinazioni e dipende da farmaci e droghe per curare le sue continue emicranie. Bravo l'interprete e bella la musica elettronica e "disturbante" di Clint Mansell.

11 gennaio 2009

Un giorno... di prima mattina (R. Wise, 1968)

Un giorno... di prima mattina (Star!)
di Robert Wise – USA 1968
con Julie Andrews, Richard Crenna
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Biografia romanzata di Gertrude Lawrence, un'attrice di teatro, cantante e ballerina di varietà realmente esistita – molto popolare nella sua patria Inghilterra e negli Stati Uniti, ma che io francamente non avevo mai sentito nominare – dai ruggenti anni '20 attraverso la Grande Depressione fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. Film strabordante (quasi tre ore) e variopinto, sostenuto dalla brillante interpretazione della Andrews (che cambia oltre un centinaio di costumi!) e soprattutto dagli innumerevoli numeri di canto e di ballo (fra i quali spiccano la bella sequenza del bordello cinese, quasi un film nel film, e la stravagante e onirica canzone finale, "Jenny"). Districandosi fra i suoi numerosi ammiratori, sostenuta dall'amicizia del compositore e commediografo Noël Coward (un brioso Daniel Massey), e cercando per tutta la vita di essere amata e di sfuggire alla solitudine, la figura della Lawrence, donna volitiva e insicura, materialista e ingenua, riempie costantemente lo schermo senza lasciare spazio agli altri personaggi: un film lungo e smisurato, ma mai noioso. Ottime le musiche (con canzoni, fra gli altri, dello stesso Noël Coward e di George Gershwin, Kurt Weill e Cole Porter) e le coreografie di Michael Kidd. La pellicola – che venne candidata a sette Oscar senza vincerne nessuno – fu però un insuccesso commerciale. La Andrews aveva già interpretato per Wise "Tutti insieme appassionatamente".

Figlio unico (Yasujiro Ozu, 1936)

Figlio unico (Hitori musuko)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1936
con Choko Iida, Shinichi Himori
***

Visto in DVD, con sottotitoli (registrato da "Fuori Orario").

Oltre a essere probabilmente il più paradigmatico della sua poetica fra tutti quelli dell'anteguerra (i temi sono quelli del rapporto fra genitori e figli, del sacrificio, della sconfitta e della disillusione), questo lungometraggio è anche il più vecchio film sonoro di Ozu a essere sopravvissuto, se si eccettua il breve documentario "Kagamijishi". Il regista aveva infatti atteso a lungo prima di abbandonare il cinema muto e di passare al sonoro (lo stesso farà con il colore, al quale approderà solo nel 1958), abbracciandolo soltanto nel 1936 con "L'università è un bel posto", una pellicola precedente a questa ma andata perduta. È la storia di Otsune, una vedova che vive in campagna e fa enormi sacrifici (lavorando in fabbrica e vendendo persino la casa) per permettere al figlio Ryusuke di studiare a Tokyo e farsi così una posizione. Ma quando – dopo la sua laurea – si reca in città a trovarlo, scopre che insegna in una modesta scuola serale e che conduce un'esistenza piuttosto misera. Il ragazzo si scusa per aver deluso le attese della madre e per aver fallito nella vita, ma lei lo rimprovera severamente per la sua arrendevolezza e la mancanza di coraggio e ambizione. Cambierà però idea quando lo scoprirà capace di un gesto generoso verso la vicina di casa: tornata in campagna, mentirà alle colleghe di lavoro affermando che Ryusuke è diventato un uomo ricco e importante. Nonostante il tono amaro, la pellicola non è disfattista né moralista: mette in scena dinamiche profondamente umane e temi che ricorreranno sempre di più nel cinema di Ozu, dove la generosità e la dignità si dimostrano i valori più importanti. Il sacrificio di Otsune, che si rivela apparentemente inutile (ma non solo per colpa del figlio: la disoccupazione e lo sfruttamento in quegli anni erano alle stelle, come testimonia anche la vicenda dell'insegnante Okubo – interpretato da Chishu Ryu – costretto a friggere cotolette per guadagnarsi da vivere), viene ripagato dalla scoperta finale della natura generosa di Ryusuke. Il (relativo) lieto fine non è dunque dovuto a una riscossa materiale, ma a una sorta di purificazione dei sentimenti dei personaggi, che riscoprono l'orgoglio (la madre) e la dignità (il figlio). Affascinante l'ambientazione, una Tokyo periferica e desolata, fra campi abbandonati e inceneritori, simile a quella vista in "Una locanda di Tokyo": la visita di Otsune ai grandi quartieri, ai templi e ai monumenti è narrata soltanto a parole. Stilisticamente il film è Ozu al 100%: praticamente nessun movimento di macchina, numerosi "stacchi" su oggetti a separare le scene (compresa un'inquadratura esageratamente lunga su una stanza vuota, proprio nel momento di massima tensione emotiva) e grande attenzione ai sentimenti dei personaggi. Il parlato è fluido e scorrevole, mentre il commento musicale è usato in maniera ampia ed espressiva, senza essere invadente. Come già in "Una donna di Tokyo", nella scena in cui madre e figlio si recano al cinema il regista inserisce lunghi spezzoni della pellicola che stanno guardando. Ma questa volta non si tratta di un film americano bensì tedesco, segno dei tempi che stavano cambiando e del sempre maggior spazio che la cultura germanica aveva nel Giappone di quegli anni: anche in casa di Ryusuke spicca un manifesto con la parola "Germany" (affiancato, a onor del vero, da una foto di Carol Lombard).

10 gennaio 2009

The Spirit (Frank Miller, 2008)

The Spirit (id.)
di Frank Miller – USA 2008
con Gabriel Macht, Eva Mendes
*1/2

Visto al cinema Plinius, con Hiromi.

Dopo aver firmato la regia di "Sin City" in collaborazione con Robert Rodriguez, Frank Miller debutta in solitario riproponendo il medesimo stile cinematografico e realizzando l'adattamento di un altro fumetto. Non suo, però: "The Spirit" era infatti una classica serie di comic book scritta e disegnata da Will Eisner negli anni quaranta, con venature autoironiche, curiose trovate grafiche, un realismo grottesco e un tocco di umanità che male si sposano con i toni più cupi e tesi che caratterizzano i lavori milleriani. Devo confessare di non aver mai letto le storie di Eisner, e quindi nel mio giudizio non posso tener conto – com'è giusto che sia – della fedeltà o meno del film al materiale di partenza, anche se di differenze pare che ce ne siano parecchie (una su tutte, lo Spirit dei fumetti – che vestiva di blu, non di nero – non aveva alcun super-potere rigenerante: era un normalissimo uomo che combatteva il crimine forte solo dell'anonimato e dell'aura di mistero attorno a sé). Però, anche come opera a sé stante, il film è noioso e delude ampiamente le attese: non soltanto si rivela tutto forma e niente sostanza, ma pure dal lato formale non presenta nulla di nuovo rispetto al dirompente "Sin City" (anzi, sembra persino fare dei passi indietro e mostrarsi meno coraggioso nel trasformare gli attori in fumetti: a parte la cravatta rossa e le scarpe bianche, non c'era altro da disegnare? Anche secondo Hiromi il film sta troppo nel mezzo e non sa decidersi se essere una normale pellicola d'azione o un cartone animato). La sceneggiatura – ahimè, dello stesso Miller – è di certo il tallone d'achille dell'intera pellicola e manca di equilibrio, passando senza coerenza da un tono all'altro e mescolando generi (noir, avventura, pulp, sexy, azione, commedia, romantico, fantascienza) senza costrutto: i momenti sdrammatizzanti spuntano fuori quando non sono attesi (con scene che non fanno ridere e che spesso risultano al limite dell'imbarazzante: vedi le gag con i cloni ciccioni – e i loro nomi, se è per questo –, Spirit che fa acrobazie in mutande o che parla con i gatti, Eva Mendes che si fotocopia il sedere) e non riescono a salvare un soggetto non proprio memorabile e dei personaggi bidimensionali. Il protagonista, a parte alcuni tratti curiosi per un supereroe (è un donnaiolo impenitente), quando è in azione sembra una brutta copia di Batman o del Daredevil dello stesso Miller. Insoddisfacente il cast: i migliori sono quelli che recitano sopra le righe, come Samuel L. Jackson nei panni dello scienziato criminale Octopus. C'è anche una lunga serie di donnine sexy (che cosa ci faccia Scarlett Johansson in mezzo a loro, comunque, resta un mistero). Fra le cose che salverei ci sono alcuni passaggi prettamente milleriani (vedi il monologo sul rapporto del protagonista con la città) e altri così surreali da risultare camp (come la sequenza in cui Octopus si veste da gerarca nazista, per quanto non abbia senso). La colonna sonora, infine, è assolutamente anonima, con un tema musicale che sembra copiato dal "Batman" di Tim Burton.

9 gennaio 2009

Drugstore Cowboy (Gus Van Sant, 1989)

Drugstore Cowboy (id.)
di Gus Van Sant – USA 1989
con Matt Dillon, Kelly Lynch
***

Visto in DVD.

Bob (un ottimo Matt Dillon) è a capo di un gruppo di quattro tossicomani che rapinano drugstore, farmacie e ospedali nel nord-ovest degli Stati Uniti per procurarsi farmaci di ogni tipo. Più che di una banda, però, si tratta quasi di una famiglia: ne fanno parte infatti sua moglie Dianne (Kelly Lynch), l'amico Rick (James Le Gros) e la giovane Nadine (Heather Graham). La loro esistenza è folle, incosciente e disperata, vissuta fra i momenti di lucidità e quelli di abbandono alle allucinazioni, e fatta di continue fughe, colpi spericolati e notti trascorse nei motel, sempre braccati da un ostinato poliziotto (James Remar, già visto ne "I guerrieri della notte") che forse si è preso a cuore le sorti del ragazzo. Dopo aver dissolto il gruppo, ormai consapevole che la strada che ha intrapreso è senza uscita e porta solo all'autodistruzione, Bob cercherà di rifarsi una vita pulita e di trovare un lavoro onesto (che, ironicamente, consiste nel continuare a "fare buchi", questa volta con un trapano in un'officina meccanica). Ma il passato tornerà a braccarlo. Il secondo film di Van Sant è tratto da un romanzo autobiografico di James Fogle che all'epoca non era stato ancora pubblicato (fu dato alle stampe solo l'anno dopo, nel 1990, quando Fogle uscì di prigione). Vi compare anche William S. Burroughs nel ruolo di un anziano prete tossicomane che fa da padre spirituale, in tutti i sensi, al protagonista. La fotografia dai colori accesi, l'interessante colonna sonora, la caratterizzazione di Bob (ossessionato dalle superstizioni) e lo sfondo dell'America degli anni settanta contribuiscono a renderla una pellicola bella e coinvolgente che parla di dipendenza e sopravvivenza senza trinciare giudizi morali o mostrare autocompiacimento, nemmeno a livello di estetica cinematografica (come invece fa "Requiem for a dream" di Aronofsky), e che proprio per questo motivo mi è parsa più convincente ed equilibrata.

8 gennaio 2009

Pronti a morire (Sam Raimi, 1995)

Pronti a morire (The quick and the dead)
di Sam Raimi – USA 1995
con Sharon Stone, Gene Hackman
**1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Una bionda pistolera senza nome (quasi una versione femminile di Clint Eastwood) giunge in una cittadina di frontiera dove spadroneggia il tirannico John Herod, con il quale ha un misterioso conto da regolare. Per ottenere la sua vendetta, è costretta a partecipare a un torneo a base di duelli che il padrone della città ha organizzato per il proprio divertimento. Fra i numerosi iscritti ci sono anche il figlio di Herod (un giovanissimo Leonardo DiCaprio) e un predicatore che un tempo era stato un fuorilegge (Russell Crowe). Con il suo consueto stile vivace e sopra le righe (pallottole seguite dall'inquadratura durante il loro movimento e che lasciano buchi nei corpi dai quali filtra il sole), Raimi gira un western divertente e insolito che si ispira più alle pellicole italiane che non a quelle classiche americane: non a caso il regista ha voluto molti professionisti nostrani come collaboratori (il montatore Piero Scalia, il direttore della fotografia Dante Spinotti) e cita persino il celebre flashback dell'impiccagione di "C'era una volta il west". L'altra fonte di ispirazione, probabilmente, sono i videogiochi e gli anime giapponesi: la struttura del torneo, per esempio, ricorda il tenkaichi budokai di "Dragonball": anche in questo caso, non stupisce che il film sia una coproduzione fra Stati Uniti e Giappone. Nel ricco cast ci sono anche Lance Henriksen (il gicoatore d'azzardo) e Gary Sinise (il padre della protagonista).

7 gennaio 2009

Partita a quattro (E. Lubitsch, 1933)

Partita a quattro (Design for living)
di Ernst Lubitsch – USA 1933
con Miriam Hopkins, Gary Cooper, Fredric March
***

Visto in DVD, con Giovanni.

Quando due artisti americani che vivono da bohemien a Parigi (il pittore Gary Cooper e il drammaturgo Fredric March) incontrano in treno la spigliata Gilda (Miriam Hopkins, che per Lubitsch aveva già interpretato "Mancia competente"), se ne innamorano immediatamente. E la gelosia incrociata rischia di mettere a repentaglio la loro lunga amicizia. La ragazza, indecisa su quale dei due uomini scegliere, propone allora un ménage a tre (ma "senza sesso", almeno nelle intenzioni) e si dà anche da fare per lanciarli verso il successo nelle rispettive carriere.
Solo un paio d'anni più tardi, con l'entrata in vigore del codice Hays di autocensura, girare un film così sarebbe stato assolutamente impossibile, tanto è anticonformista, spregiudicato e trasgressivo nel mettere in scena la libertà di amare e l'elogio della convivenza al di fuori delle regole sociali. La scoppiettante sceneggiatura di Ben Hecht contiene alcuni passaggi che persino oggi sembrano al limite della decenza, mentre la regia di Lubitsch è come sempre moderna e al servizio della storia e dei personaggi. La biondissima Hopkins appare radiosa e pimpante, mentre Cooper e March recitano quasi all'unisono i ruoli degli amici innamorati. Il quarto personaggio suggerito dal titolo italiano (che, forse per "ammorbidire" i toni, tradisce un po' lo spirito dell'originale) è il tutore – e poi sposo – di Miriam, l'ottuso pubblicitario Max, interpretato dal solito brillante Edward Everett Horton.

5 gennaio 2009

Ombre rosse (John Ford, 1939)

Ombre rosse (Stagecoach)
di John Ford – USA 1939
con John Wayne, Claire Trevor
****

Rivisto in DVD, con Martin.

A bordo della diligenza che deve attraversare il territorio minacciato dagli Apache del terribile Geronimo, oltre al postiglione Buck (Andy Devine) e allo sceriffo Curly Wilcox (George Bancroft), ci sono anche Ringo, un fuorilegge accusato ingiustamente di omicidio e in cerca di vendetta (John Wayne); Dallas, una prostituta scacciata dalla città (Claire Trevor); Doc Boone, un medico alcolizzato (Thomas Mitchell); Lucy Mallory, la moglie incinta di un ufficiale dell'esercito (Louise Platt); Hatfield, un giocatore d'azzardo di lei invaghito (John Carradine); Henry Gatewood, un banchiere disonesto in fuga con il denaro della sua cassaforte (Benton Churchill); e il signor Peacock, un pavido e insignificante commerciante di liquori (Donald Meek) di cui tutti continuano a dimenticare il nome. Senza la scorta della cavalleria, il gruppo dovrà superare numerose traversie prima di giungere a destinazione a Lordsburg, dove Ringo potrà finalmente affrontare i suoi nemici. La celebre sequenza dell'attacco degli indiani (che nell'edizione italiana dà anche il titolo alla pellicola, uno dei pochi casi in cui quello nostrano è anche migliore dell'originale), in realtà non dura più di dieci minuti: ma il montaggio, le inquadrature (famosa quella da sotto la diligenza), gli stunt, la dinamicità e la tensione la rendono indimenticabile. Non che il resto del film sia da meno, con l'antitesi fra lo spazio chiuso della carrozza e l'ampiezza degli orizzonti esterni, con la grande umanità dei personaggi e la sceneggiatura che vuole gli elementi ripudiati dalla società (il fuorilegge, la prostituta, il medico ubriaco) risultare molto più utili di altri nel momento del bisogno: la loro non è tanto una riabilitazione (tranne forse nel caso del dottore), quanto la dimostrazione dell'assurdità dei pregiudizi, un atto d'accusa contro l'emarginazione e l'ipocrisia sociale (emblematica, al riguardo, la scena in cui proprio il "rispettabile" banchiere viene arrestato con le manette destinate al fuorilegge).

Il soggetto è adattato da un racconto di Maupassant, "Boule de suif", che ha ispirato anche "Oyuki la vergine" di Kenji Mizoguchi. Messaggio sociale a parte – ma le dicotomie fra i personaggi sono numerose: di natura legale (sceriffo/fuorilegge), morale (prostituta/donna perbene), politica (unionista/confederato), caratteriale (coraggioso/pavido), ecc. – il film è un capolavoro anche come opera di puro intrattenimento. Credo che nessuna pellicola sia più adatta a rappresentare nella sua totalità il cinema western classico: il microcosmo dei personaggi a bordo della diligenza sembra davvero un campionario degli archetipi del genere. E per non farsi mancare niente, nel film ci sono anche messicani, indiani, stazioni di posta, saloon, villaggi bruciati, guadi, un duello nella main street cittadina e naturalmente gli splendidi scenari naturali della Monument Valley, dove Ford girava per la prima volta (e mai nome fu più azzeccato: alcune conformazioni rocciose sembrano davvero castelli o cattedrali). Alcune curiosità: nell'edizione italiana, tutti i nomi di persona sono curiosamente in versione "autarchica" (Carlo, Filippo, Enrico, ecc.). La combinazione di carte che l'avversario di Ringo sta giocando al tavolo da poker prima del duello è la cosiddetta "mano del morto" (una doppia coppia di assi e otto), ovvero quella che secondo la leggenda aveva in mano Wild Bill Hickok prima di essere colpito alle spalle dal suo assassino. Oltre ad aver trasformato istantaneamente John Wayne in una star, "Ombre rosse" è stato anche il primo western sonoro di Ford. Personalmente non è uno dei miei registi preferiti, ma non ho il minimo dubbio nell'etichettare questo film come un capolavoro assoluto.

Arancia rosso sangue (Philip Haas, 1997)

Arancia rosso sangue (The blood oranges)
di Philip Haas – USA 1997
con Charles Dance, Sheryl Lee
**

Visto in DVD, con Martin.

In un paese esotico, probabilmente latino-americano (che non viene identificato, anche se i protagonisti lo chiamano Illiria, come la leggendaria regione europea – storicamente un territorio dei Balcani – rivestita da una patina di mitologia e utopia arcadica), Cyril e Fiona sono una coppia di occidentali che vive in maniera armonica e disinibita, predicando il libero amore e la comunione con la natura. I due cercano di coinvolgere in questo stile di vita un'altra coppia, il fotografo Hugh e sua moglie Catherine: ma la tragedia incombe. Narrato attraverso una continua serie di flashback (introdotti da dissolvenze in rosso) che rivelano poco a poco il destino dei personaggi, è un film rarefatto e sospeso fra suggestioni letterarie, erotiche e new age, guidato per mano dalla musica di Angelo Badalamenti. In certe cose mi ha ricordato alcune opere di Bernardo Bertolucci e di Alain Robbe-Grillet. Non posso dire che mi sia piaciuto, ma non mi ha nemmeno lasciato indifferente. Di Philip Haas (che ha sceneggiato la pellicola insieme alla moglie Belinda, autrice anche del montaggio) avevo visto anche le due precedenti pellicole, "La musica del caso" e "Angeli e insetti" (quest'ultimo tratto dal libro di Antonia S. Byatt), che mi avevano fatto la medesima impressione: un tipo di cinema un po' pretenzioso e artefatto, ma a tratti surreale e coinvolgente.

2 gennaio 2009

Heimat 3 (Edgar Reitz, 2004)

Heimat 3 - Cronaca di un cambiamento epocale
(Heimat 3 - Chronik einer Zeitenwende)
di Edgar Reitz – Germania 2004
film in sei episodi
***

Visto in DVD, con Martin, in originale con sottotitoli.

Con Henry Arnold (Hermann), Salome Kammer (Clarissa), Michael Kausch (Ernst), Matthias Kniesbeck (Anton), Uwe Steimle (Gunnar), Christian Leonard (Hartmut), Heiko Senst (Tobi), Tom Quaas (Udo), Nicola Schössler (Lulu), Peter Schneider (Tillmann), Constance Wetzel (Mara), Larissa Iwlewa (Galina), Karen Hempel (Petra), Antje Brauner (Jana), Julia Prochnow (Moni), Peter Götz (Loewe), Berthold Korner (Rudi), Christel Schäfer (Lenchen), Patrick Mayer (Matko), Karl-August Dahl (parroco), Rainer Guldener (Böckle), Edith Behleit (la madre di Clarissa), Björn Klein (Arnold), Anke Sevenich (Schnüsschen).

"Nel 1989 la Germania era pervasa da un certo entusiasmo, una disposizione di spirito creativa come accade di rado nella storia. Un decennio dopo tutto è cambiato: la paura del fallimento, della miseria, della disperazione e della perdita di prospettive spirituali domina la scena".
(Edgar Reitz)

"Chi sposa lo spirito del tempo è destinato a rimanere vedovo".
(Anton Simon)

Con il crollo del muro di Berlino e la nascita di una nazione unificata, il concetto di Heimat (patria) viene rimesso in discussione per l'ennesima volta in un secolo, il ventesimo, del quale la Germania è stata protagonista assoluta. Nel terzo capitolo della sua sterminata saga, che riprende molti personaggi dai due film precedenti (Hermann e Clarissa, le due figure centrali di "Heimat 2", restano il filo conduttore anche di questo nuovo lavoro, mentre a sorpresa dal primo "Heimat" ritornano Anton ed Ernst, i due fratellastri di Hermann), Reitz sceglie di raccontare gli anni della riunificazione, quelli che vanno dalla "svolta epocale" del 1989 alla data simbolica del 2000, alba di un nuovo millennio: undici anni nel corso dei quali le speranze e i sogni lasciano progressivamente il posto alla confusione e all'insicurezza. Molti sono anche i personaggi nuovi di zecca, soprattutto immigrati provenienti dall'ex Germania Est e dalle nazioni che più di tutte in quegli anni sono state al centro di cambiamenti (ovvero quelle dell'ex URSS e dell'ex Jugoslavia).
Al centro della storia c'è la splendida casa con vista sul Reno dove si stabiliscono Hermann e Clarissa, che qui finalmente – a quasi trent'anni dal loro primo incontro – riescono a coronare il loro sogno d'amore. La villa diventa la dritte Heimat, il rifugio della terza età, la dimora della maturità, nonché (come la casa natale di Schabbach nel primo film e la "Tana della Volpe" nel secondo) il luogo attorno al quale gravitano i destini di tutti i personaggi. La casa, però, può essere anche vista come il simbolo della Germania unificata, patria comune di popoli che sono rimasti divisi troppo a lungo e che ora cercano a fatica di ricostruire e di condividere destini e ideali. In fondo, anche la nuova Germania è una sorta di terza patria dopo RFT e RDT.
Diciamo subito che la pellicola, seppur bella, non raggiunge le stesse vette dei due capolavori precedenti. Forse anche perché Reitz ha dovuto ridimensionare i suoi piani: "Heimat 3" avrebbe dovuto essere ben più lungo delle 12 ore (e dei 6 episodi) attuali, ma per problemi di budget il regista è stato costretto ad "accorciarlo". Per esempio, l'inizio del primo episodio può sembrare un po' troppo frenetico: nel giro di pochi minuti Hermann e Clarissa si ritrovano dopo vent'anni e decidono subito di andare a vivere insieme. La sceneggiatura originale prevedeva un primo episodio tutto incentrato su di loro, nel quale avrebbero improvvisato un concerto a Berlino per la caduta del Muro; e sarebbero giunti nell'Hunsrück soltanto al termine della puntata, rinviando all'episodio successivo la presentazione degli operai della Germania Est.
Nel complesso la gestazione di questo terzo capitolo è stata molto più problematica delle precedenti: Reitz ha impiegato sette anni per preparare la saga, e altri due per girarla. Ma per fortuna le atmosfere e lo "stile Heimat" (come lo chiama Martin) aiutano a sentirsi subito "a casa" non appena si inizia a vedere il primo spezzone. La voce fuori campo non è più legata a un solo personaggio (come era, quasi sempre, negli episodi di "Heimat 2"): nel primo episodio passa da Hermann a Clarissa, da un punto di vista a all'altro, e in seguito scompare del tutto, rendendo i singoli film molto più corali di quanto fossero quelli delle saghe precedenti. Reitz continua inoltre a unire pubblico e privato, i grandi eventi politici e sportivi alle storie d'amore e di gelosia, le riunificazioni alle separazioni, l'allargamento delle prospettive alla ricerca di uno spazio personale. Ma a tratti il film sembra un'epopea familiare anche più del primo "Heimat", del quale è a ben vedere un seguito molto più di quanto non fosse il secondo.

1 – Il popolo più felice della terra (1989)
Il 9 novembre 1989 (il giorno della caduta del Muro di Berlino), mentre finisce un'epoca e ne inizia un'altra, Hermann e Clarissa si incontrano per caso tra la folla dopo 19 anni. Finalmente, in mezzo all'euforia generale, sembra che sia arrivato il momento giusto per far fiorire anche il loro amore. Le loro carriere di artisti (cantante lei, direttore d'orchestra lui) li hanno portati a esistenze itineranti, a "vivere in stanze d'albergo", senza più legami con i luoghi d'origine o con le rispettive famiglie (entrambi sono divorziati e hanno figli che vedono poco: Lulu, la figlia di Hermann, studia a Colonia, mentre Arnold, il figlio di Clarissa, è diventato uno dei primi hacker informatici e abita a Monaco con la nonna). Ma adesso basta fuggire: la coppia decide di mettere finalmente radici da qualche parte, e così acquista un'antica casa con vista sul Reno, non distante dal villaggio dove è nato Hermann, che in questo modo ha una scusa per tornare finalmente nei luoghi da cui era fuggito da ragazzo. A Schabbach nessuno si è dimenticato di lui e per tutti è come se non se ne fosse mai andato. Ad accoglierlo, oltre all'oste Rudi e a un parroco pacifista (che contesta la vicina presenza di una base americana), ci sono soprattutto i suoi fratellastri Ernst e Anton (entrambi interpretati dagli stessi attori del primo "Heimat"!). Nel frattempo, per ristrutturare la villa (cadente ma considerata "patrimonio artistico" perché secoli prima avrebbe ospitato una poetessa del romanticismo, Karoline von Günderrode), Clarissa decide di assoldare alcuni operai e carpentieri della Germania Est: da Lipsia e da Dresda giungono così nell'Hunsrück dapprima l'esperto Udo e l'emotivo Gunnar, poi l'intraprendente Tobi e il timido Tillmann. L'impatto degli "orientali" con il benessere dell'ovest è ingenuo e devastante, ma nonostante tutto i lavori procedono speditamente. A Natale sono tutti ospiti sulle Alpi nella casa di Reinhold Loewe, l'agente di Hermann. L'ottimismo è alle stelle, la Germania sembra alla vigilia di anni felici e prosperi per tutti. L'evidente attrazione fra Reinhold e Petra, la moglie di Gunnar, scatena però la gelosia di quest'ultimo.
Alcune curiosità: Hermann sembra aver rinunciato alla carriera di compositore e alla musica d'avanguardia, e si dedica esclusivamente alla direzione di un repertorio classico. La madre di Clarissa continua a mettere becco nelle faccende di lei, e osteggia apertamente la sua relazione con Hermann. Anton è ormai il "patriarca" dei Simon, e incontriamo brevemente i suoi cinque figli con i rispettivi coniugi. Nel complesso l'episodio di apertura di questa nuova saga è ottimo, con grandi momenti (come il montaggio alternato fra le esibizioni "artistiche" di Hermann e Clarissa e i lavori di ristrutturazione della casa, o la scena in cui Clarissa intona in macchina l'inno della DDR, al che Udo e Gunnar rispondono con quello della BRD). I nuovi personaggi, ovvero quelli della Germania orientale, sono ben caratterizzati ed entrano subito nel cuore dello spettatore.

2 – Campioni del mondo (1990)
Anche il secondo episodio si apre facendo coincidere un evento "privato" e importante per i personaggi (l'inaugurazione della casa di Hermann e Clarissa, completata a tempo di record in soli sette mesi: le novità vanno di fretta!) con un altro di portata "nazionale" (l'inizio dei mondiali di calcio di Italia '90, che proprio la Germania avrebbe vinto battendo in finale l'Argentina). I quattro manovali dell'Est ricevono la loro gratifica e salutano temporaneamente l'Hunsrück: Reitz ne segue il cammino di due in particolare, Tobi e Gunnar. Il primo viene coinvolto da Ernst nei suoi traffici di opere d'arte e parte con lui in aereo alla volta di una Russia che si prospetta ormai come un mercato aperto: ma in occasione di uno scalo in Germania Est preferisce abbandonare l'affare e tornare dapprima a casa e poi a Schabbach, portandosi dietro una statua di Lenin sottratta a una nazione ormai allo sbando. Il secondo, che sfoggia per quasi tutto l'episodio una maglietta di Andreas Brehme (del quale condivide il cognome) e che è ormai stato definitivamente lasciato dalla moglie Petra, si reca a Berlino, occupa l'appartamento abbandonato da un amico e si getta negli affari, ricevendo una favolosa commessa da parte di un manager della Warner Brothers che vuole importare negli Stati Uniti nientemeno che un milione di frammenti del muro berlinese. Nel frattempo Hermann e Clarissa si godono la loro nuova vita, Arnold si appresta a partire per studiare in America, la salute di Anton peggiora e di Ernst e del suo viaggio in Russia non si hanno più notizie.

3 – Arrivano i russi (1992-1993)
Dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica, Ernst – che scopriamo essere rimasto prigioniero in URSS per due anni – può far finalmente ritorno in Germania. E con lui giungono numerosi profughi russi di origine tedesca che sperano così di ritrovare una patria perduta. Fra questi spicca la famiglia di Juri e la sua giovane moglie kazaka Galina, appena diventata madre, che trova presto lavoro come domestica in casa di Anton. Se i russi arrivano, gli americani se ne vanno: la base militare nell'Hunsrück viene abbandonata, con gran gioia dei pacifisti e dei dimostranti guidati dall'eccentrico parroco del paese, e i terreni e i fabbricati lasciati liberi attirano l'attenzione di speculatori e imprenditori. Uno di questi è Hartmut, superficiale e ambizioso figlio di Anton, appassionato di automobili sportive e marito della "cavallerizza" Mara. In forte competizione con il padre, Hartmut vorrebbe dimostrarsi migliore di lui e mettersi in proprio, rilevando la propria parte della ditta di famiglia e dando vita a nuovi stabilimenti. Al rifiuto di Anton, cerca strade alternative: dapprima chiede il sostegno addirittura di Ernst, poi ottiene un prestito dall'ambiguo affarista Böckle. Costui è un "distruttore di aziende", come si definisce quando incontra per caso in treno Hermann (ignorando naturalmente il rapporto di parentela fra lui e il suo socio). Ma i problemi per Hartmut non finiscono qui: proprio mentre la moglie Mara decide di voler finalmente un figlio (che alla sua nascita viene nominato erede universale dal nonno Anton, scatenando il risentimento degli altri figli e nipoti), lui si invaghisce di Galina e in un modo e nell'altro riesce a portarla via al gelosissimo Juri. Nel frattempo Hermann e Clarissa tentano inutilmente di vivere in pace in una villa che sembra davvero infestata dallo spirito della poetessa morta. Mentre Tillmann e la sua compagna Moni continuano a frequentare la casa (Udo e Tobi, invece, rimangono in Germania Est: il primo si dedica alle ristrutturazione delle mansarde, il secondo all'arte paesaggistica) e la capretta Bianca – "adottata" da Hermann e Clarissa nell'episodio precedente – dà alla luce tre piccoli, facciamo anche la conoscenza di Lulu, la spigliata figlia di Hermann, che studia architettura e che si presenta un giorno alla villa in compagnia di due amici, Lutz e Roland, con i quali ha dato vita a una sorta di ménage à trois. Ma il taxi nel quale stanno tornando a casa di notte, dopo aver festeggiato la laurea, si scontra con la Porsche con cui Hartmut e Galina stanno scappando dalla casa di lei. Nel tragico incidente muore Lutz, futuro padre del figlio che Lulu porta in grembo.

4 – Stanno tutti bene (1995)
Nubi grigie si addensano in cielo, un terremoto notturno scuote l'Hunsrück e Hermann si ritrova di colpo ad attraversare un periodo di crisi. Dovrebbe comporre una "sinfonia per la riunificazione", ma il tema preponderante dell'episodio è invece quello della separazione. Dopo sei anni, l'idilliaca convivenza con Clarissa sembra destinata a finire in incomprensioni e litigi. Mentre lui è impantanato creativamente e ormai legato indissolubilmente alla nuova casa, lei rivendica la propria indipendenza artistica e parte per un lungo tour internazionale in compagnia di nuovi amici (fra i quali si annida forse un amante?), con uno spettacolo che lui trova kitsch e di cattivo gusto. Temendo che non tornerà più, Hermann si lascia andare alla depressione e rimane vittima di una serie di incidenti, nel più grave dei quali resta intrappolato con il piede in una tagliola. Prova a riavvicinarsi alla figlia Lulu, che ora vive da sola con il figlio avuto da Lutz, ma lei lo respinge freddamente: la ragazza vede nella famiglia Simon solo ipocrisia e distacco (Anton e Hartmut le elargiscono mille marchi al mese come risarcimento per la morte di Lutz, ma non si fanno mai vedere) e addirittura preferisce usare il nome Simone, come la chiamava sua madre. Ernst propone a Hermann di associarsi a lui per costruire a Schabbach un gigantesco museo con sala da concerto annessa, ma il progetto sembra fin troppo ambizioso e giunge forse nel momento meno opportuno. Nel frattempo, anche nel resto della famiglia Simon la conflittualità è alta: Hartmut, che ha sistemato Galina e suo figlio in una casa a Wiesbaden, ha chiesto il divorzio a Mara che però non intende concederglielo; ha fatto causa al padre Anton per avere la propria parte della Simon Optik, con la quale è ormai in concorrenza attraverso la sua nuova azienda (che però si rivolge al mercato di massa anziché produrre apparecchiature di qualità); ed è a sua volta in contenzioso con i fratelli che non hanno mandato giù il fatto che suo figlio sia stato designato erede universale dal nonno. Ma Anton, che sembrava essersi ormai ripreso dal suo infarto, muore improvvisamente nella notte (e con lui scompare un personaggio che ci teneva compagnia sin dal primo episodio del primo "Heimat", quando era ancora un bambino), costringendo la famiglia a riunirsi attorno al suo capezzale. Hartmut, destinato a dirigere l'azienda di famiglia, tiene un discorso poco incoraggiante ai dipendenti. Il corpo di Anton viene cremato, cosa mai successa prima a Schabbach, e il funerale si svolge senza musica, senza parroco e in forma strettamente privata: non vengono invitati né i dipendenti dell'azienda né i giocatori della squadra di calcio del paese, l'ultima sua vera passione. L'anticonformista Ernst si scaglia invece contro l'ipocrisia della famiglia e, per una volta, si sente vicino al fratello. Alla cerimonia funebre rivediamo a sorpresa Schnüsschen, l'ex moglie di Hermann, giunta lì con il suo nuovo compagno: ma il suo incontro con l'ex marito è sereno. Nella casa sul Reno, dove lo spirito della Günderrode sembra finalmente aver donato a Hermann l'ispirazione (in una sola notte completa la sinfonia e compone anche numerosi lieder su testi della poetessa), ritorna improvvisamente Clarissa: il suo tour è interrotto, ha scoperto di essere malata e forse non potrà più cantare. Da notare il titolo ironico dell'episodio, che oltre che alle vicende dei personaggi pare alludere a quelle della Germania: a sei anni dalla "riunificazione" le cose non sembrano andare per il verso giusto nemmeno al paese, proiettato verso un futuro incerto.

5 – Gli eredi (1997)
Bellissimo episodio incentrato sui temi (già anticipati nelle puntate precedenti, ma qui espliciti sin dal titolo) della paternità, della successione e dell’eredità. Clarissa, malata di tumore, è in ospedale dove si sottopone a pesanti terapie. Proprio in clinica la raggiunge la notizia, con relativo video, del matrimonio di suo figlio Arnold negli Stati Uniti con una compagna di corso del MIT. Nel frattempo Hermann si è riavvicinato a Lulu – che come vedremo lavora a Schabbach per conto di Ernst – e ospita spesso in casa sua il nipotino Lukas, figlio di Lutz. Ma i veri protagonisti dell’episodio sono appunto Ernst, sempre più deciso a costruire un museo a Schabbach (nella sua tenuta presso il Goldbach) per lasciarvi la sua immensa collezione di opere d’arte (Lulu, in quanto architetto, è la direttrice dei lavori), e un nuovo personaggio, il quattordicenne Matko, figlio di un’immigrata slava che nel 1983 lavorava come domestica proprio da Ernst e che ora è tornata a vivere in Bosnia, in mezzo alla guerra. Ernst si affeziona al ragazzo, che gira in motorino per l’Hunsrück ma condivide la sua passione per il volo: gli mostra persino il suo segretissimo sancta sanctorum e intanto incarica un investigatore privato, il signor Meise, di scoprire se possa trattarsi di suo figlio. Ma i lavori per la costruzione del museo vengono osteggiati dall’opinione pubblica, nonostante al comune non venga chiesto nemmeno un centesimo (la costruzione verrà finanziata dalla Comunità Europea). La concessione edilizia viene rifiutata, con grande delusione di Ernst che vede svanire il sogno di lasciare qualcosa di tangibile al proprio paese: decide così di suicidarsi in maniera spettacolare, schiantandosi con il suo aereo contro una parete rocciosa ai bordi del Reno, davanti agli occhi atterriti di Hermann. La ricca eredità di Ernst spetterebbe di diritto ai parenti più prossimi, ossia Hermann, Lulu e i cinque figli di Anton. Tutti sarebbero intenzionati a portare a termine il progetto del museo (anche perché, dopo la sua morte, la popolazione di Schabbach ha cambiato opinione e il comune ha dato nuovamente il via libera), tranne Hartmut: com’era prevedibile, la sua incoscienza, il suo scarso senso degli affari e l’alleanza con il signor Böckle hanno portato la gloriosa Simon Optik al fallimento. Con un disperato bisogno di denaro (l'eredità che Anton ha lasciato a suo figlio Mathias è "congelata" fino a quando il ragazzino non compierà i diciott’anni), Hartmut chiede ai fratelli (con i quali i rapporti ormai sono tesissimi) di vendere la collezione di quadri, ottenendo però un netto rifiuto. Sarà costretto a mettere all’asta ogni sua proprietà, comprese le tanto amate auto d’epoca, e rimarrà senza niente: Mara, la sua ex moglie, lo riaccoglierà però con sé e insieme lasceranno il paese. Nel frattempo l’intrigante Meise si è ormai convinto che Matko sia il vero e unico erede di Ernst: fa tornare sua madre dalla Bosnia, contatta Hermann e sparge la voce in paese. Il giovane, che non aveva mai sognato la ricchezza, diventa il centro dell’attenzione di tutti: i parenti di Ernst vogliono sottoporlo a una prova del dna, i compagni di classe lo emarginano, chiunque sia interessato all'eredità cerca di trascinarlo dalla propria parte. Matko non regge alla pressione, e alla fine sceglie a sua volta il suicidio: subito dopo, si scoprirà che non era affatto il figlio di Ernst.

6 – Congedo da Schabbach (1999-2000)
A Monaco, l'11 agosto 1999, il giorno della grande eclissi solare, ritroviamo Gunnar che deve recarsi in prigione a scontare una condanna a sei mesi per aver causato un incidente stradale. Ma prima si reca a visitare la sua ex famiglia: se Petra – che ormai convive con Reinhold – lo accoglie freddamente, le due figlie adolescenti sono invece incuriosite dall'incontro con il padre che non vedono da molti anni e soprattutto la maggiore lo prende in simpatia (e gli cucina un "Kaiserschmarrn"!). Lo stesso giorno, nella città bavarese, è in programma un concerto di Hermann e Clarissa: la donna, che sembra essersi ristabilita dopo la chemioterapia, canta i testi della poetessa Günderrode che lui ha messo in musica. L'evento è però funestato da una brutta notizia proveniente da Schabbach: Rudi, il locandiere del villaggio, è morto. Mentre Clarissa si trattiene a Monaco in compagnia della madre, che è fuggita dalla casa di riposo in cui si trovava, Hermann si reca al paese per i funerali. Prima della cerimonia si addormenta sotto un grande albero e fa una serie di sogni che tingono oniricamente di soprannaturale questo episodio (proprio come l'ultimo episodio del primo "Heimat", al quale viene fatto riferimento con la scena della bara di Maria lasciata in mezzo alla strada). Più tardi, al cimitero, mentre Hermann si sofferma a guardare le numerose lapidi della famiglia Simon (ripassando così in rassegna nomi come quelli di Katharina, Mathias, Maria, Eduard e Lucie, Horst, Anton ed Ernst), la terra trema e gigantesche voragini si spalancano sotto alcune delle case di Schabbach: la volta che sovrasta le grotte e le cave sotterranee di ardesia ha ceduto: che sia colpa dei lavori che Lulu sta dirigendo per realizzare finalmente il museo di Ernst? Le betoniere vengono dirottate nel tentativo di riempire le buche di cemento, ma la colata finisce con l'intrappolare la cassaforte che conteneva i quadri della collezione, rendendola di fatto irraggiungibile. Mentre Lulu medita se consolarsi accettando l'offerta di matrimonio che le fa il perito d'arte Henri Delveau, Gunnar, ancora in galera, è convinto di poter uscire prima della fine dell'anno, e organizza con gran dispiego di denaro una festa di capodanno presso la casa di Hermann e Clarissa per festeggiare il nuovo millennio e riunire finalmente tutti i vecchi amici dell'Ovest e dell'Est. Tillmann si occupa delle infrastrutture, ma quando il grande giorno arriva Gunnar non è ancora stato rilasciato. Alla festa rivediamo molti personaggi: alcuni hanno nuove famiglie (Galina, sposatasi con un tedesco; Arnold, il figlio di Clarissa, giunto dagli Stati Uniti con la moglie e due figli gemelli), altri sono tornati con quella vecchia (Hartmut, riconciliatosi con Mara e riciclatosi come produttore di vini); alcuni fanno inaspettati "coming out" (Dieter, fratello di Hartmut), altri meditano nuove svolte (Udo, che vorrebbe divorziare per mettersi con una ragazza più giovane). "La vita è un carosello", afferma Galina. Mentre Hermann e Clarissa si promettono fedeltà eterna (e lui le chiede soltanto di restare in salute), Lulu – che ha rifiutato la proposta di Delveau – è travolta dall'incertezza per il futuro. Il nuovo millennio, anziché consolidare felicità e speranze, sembra aprire la porta di un'epoca senza sicurezza. Cosa accadrà in futuro? Solo il tempo lo dirà.

E con queste sensazioni ambivalenti si conclude "Heimat 3". È difficile per ora dire se Reitz realizzerà mai un quarto capitolo della saga. Nel frattempo cercheremo di recuperare "Heimat fragmente", un film di due ore con protagonista Lulu e nel quale il regista ha inserito alcuni spezzoni non usati nelle prime due serie.