30 novembre 2020

L'Atalante (Jean Vigo, 1934)

L'Atalante (id., aka Le chaland qui passe)
di Jean Vigo – Francia 1934
con Jean Dasté, Rita Parlo, Michel Simon
****

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Jean (Dasté) sposa la bionda Juliette (Dita Parlo) e la porta a vivere con sé sull'Atalante, la chiatta di cui è capitano e con la quale, insieme all'anziano père Jules (Michel Simon) e a un giovane mozzo (Louis Lefèbvre), naviga per i canali della rete fluviale francese. Ma la ragazza, anche se non era mai uscita in precedenza dal proprio villaggio, fatica ad adattarsi alla vita a bordo e sogna di visitare le bellezze di Parigi. Una sera, mentre la chiatta è attraccata a Corbeil, Juliette scende sulla riva per raggiungere da sola la grande città. Jean, in preda all'ira, decide di ripartire senza aspettarla. Se ne pentirà quasi subito, e la separazione forzata lo farà precipitare nella depressione e nella disperazione. Sarà père Jules a risolvere la situazione, ritrovando la ragazza e riportandola a bordo. L'ultimo film di Jean Vigo (che morirà nell'ottobre dello stesso anno, un mese dopo l'uscita del film, a soli 29 anni, per le complicazioni della tubercolosi), nonché il suo unico lungometraggio (il precedente "Zero in condotta" durava solo 41 minuti), è una delle pellicole più belle, influenti e significative del cinema francese. Eppure alla sua uscita fu pressoché ignorata, quando non ferocemente criticata. Colpa dei distributori, che tagliarono e alterarono pesantemente il materiale girato, ma in un certo senso anche dello stile filmico di Vigo, anarchico e apparentemente datato: "L'Atalante" sembra infatti quasi un film muto di dieci o vent'anni prima: i (pochi) dialoghi non hanno molta importanza e, quando ce l'hanno, potrebbero essere tranquillamente sostituiti da cartelli. Più importante – nonostante una sincronizzazione del sonoro non sempre perfetta – è la musica, composta da Maurice Jaubert, con "la canzone dei marinai" (le chant des mariniers) che nel finale aiuta père Jules a ritrovare Juliette, perché la ragazza la sta ascoltando in una audioteca pubblica. Da notare che i distributori, alla prima uscita del film, la sostituirono con la più popolare "Le chaland qui passe" di Lys Gauty (ovvero una cover di "Parlami d'amore Mariù"!), reintitolando in questo modo anche la pellicola. Soltanto negli anni quaranta il film venne riproposto con il titolo originale e le scene in precedenza tagliate, prima di essere completamente restaurato nel 1990.

Se lo spunto narrativo appare esile e molto semplice (Vigo e il co-sceneggiatore Albert Riéra adattarono un breve soggetto di Jean Guinée, dopo che l'idea iniziale del regista di girare un film sull'anarchico Eugène Dieudonné era stata scartata per evitare problemi in seguito all'accoglienza controversa di "Zero in condotta"), la profondità dei personaggi, il realismo dell'ambientazione e la poesia che ne scaturisce hanno pochi rivali in campo cinematografico, grazie anche alla leggerezza e alla libertà che la pellicola emana in ogni fotogramma e che suscitarono l'entusiasmo, per esempio, dei registi della Nouvelle Vague che la riscoprirono nel dopoguerra. Evidenti, per esempio, le influenze che il film (come peraltro tutto il cinema di Vigo) ebbe sui lavori di François Truffaut. Il film ha toni universali, al tempo stesso concreti e onirici, drammatici e comici, realistici e fiabeschi. Il suo romanticismo, che vola a livelli altissimi, non trascura gli aspetti più difficili di una relazione amorosa (i bisticci, i rancori, le gelosie), facilitando il coinvolgimento di ogni spettatore. All'interno di un setting prosaico e proletario, la poesia nasce dalle immagini, dai personaggi, dai sentimenti, dall'ambientazione, dalla vita, dalle piccole cose (gli innumerevoli gattini che circondano père Jules, la musica, la superficie dell'acqua). Se Jean Dasté aveva già recitato per Vigo nel film precedente, Dita Parlo (appena tornata in Francia dopo aver lavorato sei anni in Germania) e Michel Simon (la "star" della pellicola, protagonista due anni prima del "Boudu salvato dalle acque" di Jean Renoir) gli furono suggeriti dalla produzione. Simon, in particolare, dà vita a un personaggio indimenticabile, un tuttofare comico e burbero protagonista di divertenti gag (come quella in cui è vittima dello scherzo del mozzo, che gli fa credere di poter suonare un disco con il dito). Girato nell'inverno 1933/34 (e chissà se le condizioni fredde e umide non abbiano aggravato la salute del regista), diverse scene furono improvvisate, come tutta la sequenza del venditore ambulante nella sala da ballo, per la quale Vigo lasciò ampia libertà all'attore Gilles Margaritis.

Naturalmente è impossibile parlare de "L'Atalante" senza fare un riferimento a "Fuori orario", la trasmissione notturna su Rai 3 che per anni ha utilizzato una sequenza di questo film come sigla d'apertura, abbinata alla canzone "Because the night" di Patti Smith. Ogni cinefilo che abbia trascorso innumerevoli notti a seguire (o a videoregistrare) la trasmissione contenitore di Enrico Ghezzi in cerca di "chicche" cinematografiche la conosce ormai a memoria, e tutto ciò non fa altro che accrescere l'amore verso questa pellicola. Si tratta peraltro di una delle sequenze più immaginifiche, suggestive e visionarie, quella in cui Jean si tuffa nel fiume "in cerca" di Juliette, che in precedenza gli aveva detto che se si guarda sott'acqua con gli occhi aperti si vedrà la persona amata. Vigo (memore di alcune sequenze del suo precedente cortometraggio "Taris o del nuoto") accosta in sovrimpressione le immagini di Jean che nuota sott'acqua con l'apparizione ridente di Juliette, in abito da sposa, quale ninfa o sirena sottomarina. L'eccellente fotografia di Boris Kaufman (fratello di Dziga Vertov) e il montaggio di Louis Chavance fanno il resto. Lo scenografo è Francis Jourdain, un vecchio amico del padre del regista. L'ambientazione fluviale concorre certo ad accrescere il fascino del film, una pellicola che in fondo parla di movimento passivo: i protagonisti si lasciano trascinare dalle acque e dalla corrente, quando qualcuno vuole "fare" qualcosa finisce col provocare un danno (Juliette quando vuole andare a Parigi, Jean quando decide di abbandonarla), ma solo perché non hanno messo chiarezza nei propri sentimenti. Il tuffo in acqua servirà proprio a questo, a scuotersi e schiarirsi le idee: e l'abbraccio finale fra i due innamorati ne segna la felice riconciliazione, senza alcun bisogno di parole, di scuse o di giustificazioni. Cosa c'è di più (semplicemente) romantico?

29 novembre 2020

Brivido nella notte (Clint Eastwood, 1971)

Brivido nella notte (Play Misty for me)
di Clint Eastwood – USA 1971
con Clint Eastwood, Jessica Walter
**1/2

Visto in TV.

Dave Garner (Eastwood), DJ radiofonico che conduce una trasmissione notturna in una piccola emittente californiana, scopre che la sua affezionata ascoltatrice Evelyn (Jessica Walter), che telefona ogni sera per chiedere la canzone "Misty" di Erroll Garner, è una stalker psicopatica innamorata di lui. E dopo un incontro casuale di una notte, non riesce più a togliersela di dosso: dapprima la donna porta scompiglio nella sua sfera privata e professionale, e poi cerca addirittura di attentare alla sua vita. Il film che segna l'esordio alla regia per Eastwood è un thriller psicologico che in certe cose sembra anticipare "Misery": come nel classico di Stephen King e Rob Reiner, a renderlo memorabile è l'antagonista, una donna ossessiva e fanatica, violenta e senza inibizioni, magistralmente interpretata da una Jessica Walter che fu anche nominata ai Golden Globe. Pur con qualche calo di ritmo e qualche ingenuità sopra le righe, alla prima esperienza dietro la macchina da presa Clint si dimostra un regista già solido e capace di sfruttare bene sia gli attori (compreso sé stesso!) sia le scenografie (le coste frastagliate della penisola di Monterey: la sceneggiatura di Jo Heims era ambientata inizialmente a Los Angeles, ma Eastwood volle spostarne il setting per dare alla vicenda uno sfondo più particolare e realistico, vedi anche le scene girate durante il festival jazzistico). Donna Mills è la fidanzata ufficiale di Dave, Don Siegel (che lo stesso anno aveva diretto l'amico Clint nel primo "Ispettore Callaghan") è il barista, John Larch è il detective della polizia.

28 novembre 2020

Processo a Giovanna d'Arco (R. Bresson, 1962)

Processo a Giovanna d'Arco (Procès de Jeanne d'Arc)
di Robert Bresson – Francia 1962
con Florence Delay, Jean-Claude Fourneau
**1/2

Visto in divx.

Processata a Rouen da un tribunale ecclesiastico asservito agli invasori inglesi, la "pulzella di Orléans" – che afferma di udire nella sua testa le voci di santa Caterina e santa Margherita e il conforto di san Michele, che le avrebbero intimato di prendere le armi in favore del re di Francia – viene condannata a morte come eretica (in quanto ritiene di poter comunicare con Dio senza la mediazione della chiesa e dei sacerdoti) e bruciata sul rogo. Tratto direttamente dagli atti e dalle minute del processo del 1431, nonché dalle deposizioni e testimonianze di quello di venticinque anni dopo, che riabilitò Giovanna, il film è breve (dura solo 65 minuti), asciutto e privo di qualsivoglia fronzolo, com'è nello stile di Bresson. Impossibile però non fare un confronto con il capolavoro di Dreyer, "La passione di Giovanna d'Arco" del 1928, che – forse perché muto – era molto più intenso e "spirituale". Questo si dipana in maniera più meccanica e distaccata, come un resoconto stenografico o la ricostruzione di una seduta in tribunale: tantissime domande su dettagli spesso insignificanti (ma, immagino, teologicamente importanti), cui Giovanna risponde sempre con raziocinio e dignità, rifiutando di farsi trascinare dove gli inquisitori vorrebbero. Anche le inquadrature sono sempre le stesse, ripetute uguali e inserite nel ritmo monotono della pellicola. Fra i pregi: il rigore, la compostezza e il senso di austerità (favorito dal bianco e nero), che fanno percepire, se non le emozioni, la trascendenza e la spiritualità (come era in Dreyer), quanto meno il peso della storia e la posta in gioco. Gli interpreti, come capita spesso nei film del regista, sono attori non professionisti: Florence Delay (accreditata come Florence Carrez) diventerà una scrittrice; Jean-Claude Fourneau (che interpreta il vescovo Cauchon) era un pittore surrealista.

27 novembre 2020

Dear ex (Mag Hsu, Hsu Chih-yen, 2018)

Dear ex (Shei xian ai shang ta de)
di Mag Hsu, Hsu Chih-yen – Taiwan 2018
con Roy Chiu, Hsieh Ying-hsuen
**1/2

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Poco prima di morire per un tumore, il padre del giovane Song Cheng-hsi (Joseph Huang) aveva abbandonato lui e la moglie Liu San-lian (Hsieh Ying-hsuen) per tornare dal suo amante gay di un tempo, il teatrante Chieh (Roy Chiu), che si è preso cura di lui nei suoi ultimi giorni. Lasciato dal padre e in rotta con la madre, Cheng-hsi si ritrova così in mezzo alla diatriba fra lei e Chieh, nominalmente incentrata su chi sia il beneficiario dell'assicurazione sulla vita del padre, ma in realtà su chi l'uomo amasse veramente (il titolo originale del film recita appunto "Chi ha iniziato ad amarlo prima"). In piena fase di ribellione, il ragazzo scappa di casa e si trasferisce a vivere proprio da Chieh, cercando di comprenderne la personalità. Da uno spunto che ricorda "Le fate ignoranti", ma girato con lo stile di Wong Kar-wai o Hou Hsiao-hsien, un film intimo, sensibile ed equilibrato, ben scritto e recitato, con un tono spigliato (quasi da commedia) e una fotografia coloratissima che dona personalità all'insieme, mentre gli occasionali flashback approfondiscono la vicenda e arricchiscono i personaggi, rendendoli sempre più tridimensionali. Peccato solo che verso il finale si faccia un po' scontato, perdendo in parte la verve iniziale (veicolata anche dai disegni, dalle scritte e dagli schizzi che appaiono animati sullo schermo, come se fossero i ghirigori di Cheng-hsi su un proprio diario). Fra i molti ingredienti che concorrono all'insieme: la professione di Chieh, che lavora in teatro (con mille difficoltà) ed è dunque abituato a recitare e dissimulare i propri sentimenti; la nevroticissima Liu, alla disperata ricerca di punti di riferimento dopo la rivelazione dell'omosessualità del marito; le sedute di psicanalisi cui Cheng-hsi si sottopone controvoglia, che lo aiutano a fare chiarezza nella sua adolescenza ribelle; e la figura del padre (Spark Chen), inizialmente misteriosa, che i vari retroscena aiutano pian piano a mettere a fuoco: e meno male, visto che è attorno a lui che ruota la storia e dipendono tutti gli altri personaggi. Fra le cose più belle c'è il fatto che ognuno ha le proprie ragioni e la propria (diversa) sensibilità, senza dunque buoni o cattivi (termini peraltro usati spesso, ma a sproposito, da Cheng-hsi): i notevoli conflitti fra i protagonisti sono destinati a essere superati quando subentra la comprensione. La colonna sonora, con la canzone-tormentone dello spettacolo teatrale su Bali, è di Lee Ying-hung. Alla prima regia cinematografica, la scrittrice Mag Hsu e il videomaker Hsu Chih-yen non sono imparentati.

26 novembre 2020

L'ultimo uomo della Terra (U. Ragona, 1964)

L'ultimo uomo della Terra (The last man on Earth)
di Ubaldo B. Ragona, Sidney Salkow – Italia/USA 1964
con Vincent Price, Franca Bettoja
***

Visto in TV.

Il biochimico Robert Morgan (Price) è da tre anni "l'ultimo uomo sulla Terra": da quando cioè una misteriosa epidemia ha trasformato tutti gli altri abitanti del pianeta (compresi i suoi stessi familiari) in una sorta di vampiri-zombie. Di notte Morgan rimane barricato nella propria casa, protetto da specchi e da aglio, mentre di giorno va a caccia di vampiri per la città, uccidendoli con i paletti di legno che lui stesso si fabbrica, per poi bruciarne i corpi. Dal celebre racconto di Richard Matheson che ispirerà successivamente anche "1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra" e, nel 2007, "Io sono leggenda", un B-movie horror angosciante e influente (gli deve molto per esempio, e per sua stessa ammissione, George Romero, che ne replicherà le atmosfere quattro anni dopo ne "La notte dei morti viventi"). Rivisto oggi, in tempi di Covid-19, il film è ulteriormente inquietante: la sezione centrale della pellicola, riservata a un lungo flashback che racconta l'insorgere e lo sviluppo dell'epidemia, riecheggia in maniera impressionante gli eventi odierni (vampiri-zombie a parte, naturalmente!). Il progetto di adattare il racconto di Matheson era nato presso gli studi della Hammer, in Gran Bretagna, che poi lo cedettero a una casa di produzione americana. Questa, per risparmiare, girò il film a Roma (le scenografie e i palazzi della città disabitata sono quelli del quartiere EUR), con un cast e una troupe italiana (ad eccezione di Price). Quanto alla regia, anche se la versione italiana la attribuisce a tale Ubaldo Ragona (carneade che non ha diretto nient'altro di rilevante), essa in realtà sarebbe opera (in parte o totalmente) di Sidney Salkow, prolifico regista americano per il cinema e la tv. Lo stesso Matheson ha scritto la sceneggiatura, firmandola con lo pseudonimo Logan Swanson. Passato inosservato alla sua uscita, il film ha conquistato con gli anni la fama di cult movie. In effetti è un piccolo gioiellino di horror minimalista, con un solo personaggio (almeno all'inizio) che descrive il mondo intorno a lui attraverso la voce fuori campo, di cui seguiamo pensieri e azioni in uno scenario post-apocalittico suggestivo e inquietante. E nel finale, quando entrano in gioco alcuni dei "vampiri", assistiamo al capovolgimento di ruoli che ha reso particolare il racconto di Matheson: sono i mostri ad avere paura del cacciatore, ed è quest'ultimo che è destinato a diventare uno spauracchio e una leggenda nella "nuova società" a cui questi daranno vita. Come detto, il comportamento dei vampiri, con le loro movenze lente, sembra anticipare quello degli zombie di Romero, mentre le sequenze di Price alle prese con la moglie Virginia che ritorna dalla morte anche dopo essere stata sepolta non possono non ricordare le tante pellicole di Roger Corman ispirate ad Edgar Allan Poe in cui l'attore ha recitato.

25 novembre 2020

La strada (Karl Grune, 1923)

La strada (Die Straße)
di Karl Grune – Germania 1923
con Eugen Klöpfer, Aud Egede-Nissen
**

Visto su YouTube.

Attratto dai divertimenti e dalle promesse tentatrici della città notturna, un uomo esce di casa – mentre la moglie gli stava preparando la cena! – e si avventura nella strada affollata di persone, automobili e carrozze. Verrà abbordato da una prostituta, portato a ballare in un locale notturno, "spennato" in una partita a carte e persino coinvolto in un delitto, salvandosi dall'accusa di omicidio solo perché il vero assassino sarà tradito dal suo figlioletto. Infine, al termine di una notte tempestosa, alle prime luci dell'alba farà ritorno, pentito, al focolare domestico. Appartenente alla corrente dell'espressionismo tedesco (anche se le scenografie sono più realistiche), questo film muto – caratterizzato visivamente dall'uso marcato di luci e ombre, sovrimpressioni (la donna con la faccia da teschio che si ispira forse a "Von morgens bis mitternachts" di Karlheinz Martin, l'immagine della moglie che il protagonista vede attraverso la fede nuziale) ed effetti ottici (l'inquadratura della sala da ballo che rotea, a simulare l'euforia dell'osservatore) – è il capostipite di un piccolo filone cinematografico, i cosiddetti "Straßenfilme" ("Film della strada"), prodotti nella Repubblica di Weimar negli anni venti, che avevano come filo conduttore proprio le disavventure di esponenti della piccola e media borghesia attratti dalle tentazioni della grande città, dalla vita notturna e peccaminosa e dalla modernità, "pericoli istintivi al di fuori della loro casa sicura", che affrontavano "con fascino, ma anche paura". Da notare le insegne luminose e serpeggianti (il serpente è ovviamente simbolo di tentazione) che invitano a entrare nei locali di ballo, nonché il cartello dell'optometrista con un paio di occhi che si accendono e si spengono, e che sembrano scrutare il protagonista, mettendolo a disagio, come se la strada stessa fosse "viva" e lo osservasse. Eugen Klöpfer è l'impacciato protagonista, che gira sempre comicamente con l'ombrello come a volersi proteggere dalla tempesta che sta per investirlo. Lucie Höflich è la moglie, Aud Egede-Nissen la prostituta, Anton Edthofer il ruffiano (forse suo marito?), Leonhard Haskel il gentiluomo di provincia (a sua volta preso di mira dai criminali), Max Schreck ("Nosferatu"!) il vecchio cieco, la cui storia sembra inizialmente sembra slegata da quella principale, ma che l'incrocerà quando si scoprirà che il nipotino che gli fa da guida è il figlio della prostituta. Di nessuno dei personaggi viene detto il nome (il film ha pochissimi cartelli), come a renderli universali.

24 novembre 2020

L'isola di ferro (Mohammad Rasoulof, 2005)

L'isola di ferro (Jazireh ahani)
di Mohammad Rasoulof – Iran 2005
con Ali Nassirian, Hossein Farzi-Zadeh
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Una gigantesca petroliera in disuso, arrugginita e ancorata al largo della costa meridionale dell'Iran, ospita una vasta comunità di profughi sunniti. È come una comune o un piccolo villaggio galleggiante, con tanto di scuola e fattorie, autosufficiente e completa di dinamiche sociali (matrimoni, nascite, morti). A gestire tutto è il capitano Nemat (Ali Nassirian), che distribuisce e organizza i lavori, mantiene l'ordine, riscuote gli "affitti", tiene i conti e coordina le diverse attività, come la periodica vendita clandestina delle parti d'acciaio della nave o dei barili di petrolio che ancora si riescono a pompare dalla stiva. Fra i problemi cui deve far fronte ci sono le vicissitudini di Ahmad (Hossein Farzi-Zadeh), il suo giovane aiutante e "addetto alle comunicazioni", innamorato di una ragazza (Neda Pakdaman) con cui si scambia messaggi contro il volere del padre di lei; le preoccupazioni del maestro della scuola, che avverte che lo scafo sta lentamente affondando, ogni giorno di più; e soprattutto l'invito ad evacuare la nave, destinata alla demolizione dalla compagnia proprietaria. Alla fine, come un novello Mosé, il capitano guiderà i passeggeri in un esodo sulla terraferma, verso la "terra promessa", in una regione arida e polverosa ("Qui costruiremo una città": ma l'ultima scena mostra un bambino che sente il richiamo del mare – e della libertà – e si tuffa). Il secondo lungometraggio di Rasoulof funziona a più livelli: come racconto corale (con numerosi e variopinti personaggi ben caratterizzati con pochi tratti: dal bambino che pesca i pesci nella stiva allagata, per poi rigettarli in mare, al vecchio che scruta costantemente il cielo in attesa di qualcosa di misterioso, dal giovane in sedia a rotelle che gestisce l'ascensore lungo lo scafo, al maestro che si fabbrica i gessetti per la lavagna con le cartucce di vecchie pallottole come stampi), come fotografia delle dinamiche sociali e culturali (la ragazza costretta a sottomettersi alla volontà del padre, e in generale il conflitto fra autocrazia e libertà evidente anche nel rapporto fra il capitano e il giovane Ahmad), come allegoria dell'isolamento delle comunità e delle minoranze (con la diffidenza per ciò che viene dall'esterno, comune in fondo all'intera nazione: significativa la scena in cui i ragazzi vengono puniti perché hanno cercato di guardare canali televisivi stranieri via satellite), come metafora del cambiamento che schiaccia le realtà più povere e rurali (la vendita della nave), come ritratto della capacità di arrangiarsi e reinventarsi sfruttando ogni risorsa a disposizione, come immagine del conflitto fra materialismo e umanesimo. Grazie anche a ottime interpretazioni e all'originale ambientazione, la solida regia alterna un pragmatico realismo a suggestioni simboliche e allegoriche. Tratto da una pièce teatrale scritta dieci anni prima dallo stesso regista, è stato girato presso il porto di Bandar Abbas, sulla costa iraniana del Golfo Persico.

23 novembre 2020

Ghostbusters (Paul Feig, 2016)

Ghostbusters (id.), aka Ghostbusters: Answer the Call
di Paul Feig – USA 2016
con Kristen Wiig, Melissa McCarthy
*1/2

Visto in TV.

La fisica teorica Erin Gilbert (Kristen Wiig) e l'amica di un tempo Abby Yates (Melissa McCarthy), insieme alla folle ingegnere Jillian Holtzmann (Kate McKinnon) e all'ex dipendente pubblica Patty Tolan (Leslie Jones), pur incomprese e sbeffeggiate da tutti, si dedicano a dare la caccia ai fantasmi e alle presenze soprannaturali che infestano la città di New York. Remake del leggendario film campione d'incassi del 1984 (o reboot, se vogliamo, visto che nelle intenzioni della casa produttrice avrebbe dovuto dare il via a una nuova serie di pellicole: ma l'insuccesso commerciale e critico ha fermato sul nascere i piani, e nel 2021 dovrebbe arrivare un sequel dei primi due film che ignora completamente questo tentativo). La scelta del gender-bending, ovvero di virare al femminile il sesso dei quattro protagonisti (e, di converso, trasformare al maschile quello della segretaria Janine, che qui è interpretata da Chris Hemsworth), ha scatenato accese controversie prima ancora che il film giungesse nelle sale. Polemiche pretestuose, in effetti: a rendere brutto il film non è tanto quell'aspetto (anche se indice di un certo atteggiamento ipocritamente inclusivo e politicamente corretto), quanto il fatto che la sceneggiatura batta strade già viste, riproponendo la stessa struttura del lungometraggio originale (ma stiracchiandone il ritmo nel tentativo di "giustificare" l'origine di elementi – il logo e il nome degli Acchiappafantasmi, per esempio – che non ne avevano affatto bisogno) senza innovare o proporre una sola idea originale, affondando lo spettatore in un caotico e confuso showdown con fantasmi digitali e poco affascinanti, ma soprattutto che le gag e le battute siano debolissime, stupide (non nel senso di buffe), rozze e pateticamente inadeguate. Non si ride praticamente mai, se non per l'imbarazzo, e non ci sono frasi o situazioni citabili: salverei giusto in parte quelle (tutte sulla stessa falsariga, però) legate alla stupidità del centralinista Kevin, inserite per avere un personaggio maschile ancora più "clueless" delle quattro protagoniste. La tendenza di Hollywood a ripetere all'esaurimento ciò che già è stato fatto e che ha avuto successo in passato, in chiave derivativa o auto-referenziale per scopi puramente commerciali, si sposa dunque a un tentativo forzatissimo di suscitare la risata a tavolino, senza simpatia o spontaneità. Aggiungiamoci la mancanza di un cattivo memorabile, e il disastro è servito: un film che, a parte l'appiglio emotivo per i fan della pellicola originale (che però lo hanno in gran parte rigettato in partenza), si guarda e si dimentica a stretto giro di posta. Tutto sommato adeguate le protagoniste (a parte la McKinnon, completamente scollata dalle altre tre). Brevi camei, fini a sé stessi e in ruoli diversi, degli attori del lungometraggio classico (Bill Murray, Dan Aykroyd, Sigourney Weaver, Ernie Hudson, Annie Potts), e persino di Slimer e dell'uomo dei marshmallow Stay Puft. Nel cast anche Neil Casey, Andy García e Cecily Strong, oltre a una comparsata di Ozzy Osbourne nei panni di sé stesso.

22 novembre 2020

Sei donne per l'assassino (Mario Bava, 1964)

Sei donne per l'assassino
di Mario Bava – Italia 1964
con Eva Bartok, Cameron Mitchell
**1/2

Visto in TV.

Un misterioso assassino dal volto mascherato uccide in maniera efferata, una dopo l'altra, alcune indossatrici e modelle che lavorano nell'elegante sartoria della contessa Cristiana (Eva Bartok). Chi è, e quali sono le sue motivazioni? Un giallo-nero a tinte forti, impreziosito dalle scenografie barocche, dalla fotografia colorata e dalla regia espressionista, che aggiungono inquietudine all'atmosfera (già angosciante e claustrofobica di suo) della sceneggiatura di Marcello Fondato. Considerato oggi un classico e imitato da molti, fu all'epoca un discreto shock per il cinema italiano di genere, non abituato al sadismo e alla violenza di situazioni e personaggi che peraltro stavano contemporaneamente invadendo altre forme d'arte (come il fumetto: sono gli anni in cui nascono "Diabolik" e i suoi numerosi epigoni, come "Kriminal" e "Satanik"): il suo successo contribuì a codificare le regole del giallo/thriller all'italiana (l'assassino misterioso e "senza volto", la sequenza di cruenti delitti, l'atmosfera malsana e delirante, la tensione che monta senza sosta) che verranno seguite per esempio da Dario Argento e Umberto Lenzi, ma anche quelle degli horror/slasher che si svilupperanno oltreoceano (come "Halloween" di John Carpenter e "Nightmare" di Wes Craven). Il cast è vasto e internazionale (il film fu coprodotto da Francia e Germania), senza un vero protagonista: non è tale nemmeno l'ispettore Silvestri (Thomas Reiner) che indaga sul caso (non sarà infatti lui a risolverlo). Fra le vittime dell'assassino ci sono Francesca Ungaro (Isabella), Arianna Gorini (Nicole), Mary Arden (Peggy), Lea Krüger (Greta) e Claude Dantes (Tao-Li). Fra i sospettati, invece, Cameron Mitchell (Massimo Morlacchi, l'amante della contessa), Dante Di Paolo (l'antiquario cocainomane Franco Scalo), Massimo Righi (l'epilettico Marco), Franco Rousell (il marchese Riccardo), Luciano Pigozzi (l'ambiguo Cesare). Memorabili anche i titoli di testa, girati fra angoscianti ombre e manichini. Le musiche sono di Carlo Rustichelli.

21 novembre 2020

Domani si balla! (Maurizio Nichetti, 1982)

Domani si balla!
di Maurizio Nichetti – Italia 1982
con Maurizio Nichetti, Mariangela Melato
**

Visto in TV.

Una strana trasmissione di origine aliena disturba con continue interferenze le frequenze televisive sulla Terra, spingendo chi le ascolta a ballare senza fermarsi, come ipnotizzati, al suono di un'accattivante e ripetitiva musichetta. Ma aiuta anche a superare le proprie paure e le proprie inibizioni, a ribellarsi contro le ingiustizie e le paranoie (sul lavoro, in famiglia) e diventare più felici. Non stupisce che i poteri forti cerchino in tutti i modi di fermare il "contagio" e di mettere a tacere la musica (ammonendo: "Ballare è pericoloso"). Il terzo lungometraggio di Nichetti (co-protagonista insieme a Mariangela Melato, con la quale forma una coppia di giornalisti televisivi che lavorano per una scalcinata emittente indipendente) è una satira ingenua e stralunata, più semplicistica e meno convincente dei due lavori precedenti (riscosse anche meno successo). Se i due protagonisti mostrano un'interessante alchimia (la Melato domina con la sua energia prepotente e sarcastica, Maurizio risponde con occasionali gag da cartone animato – il cuore che batte quando riceve un bacio – o da comica muta), gli altri personaggi restano a livello di macchietta o sono poco approfonditi (fa eccezione la funzionaria del canale televisivo, interpretata da Clara Zovianoff, buffa e assatanata). Bella comunque l'ambientazione, la Milano delle prime emittenti televisive private che cominciavano a essere una presenza costante nelle case degli italiani. Da notare che la tv è sempre stata e sarà al centro dell'attenzione (o del bersaglio) dei film di Nichetti, dal precedente "Ho fatto splash" al futuro "Ladri di saponette". E l'ultima scena, ambientata in una sala cinematografica (dove è appena stato proiettato il film), pare invitare invece gli spettatori a partecipare anche loro alla danza liberatoria. Paolo Stoppa ed Elisa Cegani interpretano i genitori di Mariangela. Nel cast anche Ennio Groggia, Francesco Carnelutti, Claudio Caramaschi e Osvaldo Salvi. La musica è di Eugenio Bennato (fratello di Edoardo). Gli "effetti speciali" (gli alieni e l'astronave, ispirati ai film muti di Georges Méliès, come "Viaggio nella Luna") sono opera di Guido Manuli, co-autore anche della sceneggiatura insieme al regista.

20 novembre 2020

Dark city (Alex Proyas, 1998)

Dark city (id.)
di Alex Proyas – USA/Australia 1998
con Rufus Sewell, William Hurt
***

Rivisto in divx (director's cut).

In una città dove il sole non sembra sorgere mai, John Murdoch (Rufus Sewell) si risveglia in una camera d'albergo senza ricordare alcunché del proprio passato. Inseguito da misteriose creature che somigliano a pallidi Nosferatu vestiti di pelle, si dà alla fuga con l'aiuto di un bizzarro medico (Kiefer Sutherland) che sembra sapere molte cose sulla sua situazione. Nel frattempo sulle sue tracce si lanciano anche l'ispettore di polizia Frank Bumstead (William Hurt), convinto che si tratti di un killer di prostitute, e sua moglie Emma (Jennifer Connelly), cantante in un cabaret. L'ambientazione neo-noir non deve ingannare: si tratta di un singolare e cupo film di fantascienza, nel quale Proyas (autore anche del soggetto) recupera le atmosfere notturne e soprannaturali del precedente "Il corvo", mettendole al servizio di una vicenda avvolgente, metaforica e ricca di colpi di scena. Se le ispirazioni – pur nell'originalità dell'insieme – sono molte ed evidenti ("Metropolis" di Fritz Lang e in generale l'espressionismo tedesco, "Brazil" di Terry Gilliam per la distopia kafkiana e surreal-esistenziale, e l'immancabile "Blade runner" con la sua contaminazione di noir e fantascienza su tutte, ma anche "Dracula", satire come "Il tunnel sotto il mondo" e "Truman show", e persino "Lamù: Beautiful dreamer" di Mamoru Oshii), la pellicola a sua volta rappresenterà un indiscutibile punto di riferimento estetico e contenutistico per il "Matrix" degli allora fratelli Wachowski, che uscirà l'anno successivo, e per "Inception" di Christopher Nolan. Concetti come la volatilità o la relatività delle memorie, temi come l'umanità usata come cavia per esperimenti da misteriosi alieni, e immagini come la città che si modifica ogni giorno (con palazzi che sorgono o cambiano di posto, riplasmando di fatto la realtà a ogni mezzanotte) o che viaggia nello spazio su un disco-astronave (letteralmente una "Flat Earth"!) prendono vita sullo schermo all'interno di un lungometraggio che passa rapidamente dal noir all'horror gotico, dalla fantascienza alla pellicola di supereroi (vedi lo scontro finale a base di superpoteri), con una sceneggiatura ben servita da attori carismatici e in parte. Fra gli "stranieri" ci sono il Richard O'Brien di "Rocky Horror" (Mr. Hand), Ian Richardson (Mr. Book) e Bruce Spence (Mr. Wall). L'ambientazione notturna, urbana e retrò, deve ovviamente molto ai film noir degli anni Quaranta e Cinquanta: la fotografia cupissima è di Dariusz Wolski, mentre le scenografie sono di Patrick Tatopoulos (l'intera città è costruita in studio). Alla sceneggiatura hanno collaborato anche Lem Dobbs e David S. Goyer (quest'ultimo reclutato da Proyas grazie al suo "Blade"). Consiglio la visione della director's cut uscita nel 2008, che amplia numerose scene (rendendo più toccante la love story e approfondendo i personaggi di contorno) ed elimina la voce fuori campo che all'inizio anticipa un po' troppe cose.

19 novembre 2020

Il processo ai Chicago 7 (Aaron Sorkin, 2020)

Il processo ai Chicago 7 (The trial of the Chicago 7)
di Aaron Sorkin – USA 2020
con Mark Rylance, Eddie Redmayne, Frank Langella
**1/2

Visto in TV (Netflix), con Sabrina.

Ricostruzione (in versione un po' romanzata e con un cast corale) di uno dei più celebri processi della storia americana nel ventesimo secolo, quello contro sette dimostranti accusati di aver fomentato disordini di piazza durante la convention del partito democratico a Chicago nell'agosto del 1968. I sette, che protestavano contro la guerra nel Vietnam, appartenevano a gruppi eterogenei: studenti, hippies, organizzazioni anti-sistema e "Pantere nere". E quando Nixon divenne presidente, il nuovo procuratore generale John N. Mitchell (John Doman) chiese la loro condanna come atto di forza politico, nonostante gran parte della responsabilità degli scontri fosse dovuta al comportamento delle forze dell'ordine. Il lungo processo, che assunse pertanto caratteristiche simboliche legate alla libertà di espressione e di contestazione, calamitò l'attenzione dell'intera nazione, anche per l'atteggiamento beffardo e sopra le righe di imputati e avvocati, in aperta polemica contro un giudice, Julius Hoffman (Frank Langella), pieno di pregiudizi e ben lungi dal mostrarsi imparziale (arrivò persino a far legare e imbavagliare uno degli accusati). Fra i momenti chiave, la lettura in aula dei nomi di tutti i soldati americani morti in Vietnam mentre si svolgeva il dibattimento. Forse un po' troppo brillante e cabarettistico, retoricamente enfatico ed esagerato nelle caratterizzazioni, il film sa coinvolgere e interessare lo spettatore come le migliori pellicole del genere, facendolo al contempo indignare per gli abusi del sistema (la violenza dei poliziotti, la mancata equità del giudice) e parteggiare per gli imputati, grazie anche alle ottime prove attoriali: fra gli accusati spiccano Eddie Redmayne (Tom Hayden), Alex Sharp (Rennie Davis), un sorprendente Sacha Baron Cohen (Abbie Hoffman), Jeremy Strong (Jerry Rubin) e John Carroll Lynch (David Dellinger), mentre Mark Rylance è l'avvocato difensore William Kunstler, Joseph Gordon-Levitt il giovane e simpatetico prosecutore federale Richard Schultz, Yahya Abdul-Mateen la pantera Bobby Seale e Michael Keaton l'ex procuratore generale Ramsey Clark. Sorkin aveva scritto inizialmente la sceneggiatura per Steven Spielberg oltre dieci anni prima, ma poi ha deciso di dirigere la pellicola lui stesso (è il suo secondo film da regista dopo "Molly's game"). Il titolo italiano, così anglofilo, suona male: sarebbe stato meglio "Il processo ai sette di Chicago".

18 novembre 2020

Ghostbusters II (Ivan Reitman, 1989)

Ghostbusters II - Acchiappafantasmi II (Ghostbusters II)
di Ivan Reitman – USA 1989
con Bill Murray, Sigourney Weaver
**

Visto in TV.

A cinque anni di distanza (in tempo reale!) dagli eventi del primo film, terminata l'emergenza soprannaturale causata da Gozer, gli Acchiappafantasmi sono finiti "zampe all'aria" e hanno dovuto trovarsi nuovi lavori. Ma quando una strana melma rosa che scorre nei sotterranei di New York, generata dai pensieri e dalle energie negative degli abitanti della città, comincia a catalizzare nuovi fenomeni ectoplasmatici, i nostri eroi tornano prepotentemente in azione. E scopriranno che la melma è legata all'arrivo in città di un antico dipinto in cui risiede lo spirito di Vigo, "flagello della Carpazia e travaglio della Moldavia", un antesignano di Dracula che progetta di tornare in vita reincarnandosi in Oscar, il figlioletto di Dana Barrett (Sigourney Weaver). Avrò visto il primo "Ghostbusters" decine di volte, sin dalla sua uscita al cinema, ma confesso che per qualche strano motivo non mi era capitato di (voler) guardare il secondo: ho rimediato adesso, con oltre trent'anni di ritardo, in previsione dell'arrivo di un nuovo capitolo nel 2021. Meno divertente del precedente, ne ripropone la medesima struttura e addirittura le stesse situazioni con minime variazioni (per esempio: anziché in prigione, i nostri vengono chiusi in manicomio da un funzionario ottuso e troppo zelante, da cui vengono fatti uscire quando il sindaco di New York non sa più che pesci pigliare; e a camminare per le strade della città come novello Godzilla, al posto dell'uomo della pubblicità dei marshmallow, stavolta è direttamente la Statua della Libertà). Non c'è da stupirsi: nonostante il successo al botteghino, gli attori e il regista non avevano intenzione di "tornare sul luogo del delitto" (Bill Murray, in particolare, si era dichiarato contrario e si era addirittura ritirato dalle scene per quattro anni), e accettarono di realizzare il sequel solo su insistenza dei produttori. Anche la lavorazione della pellicola fu travagliata, con numerose scene riscritte, scartate o modificate a tempo di record. La sceneggiatura (ancora una volta opera di Ramis e Aykroyd) sembra citare, fra le altre cose, il film "Blob". Gli effetti speciali digitali, opera della Industrial Light & Magic, furono supervisionati da Dennis Muren nel generale disinteresse da parte di Reitman.

Anche se non tutto è da buttare (per chi ama i personaggi e il loro mondo c'è comunque di che divertirsi), il problema è il tono ambivalente: da un lato i protagonisti sono cresciuti e maturati, appaiono meno irriverenti e hanno un bambino cui badare (c'è chi ha definito il film "Four ghostbusters and a baby"); dall'altro, visto che nel frattempo la franchise era rimasta popolare grazie al cartone animato "The real ghostbusters" (il che spiega l'inserimento di alcune scene con il fantasmino Slimer o il fatto che Winston non abbia i baffi), il target si è abbassato e i contenuti sono diventati autoreferenziali e ripetitivi, con tutti i difetti di un sequel che non osa distaccarsi dal suo prototipo (o cercare di superarlo). Il risultato non è mai in grado di lasciare a bocca aperta o di sorprendere genuinamente (con pochissime eccezioni: suggestiva, per esempio, la scena in cui il Titanic attracca al porto con il suo carico di fantasmi). Anche il rapporto romantico fra Peter (Murray) e Dana convince poco, forse perché fra i due attori (e i rispettivi, diversissimi, stili di recitazione) non c'è grande alchimia. Se dal primo film tornano tutti i principali interpreti (Dan Aykroyd, Harold Ramis, Ernie Hudson, Rick Moranis, Arnie Potts, e persino David Margulies nel ruolo del sindaco), fra le new entry spicca Peter MacNicol nella parte di Janosz, il restauratore di origine est-europea che corteggia Dana e che viene "posseduto" da Vigo (interpretato a sua volta dal wrestler Wilhelm von Homburg, anche se la voce in originale è quella di Max von Sydow). Protagonista, a ben vedere, è inoltre la stessa città di New York, persino più che nel primo episodio. Nonostante qualche scivolone sui riferimenti culturali (leggi qui), l'adattamento italiano è ricco di frasi e battute memorabili quanto il film precedente ("Ottimo Louis, breve ma affossante", "Momenti di melma", "Noi redivivi... Loro redimorti!"). I personaggi pronunciano esplicitamente per la prima volta anche il celebre slogan "E chi chiamerai?" ("Who you gonna call?"), dalla canzone di Ray Parker Jr. I numerosi tentativi di realizzare un terzo capitolo non porteranno a nulla per molti anni, fino allo sfortunato reboot al femminile del 2016. Nel 2021, come detto, sarà Jason Reitman (il figlio di Ivan, che in questo film interpreta il bambino che insulta i Ghostbusters alla festa!) a firmare un nuovo sequel ufficiale.

17 novembre 2020

Si riparla dell'uomo ombra (W. S. Van Dyke, 1939)

Si riparla dell'uomo ombra (Another thin man)
di W. S. Van Dyke – USA 1939
con William Powell, Myrna Loy
**1/2

Visto in divx.

Ora genitori di un bambino di un anno (chiamato "Junior" in inglese e semplicemente "il bambino" in italiano), Nick e Nora Charles vengono invitati nella villa di campagna del colonnello MacFay (C. Aubrey Smith), amministratore del patrimonio di Nora, che chiede a Nick di aiutarlo perché è stato minacciato di morte da un suo ex dipendente, l'esule cubano Pablo (Sheldon Leonard), finito in prigione per causa sua. In effetti il colonnello viene ritrovato morto la notte seguente: ma è stato davvero l'ambiguo Pablo a ucciderlo? La terza pellicola della fortunata serie cinematografica ispirata ai personaggi di Dashiell Hammett (la sceneggiatura di Frances Goodrich e Albert Hackett, come nei casi precedenti, si basa su un racconto dello scrittore, "The Farewell Murder") è un altro giallo sofisticato e dalla soluzione imprevedibile, pieno di personaggi variopinti e di false tracce. Il ménage coniugale di Nick e Nora (arricchito adesso non solo dal cagnolino Asta ma anche dal figlioletto) continua a dare spessore e vivacità al formato, colorando di commedia una trama poliziesca che, per quanto complicata e un po' confusa, lascia decisamente soddisfatti. E William Powell e Myrna Loy esibiscono ancora un'intesa perfetta (impagabili le scene nel locale di ballo caraibico), anche quando battibeccano o bevono la solita quantità spropositata di alcolici. Nel cast Virginia Grey (Lisa/Lois, la figlia adottiva del colonnello), Patric Knowles, Tom Neal, Otto Kruger, Ruth Hussey, Phyllis Gordon, Nat Pendleton e Don Costello. Diverse le stranezze nel doppiaggio italiano, imputabili al fatto che si tratta di uno di quei film che furono doppiati direttamente negli Stati Uniti, durante la guerra mondiale, da un gruppo di attori italo-americani. Così si spiega forse la pronuncia insolita di alcune parole, il cambio dei nomi di molti personaggi e la trasformazione in "cubani" di alcuni che nell'originale non lo erano affatto (Pablo, per esempio, si chiamava Phil).

16 novembre 2020

La Terra è piatta (Daniel J. Clark, 2018)

La Terra è piatta (Behind the curve)
di Daniel J. Clark – USA 2018
con Mark Sargent, Patricia Steere
***

Visto in TV, con Sabrina, in originale con sottotitoli.

Documentario sui complottisti americani della Flat Earth Society, personaggi squinternati che credono ancora oggi che la Terra sia piatta e che comunicano fra loro (rinforzandosi le convinzioni a vicenda) attraverso internet e i social media. Lungi dal volerli mettere in ridicolo (ci riescono da soli!), dal disprezzarli o da additarli al pubblico ludibrio, il film ne mostra il lato più umano ed affabile, chiarendo che in fondo si tratta di un problema psicologico prima ancora che culturale o scientifico. Anche se l'oggetto della loro credenza sembra innocuo, in realtà l'atteggiamento antiscientifico, la rinuncia al pensiero critico (fidandosi solo del proprio intuito) e il rigetto verso ogni informazione fornita dall'establishment (a partire dalla scuola) potrebbe condurre sempre più persone a comportamenti con conseguenze ben più pericolose per la società (come il rifiuto dei vaccini o la negazione dei cambiamenti climatici). Non a caso di solito chi crede a un'ipotesi di complotto finisce col credere anche alle altre. I variopinti personaggi che vengono intervistati e seguiti durante le loro attività (podcast, incontri, conferenze, elucubrazioni personali) sembrano a tratti persone normali, anche se sempre sole e con un forte complesso di vittimismo o inferiorità, convinte di combattere una battaglia contro il resto del mondo per ristabilire una verità che solo loro vedono (se davvero ci fosse un complotto, coinvolgerebbe una quantità enorme di individui!). Fra gli aspetti più buffi (o tragici), ci sono i tentativi di effettuare esperimenti "scientifici" per dimostrare che la Terra è piatta, scartando immediatamente i risultati che vanno contro la loro teoria: in questo agiscono, si noti bene, proprio al contrario di come fa la scienza, che parte invece dall'esperimento e dai dati per poi trarne una teoria coerente. Altro momento chiave è quello in cui una complottista, Patricia Steere, è attaccata dai "colleghi" perché sospettata di essere un'infiltrata della CIA (per via delle ultime tre lettere del suo nome!): di fronte a questa deformazione della realtà le viene il dubbio che anche lei si sbagli... ma dura lo spazio di un attimo ("Sono così anch'io? Ma so di non esserlo"). Fra divisioni in fazioni che si accusano a vicenda, metafore campate per aria, e tanta volontà di "non sentirsi soli", i complottisti fanno quasi tenerezza e compassione, e il regista Clark è bravo nel non inserirsi mai con il proprio commento o la propria voce, e lasciare che il (desolante) panorama si mostri da solo in tutto il suo significato antropologico.

15 novembre 2020

Da 5 bloods - Come fratelli (Spike Lee, 2020)

Da 5 bloods - Come fratelli (Da 5 Bloods)
di Spike Lee – USA 2020
con Delroy Lindo, Jonathan Majors
**1/2

Visto in TV (Netflix).

Quattro amici di colore, veterani della guerra del Vietnam – Paul (Delroy Lindo), Otis (Clarke Peters), Eddie (Norm Lewis) e Melvin (Isiah Whitlock Jr.) – tornano nel paese asiatico dopo svariati decenni con una duplice intenzione: ritrovare i resti del loro vecchio commilitone "Stormin'" Norman (Chadwick Boseman) per riportarli in patria, e soprattutto recuperare una cassa di lingotti d'oro che seppellirono all'epoca nella giungla. Ma anche i valori più cementati dell'amicizia e della fratellanza – e in generale i "legami di sangue": Paul è stato seguito da suo figlio David (Jonathan Majors), con il quale ha un rapporto difficile e ambivalente – saranno messi a dura prova dalla febbre dell'oro, che porta alla luce il peggio di ogni uomo, e dagli antichi traumi psicologici di una guerra "che non finisce mai". Lungo e ambizioso filmone d'avventura che Spike Lee sfrutta per intrecciare diverse tematiche che gli stanno a cuore: una riflessione sul ruolo dei neri durante il conflitto in Vietnam (mandati spesso allo sbaraglio e in missioni suicide, in nome di ideali che non gli appartenevano: erano gli anni in cui contemporaneamente in patria ribollivano le lotte per i diritti civili), il contrasto fra diverse filosofie di vita (fra gli amici, divisi fra solidarietà ed egoismo, c'è persino un sostenitore di Trump: naturalmente si tratta del più "matto" di tutti, perché per votare Trump bisogna essere pazzi), e in generale un parallelo con la situazione odierna (vedi i riferimenti al movimento "Black Lives Matter" nel finale, o il cappellino trumpiano "Make America Great Again" che passa da un cattivo all'altro come un trofeo). A questo scopo non esita a inserire nel calderone un po' di tutto, a volte in maniera pretestuosa, come filmati di repertorio o fotografie d'epoca, arricchendo uno stile che gioca con i formati dell'immagine (dal 4:3 delle scene ambientate nel passato, girate peraltro in 16mm, al widescreen per quelle nel presente, che a seconda delle necessità si alterna fra il 16:9 quando si è nella giungla a un più cinematografico 21:9 quando si è in città) e si concede persino occasionali freeze frame (le fotografie scattate da uno dei personaggi). Fra i molti riferimenti culturali: "Apocalypse now" (con tanto di Wagner!), "Il ponte sul fiume Kwai", Marvin Gaye ("What's going on"), Martin Luther King (il discorso del 4 aprile 1967). La retorica, l'eccesso di didascalismo e qualche colpo di scena telefonato nel finale non affossano un film comunque ricco e coinvolgente, ben scritto, diretto e recitato (su tutti svetta Lindo). Nel cast anche Jean Reno (il faccendiere francese che dovrebbe aiutare i nostri amici a esportare l'oro), Mélanie Thierry (la ragazza che si occupa di neutralizzare le mine inesplose) e Johnny Trí Nguyễn (la guida vietnamita). Curiosità: con l'eccezione di una singola immagine nel finale, Lee non ha voluto "ringiovanire" gli attori nelle sequenze in flashback (o "invecchiarli" in quelle nel presente), nonostante fra le due ci siano 45-50 anni di differenza, per evitare risultati poco gradevoli come quelli del film "The irishman" di Scorsese, lasciando allo spettatore il compito di immaginarli giovani quando serve (a proposito: le scene di battaglia sono realistiche e crudeli).

14 novembre 2020

La leggenda del cacciatore di vampiri (T. Bekmambetov, 2012)

La leggenda del cacciatore di vampiri
(Abraham Lincoln: Vampire Hunter)
di Timur Bekmambetov – USA 2012
con Benjamin Walker, Dominic Cooper
*1/2

Visto in divx.

In gioventù, prima di diventare presidente degli Stati Uniti, Abramo Lincoln ha combattutto contro i vampiri a colpi di ascia d'argento per vendicare sua madre. E più tardi, durante la guerra civile, dovrà affrontarli nuovamente, anche perché si sono alleati con gli schiavisti e minacciano di scendere in campo al fianco dell'esercito sudista durante la battaglia di Gettysburg. Premessa assurda (che trasforma un eroe della nazione in un eroe d'azione) per un film sopra le righe, tratto da un romanzo di Seth Grahame-Smith (anche sceneggiatore) che gioca ad aggiungere elementi horror all'interno di storie o vicende classiche, sulla falsariga di "Orgoglio e pregiudizio e zombie" dello stesso autore, per il puro gusto di farlo. Il risultato è purtroppo molto meno divertente del previsto, dato che manca del tutto l'ironia (a meno di volerla trovare in frasi del tipo "Dobbiamo decidere se questa nazione appartiene ai vivi o ai morti"), forse per non correre il rischio di lesa maestà. Se il parallelo fra gli schiavisti e i vampiri permette di portare avanti la vicenda (la lotta contro entrambi è la fonte di motivazione per il protagonista), i dialoghi didascalici, la caratterizzazione dei personaggi e la concatenazione degli eventi sono a livello elementare, per non parlare della fusione fra temi fantastici e ambientazione storica (lontana anni luce dalle vette sofisticate, per esempio, de "Il labirinto del fauno" di Del Toro). E se passiamo sopra i riferimenti a personaggi ed eventi storici, siamo di fronte a una pellicola horror e fantastica non particolarmente coinvolgente, anche se va dato atto al regista russo (che ben conosciamo dai tempi de "I guardiani della notte", qui al secondo film hollywoodiano dopo "Wanted") di saper creare ottime atmosfere e sequenze d'azione originali e visivamente interessanti (su tutte l'incredibile lotta in mezzo alla mandria di cavalli selvaggi e il combattimento finale sul treno in corsa, nella nebbia, e poi su un ponte in fiamme). Dominic Cooper è il vampiro buono Henry Sturgess, che addestra Lincoln a diventare "cacciatore". Mary Elizabeth Winstead è la moglie Mary Todd. Nel cast anche Anthony Mackie, Jimmi Simpson e i "cattivi" Marton Csokas, Rufus Sewell ed Erin Wasson. La pellicola è prodotta, fra gli altri, da Tim Burton. Pessimo e pavido il titolo italiano, che sceglie di omettere proprio l'elemento più distintivo e interessante del film, ovvero l'identità del protagonista.

13 novembre 2020

Ghostbusters (Ivan Reitman, 1984)

Ghostbusters - Acchiappafantasmi (Ghostbusters)
di Ivan Reitman – USA 1984
con Bill Murray, Dan Aykroyd, Harold Ramis
***

Rivisto in TV, con Sabrina.

Cacciati dall'università, tre eccentrici ricercatori – Peter Venkman (Murray), Raymond Stantz (Aykroyd) ed Egon Spengler (Ramis) – decidono di mettere in pratica i propri studi sul paranormale trasformandosi in cacciatori professionisti di fantasmi ("Ghostbusters", appunto, chiamati nel doppiaggio italiano sempre "Acchiappafantasmi"). Il momento non potrebbe essere più propizio, visto che le strade e gli edifici di New York sembrano traboccare di ectoplasmi e presenze spiritiche: la colpa è di "Gozer il gozeriano", antica divinità sumera che sta progettando il proprio ritorno sulla Terra... Da un'idea originale di Dan Aykroyd (ispirata al cartoon Disney "Topolino e i fantasmi" del 1937 e ai film comici sul paranormale con Bob Hope e Abbott & Costello degli anni '40 e '50), che avrebbe voluto interpretarla con l'amico John Belushi e che, dopo la morte di quest'ultimo, riscrisse la sceneggiatura insieme ad Harold Ramis, una commedia entrata nella storia del cinema fantastico e diventata un fenomeno culturale per il suo indovinato mix di ironia, leggerezza e understatement e per aver completamente rinnovato un genere popolare, dando vita ai blockbuster horror-comici e aprendo la strada a numerosi epigoni. I quattro acchiappafantasmi (al trio succitato si aggiungerà infatti il nero Winston Zeddemore (Ernie Hudson), personaggio che era stato pensato per Eddie Murphy ma che sembra francamente superfluo e aggiunto solo per adempire alla "quota minoranze") agiscono più come pompieri (d'altronde la loro sede è una stazione in disuso dei vigili del fuoco) o disinfestatori (con tanto di veicolo ed equipaggiamento apposito, nonché sede ufficiale e spot pubblicitari) che come "tradizionali" indagatori del paranormale, sfruttando attrezzature basate sulla scienza (in particolare la fisica nucleare: memorabili gli "invertitori protonici" e le trappole) anziché formule magiche o rituali esoterici. Il contrasto fra il realismo del contesto (quasi una banalità del quotidiano) e la natura magica, demoniaca o fantastica delle minacce non potrebbe essere più stridente. Un esempio è proprio Gozer il distruggitore: la sua forma finale (che non è l'uomo Michelin, come molti spettatori italiani hanno pensato, anche se ad esso effettivamente si ispira) viene preannunciata da svariate inquadrature della pubblicità dei marshmallow (le famigerate "toffolette" delle strisce dei Peanuts, descritte impropriamente come "gnocchi di lichene" nei dialoghi), con tanto di nome o marchio fittizio "Stay Puft". Le scene in cui il gigantesco personaggio cammina e semina il panico per le strade di New York sembrano peraltro ispirate ai classici film di mostri come "Godzilla".

Al successo del film hanno contribuito le ottime prove attoriali, in parte improvvisate (su tutte quella di Bill Murray, che dà vita a un personaggio perennemente disincantato e sarcastico; ma i tre protagonisti si divisero i ruoli a seconda del carattere dei personaggi: Venkman, con la sua parlantina e la battuta sempre pronta, è il frontman o il "venditore" del gruppo; Raymond è il tecnico mani-in-pasta, nonché il più ingenuo, idealista ed entusiasta dei tre; Egon, infine, è il teorico, l'intellettuale che si basa stoicamente sui fatti), con un cast che comprende una Sigourney Weaver bella come non mai in un raro – per lei – ruolo da commedia (Dana Barrett, musicista che abita nell'edificio dove si manifesta Gozer, nonché prima cliente dell'agenzia dei nostri eroi), Rick Moranis (Louis Tully, il suo buffo e inetto vicino di casa: i due vengono "posseduti" dai lacché demoniaci della divinità sumera, trasformandosi negli strumenti del suo ritorno, rispettivamente il "Guardia di porta" e il "Mastro di chiavi"), Annie Potts (Janine, la segretaria) e William Atherton (Walter Peck, l'ottuso agente per la protezione ambientale). David Margulies è il sindaco di New York, la modella androgina Slavitza Jovan interpreta Gozer nella forma originale, Michael Ensign il manager dell'hotel, Alice Drummond la bibliotecaria (cito anche questi perché, pur apparendo soltanto in poche scene, lasciano un forte ricordo nello spettatore). E naturalmente ci sono i personaggi realizzati attraverso gli effetti speciali, su tutti l'ingordo e dispettoso fantasmino verde Slimer (che diventerà una mascotte ricorrente nella serie animata che sarà tratta dal film) e i due cani-gargoyle demoniaci al servizio di Gozer. A divertire è anche la scoppiettante sceneggiatura, piena di frasi e battute da "citare" a memoria (è uno dei film più ricchi in assoluto da questo punto di vista, grazie anche a un ottimo lavoro di adattamento e doppiaggio nella versione italiana), come "Non incrociare i flussi. Sarebbe male", "Faccio sempre confusione tra il bene e il male", "Mi ha smerdato" ("He slimed me", in originale), "Venimmo, vedemmo, e lo inculammo!", "Ben arguito, ma errato", "Chiamalo fato, chiamala fortuna...", "Ma questa è la fiera del precotto!", "Abbiamo un problema in comune: lei", "Digli del plum cake", "Colleziono spore, muffe e funghi", "Ok, chi ha portato il cane?", "Un deficiente ha portato un coguaro a una festa, e si è inferocito", e persino le frasi di Gozer come "Sei tu un dio?" e "Scegliete e perite" sono memorabili.

L'ampio e dispendioso uso di effetti speciali, anche digitali (oltre a modellini e pupazzi), fu una novità per una commedia, genere all'epoca non associato ai blockbuster hollywoodiani: vennero realizzati da diversi studi, coordinati da Richard Edlund. L'aspetto di Slimer (un omaggio postumo a John Belushi) fu creato da Steve Johnson, mentre Randy Cook si occupò dei due cani demoniaci Zuul e Vinz, animati in stop motion. A parte le scene girate in studio a Hollywood, molte riprese furono effettuate direttamente in luoghi più o meno celebri di New York, come la biblioteca pubblica, il municipio, il Lincoln Center e Columbus Circle. La sede dei Ghostbusters è nel quartiere Tribeca, mentre l'edificio di Gozer si trova in Central Park West. Il logo del film con il fantasmino nel segnale di divieto, riconoscibilissimo, fu disegnato dall'art director Michael C. Gross e fece la fortuna del merchandising associato (si tratta di uno dei primi esempi hollywoodiani, dopo "Guerre stellari", di pellicola che generò enormi profitti anche al di fuori delle sale, sotto forma di giocattoli o altri prodotti). La colonna sonora è di Elmer Bernstein, ma ad essere rimasta celebre è la canzone "Ghostbusters" di Ray Parker Jr., una grande hit all'epoca (spudoratamente ispirata a "I Want a New Drug" di Huey Lewis and the News, che fece causa). Girato in piena era Reagan, il film ha anche una lettura "politica", con la libera impresa privata minacciata dall'ingerenza della burocrazia (in un certo senso è l'agente dell'ENPA, Peck, il vero antagonista) e in grado di salvare la situazione quando le autorità governative si dimostrano impotenti. Reitman, Murray e Ramis avevano già lavorato insieme in "Polpette" e "Stripes - Un plotone di svitati", mentre Murray e Aykroyd (così come Belushi e Murphy, che avrebbero dovuto far parte del progetto) erano apparsi ovviamente insieme nel cast del "Saturday Night Live". Il ruolo di Louis, andato poi a Moranis, era stato pensato inizialmente per John Candy. Il titolo "Ghostbusters" è coincidentalmente simile a quello di una serie televisiva del 1975, "The ghost busters", che sarà rilanciata nel 1986 in forma di cartone animato sull'onda dell'enorme successo del film. Di converso, per distinguersi da questa, la serie animata ufficiale tratta dalla pellicola si chiamerà "The real ghostbusters". Oltre a dar vita a una vera e propria franchise (anche con fumetti e videogiochi), il film avrà un sequel nel 1989 (con lo stesso cast) e uno sfortunato reboot virato al femminile nel 2016. E nel 2021, Covid permettendo, dovrebbe uscire un nuovo film diretto da Jason Reitman, figlio del regista originale.

12 novembre 2020

Atlantis (Luc Besson, 1991)

Atlantis (id.)
di Luc Besson – Francia/Italia 1991
**

Rivisto in DVD.

Accompagnate soltanto dalla musica di Éric Serra, una serie di riprese sottomarine che mostrano le evoluzioni di creature acquatiche (pesci e altri animali): è la prima incursione di Besson nel campo del documentario, girato forse sull'onda de "Le grand bleu", pellicola con la quale il regista francese si era avvicinato per la prima volta all'esplorazione delle profondità marine. "Le creature del mare" è il sottotitolo italiano: in una successione di sequenze precedute da un titoletto indicativo ("Il gioco", "La grazia", "L'amore", ecc.) osserviamo delfini, tartarughe, serpenti, otarie, piovre, mante, lamantini, squali, che si muovono o danzano al ritmo di una colonna sonora che attraversa diversi generi (dalla musica di pura atmosfera a quella lirica o corale). Il tutto è incorniciato da suggestioni arcaiche, come se ci trovassimo di fronte al "mondo originale", prima cioè dell'arrivo dell'uomo. Le riprese, effettuate per lo più nel Pacifico, sono opera di Christian Pétron e dello stesso Besson.

11 novembre 2020

Ubriaco d'amore (P. T. Anderson, 2002)

Ubriaco d'amore (Punch-drunk love)
di Paul Thomas Anderson – USA 2002
con Adam Sandler, Emily Watson
**

Rivisto in TV.

Proprietario di una piccola azienda di articoli sanitari, Barry (Sandler) è un loser infelice e solitario, incapace a socializzare, privo di una vita sentimentale e vessato dalle sette (!) sorelle che non perdono occasione per farlo sentire patetico e inadeguato, scatenandogli irrefrenabili attacchi d'ira. Quando conosce la graziosa Lena (Emily Watson), che ricambia la sua simpatia, qualcosa sembra cambiare. Ma nel frattempo si scopre vittima di un ricatto perché, in un momento di debolezza, ha chiamato una linea di sesso telefonico. Ho sempre provato un fastidio a livello pelle per questo film, sin da quando lo vidi al cinema alla sua uscita (e mi coinvolse talmente poco che non mi ricordavo praticamente nulla della trama). Probabilmente è a causa della sgradevolezza dei personaggi (il protagonista su tutti), ma anche per gli elementi "poetici" collocati in modo random (l'harmonium trovato in strada), una forma filmica eccentrica che non porta a niente (le luci stroboscopiche nella fotografia, la confusione acustica nella colonna sonora che vorrebbe indicare come il mondo intero sia contro Barry) e la sottotrama pulp-moralista (per non dire bacchettona) relativa al "pericoloso" sesso telefonico. Ma riguardandolo, a dire il vero, ne ho apprezzato almeno la stralunaticità e il fatto che, per una volta, Anderson cerchi di "limitare" in parte le proprie ambizioni. In ogni caso gode di un'inspiegabile (per me) popolarità presso i fan di questo regista così sopravvalutato. Nel cast anche Philip Seymour Hoffman (il "materassaio" che gestisce la hotline), Luis Guzmán (il socio di Barry) e Mary Lynn Rajskub (una delle sorelle). Curiosità: la promozione che regala miglia aeree, di cui Barry vuole approfittare, si ispira alla storia vera di David Phillips, ma forse anche al celebre "errore di marketing" che nel 1992 portò al disastro finanziario la divisione europea della Hoover.

10 novembre 2020

Cronaca familiare (Valerio Zurlini, 1962)

Cronaca familiare
di Valerio Zurlini – Italia 1962
con Marcello Mastroianni, Jacques Perrin
***

Visto in divx.

I due fratelli Enrico (Mastroianni) e Lorenzo (Perrin), figli di contadini, vengono separati dopo la morte della giovane madre, quando la famiglia non ha i mezzi per provvedere al sostegno di entrambi, con il risultato che il minore viene "adottato" dal domestico di un ricco barone della zona. Ma più tardi, la povertà e le avversità della vita torneranno a riunirli. Ed Enrico, diventato nel frattempo giornalista, dovrà assistere all'improvvisa malattia e all'agonia del fratello. Dall'omonimo romanzo (autobiografico) di Vasco Pratolini, di cui cambia i nomi dei personaggi, un film che ripropone sullo schermo quel nostalgico senso di affetti familiari che permeava le pagine del libro, con una messa in scena controllata, una fotografia (di Giuseppe Rotunno) da "natura morta", e una colonna sonora (di Goffredo Petrassi) classica e austera (alcuni passaggi ricordano l'adagio di Albinoni, altri sono più ricchi di dissonanze). Primo lungometraggio a colori di Zurlini, nonché secondo suo lavoro a essere tratto da Pratolini dopo il più sbarazzino "Le ragazze di San Frediano" con cui aveva esordito, è una pellicola riflessiva ed esistenzialista, che cerca di esprimere quel coacervo di sentimenti che continuano a legare due fratelli che hanno preso strade diverse: Enrico ha sempre dovuto lottare duramente, si è fatto strada e ha sviluppato sensibilità e coscienza, mentre il fratello minore, cresciuto "come in un acquario", isolato dal mondo e in mezzo agli agi (relativamente parlando), si ritrova gettato nell'arena di punto in bianco, e non ha forse le capacità per sopravvivere in un mondo ostile, mentre sull'Europa si addensano le nubi della guerra e poi se ne soffrono le conseguenze (la vicenda si svolge a cavallo fra i due conflitti mondiali, per terminare poco dopo). La malattia che lo porta alla morte, in fondo, pare quasi inevitabile (curiosamente, nella prima parte del film, era invece Enrico ad apparire di salute più cagionevole). Ottimi i due interpreti, l'intenso Mastroianni e il giovane Perrin (già attore per Zurlini ne "La ragazza con la valigia"), protagonisti di lunghe scene di dialoghi, sguardi e silenzi. Nel cast anche Salvo Randone (il "babbo" Salocchi, padre adottivo di Lorenzo) e Sylvie (la nonna, collante fra i due fratelli, che con molti rimpianti viene messa all'ospizio in via dei Malcontenti a Firenze: commoventi le scene degli incontri). Leone d'Oro a Venezia, ex aequo con "L'infanzia di Ivan" di Tarkovskij.

9 novembre 2020

Cats (Tom Hooper, 2019)

Cats (id.)
di Tom Hooper – GB/USA 2019
con Francesca Hayward, Judi Dench
*1/2

Visto in TV (Netflix).

I gatti di Jellicle, magica comunità felina di Londra cui si è appena unita la micia bianca Victoria (Francesca Hayward), si radunano come ogni anno in un vecchio teatro per scegliere chi fra di loro è degno di rinascere a nuova vita. Ma il perfido Macavity (Idris Elba) intende rapire gli altri contendenti per costringere la leader del gruppo, Old Deuteronomy (Judi Dench), a scegliere lui. Adattamento cinematografico del celebre musical di Andrew Lloyd Webber, ispirato alla raccolta di poesie "Old Possum's Book of Practical Cats" (1939) di T.S. Eliot. Ma l'aggiunta di una trama spuria, la non eccezionale qualità degli arrangiamenti delle canzoni, e soprattutto l'inquietante resa in CGI dei personaggi (mezzi gatti e mezzi uomini, ma collocati in un ambiente iperrealistico e "in scala"), ne hanno decretato il completo insuccesso. Di fatto, l'unica cosa da salvare sono le (già note) canzoni, anche se non tutte sono interpretate in modo impeccabile (le migliori sono quella di Skimbleshanks con il tip tap, quella di Macavity – cantata in maniera trascinante da Taylor Swift nel ruolo di Bombalurina – e ovviamente la sempre commovente "Memory", cantata da Jennifer Hudson nel ruolo di Grizabella). Disturbanti e molto kitsch invece le scenografie e le coreografie, fastidiosa la fotografia ipercorretta, stereotipata la trama (spogliata di ogni poesia), infantili le caratterizzazioni dei personaggi, e discutibile – come detto – la resa grafica e visiva, che "appiccica" forzatamente i volti degli attori su ibridi umano-animale disgustosamente inquietanti (l'effetto "uncanny valley" è sempre in agguato). Come se non bastasse, per non "mancare" la data d'uscita della pellicola nelle sale, gli effetti al computer furono realizzati in fretta e furia e il film venne presentato con sequenze incomplete o mancanti, tanto da costringere la casa di distribuzione a rendere disponibile agli esercenti una nuova copia digitale da scaricare pochi giorni dopo, cosa mai accaduta prima per un film di tali proporzioni. Il regista Hooper (al secondo musical dopo "Les Misérables") ha confermato che gli effetti furono completati a sole poche ore dalla prima proiezione. Di fronte a questi problemi, le variazioni apposte al musical originale (la promozione di Victoria a personaggio centrale della storia; l'aggiunta di una nuova canzone a lei riservata, "Beautiful Ghosts"; la trasformazione di Old Deuteronomy da maschio a femmina) contano persino poco. La protagonista Hayward, danzatrice prestata al cinema, mostra sempre la stessa espressione (con occhioni sognanti) per tutto il film. Nel cast anche Laurie Davidson (Mr. Mistoffelees), Robbie Fairchild (Munkustrap), James Corden (Bustopher Jones), Ian McKellen (Gus), Jason Derulo (Rum Tum Tugger) e Rebel Wilson (Jennyanydots). La versione italiana alterna dialoghi doppiati e canzoni lasciate in originale con sottotitoli, risultando fastidiosa nelle transizioni (in "Evita" e in "Jesus Christ Superstar", per fare esempi di altri film tratti da musical di Lloyd Webber, era stato lasciato tutto con i sottotitoli). Colossale flop di pubblico e di critica (una famosa recensione recita: "It's the worst thing to happen to cats since dogs"), secondo alcuni potrebbe conquistarsi con gli anni la fama di cult movie (del genere "So bad it's good"): tutto è possibile, ma se accadrà sarà soltanto grazie al comparto musicale, che invita gli spettatori a cantare insieme agli attori.

8 novembre 2020

Il prestanome (Martin Ritt, 1976)

Il prestanome (The front)
di Martin Ritt – USA 1976
con Woody Allen, Zero Mostel
***

Visto in divx.

Siamo negli anni cinquanta, in pieno maccartismo (come ci mostra il montaggio di immagini d'epoca che apre il film). Per arrotondare lo stipendio, Howard Prince (Allen), cassiere in un bar e accanito scommettitore, accetta di fare da prestanome all'amico Alfred Miller (Michael Murphy), sceneggiatore per la tv finito nella "lista nera" per via delle sue inclinazioni politiche. Howard non deve far altro che presentare agli studi i copioni di Alfred (e di altri suoi colleghi nella stessa situazione), firmandoli con il proprio nome, ricevendo in cambio una percentuale dei compensi. La sua storia però si intreccia con quella di altri personaggi che finiscono stritolati nelle maglie della commissione per le attività anti-americane: in particolare l'attore comico Hecky Brown (Zero Mostel) che, non avendo potuto fare i nomi di altri colleghi con simpatie comuniste, finisce ostracizzato ed è portato al suicidio. E pian piano Howard prenderà coscienza delle ingiustizie di un sistema che si basa su delazioni, paure, paranoie e finte accuse, scegliendo infine di ribellarsi quando sarà a sua volta messo sotto inchiesta. Primo film di denuncia – anche se con toni da commedia – realizzato a Hollywood su un periodo nero della storia e della cultura americana: sia lo sceneggiatore Walter Bernstein, sia il regista Martin Ritt, sia diversi interpreti (fra cui Mostel, che dà vita a un personaggio praticamente autobiografico) avevano sperimentato sulla propria pelle cosa significava finire sulla "lista nera", e gran parte di ciò che si vede sullo schermo è ispirato a episodi o personaggi reali. La scelta di affidarsi a un attore comico come Woody Allen (in uno dei rarissimi casi in cui recita senza essere né regista né sceneggiatore) fu fatta per non appesantire il tema trattato o risultare predicatorio: ma "il pubblico entrava aspettandosi una commedia di Woody Allen e usciva distrutto", commenterà il regista. Nel cast anche Herschel Bernardi (il produttore Phil Sussman), Andrea Marcovicci (la segretaria di produzione Florence Barrett, che si innamora di Howard per via dei suoi copioni) e Remak Ramsay (l'agente della commissione).

7 novembre 2020

Christmas in August (Hur Jin-ho, 1998)

Christmas in August (Palwolui Keuriseumaseu)
di Hur Jin-ho – Corea del Sud 1998
con Han Suk-kyu, Shim Eun-ha
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Il trentenne Jung-won (Han) è single, vive con il padre, gestisce un negozio di fotografie ed è malato terminale. Nei pochi mesi che gli restano prima di morire (il film si svolge da agosto a dicembre) va avanti come se niente fosse con il proprio lavoro, sempre sorridendo, ma si preoccupa anche di visitare i parenti, rivedere i vecchi amici e organizzare ogni cosa per la propria dipartita. Nel frattempo conosce la giovane poliziotta addetta al traffico Da-rim (Shim), con cui scatta una simpatia reciproca: la ragazza inizia a frequentarlo e pian piano se ne innamora, rimanendo perplessa quando il negozio chiude all'improvviso... Un film delicato e intimo, fatto di emozioni e sentimenti mai gridati o forzati (ha il pregio di evitare toni sensazionalisti o melodrammatici), che racconta una tenera storia d'amore destinata a non essere mai espressa a causa delle avversità della vita. Niente di particolarmente originale, ma narrato con toni gradevoli e capace di affrontare un tema pesante in modo leggero e senza mostrarsi superficiale: si parla di serena accettazione della morte e del parallelo fra l'amore e le fotografie (che invecchiano e sbiadiscono). E come capita spesso nelle pellicole dell'estremo oriente, a contare sono i dettagli, gli sguardi e gli episodi apparentemente meno significativi (come quello dell'anziana signora che si reca nel negozio di Jung-won per farsi scattare il ritratto funebre). La bella Shim Eun-ha divenne una star, ma lasciò il mondo del cinema dopo pochi anni. Ottime la colonna sonora acustica e la fotografia che sottolinea il passaggio del tempo e l'avvicendarsi delle stagioni, in parallelo con gli stati d'animo: si comincia in piena estate, con giornate luminose, e pian piano arrivano le piogge d'autunno e infine il buio dell'inverno (accompagnati dal cambio degli abiti e delle pietanze). Ricordato con affetto e diventato un piccolo cult movie in patria, il film vanta anche un remake giapponese nel 2005.

6 novembre 2020

Downtown torpedoes (Teddy Chan, 1997)

Downtown torpedoes (San tau dip ying)
di Teddy Chan – Hong Kong 1997
con Jordan Chan, Takeshi Kaneshiro
**

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Una banda di ladri acrobatici e ipertecnologici, specializzati nel furto di segreti industriali, viene convinta da Stanley Wong (Alex Fong), capo dei servizi segreti di Hong Kong, a collaborare al recupero di due preziose lastre per la stampa di banconote false, cadute nelle mani di un agente inglese traditore. Ma il gruppo, di cui fanno parte gli abili Cash (Jordan Chan) e Jackal (Takeshi Kaneshiro), la coordinatrice Sam (Charlie Yeung), l'inaffidabile Titan (Ken Wong) e la giovane hacker Phoenix (Theresa Lee), scoprirà di essere stato ingannato: a volersi impadronire delle lastre era proprio colui che li ha ingaggiati. Solido action movie, ben fatto anche se non particolarmente originale, che si lascia seguire fino alla fine grazie alle diverse sequenze (ispirate a "Mission: Impossible") che vedono i protagonisti all'opera, e un discreto numero di capovolgimenti e di colpi di scena. Gli interpreti sono adeguati, la regia è senza fronzoli, la fotografia fredda come in gran parte delle pellicole del genere. Se il grosso dell'azione è ambientato nella (ex) colonia inglese, l'incipit si svolge in Germania e il finale a Budapest. "Skyline cruisers" di Wilson Yip, uscito tre anni più tardi, avrebbe dovuto esserne un sequel ma è diventato poi un film indipendente.

5 novembre 2020

Borat 2 (Jason Woliner, 2020)

Borat - Seguito di film cinema. Consegna di portentosa bustarella a regime americano per beneficio di fu gloriosa nazione di Kazakistan
(Borat Subsequent Moviefilm: Delivery of Prodigious Bribe to American Regime for Make Benefit Once Glorious Nation of Kazakhstan)
di Jason Woliner – USA 2020
con Sacha Baron Cohen, Marija Bakalova
**

Visto in TV (Prime Video), con Sabrina.

Dopo quattordici anni (trascorsi ai lavori forzati per aver disonorato l'immagine del Kazakistan con il suo film precedente), Borat Sagdiyev viene nuovamente inviato negli Stati Uniti d'America: questa volta non per fare un reportage, ma per consegnare un "dono" agli uomini della cerchia ristretta del presidente Trump (dapprima il suo vice Michael Pence, e poi l'avvocato Rudy Giuliani) e far entrare così il presidente kazako nelle sue grazie. Tale dono avrebbe dovuto essere "Johnny la scimmia", ma Tutar (Bakalova), la figlia di Borat, si sostituisce all'animale: e sarà dunque la ragazza ad accompagnare il protagonista nel suo viaggio. Distribuito in streaming in tempo di pandemia, il canovaccio è lo stesso del film precedente: un collage di "candid camera" in cui il finto giornalista kazako stuzzica individui e gruppi di persone con il suo comportamento offensivo e politicamente scorretto (è oltraggioso, razzista, maschilista). Problema: il personaggio di Borat e le sue fattezze sono ormai ben noti al grande pubblico (come lo stesso film fa notare), e dunque Sacha Baron Cohen deve ricorrere a ulteriori travestimenti per non farsi riconoscere, mandando avanti in qualche occasione la "figlia" a seminare scompiglio fra la gente. Inoltre, nella pellicola originale la continua presenza delle telecamere era giustificata perché si diceva che si stava girando un documentario per la tv kazaka, mentre stavolta è difficile considerare plausibile la ripresa delle scene (anche da più angolature). In alcuni casi (vedi l'episodio con Giuliani nella camera d'albergo) erano presenti telecamere nascoste o addirittura telefonini, ma in altri? Più schierato politicamente del precedente, il film fa complessivamente meno ridere, forse perché la spalla è meno indovinata ma soprattutto perché le reazioni della gente paiono più anestetizzate (se le provocazioni sono fin troppo scoperte, le idee assurde di Borat cadono nel vuoto o vengono addirittura condivise da chi gli sta di fronte), con un finale che – a parte il twist sull'origine del coronavirus, degno de "I soliti sospetti" – è all'insegna della mutata sensibilità sociale nell'epoca del #MeToo. Memorabili comunque alcune sequenze (la visita nella clinica antiabortista, la "danza della fertilità" al ballo delle debuttanti, l'irruzione al comizio di Pence con Borat travestito da Trump) e la descrizione – praticamente documentaristica – di certi ambienti della profonda provincia americana (come la "fiera" dei negazionisti del Covid). Fra le curiosità: scopriamo che il secondo nome di Borat è Margaret. A differenza del primo film, stavolta il titolo italiano è sgrammaticato come l'originale.

4 novembre 2020

La Tosca (Luigi Magni, 1973)

La Tosca
di Luigi Magni – Italia 1973
con Gigi Proietti, Monica Vitti
***

Visto in divx.

A Roma, il 14 giugno 1800 (giorno della battaglia di Marengo), il pittore Mario Cavaradossi (Gigi Proietti) aiuta il prigioniero politico Cesare Angelotti (Umberto Orsini), appena fuggito da Castel Sant'Angelo, a nascondersi dalle guardie pontificie. Ma il barone Scarpia (Vittorio Gassman), reggente dell'alta polizia romana, sfruttando la gelosia della cantante Floria Tosca (Monica Vitti), amante di Cavaradossi, individua il suo nascondiglio. Condannato a morte, a Mario viene fatto credere che avrà salva la vita se Tosca si concederà a Scarpia... Liberamente tratto non dall'opera di Puccini, ma dal dramma originale di Victorien Sardou, un film con cui Magni ripropone i temi classici del melodramma con i toni spigliati della commedia all'italiana e della farsa romanesca, pur senza stravolgere alcunché e restano fedele agli eventi narrati (finale tragico compreso). Molte le similitudini con il precedente "Nell'anno del Signore", a partire dal periodo storico (la Roma papalina di inizio ottocento) e dal protagonista (che lì era interpretato da Nino Manfredi) che dietro l'apparenza da artista "alieno alla politica" ha segretamente idee rivoluzionarie e giacobine. La vera novità è che, anche senza Puccini, si tratta comunque di un film musicale: oltre a regia e sceneggiatura, il regista firma infatti anche i testi degli stornelli romani che punteggiano la pellicola (la colonna sonora è di Armando Trovajoli). Memorabili, fra le altre, la canzone "Tremate lo stesso" (intonata dai due brigadieri che accompagnano Scarpia, interpretati da Gianni Bonagura e Fiorenzo Fiorentini), il duetto d'amore "Mi madre è morta tisica" e la ballata "Nun je da' retta Roma". Ottimo il cast, in cui figurano numerosi volti di celebri caratteristi: fra questi Aldo Fabrizi (il monsignor governatore di Roma, che prega per la sconfitta di Napoleone: "Un ave, un padre, un gloria, può far cambiar la storia"), Marisa Fabbri (la regina di Napoli), Ninetto Davoli (il messaggero ussaro che reca la notizia della vittoria di Bonaparte) e Alvaro Vitali (un mendicante).

3 novembre 2020

Febbre da cavallo (Steno, 1976)

Febbre da cavallo
di Steno – Italia 1976
con Gigi Proietti, Enrico Montesano
**1/2

Rivisto in TV, con Sabrina, per ricordare Gigi Proietti.

I tre amici romani Bruno detto "Mandrake" (Proietti), Armando detto "Er Pomata" (Montesano) e Felice (Francesco De Rosa) sono accaniti appassionati di ippica che bazzicano gli ippodromi di tutta Italia senza mai vincere una puntata. Quando Gabriella (Catherine Spaak), la compagna di Mandrake che gestisce un bar nel centro di Roma, gli affida una somma da scommettere su un'improbabile "tris" ("King, Soldatino e D'Artagnan") suggeritale da una cartomante, l'uomo e gli amici preferiscono giocarsela invece su un "cavallo sicuro" che naturalmente perderà. E per recuperare la mancata vincita dovranno escogitare una rocambolesca truffa (una "mandrakata") ai danni di un fantino italo-francese, sostituendolo durante una corsa: ma il piano naturalmente non riuscirà come sperato. L'intera vicenda è narrata in flashback davanti a un giudice (Adolfo Celi) che, per fortuna dei nostri amici, si rivelerà a sua volta un accanito appassionato di corse... Piccolo cult movie della commedia all'italiana, è una divertente farsa ambientata nel mondo dei fanatici dell'ippica, un microcosmo descritto con simpatia e popolato da personaggi scalcinati ed eccentrici, sempre pronti a gettare al vento i pochi quattrini che riescono a racimolare e a doversi inventare bizzarre trovate per sfuggire ai creditori. Alcune scene sono entrate nella leggenda, come lo spot ("un Carosello") che l'istrionico Mandrake – che si guadagna da vivere senza troppa fortuna come attore e modello – si ritrova a interpretare, impappinandosi in continuazione per via dell'assurdo slogan-scioglilingua ("Whisky maschio senza rischio"). Mario Carotenuto è l'avvocato De Marchis, proprietario del brocco Soldatino. Nel cast anche Gigi Ballista, Ennio Antonelli e Nikki Gentile. Passato relativamente inosservato alla sua uscita, il film ha acquistato popolarità nel corso degli anni grazie ai frequenti passaggi televisivi. Nel 2002, firmato da Carlo Vanzina, figlio del regista dell'originale, è uscito un sequel non all'altezza del prototipo, "Febbre da cavallo - La mandrakata".

2 novembre 2020

Breaking news (Johnnie To, 2004)

Breaking news (Dai si gin)
di Johnnie To – Hong Kong 2004
con Richie Ren, Kelly Chen, Nick Cheung
**1/2

Rivisto in DVD.

Per risollevare la popolarità delle forze dell'ordine e riacquistare fiducia presso la popolazione, il tenente Rebecca Fong (Kelly Chen) organizza una spettacolare operazione mediatica: tutti gli agenti impegnati a stanare un gruppo di rapinatori che si è asserragliato in un edificio vengono dotati di una minicamera per riprendere in diretta ogni momento dell'irruzione, creando uno spettacolo (o una specie di reality show) a beneficio del pubblico e dei mass media. E naturalmente non mancano manipolazioni e montaggi studiati in modo da far fare la miglior figura possibile alla polizia. Ma i banditi, guidati dal carismatico Yuen (Richie Ren), controbattono a modo loro, attraverso telefoni cellulari e computer, imbastendo un palinsesto alternativo che riveli le bugie dei poliziotti, ridicolizzandoli e mostrando le difficoltà che incontrano. Lo scontro fra guardie e ladri si trasferisce così sul piano comunicativo e virtuale, una guerra di comunicati stampa, versioni contrastanti e immagini alterate. Un ottimo spunto, che avrebbe potuto dar vita a una bellissima riflessione sul potere dei media e sulla "realtà" di ciò che si vede in tv, ma che purtroppo non è portato alle sue estreme conseguenze: gran parte del film è infatti un convenzionale poliziesco con personaggi-tipo – vedi l'ispettore della squadra anticrimine interpretato da Nick Cheung, che ha un conto in sospeso personale con Yuen – anche se non mancano interessanti dinamiche tipiche dei prodotti Milkyway, come l'amicizia/cameratismo fra i rapinatori e un secondo gruppo di criminali, in questo caso dei killer, rimasti casualmente coinvolti nell'assedio, che si rifugiano insieme a loro nell'appartamento di uno degli inquilini (interpretato da Suet Lam). Ed è da ricordare anche lo stupefacente piano sequenza che apre la pellicola (che meriterebbe di essere vista solo per questo): una decina di minuti con la macchina da presa che si muove in lungo e in largo, su e giù, vagando prima per una strada, entrando poi in un appartamento e mostrando infine un conflitto a fuoco fra polizia e rapinatori, prima che questi si diano alla fuga... L'Orson Welles de "L'infernale Quinlan" ne sarebbe stato fiero. Piccole parti per You Yong (il killer), Simon Yam e Maggie Siu.

1 novembre 2020

Zardoz (John Boorman, 1974)

Zardoz (id.)
di John Boorman – USA/GB/Irlanda 1974
con Sean Connery, Charlotte Rampling
**1/2

Rivisto in divx, per ricordare Sean Connery.

Nel futuro (siamo nell'anno 2293), dopo che un'apocalisse ha sconvolto la Terra e fatto regredire la civiltà a un livello barbarico, un gigantesco faccione di pietra che si libra nei cieli, chiamato Zardoz e venerato come un Dio, assolda gruppi di "sterminatori" per uccidere gli altri esseri umani (e impedirne così la proliferazione incontrollata) o per renderli schiavi (affinché coltivino la terra e producano cibo). Ma uno degli sterminatori, Zed (Connery), dopo aver intuito la natura fittizia di questa divinità, si introduce nel faccione volante e raggiunge così il Vortex, il luogo dove vivono gli Eterni, comunità di immortali che si è isolata dal resto del mondo per preservarne il sapere e la cultura. Incuriositi da Zed, gli Eterni lo lasciano vivere fra loro con l'intento di studiarne le emozioni. Ma sarà invece Zed a scuoterli dalla loro infelicità e apatia diffusa, donando nuovamente ciò che segretamente più agognavano: la morte. Fra fiaba filosofica e cinema di serie B, una pellicola che mescola suggestioni di ogni genere: mitologiche, fantascientifiche, psicanalitiche, erotiche, avventurose, artistiche, letterarie (il titolo è una deformazione di "Wizard of Oz", "Il mago di Oz", il libro attraverso il quale Zed comprende la reale natura del faccione volante). Per Boorman, che lo realizzò subito dopo il successo de "Un tranquillo weekend di paura" e quando il progetto di filmare un "Signore degli Anelli" dal vivo si arrestò (lasciandogli la "voglia" di fantasy), fu uno dei lavori più personali, di cui firmò anche soggetto, sceneggiatura (insieme a William Stair) e produzione. Le tante stravaganze (a partire dal look del protagonista, seminudo per tutto il film, con la sola cartucciera arancione a tracolla sul petto), i voli pindarici, i rimandi alle sottoculture (ma anche alla mitologia greca, con la ribellione degli uomini verso gli dèi, e alla fiaba del mago di Oz, appunto), con frasi come "The gun is good. The penis is evil" (nel doppiaggio italiano "Il fucile è il bene, lo sperma è il male"), lo resero un oggetto bizzarro e accolto con scetticismo dal pubblico e dalla critica cinematografica, ma contribuirono col tempo a renderlo un film di culto.

Il contrasto fra il "selvaggio" Zed, violento, grezzo, virile e soggetto alle emozioni, e il mondo apatico ed "effemminato" degli immortali (una sorta di "comune" come quelle che si erano diffuse negli anni settanta), intende sottolineare l'assurdità della negazione della natura animalesca e brutale degli esseri umani, mentre il dono della morte con il quale, nel finale, "lo schiavo libera i suoi padroni", suggerisce che è appunto la morte (e con essa il cambiamento) a dare significato alla vita, anche a quella di divinità dedite alla conoscenza e alla comunione delle menti (che genera uniformità e infelicità). Concetti filosofici sparsi a piene mani in una pellicola che sotto l'aspetto formale e visivo appare come una stravagante avventura fumettosa e fantascientifica (nel senso in cui la fantascienza, spesso dai toni distopici, era concepita al cinema prima di "Guerre stellari"), affascinante anche (o forse proprio) per la sua "bruttezza" e la ridicolaggine estetica, con costumi e scenografie sopra le righe, e con echi (fra gli altri) di "Barbarella" e de "Il pianeta delle scimmie". La prima scelta di Boorman per il ruolo del protagonista era Burt Reynolds, con cui aveva lavorato nel film precedente: ma l'attore dovette rinunciare per motivi di salute, e la scelta cadde allora su Connery, che aveva appena dato l'addio al personaggio di James Bond e stava cercando nuove parti. Fra coloro che interpretano gli Eterni sono da segnalare Charlotte Rampling (la scienziata Consuella, dapprima ostile a Zed ma che alla fine se ne innamora), Sara Kestelman (May), John Alderton (Amico) e Niall Buggy (l'illusionista Arthur Frayn, ovvero Zardoz). Memorabile anche il finale (con l'invecchiamento di Zed e Consuella, fino a diventare scheletri, attraverso un rapido montaggio di immagini), che cita forse quello di "Tuo per sempre" di Buster Keaton. La fotografia è di Geoffrey Unsworth. La colonna sonora di David Munrow, dai toni "medievali", fa ampio uso di temi dalla settima sinfonia di Beethoven (come il celebre Allegretto).