29 maggio 2008

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (S. Spielberg, 2008)

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo
(Indiana Jones and the kingdom of the crystal skull)
di Steven Spielberg – USA 2008
con Harrison Ford, Cate Blanchett
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

A vent'anni di distanza (sia nella realtà sia nella finzione, visto che la pellicola si svolge nel 1957, proprio un ventennio dopo il terzo capitolo), Indiana Jones torna con la sua avventura più improbabile, esagerata e sopra le righe: un film che – a parte il meraviglioso incipit – sembra appartenere più all'immaginario del moderno cinema d'azione a base di effetti speciali digitali (la sequenza nel tempio Maya è perfettamente in stile "La mummia") che a quello dei fumetti e romanzi d'avventura di un tempo, anche se la presenza degli alieni affonda le sue radici in altre pellicole spielberghiane come "Incontri ravvicinati del terzo tipo", "E.T." e "A.I.". Ma se la sceneggiatura ha i suoi bravi difetti (c'è da dire che anche i tre film precedenti non erano senza macchia da questo punto di vista), la regia, soprattutto nella prima parte, mi è parsa di gran livello. Forse anche per questo le mie attese (peraltro non troppo alte) non sono andate deluse: pur se la sospensione dell'incredulità a tratti deve fare davvero i salti mortali, la pellicola in fondo è godibile e divertente purché non si vogliano fare troppi paragoni con "I predatori dell'arca perduta" (questi teschi di cristallo non hanno certo il fascino magico e soprannaturale dell'arca dell'alleanza). Come dicevo, la prima parte è sicuramente la migliore: la montagna della Paramount si rivela una semplice tana di marmotta (o talpa, o quel che è), come se gli autori avessero voluto mettere in chiaro sin dall'inizio che questa volta non ci si prende sul serio, o comunque meno di prima. E subito assistiamo a quella magnifica corsa nel deserto del Nevada fra l'automobile con le coppiette (che sfreccia via portandosi dietro le note del rock'n'roll) e il convoglio militare. In quei pochi momenti, che precedono l'ingresso in scena del protagonista, ci sono echi di tutto il cinema passato di Spielberg e Lucas (da "Duel" ad "American Graffiti"). L'ambientazione negli anni cinquanta, condita con riferimenti al cinema (il sidekick Shia LaBeouf entra in scena come Marlon Brando ne "Il selvaggio"), al maccartismo, alle ossessioni della guerra fredda e agli esperimenti nucleari, rappresenta un bello stacco rispetto a quella dei tre film precedenti (apprendiamo che nel frattempo Indy è stato un eroe di guerra, che insegna ancora nella stessa università, che suo padre e Brody sono morti). Peccato che la pellicola, man mano che procede, perda un po' di vista la dimensione umana del personaggio e si trasformi in un'avventura confusa e ricca di effetti digitali, senza un attimo di pausa e senza risparmiarci nulla, mescolando insieme gli alieni di Roswell e le leggende Maya, i conquistadores spagnoli e i poteri mentali. E poi ci sono le esagerazioni di cui parlavo prima: se un tempo Indy era un uomo avventuroso, ma pur sempre un uomo, ora è un cartone animato in carne e ossa: il volo dentro il frigorifero (con il quale sopravvive a un'esplosione atomica: a proposito, bello e inquietante il villaggio con i manichini) è degno di Wile E. Coyote, per non parlare del balzo con l'auto nel fiume, del passaggio attraverso le tre cascate, di LaBeouf che fa Tarzan con le liane, e così via. Ford mi ha stupito in positivo, non credevo fosse ancora all'altezza del personaggio. La cattiva Irina si lascia apprezzare più per merito di Cate Blanchett che della sceneggiatura, mentre sia LaBeouf sia la rediviva Karen Allen non aggiungono molto alla pellicola (anche se i battibecchi del primo con il protagonista ricordano quelli fra Ford e Connery nel terzo film). Manca purtroppo una riflessione sulla vecchiaia (a parte alcune battute qua e là, anch'esse soprattutto all'inizio), e verso il finale si percepisce qualche lungaggine di troppo per una trama che si fa stirata e contorta senza affascinare fino in fondo. In conclusione, comunque, ritengo che in questo film ci sia parecchio da salvare. In fondo basta accontentarsi, dimenticare certe cose (le marmotte che fanno tanto "Era glaciale", i deliri mistico-ufologici) e godersi i buoni momenti di un cinema che ondeggia sapientemente fra magia e spensieratezza (la polvere da sparo che galleggia in aria, il magazzino con le casse, la rissa provocata da LaBeouf al bar).

28 maggio 2008

Tootsie (Sydney Pollack, 1982)

Tootsie (id.)
di Sydney Pollack – USA 1982
con Dustin Hoffman, Jessica Lange
***

Rivisto in DVD.

Per ricordare Sydney Pollack, il regista de "I tre giorni del Condor" e "Corvo rosso, non avrai il mio scalpo", scomparso l'altro ieri, mi sono rivisto la sua celebre commedia con un brillante Dustin Hoffman nei panni di un talentuoso e meticoloso attore di Broadway che non riesce a ottenere lavoro per via della sua fama e del suo cattivo carattere. Il protagonista Michael Dorsey non trova così di meglio che travestirsi da Dorothy Michaels. E come donna, energica e fuori dal comune, riceve una parte in un popolare telefilm ospedaliero, facendo salire gli indici di ascolto e imprimendo un'inaspettata svolta femminista allo show. Ma problemi sentimentali (si innamora di una bella collega, che lo ritiene lesbica, e contemporaneamente fa invaghire di sé il padre di lei, un sensibile vedovo) e di identità sessuale ("Sono stato più uomo con te come donna di come lo sia stato con le altre donne come uomo") gli renderanno impossibile continuare a sostenere la parte. Un film ben scritto, ricco di verve e di ritmo, su un tema non nuovo (come non ricordare capolavori del travestitismo quali "Susanna" o "A qualcuno piace caldo"? Impietoso invece il confronto con il successivo "Mrs. Doubtfire") ma che Pollack conduce in porto con eleganza e profondità, seppure in modo leggero, aggiornando la classica commedia degli equivoci all'era della psicanalisi e della confusione sessuale ("Non è mai stato così difficile essere una donna come negli anni ottanta"). Decisamente buono il cast, che comprende anche Bill Murray (il coinquilino del protagonista), Geena Davis (con cui condivide il camerino), Teri Garr (l'amica che lo crede gay) e lo stesso Pollack (l'agente teatrale). Hoffman fa il mattatore, ma nell'edizione italiana è aiutato dal doppiaggio di Ferruccio Amendola. Il titolo è il nomignolo dato a "Dorothy" dal regista maschilista dello show (Dabney Coleman).

27 maggio 2008

La cagna (Marco Ferreri, 1972)

La cagna (Liza)
di Marco Ferreri – Italia/Francia 1972
con Marcello Mastroianni, Catherine Deneuve
*1/2

Visto in divx.

Tratto dalla novella “Melampus” di Ennio Flaiano (che l'ha adattata insieme al regista e a Jean-Claude Carrière) e girato nell'isola di Lavezzi, fra Corsica e Sardegna, è un film sobrio ma vuoto che mi ha convinto veramente poco, perso com'è nella sua descrizione di personaggi fuori posto in un mondo moderno che non li comprende. Il protagonista Giorgio, un disegnatore di fumetti (ispirato probabilmente a Hugo Pratt) solitario e scontroso che vive come un eremita in compagnia del cane Melampo su un isolotto roccioso, si ritrova a ospitare una misteriosa donna, Lisa, che ha abbandonato per un litigio la barca dei suoi amici. Gelosa del fatto che l'animale monopolizzi le attenzioni dell'uomo, la donna lo affoga. Ma lui la costringe a prenderne il posto, addestrandola a riportare i bastoncini, a bere dalla ciotola, a obbedirgli come se fosse il suo padrone. E lei accetta volontariamente la propria sottomissione, forse perché non ha altro posto dove andare: il suo personaggio rimane enigmatico e senza origini per tutto il film, a differenza di Giorgio del quale invece conosciamo la famiglia (da cui è in fuga) in alcune scene ambientate a Parigi, dove compare brevemente anche Michel Piccoli, habitué di Ferreri sin dai tempi di "Dillinger è morto".

Eccezzziunale veramente 2 (C. Vanzina, 2006)

Eccezzziunale veramente: capitolo secondo... me
di Carlo Vanzina – Italia 2006
con Diego Abatantuono, Carlo Buccirosso
*

Visto in TV, con Hiromi.

Il milanista Donato Cavallo scopre di avere un figlio interista; lo juventino Tirzan, appena uscito da un coma, è costretto dalla moglie (Sabrina Ferilli) a un ménage à trois; l'interista Franco Alfano trova una valigia piena di soldi, che però appartiene alla mafia. Una delle cose che più mi dà fastidio del revival del trash all'italiana è il tentativo di specularci sopra imbastendo inutili e improbabili sequel di titoli che avevano già fatto il proprio tempo. Questo secondo episodio del film di Abatantuono sulle improbabili avventure di tre tifosi di calcio, oltre a essere brutto di suo (la regia e la recitazione sono piatte e televisive), non aggiunge nulla alla pellicola precedente e ha il suo unico pregio, si fa per dire, nella storpiatura dell'italiano parlato dal protagonista, che qualche sorriso – a me che sono amante dei giochi di parole – è pure riuscito a strapparlo. Per il resto, troviamo tutti i difetti del cinema-panettone di Vanzina & Co., fra luoghi comuni, trame inconcludenti, gag telefonate e un'assoluta mancanza di compattezza e di coerenza. Non manca nemmeno il product placement, invasivo e fastidioso, e l'apparizione speciale di vip (i giocatori del Milan, nella sequenza onirica iniziale che – a parte la mancanza di doti recitative – è la cosa migliore del film). Molte le battute e gli sfottò riservati all'Inter (non per nulla Abatantuono è milanista), mentre lo spazio dedicato alla "Giuventus" è parecchio sacrificato.

24 maggio 2008

Domenica, maledetta domenica (J. Schlesinger, 1971)

Domenica, maledetta domenica (Sunday, Bloody Sunday)
di John Schlesinger – Gran Bretagna 1971
con Peter Finch, Glenda Jackson, Murray Head
***

Visto in DVD.

La divorziata in carriera Alex e il medico ebreo omosessuale Daniel, repressi e disillusi, si dividono lo stesso amante, Bob, un giovane designer. Essendo l'uno a conoscenza dell'altra, e avendo addirittura amici in comune, entrambi soffrono terribilmente per l'apparente semplicità con cui lui entra ed esce dalle loro vite e non sopportano il fatto di non averlo tutto per sé ("Qualcosa è meglio di niente? O niente è preferibile a qualcosa?"). E quando Bob parte per New York, i due rimangono da soli a trascorrere un'altra "maledetta domenica" in una Londra grigia e in crisi economica. Realizzato quando la stagione del "cinema libero" britannico volgeva già al termine (e l'insuccesso di pubblico spinse Schlesinger a trasferirsi in America), la pellicola è da apprezzare per la notevole introspezione psicologica dei due protagonisti principali (mentre Bob, come giusto che sia, è più sfuggente anche come caratterizzazione). All'epoca fece scalpore la scena del bacio fra i due uomini e la rappresentazione "normale" dell'omosessualità. A fare da filo conduttore alle vicende minimaliste del film sono le note del bellissimo terzetto Soave sia il vento dal "Così fan tutte" di Mozart e i messaggi lasciati dai personaggi a un servizio di segreteria telefonica. Nonostante il titolo, il film non ha alcun legame con i tragici eventi di Derry (avvenuti peraltro nel 1972, l'anno dopo), e naturalmente con le omonime canzoni di John Lennon e degli U2.

23 maggio 2008

Hulk (Ang Lee, 2003)

Hulk (id.)
di Ang Lee – USA 2003
con Eric Bana, Jennifer Connelly
**1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Pur essendo stato un accanito lettore dei fumetti Marvel non ho mai amato particolarmente il personaggio di Hulk e per questo motivo non riesco a essere entusiasta di questo film, anche se ne apprezzo le qualità cinematografiche e riconosco che al momento della sua uscita si trattava probabilmente del miglior adattamento di un supereroe mai visto sullo schermo. Del resto la pellicola ripropone quasi alla lettera le atmosfere e lo spirito delle storie in cui il colosso di giada si aggirava per il sud-ovest degli Stati Uniti cercando di sfuggire alla caccia imbastita dall'esercito nei suoi confronti (storie, a dire il vero, noiosette e scritte per lo più da un autore non troppo dotato come Bill Mantlo). Ma pur soffrendo nella prima parte per un ritmo troppo lento e nella seconda per una grafica computerizzata non eccelsa – che dona alle scene con il gigante verde un aspetto quasi da videogioco – il film ha contribuito a convincermi definitivamente della grandezza di Ang Lee come regista: le pellicole precedenti del regista taiwanese mi erano quasi tutte piaciute, ma chissà perché lui non era ancora riuscito a entrare nel novero dei nomi da seguire "a scatola chiusa", dove adesso si è invece insediato in pianta stabile (e ha poi confermato il suo talento con i due meritati Leoni d'Oro). Merito dell'insolito approccio che ha scelto per affrontare un genere a lui non del tutto congeniale e per "domare" un film non facile da dirigere (c'era il rischio di renderlo infantile, piatto o prevedibile): usare il linguaggio del fumetto non tanto rispetto ai contenuti, alla fotografia o alle scenografie (come era stato fatto da altri in passato), ma direttamente in fase di regia e di montaggio, con una scomposizione delle inquadrature che divide l'azione in "vignette" grazie a un uso dello split screen dapprima timido e poi sempre più preponderante (si vedano le magistrali sequenze del trasporto di Banner nella base militare e quelle del combattimento nel deserto). La sceneggiatura è interamente dedicata alle origini di Hulk (che non appare sullo schermo prima di quasi metà pellicola, cosa che ha scontentato parecchi spettatori), mentre la sottotrama del padre malvagio (interpretato da Nick Nolte) proviene anch'essa dalle storie di Mantlo, anche se il suo personaggio sfodera nel finale dei superpoteri che ricordano un altro villain della Marvel, l'Uomo Assorbente. Il mostruoso protagonista, descritto come un incrocio fra Mister Hyde e King Kong, assume così valenze edipiche e psicanalitiche: peccato che la sua interazione con il mondo esterno risulti limitata a alcune scene girate a San Francisco e che il confronto finale con il padre venga risolto con un combattimento anticlimatico. Se il protagonista Eric Bana recita in maniera piuttosto anonima, brava è invece la Connelly, una Betty Ross misurata e convincente. Il film ha avuto meno successo del previsto (tanto che l'imminente sequel dovrebbe presentare un tono completamente diverso e costituire una sorta di nuovo inizio, inglobando ufficialmente Hulk nel Marvel Cinematic Universe) ma tutto sommato riesce a sfruttare adeguatamente le non troppe potenzialità del personaggio.

Vampire effect (Dante Lam, 2003)

Vampire effect, aka The twins effect (Chin gei bin)
di Dante Lam – Hong Kong 2003
con Ekin Cheng, Charlene Choi
*1/2

Visto in DVD.

Ekin Cheng è un giovane cacciatore di vampiri con la tendenza a innamorarsi delle sue assistenti (come l'inesperta Gillian Chung), mentre sua sorella Charlene Choi si invaghisce proprio di un principe vampiro (Edison Chen), naturalmente buono, che si rifiuta di succhiare il sangue degli esseri umani (preferisce berlo direttamente dalla bottiglia!) e che deve fronteggiare un malvagio rivale europeo. Un filmettino senza troppe virtù e rivolto a un pubblico adolescenziale, salvato in parte dalla partecipazione speciale di Jackie Chan nei panni dell'autista dell'ambulanza (nonché da quelle della sempre esilarante Karen Mok, la sposa ubriaca, e del fascinoso e autoironico Anthony Wong, il braccio destro del vampiro buono: stendiamo invece un velo pietoso sulle qualità recitative dei giovani protagonisti) e da un certo tono da date comedy nella parte centrale che gli impedisce di prendersi troppo sul serio. Donnie Yen figura come co-regista (immagino abbia diretto le scene d'azione, che peraltro fanno ampio uso di effetti speciali). Curioso scoprire come la tipologia di vampiro "all'occidentale" e alla Anne Rice abbia scalzato quella tradizionale (che ricordava più uno zombi) anche in oriente.

19 maggio 2008

Heimat 2 (Edgar Reitz, 1992)

Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza (Die zweite Heimat - Chronik einer Jugend)
di Edgar Reitz – Germania 1992
film in tredici episodi
****

Visto in DVD, con Martin, in originale con sottotitoli.

Con Henry Arnold (Hermann Simon), Salome Kammer (Clarissa Lichtblau), Anke Sevenich (Schnüsschen), Noemi Steuer (Helga), Daniel Smith (Juan), Gisela Müller (Evelyne), Michael Seyfried (Ansgar), Armin Fuchs (Volker), Martin Maria Blau (Jean-Marie), Michael Schönborn (Alex), Lena Lesing (Olga), Peter Weiss (Rob), Frank Röth (Stefan), Laszlo I. Kish (Reinhard), Franziska Traub (Renate), Hannelore Hoger (Frau Cerphal), Holger Fuchs (Bernd), Edith Behleit (la madre di Clarissa), Manfred Andrae (Gerold Gattinger), Michael Stephan (Clemens), Hanna Köhler (Frau Moretti), Franziska Stömmer (Frau Ries), Susanne Lothar (Esther), Anna Thalbach (Trixi), Carolin Fink (Kathrin), Alexander May (console Handschuh).

"Il titolo non indica la prosecuzione di Heimat, bensì quel luogo che scegliamo da adulti e nel quale decidiamo di fermarci, e che chiamiamo la seconda patria... Siamo nati due volte, una volta dalle nostre madri e una volta per nostra libera scelta... Il lavoro, le amicizie e la famiglia che ci formiamo sono le caratteristiche di questa patria d'elezione. Essa si fonda sulla nostra decisione. Ma l'amore, l'amicizia, il lavoro sono valori che si disgregano facilmente. Nella seconda patria si vive su un suolo incerto. La nostra tensione verso la libertà è irrinunciabile, ma pericolosa per ogni legame. La seconda patria è sempre una cosa provvisoria".
(Edgar Reitz)

Se il primo "Heimat" aveva l'impronta della saga storico-familiare, questa seconda e altrettanto eccezionale opera (26 ore divise in 13 episodi, la cui durata stavolta è più regolare e omogenea: circa due ore l'uno) non si concentra più sulle vicende di un intero popolo quanto su quelle di una singola generazione, quella composta da coloro che avevano vent'anni durante i turbolenti anni '60. "Cronaca di una giovinezza", recita infatti il sottotitolo: è la gioventù di Hermann Simon, che a 19 anni lascia il suo villaggio natale per trasferirsi a Monaco a studiare musica (proprio come Reitz aveva fatto per andare a studiare cinema: il film è decisamente autobiografico). Il titolo originale, "la seconda patria", si riferisce alla scelta di abbandonare le proprie radici per cercare di formarsi una nuova vita, la "propria" vita, lontano da casa (per nessuno dei numerosi personaggi questo concetto è estremo quanto per Juan, fuggito addirittura dal Cile). La città bavarese, il luogo eletto per questa (ri)fondazione da parte di un gruppo di giovani artisti e intellettuali, fa così da sfondo a un film-fiume avvincente e trascinante, un romanzo di formazione (Bildungsroman) che alterna ancora una volta scene a colori e in bianco/nero, fra ideali e contraddizioni, evoluzioni e drammi. Ogni episodio è dedicato a un diverso personaggio che ne è il filo conduttore e quasi sempre lo introduce con la sua voce narrante (insieme, di volta in volta, a quella di Hermann). Sono assenti invece i riassunti degli episodi precedenti. Tredici film (dedicati a dodici personaggi) possono sembrare tanti, eppure ci sono anche figure che attraversano tutta la saga con notevole risalto senza avere un episodio loro dedicato (Renate, Olga, Volker, Jean-Marie).
Ondeggiando continuamente fra pubblico e privato, fra vicende personali e cambiamenti sociali e storici, il film è sostenuto da una regia attenta e multiforme e soprattutto da un'elevatissima intensità emozionale. Non c'è mai la sensazione di un assestamento, i personaggi sembrano continuamente in mezzo a un guado di trasformazioni ed evoluzioni dinamiche che potrebbero portarli ovunque. Se il valore del primo "Heimat" stava nell'insieme, ovvero nel quadro generale che risultava dalla somma delle sue parti, il secondo eccelle di più nei singoli episodi, molti dei quali sono a tutti gli effetti film autosufficienti e compiuti in sé stessi. "Heimat 2" è anche un'opera molto più "politica" della precedente: lì gli eventi storici venivano subiti passivamente, qui invece si ha spesso la sensazione che i personaggi facciano del proprio meglio per plasmarli o almeno per comprenderli e farne parte in modo più tangibile e consapevole.
Gli attori sono bravissimi, a partire dal protagonista Henry Arnold (che negli extra presenti nel cofanetto di DVD dimostra di padroneggiare un ottimo italiano): volti poco noti ma quasi tutti perfetti nel dare vita a una serie di personaggi che, con il passare del tempo, sembra davvero di conoscere da una vita. La differenza con prodotti quali telefilm, soap opera e telenovelas, naturalmente, sta nel fatto che questi personaggi evolvono, crescono e cambiano con il tempo, senza rimanere immutabili per scelta di marketing come nel caso di molte serie viste sul piccolo schermo.
Qualche parola va spesa anche sulla colonna sonora, molto più importante rispetto al primo "Heimat", visto che gran parte dei protagonisti sono appunto musicisti. Il compositore Nikos Mamangakis ha realizzato una serie di brani originali (per piano, violoncello, flauti, percussioni, orchestra o voci soliste) che brillano per varietà, stile e sperimentazione, ricostruendo perfettamente l'ambiente d'avanguardia di quegli anni. Spesso i brani – che sono stati raccolti in un cofanetto di quattro imperdibili CD (uno per "Heimat", tre per "Heimat 2") – sono stati eseguiti direttamente dagli attori, che Reitz ha scelto anche in base alle loro capacità musicali.
In Germania, a differenza che in Italia, "Heimat 2" ha riscosso meno successo della prima parte, che aveva raccolto attorno a sé un popolo che sentiva l'esigenza di recuperare la propria memoria storica e collettiva: secondo il regista, l'ottimo riscontro ottenuto dall'opera nel nostro paese si deve forse alla maggior affinità degli abitanti mediterranei verso il tema dei giovani artisti e quello del distacco volontario dalle proprie radici familiari.

1 – L'epoca delle prime canzoni (Hermann, 1960)
Il primo capitolo di questa nuova saga si apre e si chiude con una lettera di Klärchen a Hermann e si ricollega direttamente al nono episodio del primo "Heimat", di cui riprende addirittura alcune sequenze (anche se l'attore che interpreta il protagonista è cambiato). Deluso dalla madre Maria e dal fratello Anton, che hanno distrutto il suo primo amore, il giovane Hermann fa a sé stesso tre promesse che cambieranno la sua vita. Primo: non amare più nessuna donna; secondo: andare via da Schabbach per sempre; terzo: dedicare tutto sé stesso all'arte ("La musica sarà la mia seconda patria"). E difatti, non appena si diplomerà nel 1960, lascerà il villaggio per recarsi a Monaco di Baviera a studiare al conservatorio, con l'obiettivo di diventare un compositore. I primi passi nella grande città non sono privi di ostacoli, ma Hermann sembra baciato dalla fortuna: riesce subito a trovare un alloggio (anche se si libererà solo il mese dopo) nella casa di Frau Moretti, corpulenta immigrata ungherese appassionata di canto, e nel frattempo viene ospitato prima dalla timida Renate, studentessa di legge conosciuta per caso, e poi dal compaesano Clemens, batterista jazz, in un appartamento presso una rivendita di carbone; si fa rapidamente alcuni nuovi amici (fra i quali spicca Juan, musicista cileno, giocoliere e poliglotta, che conosce undici lingue, "dieci più la musica"); e soprattutto supera il difficile test di ammissione alla scuola. La città è scossa dalla febbre del nuovo: i giovani studenti di musica, di arte e di cinema si lanciano nelle sperimentazioni e sognano di cambiare il mondo. Hermann conosce Clarissa, affascinante violoncellista della quale si innamora a prima vista, ma anche altri musicisti avanguardisti più anziani di lui (Jean-Marie, direttore d'orchestra, e Volker, compositore) e persino un gruppo di cineasti (Stefan, Reinhard, Rob) che si professano amanti della Nouvelle Vague ("bisogna girare nelle strade, fuori dagli studi e dentro la vita"!). Vergognandosi del suo accento dell'Hunsrück, che lo lega ancora alla "prima patria", cerca di perderlo rapidamente frequentando un corso di dizione.

2 – Due occhi da straniero (Juan, 1960/61)
Mentre Hermann è vittima di una serie di inaspettate vicissitudini (l'appartamento che avrebbe dovuto ospitarlo non si libera più, e così è costretto a rimanere da Clemens; gli viene rubata la valigia contenente tutte le sue composizioni; è preda di una violenta febbre che lo lascia debilitato per parecchi giorni), l'episodio segue le vicende di Juan, che nonostante le sue fin troppe capacità ha fallito l'esame di ammissione al conservatorio ed è indeciso se rimanere a Monaco o ripartire. Innamorato a sua volta di Clarissa, Juan accompagna la ragazza in una breve visita nella sua città natale: anche lei però è in cerca di una "zweite Heimat" e manifesta con tutta la forza il desiderio di staccarsi da quella terra. Per racimolare qualche soldo, Juan, Hermann e altri compagni si esibiscono come musicisti in una villa dell'alta borghesia, mentre il loro gruppo di giovani artisti comincia ad attirare l'interesse di alcuni intellettuali della città: in particolare vengono ospitati dalla signora Cerphal, ricca ereditiera che "colleziona artisti come se fossero francobolli". Hermann riceve anche la visita inaspettata del suo professore del liceo di Simmern, giunto a Monaco con una delle sue studentesse, la giovane Marianne, con cui ha una relazione clandestina: il loro rapporto fa tornare alla mente di Hermann la sua storia con Klara. Nonostante la promessa di non innamorarsi mai più (che non gli impedisce di passare una notte con Renate), il ragazzo non può negare la forte attrazione che prova per Clarissa: ricambiata, perché i due sanno di essere molto simili l'uno all'altra. Di sfuggita incontriamo alcuni nuovi personaggi: l'attrice Olga, amica del regista Stefan, l'intellettuale Alex e lo studente di medicina Ansgar, con il quale Hermann lavora per un breve periodo alla ARRI (storica fabbrica di obiettivi e di macchine da presa). Nel finale, ricoperto dalla prima neve dell'inverno, Edel muore assiderato. Era il filosofo ubriacone incontrato da Hermann in treno nel primo episodio: già pensavamo che ci avrebbe accompagnato per tutta la saga, come una sorta di novello Glasisch.

3 – Gelosia e orgoglio (Evelyne, 1961)
È il bellissimo episodio con cui anche questo secondo "Heimat" mi ha definitivamente conquistato. Introduce un nuovo personaggio, Evelyne, nipote di quella signora Cerphal che ospita frequentemente nella sua villa, la Fuchsbau (la "tana della volpe"), i giovani artisti di Monaco (compresi Hermann, Clarissa e Juan). Anche Evelyne, dopo la morte del padre e la scoperta di non essere figlia della donna che fino ad allora aveva considerato sua madre, decide di abbandonare il proprio luogo di origine (il paesino di Neuburg sul Danubio) per trasferirsi a Schwabing, il quartiere universitario di Monaco. Ospite della zia, progetta di studiare musica e di cercare notizie sulla sua vera madre, morta durante la guerra. Nella villa entra in contatto con il gruppo di artisti, affascina tutti (soprattutto Hermann) con il proprio canto e la voce bassa e calda, e si innamora – ricambiata – del cinico Ansgar. Quasi tutta la prima parte dell'episodio si svolge in una sola nottata (e non a caso nei dialoghi si accenna a "La notte" di Antonioni, appena uscito al cinema): nella villa viene proiettato un documentario sperimentale di Stefan, Rob e Reinhard e abbiamo l'occasione per conoscere meglio altri componenti del gruppo di artisti: fra questi c'è Helga, poetessa che improvvisa composizioni sul suono delle parole. Interessante è anche il personaggio di Gerold Gattinger, amministratore della villa, che i ragazzi sospettano di un passato da nazista (e l'ombra del nazismo si stende anche sulla ricchezza dei Cerphal: la casa apparteneva originariamente a un ebreo, Goldbaum, amico di famiglia). Anche Renate, che confessa di avere velleità artistiche da cantante o da attrice, comincia a frequentare il gruppo. Hermann ha una lite con Juan, geloso del suo rapporto con Clarissa, la quale a sua volta abbandona la festa in un moto d'orgoglio dopo aver assistito a un bacio fra Hermann e Helga. L'amore fra Clarissa e Hermann (che compone per lei un concerto per violoncello) è ormai evidente: se lo dichiarano reciprocamente in due lettere scritte in fretta e furia, che forse non verranno mai lette dai rispettivi destinatari. Il giorno seguente Evelyne e Ansgar ripercorrono il tragitto compiuto dai genitori della ragazza nel giorno in cui lei era stata concepita. Nel frattempo viene innalzato il muro di Berlino. L'episodio si chiude con i giovani cineasti che attaccano ovunque adesivi con il loro slogan rivoluzionario: "Papas Kino is tot", "il cinema dei padri è morto" (il motto del manifesto di Oberhausen, di cui faceva parte lo stesso Reitz).

4 – La morte di Ansgar (Ansgar, 1961/62)
Se la relazione romantica fra Ansgar ed Evelyne sembra essere diventata un punto di riferimento per tutti loro amici ("Il loro amore aveva il sapore dell'eternità"), quella fra Hermann e Clarissa continua a essere incompiuta e tormentata. La ragazza, che si assenta da Monaco per quasi due mesi, viene celebrata come una nuova stella del firmamento musicale quando vince un concorso di violoncello e suona addirittura alla radio il concerto composto per lei da Hermann, il cui nome non viene invece nemmeno menzionato dai critici musicali. Il ragazzo soffre a rimanere nell'ombra, nonostante abbia ricevuto la lettera che Clarissa gli aveva spedito nell'episodio precedente. Clarissa suona ora con un antico strumento italiano donatole dal Dottor K., un misterioso personaggio di mezza età invaghito di lei (scopriremo più avanti che si tratta del dottor Kirchmeier, amico di famiglia). Nel frattempo alla "tana della volpe" la vita continua: Reinhard gioca con un fucile dichiarando il proprio amore per il cinema western, Olga non riesce a rassegnarsi all'idea di essere stata lasciata da Ansgar e si affida pericolosamente alle droghe, Helga presenta al gruppo la sua amica d'infanzia Dorli. Hermann, che mette in scena una composizione goliardica e virtuosistica per Frau Moretti, deve abbandonare l'appartamento che divideva con Clemens perché Josef il carbonaio ha cessato la sua attività e viene infine accolto a dimorare direttamente in casa Cerphal. Ansgar, dopo aver cacciato a male parole i genitori bacchettoni e possessivi che erano venuti a trovarlo (e che continuavano a lodare i suoi tentativi giovanili di diventare un artista), muore infine – come rivelato dal titolo spoileroso – in un banale incidente: il suo piede rimane agganciato a un tram nel quale prestava servizio come controllore. La morte aveva sempre aleggiato su di lui, nei suoi discorsi cinici e nell'immagine dello scheletro che faceva mostra di sé in casa sua (ricordiamoci che studiava medicina!). È Evelyne a portare la tragica notizia agli amici, interrompendo una festa di carnevale. "Adesso abbiamo i nostri primi morti a Monaco", commentano Hermann e Juan al cimitero. La seconda patria comincia ad avere solide e tristi fondamenta.

5 – Il gioco con la libertà (Helga, 1962)
Questo episodio molto bello e pieno di tensione si incentra quasi esclusivamente su Hermann e Helga (gli altri personaggi compaiono brevemente soltanto nel finale), il cui rapporto sembra farsi sempre più stretto. Mentre Hermann dà lezioni private di pianoforte al piccolo Tommy, figlio di un'eccentrica e facoltosa coppia che lo invita a trascorrere con loro le imminenti vacanze al mare (siamo infatti all'inizio dell'estate), lui e Helga rimangono coinvolti nei disordini della Leopoldstrasse a Schwabing, con la polizia che si scaglia contro gli studenti e i suonatori ambulanti. Di fronte ai tumulti, i ragazzi acquisiscono di colpo consapevolezza dell'intolleranza che serpeggia fra la borghesia nei confronti della gioventù e delle novità, e Reitz ne approfitta per mettere in scena una forte perturbazione atmosferica che riflette i moti dell'animo dei personaggi. Presa da un'inspiegabile nostalgia, Helga fa ritorno al suo paese d'origine, Dulmen, dove facciamo la conoscenza dei suoi genitori (e per l'ennesima volta capiamo perché i personaggi di "Heimat 2" scelgano di abbandonare i luoghi natali: l'insofferenza di Helga per i valori borghesi, ottusi e reazionari del padre è manifesta). Più tardi a Dulmen ci capita anche Hermann, in fuga da Monaco dopo uno scontro con la polizia nel quale ci ha rimesso la chitarra e diretto verso il mare, deciso ad accettare l'offerta dei genitori di Tommy. Il ragazzo, che continua a riscuotere un notevole successo con le donne, viene ospitato da Helga e dalle sue amiche Dorli e Marianne, con le quali si dedica a un festino notturno a base di dolci, musica e baci. Ma nonostante sia Helga a dichiarargli il proprio amore, Hermann preferisce passare la notte con Marianne, sposata e con due figlie, che con i suoi undici anni in più non può non ricordargli Klara. Il ritorno alla Fuchsbau, a fine episodio, è come l'uscita da un sogno, al termine del quale riappare Clarissa con i polsi fasciati per il troppo esercizio con il violoncello.

6 – Noi figli di Kennedy (Alex, 1963)
Un altro magnifico episodio, che si apre con uno struggente lieder e si svolge completamente nell'arco di una sola giornata, il 23 novembre 1963, data dell'assassinio di J.F. Kennedy (a confermare una volta di più come l'intreccio fra le vicende private e quelle pubbliche permei tutta la saga di Reitz). Se a Dallas splende il sole, a Monaco piove e le cornacchie volano basse nel cielo plumbeo. Il filo conduttore del capitolo è un personaggio di cui finora sapevamo ben poco: Alex, filosofo squattrinato ed eterno studente, pur essendo il più anziano del gruppo. Solitamente dorme fino a mezzogiorno perché è convinto che i peggiori crimini dell'umanità vengano commessi di mattina, ma stavolta si sveglia presto, deciso a "mettere alla prova" i suoi amici cercando – inutilmente – di ottenere un prestito da ciascuno di loro. Alla fine sarà il destino a fargli trovare 150 marchi abbandonati da uno sconosciuto in una cabina telefonica. Il momento è delicato: il gruppo sta mostrando alcune crepe (forse cominciate dopo la morte di Ansgar: a proposito, che fine ha fatto Evelyne, che non si vede più da allora?), un albero morto si abbatte sulla veranda della Fuchsbau e le sue fronde penetrano nella stanza di Hermann. La signora Cerphal medita addirittura di vendere la villa. Hermann affigge per le strade i manifesti del suo prossimo concerto, dal quale ha dovuto eliminare la parte per violoncello perché Clarissa si è tirata indietro. La ragazza ha i suoi problemi: è incinta, chiede del denaro a Hermann per abortire (senza rivelargli il motivo) e poi mette Volker e Jean-Marie di fronte ai fatti: il figlio è di uno di loro, ma lei non ama nessuno dei due. L'aborto clandestino (in Germania l'interruzione di gravidanza era ancora vietata) avverrà in uno squallido studio di un medico fuori città. Nel frattempo a Monaco è giunta Waltraud, detta Schnüsschen, compaesana dell'Hunsrück ed ex compagna di liceo di Hermann (era la ragazza che gli aveva insegnato a baciare a 15 anni, nell'ottavo episodio del primo "Heimat"!). Ora fa la guida turistica e porta a spasso un torpedone di americani. Alex, nel suo girovagare, giunge sul set dove il trio dei giovani cineasti sta girando il remake di una scena de "La notte" di Antonioni. Stefan (regista) e Reinhard (sceneggiatore) litigano furiosamente su alcune scelte artistiche (faranno più tardi la pace davanti a una pentola di gulasch). Olga, raffreddata, si autoscatta delle foto in costume da bagno da inviare a Roma per un provino, poi discute con Helga (che continua a struggersi d'amore per Hermann) di genio e mediocrità, aiutandola a chiarirsi le idee nella maniera più crudele. Juan cucina empanadas per Hermann e Schnüsschen, poi vanno tutti e tre al cinema a vedere il monumentale "Cleopatra" di Joseph L. Mankiewicz. Ma lo spettacolo viene interrotto dal direttore della sala per annunciare la notizia della morte di Kennedy (proprio come all'inizio di "Evita": mi sono chiesto se oggi potrebbe ancora accadere una cosa del genere, e mi sono risposto di no). Alex e Stefan si recano da Helga per informarla dell'attentato, scoprono che ha tentato il suicidio ingerendo dei barbiturici e riescono a salvarla. Renate canta l'aria di Barbarina dalle "Nozze di Figaro" e fa amicizia con Bernd, l'organizzatore delle riprese sul set del film di Stefan. Alla fine tutti (tranne Clarissa) si ritroveranno storditi e affranti alla Fuchsbau a riflettere sugli avvenimenti della giornata.

7 – I lupi di Natale (Clarissa, 1963)
Ancora un capitolo molto intenso, che finalmente riporta Clarissa al centro dell'attenzione. Sono trascorsi soltanto pochi giorni dalla conclusione dell'episodio precedente e la ragazza, che deve continuare a fare i conti con la tipica tendinite dei violoncellisti, si ammala e viene ricoverata all'ospedale per una setticemia: si tratta di una conseguenza del suo aborto clandestino, che così viene alla luce, suscitando la riprovazione della madre che accusa lei di essere un'assassina e Volker, giunto a trovarla in ospedale, di avere le responsabilità dell'accaduto. Nel frattempo Hermann dirige finalmente il suo concerto, nel quale Evelyne canta e il violoncello di Clarissa è in scena muto e ricoperto da un telo. Le dinamiche del gruppo continuano ad agitarsi e a dare vita a nuove coppie: Renate e Juan (ma tutto lascia intendere che non funzionerà: Juan, che annuncia ancora di voler tornare in Cile, è troppo franco e irritante per la ragazza), Helga e Stefan (che trascorrono la notte di Natale in una baita fra le montagne, ma anche in questo caso il legame non promette bene: lei – sempre più interessata alla politica – è troppo polemica e "complicata" per lui) e soprattutto Hermann e Schnüsschen: al ragazzo sembra di trovare in lei (che rappresenta ormai il suo unico legame con l'Hunsrück) quel calore e quella semplicità che non vede nelle artiste sofisticate e metropolitane come Clarissa e Helga. Dopo il concerto, nessuno va alla Fuchsbau per festeggiare, e Hermann ci rimane male ("Non si fa musica solo per sé stessi"). A Natale, Clarissa – che sta leggendo "L'uomo senza qualità" di Musil – si taglia i capelli e fugge dall'ospedale. Dopo aver cercato inutilmente Jean-Marie e Volker (sono entrambi a Strasburgo, il secondo ospite nella villa del primo), si reca da Hermann e lo trova solo e infreddolito perché ha finito il carbone per la stufa. Hermann si ferisce la mano sfasciando la staccionata della villa per procurarsi legna da ardere e annuncia a Clarissa che sta meditando di sposarsi con Schnüsschen. I due giovani ammettono di amarsi ma anche di non poter fare a meno di fuggire l'uno dall'altro, e infine si coricano affiancati, come due lupi che dormono insieme senza sbranarsi.

8 – Il matrimonio (Schnüsschen, 1964)
Se la problematica Clarissa (nella cui mente la musica e il trauma dell'aborto si fondono dando vita a sogni surreali e angoscianti) è ormai fonte per lui di incubi e inquietudini, la compagnia di Schnüsschen rappresenta invece per Hermann – che non torna a casa da quattro anni e afferma di non sentirne la mancanza – un mezzo per placare quella nostalgia inconfessata verso la prima patria e verso un mondo semplice e sereno che a Monaco, nonostante le soddisfazioni intellettuali, sembra mancare. Dopo aver trascorso il capodanno del 1964 nel caldo ambiente familiare, a maggio Schnüsschen convince Hermann a passare una serata con lei come babysitter per i bambini di una coppia di ricchi amici, Rolf ed Elisabeth (una fotografa dilettante), fra dischi dei Beatles e arredi giapponesi. Vista la sintonia che sembra unirli e sperimentati i piaceri della vita familiare, i due decidono di cercare un appartamento in affitto per vivere insieme: pur di ottenerlo dichiarano di essere in procinto di sposarsi, ma ben presto da semplice scherzo l'idea assume contorni concreti. Il 22 luglio Hermann e Schnüsschen si uniscono in matrimonio, con una cerimonia civile! Lo stesso giorno, Clarissa si trova a Parigi per un provino che, superato, il mese successivo la condurrà a suonare in America. Ma nel frattempo la ragazza rientra velocemente a Monaco per presentarsi alla Fuchsbau alla cena di nozze dell'amico, proprio quando ormai nessuno pensava di rivederla (il suo posto a tavola era stato naturalmente predisposto in mezzo a Jean-Marie e Volker, "la santa trinità"). Durante la festa c'è un breve ritorno alle atmosfere dell'Hunsrück (se Hermann non va a Schabbach, è Schabbach a venire da lui: dal lontano paese giungono infatti – insieme a una nipotina – la zia Pauline e la prozia Marie-Goot, interpretate dalle stesse attrici del primo "Heimat"!), si rivedono anche Clemens e Bernd, mentre nel gruppo degli amici ci sono nuovi assestamenti: Renate ha ormai adocchiato definitivamente Bernd; Frau Moretti si interessa all'anziano dottor Bretschneider; Evelyne si presenta con un ragazzo africano di colore che aveva incontrato nell'episodio precedente; Juan arriva con una bionda finlandese, Anniki, che però sembra gradire il corteggiamento di Rob lasciando il cileno nella sua inquieta e pensierosa solitudine; Helga si concede letteralmente al primo venuto, Wladimir, trombettista della banda musicale di Clemens, scatenando la gelosia e il rancore di Stefan; Reinhard gioca con Olga; Volker dichiara nuovamente il proprio amore a una Clarissa annoiata e sopraffatta dai rimpianti; Jean-Marie flirta con una cameriera. Dopo che gli sposi e i parenti hanno lasciato la villa per raggiungere il nuovo appartamento, le tensioni esplodono: Elisabeth e Rolf hanno un violento e inaspettato litigio; Juan tenta addirittura il suicidio con il fucile di Reinhard, che lo salva appena in tempo; Stefan, dopo una scenata con Olga e Wladimir, si azzuffa pure con Reinhard; e la signora Cerphal, stanca e delusa da tutti, minaccia di non voler più accoglierli in casa sua. È la fine di un'epoca?

9 – L'eterna figlia (La signorina Cerphal, 1965)
Da un anno Frau Cerphal ha ormai chiuso le porte della Fuchsbau ai suoi artisti, che si sono dispersi e hanno preso tutti strade diverse. La donna, delusa dalla gioventù, rimpiange di non essere nata nel Settecento ("A quei tempi contava soltanto il genio, a quindici anni come a cinquanta"). Solo Juan ha mantenuto il diritto di restare nella casa, ospite nella stanza che fu di Hermann, e viene impegnato in lavoretti lunghi e inutili come la pavimentazione del vialetto con un disegno di stampo precolombiano, nella speranza di sviare i suoi pensieri da un nuovo tentativo di suicidio. Con il suo silenzio e la sua franchezza (è lui a definire l'immatura Frau Cerphal con il termine che dà il titolo all'episodio), il sudamericano sembra comunque fuori posto ovunque si trovi. Per distrarlo, Alex lo conduce nel locale notturno aperto da Renate e Bernd (a tema marinaro: "Renate's U-Boot"), dove la ragazza – con entusiasmo e tanta faccia tosta – si esibisce come cantante e danzatrice. Qui scopriamo che Helga è in attesa di un figlio, che però non è di Stefan (presente nel locale in compagnia della sua montatrice Dagmar): forse di Wladimir? Frattanto Clarissa torna trionfalmente dall'America, ma il suo amato violoncello viene danneggiato durante il trasporto in aereo. Il dottor K. la accoglie con il consueto (e ambiguo) affetto, mentre la madre le rivela che Volker (da lei definito "depravato" solo due episodi prima) è diventato un pianista di successo e che dunque ora non vedrebbe più di cattivo occhio una loro relazione. In effetti Volker, che si è anche fatto crescere i baffi, è protagonista di un grande concerto nella sala dell'università dove esegue – sotto la direzione di Jean-Marie – il concerto per mano sinistra di Ravel. Anche il padre di Frau Cerphal può usare soltanto la mano sinistra (l'altra è paralizzata) per scrivere le sue ultime volontà dal letto d'ospedale: e ordina alla figlia di terminare gli studi se vuole ricevere l'eredità, ma anche di far sparire dal suo ufficio nella casa editrice di famiglia documenti e foto compromettenti che rivelano il suo coinvolgimento con il nazismo. Come avevamo intuito molti episodi fa, la Fuchsbau era di proprietà del socio ebreo di Cerphal, Goldbaum, che l'aveva intestata all'amico con la promessa di riprenderla dopo la guerra: ma Goldbaum e la figlia Edith – la miglior amica di Frau Cerphal – finirono a Dachau, e la casa non fu mai restituita ai loro eredi. In ogni caso, dopo la morte del padre (che avviene nell'esatto istante in cui la figlia spara – involontariamente? – un colpo di pistola contro la sua poltrona), Frau Cerphal si ritrova a fare i conti anche con il proprio passato, con i vent'anni (dalla fine della guerra a oggi) trascorsi senza far nulla, nella rimozione di ogni sentimento e di ogni esperienza "adulta", e decide di vendere la proprietà, che nel frattempo si era trasformata occasionalmente nel punto di ritrovo di Helga e della sua combriccola di attivisti politici.
È l'episodio in cui Hermann compare di meno, anche se scopriamo grandi novità che lo riguardano: ha terminato gli studi (e usa il diploma come pezzo di carta per ripararsi dalla pioggia), vive insieme alla moglie nel nuovo appartamento (hanno anche un inquilino) e da quattro mesi è padre di una bambina, evidentemente concepita durante quella notte a casa di Elisabeth e Rolf: scopriremo poi che si chiama Lulu, come il personaggio di Wedekind e Berg, ma in questo episodio la madre la chiama Simona. Schnüsschen teme che lei e la bambina possano distogliere Hermann dalla sua arte, senza capire che inconsapevolmente il ragazzo è proprio alla ricerca di una vita normale e "privata". In tutto l'episodio non incrocia mai i vecchi amici, mentre invece Schnüsschen incontra per strada Clarissa e le mostra con orgoglio la bambina. "È la figlia di Hermann?", chiede Clarissa. "Sì... e mia", replica Schnüsschen, più con orgoglio che con malizia.

10 – La fine del futuro (Reinhard, 1966)
Ennesimo bellissimo episodio. Un altro anno è passato, Reinhard e Rob sono appena tornati da un lungo viaggio in Messico e in America del Sud, dove hanno girato un documentario, e scoprono che la "tana della volpe" è stata improvvisamente demolita, nel corso di una sola notte, da alcuni speculatori edilizi. A Reinhard (che soffre anche per la "Vendetta di Montezuma") la cosa non va giù: il passato sembra ridimensionarsi (la villa era così piccola?), il presente è sfuggente e irrappresentabile, il futuro arriva troppo in fretta. Da buon documentarista decide così di fare qualcosa per salvare la memoria, scrivendo una sceneggiatura sulla scomparsa della casa (per la quale Hermann ha composto un bizzarro requiem che offre agli amici una delle rare possibilità di tornare a incontrarsi davanti alle macerie). Volendo rintracciare Frau Cerphal per chiederle un finanziamento, il cineasta si reca a Venezia dove vive nientemeno che Esther Goldbaum, figlia del nazista Gerold Gattinger e dell'ebrea Edith, l'amica di famiglia che era morta a Dachau. Fra Reinhard e la ragazza, che lavora come fotografa d'arte, scocca la scintilla. Mentre apprendiamo che la signora Cerphal ha perso tutto il denaro ricavato dalla vendita della casa in un investimento sbagliato, Reinhard si trattiene a Venezia per diverse settimane fino a quando non ha terminato la sceneggiatura, che ora verte completamente sulla storia di Esther. Le scene che Reitz ambienta nella città italiana sono belle e ricche di fascino, sospese fra atmosfere da noir americano (cui contribuisce la figura massiccia di Reinhard in canottiera che lavora alla macchina da scrivere), decadenti e viscontiane. Nel frattempo Hermann e Schnüsschen non sono gli unici ad aver sperimentato le "gioie" della paternità: anche Helga ha dato alla luce una bambina, e soprattutto lo ha fatto Clarissa, che ha donato un figlio (Arnold) a Volker, benché i due non siano ancora sposati. Naturalmente né Helga né Clarissa sono madri perfette: la seconda, in particolare, sente il proprio bambino come un perfetto estraneo e confessa ancora una volta (alla madre e a sé stessa) di non amare affatto Volker. Juan annuncia per l'ennesima volta la sua intenzione di lasciare la Germania, Renate si esibisce nuda in una vasca nel suo locale (dove risuonano le note di "Yesterday" e Alex prosegue il suo vuoto filosofeggiare), mentre Olga si appresta a recitare il ruolo di protagonista nel film di Reinhard, mandando su tutte le furie la quindicenne Trixi, sorella della montatrice Dagmar, che si illudeva di farlo lei e che aveva una cotta per Reinhard. L'episodio si conclude però con una misteriosa e inaspettata tragedia, in qualche modo preannunciata dall'acqua alta che allagava piazza San Marco al momento della partenza del cineasta per la Germania: prima di poter iniziare le riprese del suo film, Reinhard scompare cadendo da una barca nelle acque dell'Ammersee, e la polizia e i sommozzatori cercano inutilmente le sue tracce.

11 – L'epoca del silenzio (Rob, 1967/68)
Rob non ama le parole, preferisce comunicare con i silenzi, le immagini e lo sguardo: per questo motivo ha scelto di diventare cameraman. All'inizio dell'episodio lo troviamo sulle rive dell'Ammersee, dove risiede la sua famiglia, mentre va a caccia con il padre, un guardiaboschi. Qui incontra Esther, giunta da Venezia per fotografare il lago, ovvero la tomba di Reinhard ("ora è diventato lui stesso una storia"). In seguito vedremo la ragazza recarsi con il padre Gerold a Dachau (in un inutile pellegrinaggio nel luogo dove è morta la madre), poi alla casa editrice di famiglia (dove Frau Cerphal sta facendo scrivere a due studenti la propria tesi di laurea) e infine ad "ammirare" l'orribile condominio costruito al posto della Fuchsbau (Gerold possiede i due piani superiori e promette di lasciarle in eredità tre o quattro appartamenti). Hermann intanto se la passa male dal punto di vista economico e ha ripreso a suonare nei locali con il gruppo di Clemens: non compone da tempo e non vede più gli amici, tranne Helga che ogni tanto gli piomba in casa con la sua cricca di attivisti politici della sinistra alternativa, fra i quali spicca la bella Kathrin. Ma una sua vecchia composizione per un documentario pubblicitario vince un premio al festival di Cannes e gli dona un po' di notorietà. A questo punto si fa vivo un nuovo personaggio, il ricco e bizzarro console Handschuh, ex compositore e proprietario della Isarfilm, che vuole dare una possibilità creativa a giovani in vena di sperimentare. Handschuh si offre di costruire per Hermann uno studio di musica elettronica e gli propone di coinvolgere anche Rob nella progettazione del Varia-Vision, un'installazione audiovisiva che ambisce a diventare il cinema del futuro. Anche Helga vi collabora con alcuni testi, mentre Volker – non più baffuto – ci rimane male per essere stato escluso e critica la deriva stilistica di Hermann. Forse il suo rapporto con Clarissa, che nel frattempo ha sposato, non va così bene: Volker tenta addirittura un goffo approccio a Schnüsschen, che rifiuta, anche se a sua volta si sente sola. La ragazza si confida con Clarissa: non vede quasi mai Hermann, troppo impegnato con il suo lavoro, ma soprattutto si sente infelice e irrealizzata e confessa di avere sogni e aspirazioni artistiche di cui nessuno sembra accorgersi. Mentre Hermann tradisce per una notte Schnüsschen con Erika, la segretaria di produzione del Varia-Vision, Rob va in giro a riprendere immagini in compagnia di Zielke, anziano regista refrattario alle sperimentazioni che durante la guerra aveva girato pellicole di propaganda in Russia filmando le ritirate come fossero avanzate (non sarà mica quello che aveva Anton alle proprie dipendenze nel primo "Heimat"?). Nell'anniversario della morte di Reinhard, quasi tutti – comprese Dagmar e Trixi – si ritrovano sulla riva del lago. Il giorno dell'inaugurazione del Varia-Vision, invece, un corto circuito manda tutto all'aria e Rob rimane abbagliato dallo scoppio di una lampada. Riacquisterà la vista qualche giorno dopo, davanti all'Ammersee, mentre Esther su una barca fotografa "la tomba di Reinhard" in un ultimo tentativo di catturare una realtà sfuggente attraverso le immagini.

12 – L'epoca delle molte parole (Stefan, 1968/69)
Dopo un episodio dedicato alle immagini e ai silenzi, eccone uno dominato dal caos delle parole: sono gli anni della contestazione giovanile, caratterizzati da un'infinità di slogan, opinioni e discorsi politici. Ognuno vuole dire la sua, cresce la confusione, persino Helga inizia a sentirsi a disagio in compagnia dei suoi amici attivisti, forse perché sta meditando scelte ancora più radicali. Stefan è sempre stato un personaggio un po' superficiale, e anche nell'episodio a lui dedicato non viene particolarmente approfondito: forse c'è comunque poco da approfondire, visto che sembra rifiutare il confronto con gli altri per rifugiarsi in un'idea di genio creativo chiuso al mondo e alle emozioni esterne. Il film si apre con il suo viaggio in auto verso Berlino, attraverso la Germania Est, in compagnia di Olga. Lì lo attendono Bernd, Rob e il resto della troupe per iniziare a girare (con un finanziamento pubblico) il film tratto dalla sceneggiatura di Reinhard. Ma Stefan si attarda a fare mille modifiche al copione (forse per "intellettualizzare" le passioni di Reinhard) e nel frattempo la troupe, sobillata da Helga, inizia a discutere sul ruolo del regista come unico autore dell'opera e se non sia meglio un approccio collettivo e "democratico" al processo creativo. È tempo di cambiamenti e di rivoluzioni anche a Monaco, dove Clarissa – che ha rinunciato ormai definitivamente al violoncello – scopre la propria vocazione di cantante grazie a Camilla, un'amica americana hippy e con l'anima da "strega". Hermann invece lavora ormai da mesi nello studio del console Handschuch e ha prodotto musichette per commercial di successo. Per premiarlo, il console gli regala due mesi di tempo per dare liberamente sfogo alla propria arte senza doversi preoccupare di comporre musica su commissione. Ma l'irrequieto Hermann è in crisi creativa, si sente inadeguato: "I Beatles sono mille volte meglio di noi, la musica leggera ci ha sorpassato", si sfoga con l'assistente Gross. Inoltre il suo rapporto con Schnüsschen non va bene: la moglie, nel tentativo di realizzarsi pienamente e uscire da un ruolo che sente stretto, si è iscritta all'università, studia psicologia, collabora con un centro di recupero per tossicodipendenti e spesso porta in casa giovani poco raccomandabili. Il domicilio coniugale, che per Hermann doveva essere un'oasi di tranquillità, diventa caotico e quasi invivibile (a un certo punto ci capita persino Trixi, che ora frequenta un giovane drogato e che si impossessa delle chiavi per svaligiare l'appartamento). Dopo una furiosa lite con Schnüsschen, Hermann fugge impulsivamente a Berlino dove l'aveva invitato Kathrin, l'amica di Helga, e soggiorna con lei per qualche giorno in una comune, sperimentando droghe e sesso libero. Nel frattempo il film di Stefan non procede: e quando alcuni produttori americani gli offrono una forte somma per ritardare l'inizio delle riprese (vorrebbero a propria disposizione l'attore che deve interpretare la parte di Gattinger), il regista ne approfitta per mandare tutto all'aria e tornarsene a Monaco, con gran costernazione di Rob che ritiene così rotta la loro amicizia. Schnüsschen cerca Hermann ovunque, anche al locale di Renate (proprio nella notte in cui Neil Armstrong sbarca sulla Luna), ma quando il ragazzo – stordito dalla sua prima esperienza con gli stupefacenti – torna a casa, non la trova più. Il film si conclude con Hermann che parte con sua figlia Lulu per un viaggio in treno, rifugiandosi fra le montagne e difendendosi così dall'ondata di caos revisionistico ("il nazifascismo dei sentimenti").

13 – L'arte o la vita (Hermann e Clarissa, 1970)
Immerso nei rumorosi festeggiamenti dell’Oktoberfest, e dopo aver provato a sperimentare come un sordo percepirebbe la festa (in una scena che ne ricorda una analoga dell’episodio conclusivo del primo “Heimat”), il trentenne Hermann si sente irrealizzato e impotente e si ritrova improvvisamente a riflettere su quel che ne è stato della propria vita e del proprio talento. Eppure, prima l’anziano Zielke (che gli propone di fare società con lui, acquistando lo studio di musica sperimentale del console e mettendosi in proprio) e poi lo stesso Handschuch (che, essendo senza figli, vorrebbe “adottarlo” e lasciargli in eredità la casa di produzione) si dimostrano interessati alla sua giovinezza e ai suoi ideali. Indeciso sul da farsi, senza più alcun amico cui chiedere consiglio e tormentato da una nostalgia per l’Hunsrück mai sentita prima, il ragazzo – che nel frattempo si è separato da Schnüsschen, andata via con la figlia Lulu – decide impulsivamente di partire in treno sulle tracce di Clarissa, che si trova lontano da Monaco perché impegnata in un tour con l’amica Camilla (stanno mettendo in scena “La passione della strega”, uno spettacolo teatrale di sole donne nel quale lei canta l’agonia di una condannata dall’inquisizione). Lungo il suo viaggio attraverso la Germania, Hermann incrocia molti dei suoi amici degli ultimi dieci anni a Monaco. Veniamo così a conoscenza dei loro destini finali: Juan è diventato un saltimbanco in un circo; Alex, malato e alcolizzato, finisce con l’autodistruggersi; Renate, chiuso il suo locale, continua a esibirsi in giro per il paese con i suoi bizzarri travestimenti e con molto entusiasmo; Jean-Marie e Volker – abbandonato da Clarissa – allestiscono un balletto; Helga è diventata una pericolosa terrorista della banda Baader-Meinhof, ricercata dalla polizia, e si rifugia momentaneamente nell’appartamento di Stefan (che nel frattempo, apprendiamo, ha vinto un premio alla mostra del cinema di Venezia – proprio come Reitz – con il suo film “L’angoscia tedesca”): la mattina dopo, quando Helga se ne è già andata, le forze dell’ordine fanno irruzione nella casa e feriscono Stefan alle gambe; rivediamo brevemente persino la fotografa Elisabeth (separatasi a sua volta dal marito Rolf), che regala a Hermann un doloroso viaggio nella memoria con le fotografie della festa del matrimonio di sei anni prima (una sequenza che ricorda i bellissimi riassunti degli episodi del primo “Heimat”); Kathrin, solare come sempre; e Marianne, felice con le sue due figlie. Il girovagare di Hermann termina ad Amsterdam, dove raggiunge finalmente Clarissa (“ti ho sempre aspettato”), al cui spettacolo sono presenti anche Frau Cerphal e Gerold Gattinger. L’incontro fra i due giovani, che passano la notte insieme in una camera d’albergo, sublima nella passione e nell’amore i dieci anni di attesa (“potremo mai recuperarli?”). È la fine della lunga fuga di Hermann? No di certo, perché quando la ragazza gli chiede di attenderla mentre conclude gli ultimi impegni legati al suo tour, “i ritmi della seconda patria riprendono il sopravvento sulla quiete dei sentimenti” e lui si rende finalmente conto di non essere capace di aspettare, come invece hanno sempre fatto tutte le donne della sua vita a partire dalla madre Maria, il cui settantesimo compleanno è imminente. E dunque non gli resta altro che riprendere il treno e tornare finalmente a Schabbach, al suo luogo natale, alla “Heimat” da dove era partito dieci anni prima e dove lo attendono una vecchissima conoscenza, Glasisch (“Non sei cambiato per nulla, Hermännchen”), e la strada di campagna già vista innumerevoli volte. Lì finalmente potrà “imparare ad aspettare”.

18 maggio 2008

Sojux 111 - Terrore su Venere (K. Maetzig, 1960)

Sojux 111 - Terrore su Venere (Der schweigende Stern)
di Kurt Maetzig – Germania Est 1960
con Yoko Tani, Oldrich Lukes
**

Visto in DVD, con Martin.

Dopo aver scoperto un misterioso messaggio lanciato da Venere cinquant’anni prima, l’umanità organizza una missione spaziale esplorativa per raggiungere il pianeta. Gli astronauti, appartenenti a razze e nazionalità differenti e fra i quali spicca una scienziata giapponese la cui madre è morta a Hiroshima, scopriranno che il piano dei venusiani di distruggere la Terra con l’energia atomica ha invece provocato la loro estinzione. Tratto da un romanzo di Stanislaw Lem, è un film ingenuo e un po' noiosetto che pur non brillando né per tensione né per la caratterizzazione dei personaggi, è comunque interessante considerando l'anno di uscita e, soprattutto, la nazione di appartenenza (la Germania comunista): rimangono impresse, per esempio, le colorate scenografie del pianeta e il messaggio di pace e di collaborazione universale che anticipa a suo modo qualcosa di “Star Trek”. Girato in piena guerra fredda, si schiera decisamente contro la proliferazione delle armi nucleari. In Italia è stato rieditato con il titolo “Il pianeta morto” e ha subito pesanti e incomprensibili alterazioni, in particolare nel finale.

17 maggio 2008

Allegro non troppo (B. Bozzetto, 1977)

Allegro non troppo
di Bruno Bozzetto – Italia 1977
con Maurizio Nichetti, Maurizio Micheli
animazione tradizionale
***

Rivisto in DVD.

Usare i cartoni animati per illustrare la musica classica è sempre stata un'aspirazione di tutti gli animatori dotati di una certa “fantasia”. E cosa importa se ci aveva già pensato prima un certo Frisney... Pisney... Grisney...? Con il suo lungometraggio più celebre e popolare – e con la collaborazione di alcuni fra i migliori artisti e disegnatori italiani dell'epoca (Giuseppe Laganà, Walter Cavazzuti, Giovanni Ferrari, Guido Manuli...) – Bruno Bozzetto ha creato un'opera ironica e diseguale ma a tratti davvero affascinante, che regge assolutamente il confronto con l'illustre precedessore anche se non intende certo ricalcarne lo stile. Le sei sequenze animate (sette, se si conta anche il grottesco finale) sono introdotte e inframmezzate da scene con attori in carne e ossa, girate in un bianco e nero espressionista e ricche di toni surreali, nelle quali vediamo il produttore del film (Micheli) alle prese con l'organizzazione dello spettacolo: c'è un'orchestra composta da vecchiette decrepite, un burbero direttore spagnolo (Nestor Garay), una giovane sguattera (Maria Luisa Giovannini, alla sua prima e unica apparizione sullo schermo) e soprattutto un povero artista (Nichetti), schiavizzato e costretto a realizzare in tempo reale i disegni animati mentre l'orchestra sta suonando. Le gag di questi spezzoni live, ambientati sul palcoscenico del teatro Donizetti di Bergamo, spaziano dalla parodia felliniana ai dispetti in stile Stanlio e Ollio, ma naturalmente l'interesse principale del film sta nei segmenti animati, che presentano una notevole varietà di stili e atmosfere. Più che rappresentare graficamente la musica (come capitava nei pezzi più astratti di “Fantasia”), a Bozzetto interessa raccontare storie che abbiano i brani come sfondo. Nel Preludio al pomeriggio di un fauno di Debussy, un anziano satiro tenta inutilmente di correre ancora dietro alle giovani ninfe. La Marcia slava n. 7 di Dvořák è un divertente inno contro il conformismo. Il Bolero di Ravel (il segmento più ambizioso e più famoso del film) mostra l'evoluzione della vita (sulla Terra?) a partire da una bottiglietta di Coca-Cola abbandonata da un astronauta. Nel Valzer triste di Sibelius, un gatto malnutrito si aggira fra le rovine di un palazzo distrutto, ricordando con nostalgia la vita, gli oggetti e le persone che un tempo lo abitavano. Nel Concerto in do maggiore di Vivaldi, un'ape intenta ad abbuffarsi di polline viene disturbata da una coppia che amoreggia sull'erba. Nell'Uccello di fuoco di Stravinsky, infine, non essendo riuscito a tentare Adamo ed Eva, il serpente dell'Eden mangia la mela lui stesso e piomba nell'inferno del mondo moderno e del consumismo. Il mio episodio preferito è quello di Sibelius (impossibile trattenere le lacrime di fronte alle immagini melanconiche e nostalgiche del gatto), ma mi piacciono molto anche quelli di Ravel (che con i suoi dinosauri può ricordare La sagra della primavera di “Fantasia”) e di Dvořák (l'episodio in stile Bozzetto più puro).

Stringi i denti e vai (R. Brooks, 1975)

Stringi i denti e vai (Bite the bullet)
di Richard Brooks – USA 1975
con Gene Hackman, James Coburn
*1/2

Visto in divx.

All'inizio del novecento, un giornale organizza una grande corsa attraverso il west, con settecento miglia da percorrere a cavallo: vi partecipano nove concorrenti, fra i quali due vecchi amici che hanno combattuto a Cuba con Theodore Roosevelt (l'animalista Hackman e lo scommettitore incallito Coburn), un'ex prostituta che intende liberare il proprio uomo, condannato ai lavori forzati (Candice Bergen), un gentleman inglese, un messicano con il mal di denti, un giovane sbruffone e un anziano cowboy pieno di acciacchi. Un film lungo e meno divertente di quanto mi aspettassi: c'è da dire che comunque non amo molto le pellicole incentrate sulle corse (tipo i vari “Cannonball Run”). Il titolo si riferisce al bossolo di proiettile con il quale il messicano (che cura il suo dolore con pastiglie di eroina!) copre il dente malato. I vari concorrenti, pur in competizione fra loro, si aiutano a vicenda lungo il tragitto salvandosi dai vari pericoli che affrontano. Il film ha costituito probabilmente la fonte di ispirazione primaria per “Steel Ball Run”, la settima serie del manga "Le bizzarre avventure di JoJo".

16 maggio 2008

The Bird People in China (T. Miike, 1998)

The Bird People in China (Chugoku no chojin)
di Takashi Miike – Giappone 1998
con Masahiro Motoki, Renji Ishibashi
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Un impiegato di un'industria mineraria giapponese, inviato dai suoi capi in Cina per stimare il valore di una cava di giada da aprire in una sperduta regione montuosa del paese, e uno scontroso yakuza, che gli sta alle costole perché l'azienda ha contratto un forte debito con la mafia, percorrono in compagnia e di malavoglia una lunga e difficile strada che li conduce fino a un villaggio isolato dal resto del mondo. Qui, fra miti antichissimi e leggende che parlano di "uomini-uccello", rimangono affascinati in maniera diversa dall'esistenza tranquilla e dall'atmosfera fuori dal tempo che si respira, al punto da non essere più capaci di tornare alla loro vita precedente: l'impiegato perché conquistato da una giovane ragazza che discende da un paracadutista inglese della prima guerra mondiale, lo yakuza perché attratto da uno stile di vita pura e incontaminata. Si tratta dell'ennesimo film insolito per Miike, un regista che evidentemente vuole sorprendere con ogni suo lavoro: il tono da commedia on the road lascia presto il posto a un'ambientazione rarefatta e sospesa fra suggestioni fantastiche e surreali (la scuola di volo) e bucolico-realistiche (il ritorno alla natura). Bello e senza eccessi di poetismo, anche se non tutto è coerente. Fra le fonti di ispirazione, anche se è improbabile, mi piace pensare a "Orizzonte perduto" di Capra e soprattutto alle tante storie disneyane di Rodolfo Cimino su strani popoli che abitano sperdute vallate.

D.E.B.S. (Angela Robinson, 2004)

D.E.B.S. - Spie in minigonna (D.E.B.S.)
di Angela Robinson – USA 2004
con Sara Foster, Jordana Brewster
**1/2

Visto in divx.

Questo film non prometteva nulla di buono (l'ho visto solo per curiosità e per la presenza di Devon Aoki), e invece si è rivelato molto più interessante e originale del previsto. Certo, resta una pellicola un po' stupida, ma è salvata da un'ironia non banale che la rende sostenibile: in più i personaggi sono simpatici e i colpi di scena non mancano. Le D.E.B.S. sono un gruppo di spie e supereroine giovani e sexy, addestrate in una speciale accademia per difendere il mondo dalle minacce terroristiche. Ma quando fra Amy (la migliore della squadra) e Lucy Diamond (la perfida supercriminale) inaspettatamente scocca l'amore, tutte le regole andranno a farsi benedire. Il film è in realtà il remake e l'ampliamento di un cortometraggio che la regista esordiente Angela Robinson aveva realizzato l'anno precedente, presentandolo con grande successo a diversi festival: una parodia di "Charlie's Angels", dove le tipiche situazioni del film di azione/spionaggio e l'ambientazione high tech si fondono con il teen movie, fra complicazioni sentimentali e appuntamenti al buio con spietate killer russe. Il fatto che la Robinson sia effettivamente lesbica può spiegare l'importanza della storia d'amore fra "buona" e "cattiva" e la delicatezza con cui è stata rappresentata. Non male il cast, dove spicca la Brewster nei panni della supercriminale in crisi di affetti e con la fissa di voler distruggere l'Australia, ma anche Devon Aoki è esilarante come imperturabile ninfomane e fumatrice che parla (chissà perché) in francese, per non parlare dello "sgherro" Jimmi Simpson che fa il confidente sentimentale del suo capo.

14 maggio 2008

Il treno per il Darjeeling (Wes Anderson, 2007)

Il treno per il Darjeeling (The Darjeeling Limited)
di Wes Anderson – USA 2007
con Owen Wilson, Adrien Brody, Jason Schwartzman
**

Visto al cinema Apollo, con Hiromi.

Tre fratelli – Owen Wilson, il maggiore, con il volto segnato dalle conseguenze di un incidente in moto; Adrien Brody, intimorito dalla sua imminente paternità; e Jason Schwartzman, scrittore in crisi sentimentale – si ritrovano a bordo di un treno in India per compiere un "viaggio spirituale" e raggiungere la madre, che si è fatta suora ed è irreperibile sin dal giorno del funerale del padre, un anno prima. Proprio la figura del padre (rievocato attraverso le sue valigie colorate, l'automobile tedesca, i tanti oggetti di cui Brody si è appropriato, la dedica del libro di Schwartzman) sembra essere il collante che li unisce. Dopo "I Tenenbaum" (che non mi era piaciuto), Anderson prosegue nel descrivere le dinamiche di famiglie eccentriche e nel mettere in scena personaggi-macchiette privi di contatto con la realtà, anche se stavolta per fortuna i character da seguire sono di meno e il film è più compatto, simpatico e godibile. Ma rimane essenzialmente una pellicola superficiale, con personaggi sempre uguali a sé stessi e situazioni ripetute che da un certo punto in poi cominciano anche a stancare. I maggiori pregi, più che nella recitazione (gli attori sono bravi ma la sceneggiatura non offre particolari occasioni per brillare) o nella regia (che li mette sempre in posa, tutti e tre nella stessa inquadratura a beneficio delle locandine), stanno nell'ambientazione indiana. Ma ahimè, temo proprio che il cinema di questo Anderson non faccia per me: mi passa attraverso senza toccare alcuna corda. Piccolo cameo, all'inizio e alla fine, per Bill Murray. In sala il film era preceduto dal cortometraggio "Hotel Chevalier", che ne costituisce una sorta di introduzione, con l'incontro fra Schwartzman e Natalie Portman (bellissima con i capelli corti) in un albergo di Parigi.

American Splendor (Berman, Pulcini, 2003)

American Splendor
di Shari Springer Berman, Robert Pulcini – USA 2003
con Paul Giamatti, Hope Davis
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

A metà strada fra la commedia indie americana (ha vinto anche il gran premio della giuria al Sundance Film Festival) e il documentario biografico, questo interessante film – diretto proprio da una coppia di documentaristi – ha come protagonista Harvey Pekar, lo scrittore di una serie di fumetti underground (intitolati appunto "American Splendor"), illustrati a partire dal 1976 da diversi artisti (fra cui Robert Crumb) e ispirati alla sua vita privata. Pekar, che lavorava come impiegato all'ospedale per i veterali di Cleveland, è stato fra i primi a intuire che i comics potessero parlare anche della "noiosa" vita reale, e non soltanto di avventura, fantasia o supereroi: le vicende minimaliste dei suoi fumetti, non idealizzate e stemperate da una robusta dose di cinismo, ironia e anticonformismo, costituiscono l'ossatura di una pellicola quasi unica nel suo genere, che non si limita a riproporre semplicemente un adattamento delle pagine disegnate ma vi innesta sopra i retroscena della loro nascita, interviste all'autore, alla moglie e ai suoi amici, spezzoni di trasmissioni televisive come gli show di David Letterman al quale Pekar ha partecipato per diverso tempo come ospite regolare, riflessioni sulla vita e sull'arte, e naturalmente vignette e disegni tratte dalle pagine della serie principale e dal volume "Our cancer year", scritto insieme alla moglie per documentare le paure e il travaglio di una lunga malattia. Pekar, che fornisce anche la voce narrante in prima persona, commenta metacinematograficamente le scene nel quale il suo personaggio è interpretato da un bravissimo Paul Giamatti e le vicende della propria vita al quale fanno riferimento. Purtroppo il film, che vanta una regia e una costruzione narrativa fresca e originale che fonde continuamente finzione e realtà, a quanto mi risulta non è mai uscito in Italia.

13 maggio 2008

Batman begins (C. Nolan, 2005)

Batman begins (id.)
di Christopher Nolan – USA 2005
con Christian Bale, Liam Neeson
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

La nuova franchise cinematografica di Batman, che ha rinnovato il personaggio facendolo uscire dagli infantilismi barocchi del precedente ciclo di Burton e Schumacher, si apre con un cielo al tramonto sconvolto da stormi di pipistrelli. Dovendo ricominciare dalle origini, il talentuoso Nolan utilizza oltre un'ora di pellicola per narrare con uno stile lucido e cupo – e senza lesinare sorprese – come il giovane Bruce Wayne, sconvolto dalla morte dei genitori e dalla morsa di criminalità che avvolge Gotham, la sua città natale, abbia lentamente dato vita al suo terrificante alter ego. Il tema della paura è preponderante: è proprio il terrore che il protagonista vorrebbe incutere nel cuore dei suoi nemici a motivare la creazione del suo bizzarro travestimento. Tutti gli elementi caratteristici del personaggio vengono contestualizzati e presentati come tappe di un percorso che non può che sfociare nell'inevitabile risultato finale: la caverna sotterranea (scoperta sotto le fondamenta della villa di famiglia), la bat-mobile (un tank corazzato, non dissimile da quello descritto da Frank Miller ne "Il ritorno del Cavaliere Oscuro"), i molti gadget da battaglia (forniti da una sorta di "Q", interpretato da Morgan Freeman), le arti marziali e le tattiche da ninja (apprese dal mentore-rivale Ra's Al Ghul, un Liam Neeson che è anche il supercattivo dell'episodio). L'altro villain, tanto per insistere sul tema della paura, è lo Spaventapasseri, incarnato da un bravo Cillian Murphy che quando il film è uscito vedevo all'opera per la prima volta. Il ricco cast è completato da mostri sacri quali Michael Caine (il maggiordomo Alfred), Gary Oldman (un commissario Gordon che ha finalmente un ruolo di primo piano nelle avventure di Batman), Rutger Hauer (il direttore delle Wayne Enterprises) e Tom Wilkinson (il boss Carmine Falcone). Unico neo, invece, l'inadeguata Katie Holmes nei panni di una vecchia fiamma di Wayne, inutile presenza femminile in un film che non ne aveva certo bisogno. Rispetto alla Gotham di Tim Burton, la città di Nolan è più moderna e credibile, anche se forse meno fascinosa. Ma nel suo complesso il film è decisamente migliore di tutti quelli realizzati in precedenza sul personaggio, e Bale – pur non brillando particolarmente – surclassa ogni passata incarnazione dell'uomo pipistrello.

12 maggio 2008

Reinette e Mirabelle (E. Rohmer, 1987)

Reinette e Mirabelle (4 aventures de Reinette et Mirabelle)
di Éric Rohmer – Francia 1987
con Joëlle Miquel, Jessica Forde
**

Visto in DVD.

Reinette e Mirabelle sono due ragazze ventenni: la prima vive in campagna ed è un'aspirante pittrice, la seconda è parigina e studia etnologia. Si incontrano casualmente e fanno rapidamente amicizia, al punto che Mirabelle invita Reinette a dividere con sé il suo appartamento di Parigi. Attraverso quattro brevi scenette, quasi dei cortometraggi, Rohmer le rende protagoniste di piccoli episodi di vita vissuta e ne mette a confronto le diverse filosofie di vita. Reinette è semplice, idealista, ha fiducia nelle persone e non smette di parlare, mentre Mirabelle è più pacata, cinica e sofisticata. Peccato però che il film scorri via in maniera piuttosto piatta e che le vicende di cui sono protagoniste le due ragazze siano troppo minimaliste per suscitare interesse nello spettatore. Soltanto l'ultimo episodio, quello con Fabrice Luchini nei panni del direttore di una galleria d'arte, sorprende per simpatia e curiosità, grazie anche al suo finale folgorante. Ne "L'ora blu", l'unico episodio che si svolge in campagna, Reinette cerca di far sì che Mirabelle possa assaporare quel breve attimo di assoluto silenzio che si verifica prima dell'alba, quando gli animali notturni cessano ogni attività e gli uccelli diurni non hanno ancora iniziato a cantare (ma lo spunto ricorda troppo "Il raggio verde"); ne "Il cameriere del caffè", Reinette è alle prese con un cameriere eccentrico e sgarbato; ne "Il mendicante, la cleptomane e l'imbrogliona", le due ragazze vivono tre brevi incontri con bizzarri personaggi e discutono di morale, di generosità e di giustizia; ne "La vendita del quadro", Reinette deve portare un suo dipinto a una galleria d'arte, ma ha scommesso con Mirabelle che non aprirà bocca per tutta la giornata. Per fortuna, di fronte a un gallerista ancora più loquace e didascalico di lei, le parole non saranno necessarie.

8 maggio 2008

Iron Man (Jon Favreau, 2008)

Iron Man (id.)
di Jon Favreau – USA 2008
con Robert Downey Jr., Gwyneth Paltrow
***

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

Inutile girarci attorno: vedere i personaggi e gli eroi dei fumetti prendere vita sullo schermo (grazie anche ai prodigi della grafica al computer) è sempre un'emozione che dona un valore aggiunto al film, purché naturalmente sia gradevole e ben fatto come questo "Iron Man", che si colloca di diritto ai primi posti nella mia graduatoria personale delle pellicole ispirate ai personaggi della Marvel. Per di più il vendicatore rosso e oro è sempre stato uno dei miei supereroi preferiti (forse il preferito in assoluto fra i personaggi "singoli", esclusi dunque i gruppi come i Fantastici Quattro e gli X-Men), e sono rimasto decisamente soddisfatto nel vedere come la sceneggiatura ne abbia conservato tutte le caratteristiche salienti senza snaturarlo o banalizzarlo come invece era successo in altri casi ("Daredevil", "Elektra" e pure i F4). Le sue origini, come era lecito aspettarsi, sono state attualizzate (ma già la Marvel stessa, in passato, ne aveva spostato la collocazione dalla guerra in Corea a quella del Vietnam) e la grotta nella quale Tony Stark costruisce il prototipo della sua armatura si trova ora in Afghanistan, ma rimane intatta la sua ambigua e multiforme natura di inventore geniale, industriale milionario, playboy impenitente e mercante d'armi pentito che si trasforma in supereroe ipertecnologico quando si rende conto del reale utilizzo che viene fatto dei suoi prodotti e delle sue invenzioni. Attorno al protagonista, pieno di debolezze (l'alcolismo è stato lasciato saggiamente da parte, forse per il sequel) e che a differenza di altri supereroi non ha una doppia personalità (se il milionario Bruce Wayne è per Batman solo una facciata dietro la quale nascondere la propria natura di vigilante, Tony Stark è invece veramente donnaiolo e amante del lusso), il film mette una serie di comprimari azzeccatissimi: la Paltrow mi ha sorpreso in positivo per il suo ritratto di Pepper Potts, la segretaria tuttofare di Stark, segretamente innamorata del suo capo: di solito i personaggi femminili sono la palla al piede in questi film, stavolta invece ne è uno dei punti di forza; Terrence Howard è un buon Jim Rhodes, anche se il suo ruolo nella storia è un po' limitato (ma c'è una strizzatina d'occhio per i lettori che ricordano War Machine); e Jeff Bridges è un eccellente Obadiah Stane, un vero cattivo, ambiguo e ambizioso al punto giusto, altro che il Dottor Destino del primo film dei F4! Gli episodi del fumetto in cui Stark combatteva contro Stane, culminati con l'albo numero 200, non sono mai stati pubblicati in Italia (furono saltati nel passaggio dall'Editoriale Corno alla Play Press), ma lo scontro finale fra Iron Man e Iron Monger (che a qualcuno ha ricordato "Transformers": paragone improponibile sia concettualmente sia qualitativamente, naturalmente a tutto svantaggio di Michael Bay) mi ha esaltato. Jarvis, infine, non è un maggiordomo in carne e ossa ma un programma informatico. La pellicola fa abbondante uso di product placement (tutte marche di lusso, vista le disponibilità economiche del protagonista) e mette in mostra una tecnologia credibile e futuristica al tempo stesso. Imperdibili i cameo di Stan Lee (scambiato da Stark per Hugh Hefner!), di Jon Favreau (nei panni dell'autista Happy Hogan) e di Samuel L. Jackson (dopo i titoli di coda, un Nick Fury che annuncia la prossima nascita dei Vendicatori: in effetti il film rappresenta il debutto ufficiale del "Marvel Cinematic Universe", una serie di pellicole interconnesse fra loro – e dunque in continuity! – che saranno prodotte dalla stessa Marvel, senza licenziatari). E da applausi la prova di Robert Downey Jr., che pare sia stato scelto dal regista perché le sue vicissitudini personali, che lo hanno spesso portato sotto l'occhio dell'opinione pubblica, lo avvicinerebbero molto al personaggio di Tony Stark. Infine una riflessione: "Iron Man" era anche il sottotitolo del "Tetsuo" di Shinya Tsukamoto. I due film hanno poco in comune, ma a tratti la commistione fra uomo e macchina (il cuore di Stark ha bisogno di un impianto cibernetico per poter funzionare) può ricordare proprio alcune cose di Tsukamoto e di Cronenberg: chissà come sarebbe stato il film se lo avesse diretto uno di loro due al posto del "normale" Favreau? Sicuramente avremmo perso il tono da commedia sofisticata anni quaranta (vedi le scene con la Paltrow) e non so se sarebbe stata una buona cosa.

6 maggio 2008

L'ultima missione (O. Marchal, 2008)

L'ultima missione (MR 73)
di Olivier Marchal – Francia 2008
con Daniel Auteuil, Olivia Bonamy
***

Visto al cinema Odeon, con Hiromi.

Marchal si riconferma degno erede della lunga tradizione francese del cinema polar e mette in scena una storia cupa, violenta e disperata, caratterizzata da un'atmosfera opprimente grazie anche alla fotografia notturna e contrastata e alla recitazione di un Auteuil, bravissimo come al solito, nei panni di un poliziotto fallito, ubriaco, vendicativo, perennemente con la barba incolta e gli occhiali da sole. Il film è forse meno perfetto del precedente e la sceneggiatura si sfilaccia un po' nella seconda parte, ma Marchal riesce comunque a comunicare emozioni e tensione senza concedere nulla alle aspettative dello spettatore e dunque gli si perdona più che volentieri qualche difetto nella narrazione. Il finale, poi, è magistrale ed evoca sia Coppola ("Il padrino") sia Kitano ("Hana-bi"), mentre la prima parte mi ha invece riportato alla mente le due pellicole di David Fincher sui serial killer, peraltro diversissime fra loro: "Seven" per l'efferatezza degli omicidi e la crudeltà della natura umana, "Zodiac" per l'indagine poliziesca meticolosa ma infruttuosa. Il protagonista, che ci viene subito presentato come un uomo a pezzi psicologicamente dopo che un incidente stradale gli ha distrutto la famiglia, viene sollevato da ogni incarico investigativo ma ciò nonostante non rinuncia a proseguire personalmente le indagini sull'autore di una serie di brutali omicidi. La sua storia, ambientata in una Marsiglia grigia e piovosa, si interseca – e per lungo tempo non capiremo perché – con quella di una giovane ragazza che attende con indignazione che il brutale assassino dei suoi genitori esca dal carcere per buona condotta. Fra poliziotti corrotti, superiori disposti a coprire ogni sorta di nefandezza, rivalità fra colleghi, false piste e frammenti di ricordi angoscianti, Marchal conduce lo spettatore in un mondo oscuro e decisamente non consolatorio, pur riservandosi di mostrare nel finale la nascita di una nuova speranza, con un parto vissuto in diretta e in contemporanea a una morte annunciata. Catherine Marchal, che intepreta Marie, la bionda amante di Auteuil e che si era già vista in "36, Quai des Orfèvres", nella realtà è la moglie del regista. Il titolo originale (quello italiano è invece completamente anonimo) si riferisce al modello di pistola che il protagonista utilizza contro i suoi nemici.