31 ottobre 2020

MASH (Robert Altman, 1970)

MASH (id.), aka M*A*S*H
di Robert Altman – USA 1970
con Donald Sutherland, Elliott Gould
***1/2

Rivisto in DVD.

Le avventure, irriverenti e scanzonate, di un gruppo di indisciplinati medici e chirurghi dell'esercito americano presso un ospedale da campo a pochi chilometri dalle linee nemiche durante la guerra in Corea (l'acronimo MASH significa infatti "Mobile Army Surgical Hospital"). Il primo grande successo nella carriera di Robert Altman, tratto da un romanzo (semi-autobiografico) di Richard Hooker (sceneggiato da Ring Lardner Jr.: ma il copione venne pesantemente stravolto dal regista) è una delle pellicole più importanti nella storia del cinema e della cultura americana di quegli anni, una pietra miliare farsesca e dissacratoria che fece una forte presa sul pubblico in tempi di contestazione contro la guerra del Vietnam. Anche se il film si svolge in Corea, con tanto di citazioni del generale MacArthur e del presidente Eisenhower sui titoli di testa, in realtà il bersaglio è infatti proprio quello: "Per me, quello era il Vietnam [...] Tutti i riferimenti politici nel film erano a Nixon e alla guerra del Vietnam", dichiarerà lo stesso Altman. Naturalmente c'erano già stati precedenti di pellicole che demistificavano o ironizzavano sul tema della guerra, in aperta opposizione alla retorica dell'eroismo bellico: da "Operazione sottoveste" di Blake Edwards (per molti versi un precursore di "MASH") al "Dottor Stranamore" di Stanley Kubrick. Pochi mesi più tardi sarebbe giunto nelle sale anche "Comma 22" di Mike Nichols, tratto peraltro da un libro che precedeva di qualche anno quello di Hooker. Ma il divertimento contagioso che si prova assistendo alle vicissitudini sfrontate e goliardiche di questi personaggi rimarrà a lungo ineguagliato. E l'impostazione corale ed episodica della pellicola, nonché la sua narrazione confusa, anarchica e destrutturata, resteranno marchi di fabbrica di gran parte del cinema di Altman (si pensi a titoli come "Nashville", "I protagonisti" o "America oggi"). Da sottolineare anche il sonoro, con le voci che si sovrappongono, si interrompono, o tentennano in maniera naturalistica (a proposito: memorabile anche il cast dei doppiatori italiani, che comprendono Sergio Graziani, Pino Locchi, Massimo Turci, Rita Savagnone, Oreste Lionello e Ferruccio Amendola), contribuendo ad altri due segreti del successo del film, vale a dire "la sintassi liberissima e il ritmo stralunato".

Fra i personaggi, uniti dal cameratismo, dall'ironia goliardica, dall'amore per l'alcol, le donne e il gioco e dall'insofferenza verso l'autorità (specie se bigotta o repressiva), spiccano i chirurghi "Occhio di Falco" ("Hawkeye") Pierce (Donald Sutherland), "Razzo" ("Trapper") John McIntyre (Elliott Gould) e "Duke" Forrest (Tom Skerritt), arrivati da poco nell'ospedale da campo comandato dal serafico colonnello Blake (Roger Bowen), che tutti chiamano semplicemente Henry, abituato a lasciar fare e a chiudere un occhio sulle frequenti infrazioni alle regole dei suoi sottoposti purché portino a compimento il proprio lavoro, che è quello di salvare vite. E i nostri eroi lo fanno, alternandosi fra lunghe e difficili operazioni chirurgiche (con profluvio di sangue mostrato sullo schermo, un modo – come le frequenti battute, elargite con nonchalance – per esorcizzare paure e tensioni: "se questo sapesse da che pagliacci è operato avrebbe un collasso") e periodi più tranquilli di svago o di scherzo, in cui giocano a golf o a football, amoreggiano con le infermiere, prendono il sole degustando un Martini con l'oliva (che il giovane attendente del campo è stato addestrato a preparare) e architettano crudeli burle ai danni di chi non sta al gioco o pretende un troppo severo rispetto delle regole. Fra questi ci sono il maggiore Burns (Robert Duvall), fanatico religioso e intransigente, e la capo infermiera Houlihan (Sally Kellerman), militarista interessata alla morale e al decoro e ribattezzata da tutti "Bollore" ("Hot Lips") dopo una memorabile beffa notturna in cui è sorpresa ad amoreggiare proprio con l'inflessibile Burns (e l'audio del loro incontro è trasmesso in diretta attraverso gli altoparlanti del campo). Da ricordare anche il cappellano "Vinsanto" (René Auberjonois), l'infermiera "Brioche" (Jo Ann Pflug), il caporale tuttofare "Radar" (Gary Burghoff) e il dentista iperdotato "Cassiodoro" (John Schuck), protagonista di uno degli episodi più elaborati, quello in cui intende suicidarsi perché convinto di essere diventato impotente e omosessuale, e gli amici lo "aiutano" a modo loro (l'inquadratura che fa il verso all'ultima cena leonardesca rimane uno dei momenti più impagabili e satirici del cinema di Altman). Nel cast anche Carl Gottlieb, David Arkin, Danny Golman, Corey Fischer, Dawne Damon, Tamara Horrocks e, non accreditati, il campione di football Ben Davidson (uno degli avversari) e un giovane Sylvester Stallone.

Altri episodi esilaranti sono quelli legati alla breve trasferta in Giappone di Pierce e McIntyre, che approfittano dell'invito a operare il figlio di un deputato per godersi qualche giorno di vacanza e sbeffeggiare un colonnello, e la partita finale a football americano (anche se il doppiaggio italiano parla di rugby) contro la squadra di altro reparto, che i nostri eroi vinceranno grazie all'arrivo di un "neurochirurgo" ex giocatore professionista, "Catapulta" Jones (Fred Williamson), e naturalmente al gioco sporco (come le iniezioni di calmante ai giocatori avversari). Le riprese della partita, con la macchina da presa che si getta in campo e in mezzo alle mischie, fanno sembrare questo sport peggio della guerra! Ma è in generale tutta la forma filmica, per esempio la fotografia "grezza" e poco luminosa di Harold E. Stine, a rendere reale l'atmosfera di un film che si distanzia come non mai dallo stile pulito con cui Hollywood aveva sempre rappresentato la guerra e l'ambiente dell'esercito. Non a caso Altman dovette lottare con i produttori per mantenere nel montaggio alcune scene (quelle girate ai tavoli operatori) e un linguaggio pieno di parolacce e di battute sessiste o volgari. La colonna sonora comprende la bella canzone "Suicide is painless" di Johnny Mandel (il cui testo fu scritto da Mike Altman, figlio – allora quattordicenne! – del regista), nonchè diverse canzoni d'epoca (come "Tokyo Shoe Shine Boy", "My Blue Heaven" o "Chattanooga Choo Choo") cantate in giapponese e trasmesse attraverso gli altoparlanti del campo. E proprio questi sono un continuo spunto di gag, filo conduttore dell'intera pellicola con fior di comunicati sconclusionati, che talvolta comprendono l'annuncio dei film di guerra proiettati nel cinema del campo (l'ultimo dei quali è proprio "MASH", del quale lo speaker elenca i principali interpreti, sostituendosi ai titoli di coda). Il successo del film, sia di pubblico che di critica (vinse la Palma d'Oro a Cannes e il premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, oltre ad altre quattro nomination fra cui quelle per il miglior film e la migliore regia), darà vita a una serie tv che proseguirà per undici stagioni (senza il coinvolgimento di Altman o dei principali attori originali). In quest'ultima, così come nelle locandine del film, l'acronimo del titolo è scritto con tre asterischi che separano le lettere (M*A*S*H), anche se sullo schermo appare senza di essi.

30 ottobre 2020

La famosa invasione degli orsi in Sicilia (L. Mattotti, 2019)

La famosa invasione degli orsi in Sicilia
(La fameuse invasion des ours en Sicile)
di Lorenzo Mattotti – Francia/Italia 2019
animazione tradizionale
**1/2

Visto in TV (Now Tv).

Dal romanzo di Dino Buzzati (che ho letto e apprezzato da bambino), affascinante fiaba a sfondo morale ambientata in una Sicilia arcaica, immaginaria e fantastica, quando l'isola era piena di montagne e vi coesistevano uomini e animali parlanti, un film d'animazione diretto e illustrato dal grande disegnatore Lorenzo Mattotti, alla sua prima regia in un lungometraggio (dopo aver collaborato con un segmento nel 2007 al film collettivo "Peur(s) du noir"). La vicenda degli orsi che scendono dalle montagne in cerca di cibo e soprattutto di Tonio, il figlio del re Leonzio che è stato rapito dagli esseri umani per farlo esibire in un circo, comincia come una fiaba classica (ed è narrata infatti da un cantastorie), piena di animali antropomorfi ed elementi fantastici (il mago, i fantasmi, l'orco, il gigantesco gatto mammone...). Ma è la seconda parte, che giunge dopo l'apparente lieto fine, a dare alla vicenda il suo maggior peso, un ammonimento contro il vizio e la corruzione che può fare presa anche sulle creature più innocenti: dopo la vittoria, e vivendo a contatto con gli esseri umani, anche gli orsi si lasciano infatti contaminare dai loro difetti, a partire dalla sete di potere e di ricchezza. Ed ecco che l'utopia di pace e prosperità che sembrava regnare si corrompe attraverso delitti e tradimenti. Il film ha richiesto sei anni di lavoro: l'animazione è morbida, ma sono soprattutto i disegni – che si ispirano peraltro alle illustrazioni dello stesso Buzzati – a colpire per l'eleganza, l'astrattezza, la ricchezza cromatica e l'uso delle ombre, tutte caratteristiche del tratto di Mattotti anche nelle pagine dei suoi libri e fumetti, con alcuni riferimenti pittorici (Paolo Uccello, Giorgio De Chirico...) in aggiunta. Il cast vocale può contare su diverse star (quali Toni Servillo, Andrea Camilleri, Antonio Albanese e Corrado Guzzanti nella versione italiana; Jean-Claude Carrière, Leïla Bekhti e lo stesso Mattotti in quella francese).

29 ottobre 2020

24 city (Jia Zhangke, 2008)

24 city (Er shi si cheng ji)
di Jia Zhangke – Cina 2008
con Joan Chen, Lü Liping, Zhao Tao
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Per oltre cinquant'anni la città di Chengdu ha ospitato la "fabbrica 420", un enorme stabilimento siderurgico di stato per la produzione di componenti per l'aeronautica. Ora la fabbrica è stata chiusa e sta per essere smantellata per erigere al suo posto un moderno complesso residenziale e commerciale (chiamato "24 city", appunto). In un incrocio fra documentario e finzione (ci sono infatti interviste reali e altre inscenate con attori), Jia Zhangke lascia la parola e diverse persone che hanno gravitato intorno allo stabilimento: anziani operai che vi hanno lavorato per molti anni, che ricordano il traumatico trasferimento da altre regioni della Cina (per ordine del governo), i rapporti con le famiglie e i colleghi di lavoro, nonché la vita in quello che era un vero e proprio microcosmo, separato dal resto della città (la fabbrica era talmente grande da avere al suo interno delle scuole per i figli di chi vi lavorava!); ma anche le nuove generazioni, che faticano a concepire le difficili condizioni in cui vivevano i loro genitori. Nel frattempo, infatti, il mondo è cambiato e la Cina si sta trasformando: l'ottima regia di Jia, attenta come sempre alle persone e al loro ambiente, ce ne dà una testimonianza preziosa e suggestiva, arricchendo l'esperienza dello spettatore con immagini e panoramiche della città e della fabbrica ormai dismessa, accompagnandole con musiche moderne o canzoni d'epoca (fra cui "The killer" di Sally Yeh, che il regista riutilizzerà ampiamente ne "I figli del fiume giallo", e "The Outside World" di Chyi Chin). La pellicola non dice apertamente che cosa sia vero e che cosa inscenato, a meno che non si riconoscano gli attori (fra questi Joan Chen, nel ruolo di un'operaia soprannominata "Little flower" per la sua somiglianza con il personaggio interpretato dalla stessa Chen, da giovane, in un film del 1979; e Zhao Tao, musa onnipresente nei lavori del regista cinese). La prima inquadratura del film, che mostra gli operai che entrano in bici nella fabbrica, è un evidente rimando – ma a ritroso – a quello che è considerato (per convenzione) il primo film della storia del cinema, "L'uscita dalle fabbriche Lumière".

28 ottobre 2020

Vivarium (Lorcan Finnegan, 2019)

Vivarium (id.)
di Lorcan Finnegan – Irlanda/Danimarca/Belgio 2019
con Imogen Poots, Jesse Eisenberg
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

In cerca di un appartamento, i fidanzati Gemma (Poots) e Tom (Eisenberg) visitano un enorme complesso residenziale in periferia costituito da centinaia di villette a schiera tutte uguali, che scoprono di non poter più abbandonare. Apparentemente unici abitanti del quartiere, sono costretti ad "allevare" un bambino che cresce a un ritmo innaturale, dando vita a una bizzarra caricatura di famiglia. Insolita pellicola fantastico-surreale, con suggestioni quasi horror ed echi da pellicole quali "Truman show" e "Il giorno della marmotta" (ma anche "Cube" e "Matrix"). La natura ambigua e artificiale della situazione (soprannaturale o fantascientifica che sia) è evidente: e l'immagine del cuculo che si installa nel nido degli uccellini in apertura dei titoli di testa suggerisce da subito che le cose non saranno come sembrano. Di fatto Tom e Gemma vengono sfruttati da una "razza" (aliena?) per accudire, in loro vece, i propri bambini, e posti in un "vivarium" (appunto) che non è altro che un modellino, perfetto in ogni dettaglio e proprio per questo inquietante, di un quartiere residenziale umano (dalle case asettiche e che si ripetono tutte identiche, con le pareti color verde pastello e i giardini con palizzata, alle nuvole "a forma di nuvola" nel cielo, che sembrano uscire da un quadro di Magritte). Naturalmente il tutto può essere letto come una metafora dei rapporti famigliari, con i sacrifici compiuti dai genitori per allevare un figlio che, una volta cresciuto, se ne andrà via per la propria strada, se non addirittura della società consumistica e tradizionale, con tutte le sue regole non scritte e i suoi conformismi (sulla famiglia-tipo). Non certo a caso (si tratta di un film dove ogni dettaglio conta!) Gemma è una maestra d'asilo e Tom un arboricoltore, ideali dunque per far crescere "giovani virgulti". Buona la prova dei due protagonisti (affiancati da Senan Jennings, Eanna Hardwicke e Jonathan Aris, che interpretano il "figlio" in diversi momenti della crescita) e la sceneggiatura (di Garret Shanley, da un soggetto scritto insieme allo stesso regista), che costruisce la tensione dal nulla. E memorabili, in particolare, le scenografie.

27 ottobre 2020

Follie d'inverno (George Stevens, 1936)

Follie d'inverno (Swing time)
di George Stevens – USA 1936
con Fred Astaire, Ginger Rogers
**

Visto in divx.

Per dimostrare al padre della propria fidanzata Margaret (Betty Furness) di essere in grado di cavarsela nella vita, il ballerino di varietà John Garnett (Fred Astaire), detto "Lucky", parte per New York in cerca di fortuna. Qui si innamora però di Penny Carroll (Ginger Rogers), una graziosa istruttrice di danza, insieme alla quale viene scritturato per esibirsi in un locale notturno di lusso, il Sandalo d'Argento. Il sesto film della coppia Astaire/Rogers è una commedia degli equivoci poco originale e ancor meno divertente, con gag alquanto blande che punteggiano il solito percorso romantico dei protagonisti che procede fra alti e bassi, baruffe e riappacificazioni. A salvare la pellicola, manco a dirlo, sono i numeri musicali (con canzoni di Jerome Kern e Dorothy Fields quali "The Way You Look Tonight", che vinse l'Oscar, e "A Fine Romance") e soprattutto quelli di ballo, quattro sequenze elegantissime e una migliore dell'altra. Si va dalla polka "Pick Yourself Up", danzata da Fred e Ginger alla scuola di ballo, al brano che dà il titolo al film, "Waltz in Swing Time", composto da Robert Russell Bennett a partire da vari temi di Kern; dall'assolo di Lucky durante la serata di gala al Sandalo d'Argento, l'elaborata "Bojangles of Harlem", dove Astaire (in blackface) balla il tip tap anche con la propria ombra (anzi, con tre ombre!), fino a "Never Gonna Dance", forse il momento più magico di tutti, la danza nella sala da ballo ormai vuota, quando i due innamorati si dicono addio. Se dunque narrativamente la pellicola lascia abbastanza a desiderare, dal punto di vista della danza è considerata dagli esperti del genere come una delle migliori della coppia. In alcune scene, come quella ambientata durante una nevicata, Astaire con il cappello a bombetta assomiglia a Stan Laurel: e proprio a questa sequenza sotto la neve si deve forse lo strano titolo italiano. Curiosità: quando Lucky canta la serenata a Penny mentre lei si sta facendo uno shampoo, sulla testa della Rogers fu messa della... panna montata! Da notare il tema del gioco d'azzardo che scorre in sottofondo per tutta la pellicola: "Pop" (Victor Moore), l'amico del protagonista nonché spalla comica insieme all'attempata Mabel Anderson (Helen Broderick), è un accanito giocatore; e lo stesso Lucky prima vince al gioco, per poi perderlo di nuovo, il contratto dell'orchestra di Ricardo Romero (Georges Metaxa), altro pretendente di Penny, che dovrebbe accompagnare musicalmente le loro esibizioni. Le coreografie sono ideate in collaborazione con Hermes Pan. È l'unico film della coppia diretto da George Stevens, che lavorerà poi separatamente con Fred in "Una magnifica avventura" (1937) e con Ginger in "Una donna vivace" (1938).

26 ottobre 2020

La stanza delle meraviglie (T. Haynes, 2017)

La stanza delle meraviglie (Wonderstruck)
di Todd Haynes – USA 2017
con Oakes Fegley, Julianne Moore
*1/2

Visto in TV.

Nel 1977, il piccolo Ben (Oakes Fegley) fugge dall'ospedale del Minnesota dov'era ricoverato dopo essere stato colpito da un fulmine (che gli ha tolto l'udito) e si reca a New York alla ricerca del padre, di cui non sa nulla. Nel 1927, una bambina sorda, Rose (Millicent Simmonds), fugge a sua volta dalla sua casa nel New Jersey per raggiungere la madre (Julianne Moore), attrice teatrale e cinematografica. Le due vicende, con parecchi punti in comune, vengono narrate in parallelo: entrambi i bambini finiranno al museo di storia naturale della città, vivendo esperienze simili... Da un romanzo illustrato di Brian Selznick (lo stesso autore de "La straordinaria invenzione di Hugo Cabret"), un doppio racconto di crescita e di formazione che Haynes porta sullo schermo in maniera assolutamente piatta. La struttura rigida, i dialoghi poco naturali, la retorica e la trama generalmente poco interessante concorrono nel generare un risultato dimenticabile, un film che si prosegue a guardare più per sfinimento che per curiosità, in attesa di una risoluzione che si rivela peraltro tutt'altro che sconvolgente. Ciò che probabilmente risultava suggestivo sulle pagine disegnate perde quasi del tutto valore in una pellicola schematica che si limita a tracciare un parallelo fra i percorsi dei due bambini (che hanno in comune la sordità e la ricerca di un genitore, oltre all'esplorazione di una città – e di un museo – a loro estranea). L'unico spunto degno di nota è il rimando fra le vicende di Rose e il cinema muto (il suo segmento è girato in bianco e nero e, essendo raccontato dal punto di vista della bambina, senza dialoghi udibili). Sinceramente trovo Haynes uno dei registi più noiosi in assoluto, per lo stile, il modo di narrare e quello di costruire i personaggi. E se mi hanno annoiato i suoi lavori più apprezzati ed elogiati dalla critica (come "Carol" e "Io non sono qui"), figuriamoci questo, un mezzo flop passato abbastanza inosservato. Il titolo, del tutto pretestuoso, si riferisce alle cosiddette "Wunderkammer", collezioni private e antenate dei moderni musei. Come in "Hugo Cabret", c'è qualche esile collegamento con personaggi o eventi reali (per esempio, nel finale, con il celebre blackout di New York del 1977).

25 ottobre 2020

Dentro l'inferno (Werner Herzog, 2016)

Dentro l'inferno (Into the Inferno)
di Werner Herzog – Gran Bretagna/Austria 2016
con Clive Oppenheimer, Werner Herzog
***

Visto in TV.

Documentario sui vulcani, sulle grandi eruzioni del passato e del presente, ma soprattutto su come questi giganti di fuoco influenzano la cultura delle popolazioni che gravitano attorno a loro. In compagnia del vulcanologo Clive Oppenheimer (che aveva conosciuto sulle pendici del monte Erebus in Antartide, durante le riprese di "Encounters at the end of the world"), Herzog gira per il mondo per raccogliere materiale e testimonianze: dall'Indonesia (sotto al monte Sinabung, in cui le popolazioni locali pensano che risieda uno spirito al quale offrono doni nel corso di elaborate cerimonie) all'Etiopia (nella depressione di Afar, presso la catena dell'Erta Ale, dove i paleontologi studiano le origini dell'umanità e cercano frammenti di ominidi), dall'Islanda (con una lunga storia di catastrofiche eruzioni, ultima quella dell'Eyjafjallajökull nel 2010) alla Corea del Nord (dove il monte Paektu, vulcano sacro e leggendario al confine con la Cina, è oggi legato dalla propaganda del regime al "mito" dei leader Kim Il-sung e Kim Jong-il), fino all'arcipelago delle Vanuatu e in particolare nell'isola di Tanna (anche qui un vulcano, il monte Yasur, è legato a un mito moderno, quello del soldato americano Jon Frum, venerato come un dio in una sorta di "culto del cargo"). Ben lungi dal limitarsi agli elementi naturalistici o geologici, dunque, il film – come tutti i lavori del regista – è in grado di spaziare al di fuori del suo tema centrale per esplorare numerosi aspetti della cultura e della società umana, con grande valore antropologico e sociologico. Mostra infatti non solo bellissime immagini di fiumi di lava, esplosioni di magma e nubi piroclastiche; e non solo interviste a scienziati e ricercatori, a testimoni di eruzioni passate o agli operatori che lavorano al monitoraggio dei giganti dormienti; ma anche rituali e danze tribali, processioni superstiziose o propiziatorie; e allarga il discorso a 360 gradi al rapporto fra uomini e vulcani, mostrando come le forze della natura e le loro suggestioni siano state piegate a scopi politici o di propaganda (davvero illuminante, e a suo modo affascinante, il segmento girato in Corea del Nord). Come commento musicale ci sono brani di Verdi, Vivaldi, Wagner, Rachmaninov, nonché tanta musica tradizionale. Herzog (che cita anche sé stesso, ricordando il cortometraggio "La Soufrière" del 1977, quando si era recato in Guadalupa per documentare l'attesa di un'imminente eruzione) ha girato nello stesso anno anche un thriller di finzione sullo stesso tema, "Salt and fire".

23 ottobre 2020

La passione di Giovanna d'Arco (C. T. Dreyer, 1928)

La passione di Giovanna d'Arco (La passion de Jeanne d'Arc)
di Carl Theodor Dreyer – Francia 1928
con Renée Falconetti, Antonin Artaud
****

Rivisto in DVD.

Il processo di Giovanna d'Arco a Rouen, da parte di una giuria ecclesiastica assoggettata agli invasori inglesi durante la guerra dei cent'anni, e la sua condanna al rogo come eretica, dopo che la fanciulla rifiutò più volte di ritrattare la propria asserzione di essere stata "eletta" dal Signore per liberare la Francia. Film muto fra i più importanti e influenti della storia del cinema (anche se girato proprio mentre stava per arrivare il sonoro), fu il primo lavoro di Dreyer in Francia dopo aver lasciato la sua natìa Danimarca: nelle intenzioni dei produttori, che vi investirono una grossa somma di denaro e che contavano sulla rinnovata popolarità della figura di Giovanna d'Arco (canonizzata come santa e patrona di Francia proprio in quegli anni, nel 1920), avrebbe dovuto essere un film storico dai toni epici e monumentali, tratto dal romanzo di Joseph Delteil del 1925 di cui avevano acquistato i diritti. Il regista, invece, preferì basarsi sulle trascrizioni autentiche del processo di Giovanna per dare vita a "un capolavoro di emozioni che fonde in maniera uguale realismo ed espressionismo", costruito su insistite inquadrature in primissimo piano della protagonista (ripresa quasi sempre soltanto dal collo in sù) e carrellate sui volti dei giudici e degli inquisitori (con la fotografia ad alto contrasto di Rudolph Maté che, insieme all'illuminazione drammatica e alle inquadrature dal basso, mette enfaticamente in risalto ogni ruga e imperfezione dei visi: agli attori fu imposto di non ricorrere al make-up). Gli eventi storici (o leggendari) diventano dunque la base per la rappresentazione delle passioni, delle paure e dei desideri umani, con il volto di Giovanna (interpretata da una straordinaria Renée Falconetti, attrice teatrale qui alla sua seconda e ultima esperienza cinematografica) al centro di primi o primissimi piani prolungati e intensissimi (e dire che agli albori del cinema sembrava irreale fare primi piani, o anche semplicemente piani medi, perchè sullo schermo le figure apparivano troppo grandi e mettevano a disagio un pubblico abituato al teatro). Il risultato è un cinema che parla di umanità senza filtri, mettendo a nudo l'anima del personaggio atraverso un processo di purificazione ed astrazione. La protagonista diventa un simbolo del sacrificio, della verità, del coraggio di fronte alla crudeltà e al pregiudizio dei suoi accusatori, uomini distanti dall'universo sia divino che intimo della ragazza. Il titolo del film (ma anche la corona di spine) suggerisce addirittura un parallelo fra lei e Gesù Cristo.

Con i capelli corti e poi rasati, spogliata di elmo e di corazza (e dunque privata sia della femminilità che delle caratteristiche maschili e guerresche), Giovanna ci appare fragilissima e sperduta, ma comunque sempre dignitosa e ferma nelle proprie convinzioni. A volte quasi in trance mistica, con gli occhi lucidi e lo sguardo perso nel vuoto (o nel trascendente), è a malapena in grado di comprendere le domande che le vengono poste o di rispondere agli inquisitori (che, dal canto loro, cercano di approfittarne con intricate questioni teologiche per strapparle dichiarazioni "eretiche" e poterla così condannare). L'iconografia, pur originalissima, è quella di una vera e propria santa e martire. Soltanto per un momento Giovanna cede alla tentazione di salvarsi la vita firmando un documento di abiura, per poi cambiare subito idea, preferendo la morte al tradimento. Gran parte del budget (sette milioni di franchi) fu speso per costruire un set di cemento che riproducesse il castello di Rouen e le sue prigioni, ispirandosi a varie strutture medievali. Gli edifici furono dipinti di rosa (!) in modo che apparissero grigi sullo schermo in contrasto con il cielo bianco sopra di loro. Dreyer, che girò l'intero film in rigoroso ordine cronologico, fece scavare delle buche sul pavimento per poter effettuare le riprese dal punto più basso possibile. Notevoli anche le inquadrature capovolte, nel finale, della folla che si ribella ai soldati inglesi dopo l'esecuzione di Giovanna. Nonostante tanta cura nei dettagli, le scenografie (di Hermann Warm e Jean Hugo) si intravedono a malapena nella pellicola finale, che pone invece maggior attenzione sulle figure umane, il che fece infuriare i produttori che ritennero di aver speso tanto denaro per niente. Dreyer ribatté che il realismo del set era necessario per ottenere interpretazioni realistiche e convincenti dagli interpreti. La voce che il regista abbia maltrattato tirannicamente la Falconetti per estorcerle una recitazione più sofferente ed intensa è soltanto una leggenda, come forse quella del suo suicidio, ma è vero che l'attrice soffrì di depressione e non tornò mai più al cinema, nonostante gli elogi della critica. Nel resto del cast spicca lo scrittore Antonin Artaud nel ruolo del chierico simpatetico Jean Massieu, mentre Eugène Silvain è il vescovo Pierre Cauchon, Maurice Schutz il giudice Nicolas Loyseleur, e André Berley il pubblico accusatore Jean d'Estivet. L'intero film è girato con un mascherino sui bordi.

La figura di Giovanna d'Arco era già stata portata sullo schermo diverse volte: fra gli altri, da Georges Méliès nel 1900, da Mario Caserini nel 1908, da Ubaldo Maria Del Colle nel 1913 e da Cecil B. DeMille nel 1917, ma nessuno si era limitato a rappresentarne soltanto la morte. La versione di Dreyer, proiettata nell'aprile del 1928 a Copenaghen e nell'ottobre dello stesso anno a Parigi, fu preceduta da veementi polemiche in Francia, fomentate da nazionalisti che non tolleravano che a dirigere la pellicola fosse un regista che non era "né francese né cattolico" (a peggiorare le cose ci fu la diceria infondata che il ruolo di protagonista era stato affidato all'attrice americana Lillian Gish). L'arcivescovo di Parigi e la censura governativa imposero inoltre numerosi tagli. E come se non bastasse, a dicembre un incendio distrusse il negativo originale del film. Dreyer rimontò una nuova versione della pellicola utilizzando materiali scartati, ma anche questa scomparve in un incendio nel 1929 (evidentemente ad avere problemi con il fuoco non è soltanto Giovanna, ma anche i film a lei dedicati!). Per anni l'unica edizione circolante fu quella realizzata dallo storico del cinema Joseph-Marie Lo Duca nel 1951, a partire da una copia della seconda versione di Dreyer, con l'aggiunta di una colonna sonora a base di musica barocca. Pur lontana dalle intenzioni originarie del regista, questa copia ha contribuito a mantenere elevata la fama del film nel corso dei decenni, rendendolo uno dei titoli più celebrati nella storia del cinema muto, fonte di ispirazione per numerosi cineasti (come gli autori della Nouvelle Vague: in una celebre sequenza di "Questa è la mia vita" di Godard, per esempio, i protagonisti assistono a una sua proiezione). Soltanto nel 1981 venne ritrovata in un ospedale psichiatrico in Norvegia (e poi restaurata) una copia del film originale, com'era prima delle censure. In ogni caso, alla sua uscita riscosse un grande successo critico ma fu un flop al botteghino, impedendo a Dreyer di realizzare altre pellicole fino al 1931. Oggi figura in pianta stabile nella lista dei migliori film di tutti i tempi, e può essere considerato come uno dei primi casi in cui il cinema ha dimostrato di essere un'arte in grado di produrre opere di livello paragonabile ai grandi capolavori della letteratura, della poesia o della pittura dei secoli precedenti, e non una semplice moda, attrazione tecnologica o forma di intrattenimento popolare. Forse solo Sjöström, Chaplin, Murnau ed Eisenstein, prima di Dreyer, erano stati capaci di tanto.

22 ottobre 2020

Velvet goldmine (Todd Haynes, 1998)

Velvet goldmine (id.)
di Todd Haynes – GB/USA 1998
con Jonathan Rhys Meyers, Ewan McGregor
**

Rivisto in TV.

Nel 1984, il giornalista Arthur Stuart (Christian Bale) viene incaricato di scoprire che fine ha fatto Brian Slade (Jonathan Rhys Meyers), leggendario cantante sparito dalla vita pubblica dopo aver inscenato, dieci anni prima, la propria morte sul palcoscenico. Arthur, che negli anni settanta era un fervente seguace di Slade e del glam rock, il filone cui apparteneva, si reca così a intervistare le persone più vicine al cantante, quelle che lo hanno conosciuto durante la sua rapida ascesa: fra questi il suo primo agente Cecil (Michael Feast), poi sostituito dal più intraprendente Jerry Devine (Eddie Izzard); la sua ex moglie Mandy (Toni Collette); e soprattutto Curt Wild (Ewan McGregor), cantante ribelle americano che Brian idolatrava e che cercò di riportare in auge facendolo esibire al proprio fianco. La struttura del film, come si vede, è la stessa di "Quarto potere", con frammenti dell'esistenza di una persona irraggiungibile e misteriosa che pian piano vanno a comporre un quadro più grande, con tanto di finale a sorpresa. Ma più che su un singolo personaggio, la pellicola intende concentrarsi su un periodo storico-musicale, quello della Swinging London dei primi anni settanta, ricco di lustrini, scintillante ed eccessivo, caratterizzato da anticonformismo, libertà sessuale, gusto per l'apparenza e per il glamour. Il bisessuale Slade è evidentemente modellato su David Bowie (con tanto di "alter ego" venuto dallo spazio, Maxwell Demon), mentre Curt Wild è basato su Iggy Pop (con un pizzico di Lou Reed) e Jack Fairy, che influenza Slade, è ispirato a Little Richard. I Venus in Furs, fra gli altri, forniscono la colonna sonora. In realtà, però, più che la musica a contare sembra essere lo stile di vita o il modo di porsi: i cantanti – seguiti con una narrazione disgiunta in un'altalena di amori, eccessi, crisi artistiche ed esistenziali – hanno valore più per il loro carisma o i loro sogni che per le capacità musicali, che il film non approfondisce o sembra dare per scontate. E come capita spesso nei lavori di Haynes (che in seguito, con "Io non sono qui", farà anche di peggio), è il trionfo della forma (vuota) sulla sostanza, fra citazioni e riferimenti buoni solo per chi li sa cogliere. D'altronde, si dice, "la vita di un uomo è la sua immagine". Colorata, confusa, evanescente, ma con una fama da cult movie, la pellicola intreccia anche suggestioni legate alla figura di Oscar Wilde, il primo "idolo pop" (che si immagina provenire dallo spazio, e la cui eredità perdura prima in Slade e poi in Wild). David Bowie non ha gradito, e forse per questo i cineasti hanno alterato alcuni elementi del personaggio e del suo entourage.

21 ottobre 2020

Arirang (Kim Ki-duk, 2011)

Arirang (id.)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2011
con Kim Ki-duk
***

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

In seguito a una profonda crisi artistica e personale, ma anche per lo shock dovuto a un incidente capitato sul set del suo precedente film, "Dream" (in cui l'attrice Lee Na-young aveva rischiato di morire impiccata), il regista Kim Ki-duk si è ritirato a vivere come un eremita in una tenda dentro una baracca in montagna, isolato da tutto e da tutti. Qui trascorre le giornate a spaccare legna, a sciogliere la neve, a mangiare frutta o cibo istantaneo, senza contatti con nessuno, e in compagnia soltanto di un gatto. Ma pian piano, con una videocamera, comincia a riprendere sé stesso, auto-intervistandosi in una sorta di confessione "come regista e come essere umano". A metà fra il documentario, il cinema-verità e la finzione metacinematografica (che in qualche modo ricorda "This is not a film" di Jafar Panahi, altro regista costretto all'isolamento ma per tutt'altri motivi), questo insolito film è un modo con cui Kim prova a spiegare al mondo (e a sé stesso) i motivi della sua assenza dalle scene per tre anni (dal 2008 al 2011), dopo che in precedenza aveva sfornato pellicole a getto continuo, non senza lasciare perplessi per la qualità dei suoi ultimi lavori, sempre più esili e tirati via. In effetti proprio Kim ammette che lavorava troppo e in fretta, che girare film era diventato per lui un meccanismo perverso di cui non poteva più fare a meno, e che l'incidente capitato sul set lo ha portato a ripensare tutta la sua esperienza. In una lunga seduta di auto-analisi in cui conversa con sé stesso (o con la propria ombra), il regista parla di cinema, dei propri film, della vita e della morte, lamenta l'abbandono (o il "tradimento") da parte dei suoi assistenti (finiti a lavorare per case di produzione commerciali), traccia un bilancio esistenziale e professionale, e lancia un grido di disagio (espresso attraverso la canzone tradizionale "Arirang"). Pur mostrando essenzialmente un solo personaggio che conversa con sé stesso, il film non è mai noioso e anzi è altamente interessante, una grande lezione di cinema che spiega meglio di mille documentari cosa è la settima arte e come si intreccia con il concetto di verità. Nell'esprimere la struggente necessità di girare un film "per dimostrare di essere ancora un regista", Kim varca costantemente il confine fra documentario e film drammatico (si pensi al finale "kitaniano", in cui il protagonista si fabbrica una pistola e scende in città per compiere la sua vendetta, calandosi nel ruolo fittizio del gangster). Pellicola importante, segna l'inizio di una nuova fase creativa per il regista coreano, che lo porterà al Leone d'Oro a Venezia nel 2012 con "Pietà", ma è anche un compendio di tutto il suo cinema e una riflessione sulla sua vita precedente: in una sequenza Kim si commuove guardando una sequenza di "Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera", in un'altra compaiono le locandine di tutti i suoi film passati, e nel finale vengono mostrati i quadri da lui dipinti in Francia e numerose foto sue e del set dei suoi lavori. Curiosità: la popolare canzone "Arirang" (risalente a oltre 600 anni fa!) aveva già ispirato e dato il titolo a un film muto del 1926, una delle prime influenti pellicole del cinema coreano (oggi purtroppo considerata perduta).

20 ottobre 2020

La ragazza senza storia (A. Kluge, 1966)

La ragazza senza storia (Abschied von Gestern)
di Alexander Kluge – Germania 1966
con Alexandra Kluge, Günter Mack
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Anita G. (Alexandra Kluge, sorella del regista) è una ragazza ventiduenne fuggita dalla Germania Est in cerca di nuove opportunità. La pellicola, tratta da un racconto dello stesso Kluge, la segue nel suo vagabondare per la Germania Ovest, fra furtarelli, condanne, lavoretti, vicende sentimentali (più o meno opportunistiche). Premiato a Venezia con il gran premio della giuria, si tratta di uno dei primi film importanti del cosiddetto Nuovo Cinema Tedesco, il movimento fondato da un gruppo di giovani cineasti in aperta ribellione contro il "cinema dei padri" e ispirato alla Nouvelle Vague francese: qui sono evidenti gli influssi di Godard, per esempio, nella struttura a episodi e nel montaggio libero e disgiunto (anche sonoro), nei cartelli con frasi a punteggiare la vicenda come commenti o titoletti, nei frequenti primi piani della protagonista, nella dislocazione narrativa, ma soprattutto nel tentativo di ritrarre "la vita vera" e le peripezie di un personaggio che sembra reale e non il frutto di una sceneggiatura preconfezionata o "commerciale". Lo stile è caratterizzato da un grande (neo)realismo, quasi documentaristico, con personaggi minori che, intervistati, parlano del loro passato (e di quello della Germania), del lavoro, della società. E Anita, "ragazza con la valigia", con i suoi difetti e le sue difficoltà, rappresenta tutti coloro che cercano di restare a galla nella vita, in un mondo dove gli interessi e gli egoismi dominano su tutto (gli appartenenti alle generazioni precedenti, in particolare, appaiono evasivi o incomprensibili). In un certo senso, è lei stessa una personificazione della Germania che vorrebbe iniziare una nuova vita dopo le tragedie della guerra (e della divisione del paese in due), senza peraltro dimenticare il passato, verso il quale dimostra curiosità e voglia di conoscenza. Si mantiene a galla con piccoli furti, prova diversi lavoretti (vendere dischi per imparare lingue straniere, fare le pulizie in un albergo), si aggrappa ad alcuni uomini (uno studente, un segretario del ministero della cultura), prova a iscriversi all'università (per studiare scienze politiche e sociologia), inizia a studiare il francese, a leggere Kafka, ad ascoltare Verdi (dimostrando così una notevole apertura culturale), ma alla fine si scontra sempre con le stesse difficoltà. In mezzo a tanto realismo, c'è spazio anche per alcune sequenze più surreali od oniriche (un segno della confusione, dell'incertezza, o semplicemente dei sogni e delle fantasie della protagonista). Edgar Reitz, il futuro regista di "Heimat" nonché co-firmatario con Kluge del "manifesto di Oberhausen", la dichiarazione del 1962 da cui nasce il NCT, fa da cameraman.

19 ottobre 2020

The bad batch (Ana Lily Amirpour, 2016)

The bad batch (id.)
di Ana Lily Amirpour – USA 2016
con Suki Waterhouse, Jason Momoa
**

Visto in TV (Netflix).

In un mondo (futuro?) dove i criminali, i reietti e i "membri non funzionanti della società" (rinominati "the bad batch", che potremmo tradurre come "il lotto difettato") vengono isolati e spediti a vivere nel deserto del Texas, la stessa sorte capita alla giovane Arlen (Suki Waterhouse). Ribelle e introversa, la ragazza non si troverà a suo agio né fra i culturisti selvaggi, tatuati e cannibali (!) che abitano nelle lande desolate (e che le mangiano un braccio e una gamba!) né con gli appena più civilizzati abitanti di Comfort, cittadina fortificata e dominata dal carismatico DJ – con tanto di harem – che si fa chiamare "il Sogno" (Keanu Reeves) e che conserva il proprio potere dispensando musica e droghe. Ma sceglierà di seguire uno dei primi, Miami Man (Jason Momoa), per aiutarlo a ritrovare la figlioletta (Jayda Fink) che proprio lei gli aveva sottratto... Il secondo lungometraggio della Amirpour è, come il precedente "A girl walks home alone at night", un pastiche bizzarro e originale, per quanto non del tutto riuscito. Le suggestioni (fra "Mad Max" e "1997: Fuga da New York", per non parlare di scenari che sembrano usciti da un film di Robert Rodriguez, Tarantino o Jodorowsky) legate al mondo selvaggio e distopico in cui un'umanità di reietti e di freak vive allo sbando, nonché alcuni interessanti personaggi o situazioni quasi da cinema sperimentale o underground (a partire dalla protagonista amputata), non riescono a compensare il soggetto esile, la mancanza di ritmo e l'inconcludenza narrativa (non sappiamo quasi nulla del passato dei personaggi e in molti casi essi vengono abbandonati senza una risoluzione), senza contare che è difficile trovare qualcuno a cui aggrapparsi o con cui empatizzare (la stessa Arlen rimane muta per gran parte della pellicola e si comporta poi in maniera irrazionale, prima di manifestare una sorta di ricerca di riscatto o redenzione, il desiderio di "essere la soluzione per qualcosa"). Apprezzabile, comunque, il cinismo e la mancanza di buoni sentimenti: Arlen non si lascia tentare da impulsi materni nei confronti della bambina, e il tenero coniglietto finisce arrostito. Nel cast anche un irriconoscibile Jim Carrey (il vecchio eremita), nonché Giovanni Ribisi, Diego Luna e Yolonda Ross. Premio speciale della giuria alla mostra del cinema di Venezia.

18 ottobre 2020

Il canto del cigno (Kenneth Branagh, 1992)

Il canto del cigno (Swan song)
di Kenneth Branagh – GB 1992
con John Gielgud, Richard Briers
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Al termine di una serata in suo onore, un anziano attore teatrale (John Gielgud) si ritrova sul palcoscenico, in compagnia del suo suggeritore (Richard Briers), a riflettere sulla propria vita, sul significato del proprio mestiere e sulla potenza del teatro, che rievoca grazie a frammenti di celebri opere shakespeariane (Re Lear, Amleto, Romeo e Giulietta, Otello) che gli hanno regalato i più grandi successi professionali. Branagh porta sullo schermo l'omonimo atto unico di Anton Cechov (adattato da Hugh Cruttwell) con due soli interpreti e una scenografia scarna e in penombra. Nonostante la breve durata (il corto dura 23 minuti), c'è di tutto: la stanchezza e la disillusione di un attore ormai vecchio e solo, i rimpianti e il bilancio di una vita, il rapporto dolceamaro con il teatro (e il pubblico), la concezione del palco come "luogo sacro", il valore dell'immaginazione e il potere della recitazione. Commovente nella sua semplicità, grazie anche a due eccezionali attori. Gielgud all'epoca aveva 88 anni, proprio come dichiara di averne il protagonista, e dunque nel suo ruolo potrebbe esserci qualcosa di autobiografico: di fatto il cortometraggio è un omaggio rivolto a lui. Quanto al caloroso Briers, è da sempre una presenza costante nei film di Branagh.

17 ottobre 2020

Dopo l'uomo ombra (W. S. Van Dyke, 1936)

Dopo l'uomo ombra (After the thin man)
di W. S. Van Dyke – USA 1936
con William Powell, Myrna Loy
**1/2

Visto in divx.

Tornati a San Francisco per trascorrere in pace l'ultimo dell'anno, dopo aver risolto brillantemente il caso de "L'uomo ombra", il detective Nick Charles e sua moglie, l'ereditiera Nora, si ritrovano coinvolti in un altro giallo, legato stavolta alla famiglia di lei. Robert (Alan Marshal), il fedifrago marito di Selma (Elissa Landi), cugina di Nora, viene infatti trovato ucciso in strada: fra i sospettati ci sono Polly (Penny Singleton), la ballerina di varietà che Robert frequentava; Dancer (Joseph Calleia), l'ambiguo proprietario del locale dove questa lavorava; Lum Kee (William Law), il suo socio cinese; Phil (Paul Fix), il "fratello" della ragazza; e David (James Stewart), ex pretendente di Selma che era stato da lei rifiutato in favore di Robert. Ancora una volta, pur se inizialmente riluttante, Nick saprà risolvere il caso. Secondo dei sei film dedicati alla brillante coppia formata da Nick e Nora Charles, personaggi creati da Dashiell Hammett nel romanzo "L'uomo ombra". Qui Hammett ha fornito ai cineasti un soggetto originale, sceneggiato come nella prima pellicola da Albert Hackett e Frances Goodrich (nominati all'Oscar). La struttura è la stessa della precedente avventura (con ulteriori omicidi che si aggiungono al primo, e il finale con tutti i sospettati riuniti in una stanza per individuare il colpevole), così come i toni da commedia sofisticata, che danno alla vita di coppia di Nick e Nora (anche in questo caso grandi consumatori di alcolici) altrettanta enfasi che alla vicenda poliziesca. Il cagnolino Asta, oltre a essere protagonista a sua volta di alcune scenette comiche a tema coniugale (in cui deve allontanare un "pretendente" che insidia la sua compagna Mrs. Asta), interferisce nella vicenda quando mangia parzialmente un biglietto anonimo che era stato inviato al padrone. Nel finale, mentre lasciano San Francisco per tornare sulla costa est, Nora comunica a Nick che è in arrivo un bambino. Nel cast anche Jessie Ralph, Sam Levene e George Zucco. James Stewart, a inizio carriera, ha un ruolo minore: non era ancora una star.

16 ottobre 2020

Le regole della truffa (Rob Minkoff, 2011)

Le regole della truffa (Flypaper)
di Rob Minkoff – USA 2011
con Patrick Dempsey, Ashley Judd
***

Visto in TV, con Sabrina.

Una banca viene rapinata contemporaneamente da due bande diverse: la prima è composta da tre criminali professionisti e high-tech (Mekhi Phifer, Matt Ryan e John Ventimiglia), la seconda da una coppia di balordi (Tim Blake Nelson e Pruitt Taylor Vince). Fra i clienti, presi in ostaggio insieme al personale dell'istituto, c'è il nevrotico e semi-autistico Tripp (Patrick Dempsey), che non può mettere a tacere le proprie straordinarie capacità osservative, in grado di catturare ogni dettaglio. Grazie a queste, si rende subito conto che c'è qualcosa di strano: forse qualcuno trama nell'ombra, ha manipolato entrambe le bande di rapinatori e ha un secondo (o un terzo) fine... Scritto da Jon Lucas e Scott Moore (gli sceneggiatori di "Una notte da leoni") e diretto dal co-regista de "Il re leone", un heist movie comico e vivacissimo, caratterizzato da un ritmo senza sosta, ricco di false tracce e di colpi di scena: da un lato guarda al cinema corale e umoristico alla Guy Ritchie (alcuni personaggi sembrano usciti da "Snatch"), dall'altro al classico giallo deduttivo alla Agatha Christie (quando tutti i presenti, rapinatori od ostaggi che siano, si sospettano a vicenda, sembra quasi di essere in un remake di "Dieci piccoli indiani" o in una partita di "Cluedo"), con echi da "I soliti sospetti" e "Quel pomeriggio di un giorno da cani", il tutto senza risultare pretenzioso, senza strizzatine d'occhio post-moderne allo spettatore e senza traccia di messaggio morale (è puro intrattenimento!). Merito anche di un protagonista unico nel suo genere, osservatore come Sherlock Holmes ma disinibito e impulsivo per via di una sorta di ADHD (la sindrome di deficit di attenzione e iperattività). Gli altri personaggi sono più stereotipati o macchiettistici, ma comunque adeguatamente funzionali al loro ruolo. Ashley Judd è la cassiera di cui Tripp si innamora, i dipendenti della banca sono interpretati da Jeffrey Tambor (il direttore), Curtis Armstrong, Rob Huebel, Adrian Martinez e Octavia Spencer, e gli altri clienti da Natalia Safran ed Eddie Matthews. Passato quasi inosservato in sala e bistrattato dalla critica, il film meriterebbe una rivalutazione.

15 ottobre 2020

Jojo Rabbit (Taika Waititi, 2019)

Jojo Rabbit (id.)
di Taika Waititi – USA/Nuova Zelanda 2019
con Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie
**1/2

Visto in TV (Now Tv), con Sabrina.

In Germania, mentre infuria la seconda guerra mondiale, il piccolo Johannes "Jojo" Betzler (Davis, al suo esordio), un bambino di dieci anni, entra a far parte della Hitler-Jugend. Pur preso in giro dai ragazzi più grandi (che gli affibbiano l'appellativo di "Jojo coniglio": ed è così che avrebbe dovuto essere tradotto il titolo del film, lasciato invece in originale), Jojo è talmente indottrinato al credo nazista da avere come amico immaginario proprio un simulacro di Adolf Hitler (interpretato dal regista stesso), che lo conforta e lo consiglia davanti a ogni difficoltà della vita. Tutto comincia a cambiare quando il bambino scopre che dietro uno scompartimento segreto della propria casa si nasconde una ragazza ebrea, Elsa (McKenzie), che sua madre Rosie (Scarlett Johansson) ha accolto a sua insaputa. Liberamente ispirato a un romanzo di Christine Leunens ("Come semi d'autunno"), il cui protagonista aveva però 17 anni, un film che affronta i temi del nazionalsocialismo e dell'olocausto con toni originali e da commedia, almeno fino a un certo punto: dopo un eccellente incipit, infatti, la pellicola smarrisce per strada la cosa più interessante e divertente, ovvero l'irriverente Hitler virtuale, per dedicarsi a un più scontato rapporto di amicizia/amore fra il piccolo nazista e la giovane ebrea (già visto con alcune varianti in parecchi film su questo tema, per esempio "Il bambino con il pigiama a righe"). E il modo in cui "Adolf" viene scacciato e letteralmente defenestrato da Jojo, nel finale, appare troppo netto ed eccessivamente enfatico (e non solo perché esso era di fatto un sostituto paterno): l'addio a un amico immaginario avrebbe dovuto essere gestito con più sfumature, ma forse ci si preoccupava troppo di aver reso il Führer simpatico e divertente (e infatti ci sono stati critici che non lo hanno apprezzato). Rimane il merito di aver mostrato la guerra, con i suoi orrori e le sue tragedie, ma anche aspetti quali la propaganda e l'indottrinamento, dal punto di vista di un bambino (anche in questo caso non mancano i precedenti, a partire da "I figli di Hitler" di Dmytryk, girato "in tempo reale" nel 1943). Nel complesso il lungometraggio è piacevole, meno originale di quanto sembri ma dal mood indovinato, che mostra i campi di addestramento come se si trattasse di campi scout, nonché i lati più visionari e infantili di un periodo storico cupo e tragico (quando la guerra arriva fino in città, siamo di fronte alla fine dell'infanzia). Nel cast brilla Sam Rockwell nei panni del bizzarro capitano istruttore Klenzendorf. Nonostante dialoghi a tratti un po' artificiali e qualche luogo comune, la sceneggiatura (dello stesso Waititi) ha vinto l'Oscar. Nell'anacronistica colonna sonora ci sono canzoni dei Beatles e di David Bowie cantate in tedesco. Ambientato in una città della Germania non meglio precisata, il film è stato girato in realtà in Repubblica Ceca. Waititi ha deciso di interpretare personalmente l'Hitler comico (accodandosi a una lista di precedenti illustri, a partire da Chaplin) perché aveva qualche difficoltà a trovare un attore famoso interessato alla parte.

14 ottobre 2020

L'ululato (Joe Dante, 1981)

L'ululato (The howling)
di Joe Dante – USA 1981
con Dee Wallace, Christopher Stone
***

Visto in divx.

Dopo essere stata aggredita a New York da un misterioso stalker (Robert Picardo), la conduttrice televisiva Karen White (Dee Wallace) piomba in uno stato di shock e non ricorda più nulla dell'accaduto. Uno psichiatra, il dottor George Waggner (Patrick Macnee), la invita allora a trascorrere insieme al marito Bill (Christopher Stone) un mese di riposo in una colonia fra i boschi, da lui gestita, a scopi terapeutici. Qui la donna scoprirà che i pazienti del dottore (così come l'uomo che l'aveva aggredita) sono tutti lupi mannari... Da un romanzo di Gary Brandner, un classico dell'horror dei primi anni ottanta, che ha lanciato la carriera di Joe Dante (poi decollata definitivamente con il successivo "Gremlins", prima di arrestarsi per divergenze con gli studios e una serie di flop). Il film è significativamente uscito in un anno, il 1981, di revival per i licantropi (ci furono anche "Un lupo mannaro americano a Londra" di John Landis e il meno celebre "Wolfen, la belva immortale" di Michael Wadleigh). Ma a differenza da Landis, più che al classico uomo lupo della Universal, Dante e gli sceneggiatori John Sayles e Terence H. Winkless guardano alle atmosfere dei film di Val Lewton e Jacques Tourneur (come "Il bacio della pantera"), puntando su uno stato prolungato di tensione impalpabile (che si scioglie nel finale, ma che in precedenza – si pensi ai momenti in cui Karen ode gli ululati nei boschi – costruisce la suspence senza mostrare nulla) e calando i temi horror nelle inquietudini della vita quotidiana e moderna. Memorabile, in particolare, il finale altamente satirico, nel quale una trasformazione in lupo mannaro mostrata in diretta televisiva viene accolta dal pubblico con indifferenza e scetticismo ("È solo un trucco, come lo sbarco sulla Luna!") e interrotta subito da uno spot pubblicitario (di cibo per cani!). Nonostante numerosi ammiccamenti (il cartoon con Ezechiele Lupo, le scatolette di chili Wolf, il poema "Howl" di Allen Ginsberg), omaggi e citazioni (quasi tutti i personaggi minori hanno nomi di celebri registi di film sui lupi mannari, come George Waggner, appunto, ma anche Terence Fisher, Roy William Neill, Erle Kenton, Sam Newfield, Jacinto Molina e Lew Landers), prima del finale il tono del film si mantiene assolutamente serio, mescolando a sequenze horror anche interessanti approfondimenti psicologici (la figura del lupo mannaro è vista come un modo per l'uomo di ricongiungersi con il proprio lato animale e bestiale, la parte primitiva di sé che la civiltà ha cercato di reprimere; ed Eddie Quist, fuggito dalla "colonia" fra i boschi per dare sfogo ai propri istinti nella grande città, lega patologicamente questi impulsi al sadismo e alla pornografia). Rispetto ai licantropi classici, questi temono il fuoco e possono essere uccisi da pallottole d'argento, ma per il resto sono virtualmente immortali (e famelici: non si contano gli indizi legati al consumo di carne). Altre suggestioni sembrano associare il film ad altri capolavori del genere horror: il tema della setta (la colonia) ricorda "Rosemary's baby" di Polanski, la mancanza di via di scampo per la protagonista (anche perché il morso di un lupo mannaro "condanna" la vittima alla stessa sorte) richiama invece "La notte dei morti viventi" di Romero. Gli effetti speciali, di Rob Bottin, sono di ottimo livello, pur con qualche occasionale caduta di stile (come la brevissima sequenza in animazione). Le scene delle trasformazioni, forse non belle come quella del film di Landis, sono altrettanto lunghe e spaventevoli. Nel vasto cast anche Dennis Dugan, Belinda Balaski (Chris e Terri, i due colleghi di Karen), Elisabeth Brooks (Marsha, la "mangiauomini" vestita di pelle), John Carradine, Slim Pickens, Kevin McCarthy, Don McLeod, Noble Willingham. Dick Miller è il libraio, Herbie Braha il commesso del pornoshop. Camei per lo sceneggiatore e futuro regista John Sayles, per Roger Corman e per Forrest J. Ackerman. Con sette sequel (di scarso valore).

13 ottobre 2020

The arrival (David Twohy, 1996)

The arrival (id.)
di David Twohy – USA 1996
con Charlie Sheen, Lindsay Crouse
*1/2

Visto in TV.

Il radioastronomo Zane Zaminsky (Charlie Sheen) capta un segnale proveniente dallo spazio: che si tratti della prova dell'esistenza di vita extraterrestre? Ma i suoi superiori alla NASA non solo rifiutano di dargli retta, ma distruggono le registrazioni del segnale e poi lo licenziano. Con l'aiuto di una ricercatrice che studia i cambiamenti climatici (Lindsay Crouse), Zane scoprirà che è in atto un complotto a più livelli: in effetti gli alieni sono già sulla Terra, hanno assunto fattezze umane e stanno modificando il pianeta, aumentando le temperature per renderlo più adatto alla propria specie... Scritto e diretto da Twohy, al secondo film da regista dopo "Timescape", un thriller d'azione e fantascientifico che attualizza il classico tema dell'invasione aliena, spogliandolo dalle paranoie legate ai sottotesti politici (quelli di pellicole come "L'invasione degli ultracorpi" o "Essi vivono") e rivestendolo invece di argomenti ambientalisti (i pericoli del riscaldamento globale). Peccato che tutto sia raffazzonato e dozzinale, dalla caratterizzazione dei personaggi alle svolte narrative, e che culmini in scene d'azione prive di tensione o di spessore. Molte anche le cadute di stile o le ingenuità (la scena degli scorpioni nella stanza d'albergo in Messico sembra appartenere a un altro genere di film). Nel cast anche Teri Polo (la fidanzata di Zane), Ron Silver (il suo capo) e Tony Johnson (il ragazzino nero). Oscurato alla sua uscita da "Independence day", il film è semmai da confrontare con "Contact" di Robert Zemeckis (uscito l'anno successivo) e "Arrival" di Denis Villeneuve (uscito nel 2016, con cui ha comune il titolo e l'argomento, ma poco altro).

12 ottobre 2020

La febbre degli scacchi (V. Pudovkin, 1925)

La febbre degli scacchi (Shakhmatnaya goryachka)
di Vsevolod Pudovkin e Nikolai Shpikovsky – URSS 1925
con Vladimir Fogel, Anna Zemcova
***

Rivisto su YouTube.

Un giovane (Vladimir Fogel) è talmente ossessionato dal gioco degli scacchi da trascurare la fidanzata Vera (Anna Zemcova), dimenticandosi persino del giorno del suo matrimonio. La "febbre degli scacchi", peraltro, sembra contagiare tutti gli abitanti della città, a prescindere dall'età, dal ruolo o dal ceto sociale, complice anche un importante torneo in corso di svolgimento con numerosi campioni internazionali. Fra questi c'è il campione del mondo José Raúl Capablanca (che interpreta sé stesso), grazie al quale anche la ragazza si appassionerà a sorpresa a questo gioco. E nel finale i due fidanzati si ritroveranno felicemente insieme ad assistere al torneo. Brillante cortometraggio comico che segna ufficialmente l'esordio alla regia di Vsevolod Pudovkin (insieme allo sceneggiatore Nikolai Shpikovsky), già assistente e allievo di Lev Kuleshov, prima delle grandi pellicole a tema storico e sociale che gli daranno la notorietà. Qui siamo in puro territorio slapstick, con gag degne delle comiche di Chaplin o Keaton (dagli infiniti gattini che fuoriescono dagli abiti del protagonista, alle scenette per la strada con poliziotti e passanti, dalle peripezie di Vera che ovunque si volti trova qualcosa di scacchistico a tormentarla, ai tentativi falliti di suicidio dei due fidanzati). Divertente anche come il film testimoni della popolarità che questo gioco (anzi, sport!) godesse già presso il pubblico russo (tanto che un'amica di Vera la mette in guardia: "Il più grande pericolo per la vita coniugale sono gli scacchi!"). Pudovkin e Shpikovsky approfittarono del torneo in corso di svolgimento a Mosca per riprendere non solo Capablanca ma anche altri famosi giocatori durante le partite. Camei per registi sovietici come Boris Barnet e Yakov Protazanov. Si dice che il corto abbia ispirato il romanzo "La difesa di Lužin" di Vladimir Nabokov.

11 ottobre 2020

Idioti (Lars von Trier, 1998)

Idioti (Dogme #2: Idioterne)
di Lars von Trier – Danimarca 1998
con Bodil Jørgensen, Jens Albinus
**1/2

Rivisto in divx.

Guidati da Stoffer (Jens Albinus), un gruppo di ragazzi gioca a "fare l'idiota", ovvero a fingersi ritardati e minorati mentali, anche (e soprattutto) in pubblico. È un modo per esprimere la parte più autentica, infantile e nascosta di sé stessi, ma anche per provocare la reazione o il disagio della gente "normale" e smascherarne le ipocrisie borghesi. I membri del gruppo, che abitano tutti insieme in una villetta di campagna come in una comune, non esitano a inscenare situazioni imbarazzanti, o persino a recitare anche quando si trovano fra di loro. Ma pian piano litigi, incomprensioni e complesse dinamiche interne ne mineranno l'unità, mentre gli interventi esterni di conoscenti e famigliari porteranno a dissolvere l'esperienza: l'unica che la condurrà fino alla fine sarà Karen (Bodil Jørgensen), l'ultima arrivata, timida e introversa, per la quale "fare l'idiota" avrà una valenza liberatoria di fronte all'incomprensione di chi le sta attorno in occasione di una grave tragedia familiare. Il secondo lungometraggio certificato "Dogme 95" (e l'unico del movimento firmato dal suo co-creatore Lars von Trier) è una pellicola che può risultare fastidiosa e sgradevole anche per lo spettatore, "vittima" della recita dei personaggi e costretto ad assistere alle loro performance, comprese scene di nudo e di sesso (molte delle quali eliminate dalla versione italiana), ma che nell'intensa scena finale acquista quello spessore che non sembrava possedere in precedenza. Lungi dall'essere semplicemente irrispettosi e infantili, i protagonisti "cercano l'idiota che hanno dentro di sé" perché, dopo tutto, "la verità la si impara dai bambini e dagli ubriachi" (una frase che ben descrive molti film di LVT, a partire da "Le onde del destino"). In ossequio alle regole del Dogma, il film è girato con la camera a mano, senza illuminazione artificiale, e con un suono in presa diretta e diegetico (il tema del "Cigno" di Saint-Saëns è intonato con un'armonica). Lo stesso regista non è accreditato nei titoli. L'unica norma del decalogo violata è quella che nega l'utilizzo delle controfigure (von Trier ha invece fatto ricorso a due attori pornografici nella scena della penetrazione durante l'ammucchiata). Ogni tanto il montaggio inserisce delle interviste ai membri del gruppo, che come in un documentario rievocano l'esperienza e ne raccontano le dinamiche. La sceneggiatura fu scritta da LVT in soli quattro giorni. Le riprese furono effettuate con una videocamera digitale, lasciando grande spazio all'improvvisazione del cast (che comprende anche Anne Louise Hassing, Nikolaj Lie Kaas, Anne-Grete Bjarup Riis e Troels Lyby).

10 ottobre 2020

Loro (Paolo Sorrentino, 2018)

Loro (aka Loro 1 e Loro 2)
di Paolo Sorrentino – Italia/Francia 2018
con Toni Servillo, Riccardo Scamarcio
**

Visto in divx.

Dopo il film anticonvenzionale che aveva firmato su Giulio Andreotti ("Il divo", nel 2008), Sorrentino si occupa stavolta di Silvio Berlusconi, proseguendo nel portare sul grande schermo (con una "rielaborazione e reinterpretazione in chiave strettamente artistica", come sottolinea precauzionalmente la didascalia introduttiva) le figure più importanti della cronaca e della politica dell'Italia del ventesimo secolo, trasfigurandole a suo modo in chiave pulp e post-moderna. Anche in questo caso, però, l'impressione è che si badi soprattutto all'estetica e alle frasi ad effetto, e che manchi una riflessione non superficiale sul personaggio e sul suo impatto sulla società e la politica italiana (che invece c'era, per esempio, anche nel film di Nanni Moretti "Il caimano"). Berlusconi è ritratto nella sua vita privata, quasi sempre all'interno della villa di Porto Rotondo in Sardegna: siamo attorno al 2008, dunque già negli anni del suo declino, quando cominciano a filtrare i primi scandali sessuali e il matrimonio con Veronica Lario (Elena Sofia Ricci) entra in crisi. Uscito nelle sale diviso in due parti (ma come già nei casi di "Novecento" e "Nymphomaniac", si tratta a tutti gli effetti di un unico film, tanto che in seguito è stata resa disponibile una versione unificata, sia pure con qualche taglio), il lungometraggio reca un titolo curioso, "Loro". Va ovviamente contrapposto a "Lui", come è chiamato Berlusconi nella parte iniziale della pellicola da chi non vuole farne apertamente il nome, rievocando ovviamente un altro celebre "lui" della politica italiana, Benito Mussolini. "Loro" sono tutti quelli che, per lo più per interesse, gravitano attorno a Berlusconi (il titolo francese del film è ancora più esplicito: "Silvio et les autres"), ovvero l'entourage che lo circonda, una corte di "nani e ballerine" che lo sfruttano e ne vengono sfruttati in un mercimonio di potere e di sesso. Fra di essi ci sono figure reali (Mariano Apicella, Noemi Letizia, Ennio Doris, Fedele Confalonieri) e immaginarie (ma in cui si possono facilmente riconoscere personaggi autentici, come Lele Mora, Walter Lavitola, Sandro Bondi, Sabina Began o Daniela Santanché), fra cui spicca Sergio Morra (Riccardo Scamarcio), evidentemente ispirato a Gianpaolo Tarantini, imprenditore pugliese che cerca di entrare nelle grazie di Silvio sfruttando la sua passione per le donne e organizzando una festa a base di ragazze "disinibite" nella sua villa in Sardegna. Berlusconi stesso (interpretato da un sempre ottimo Servillo, vera e propria "maschera" dal perenne sorriso, che parla con cadenza brianzola e canta in napoletano) entra in scena solo dopo un'ora della prima parte (40 minuti nella versione "unificata"), relegando di colpo Scamarcio sullo sfondo e non abbandonando più il centro dell'attenzione. Siamo negli anni del declino, abbiamo detto, in cui il rapporto con Veronica si è irrimediabilmente incrinato, in cui Silvio è politicamente confinato all'opposizione (ma riuscirà a far cadere il governo di centrosinistra grazie alla compravendita di parlamentari), in cui la noia e la stanchezza sono mitigate per l'appunto dalle "cene eleganti".

Costruito su una serie di scenette episodiche e slegate l'una dall'altra (la migliore è probabilmente quella dell'incontro con Ennio Doris, interpretato anch'esso da Servillo che così dialoga con sé stesso, seguita dalla telefonata in cui Silvio – spacciandosi per l'agente immobiliare "Augusto Pallotta" – intende dimostrare a sé stesso di essere ancora il "venditore più bravo di tutti"), che accatastano personaggi macchiettistici, il film si concentra su vari aspetti del personaggio Berlusconi ma non riesce mai a scalfirne la superficie, mostrandocelo evasivo nei momenti chiave (il dialogo con Veronica, ma anche quello con la giovane Stella (Alice Pagani), l'unica che gli resiste). Sorrentino sembra quasi voler giustificare questa mancanza di analisi, dichiarando esplicitamente che in Silvio non c'è più di quello che appare ("La sinistra non riesce a mettermi a fuoco, pensa che tutto sia sempre complesso, e invece è tutto così elementare"). Eppure il regista non sembra nemmeno provarci, e si limita a mostrare la sua megalomania, la sua volgarità, la decadenza, lo sfoggio di ricchezza e potere, la sua ossessione per le donne e il sesso (anche se le ragazze – cui dona, come un marchio, il ciondolo della farfallina – sono tutte rifatte, anoressiche o grossolane, mai – con l'eccezione appunto di Stella – genuinamente "belle"). Qua e là si butta comunque un sassolino, come quando si afferma che Silvio "fa battute e pagliacciate perché afflitto da un grande complesso di inferiorità". Dopo altre scene slegate dal resto (la rielezione, il terremoto all'Aquila, l'incontro con Mike Buongiorno), il film si conclude all'improvviso, quasi random e anticlimaticamente, mostrandoci un Silvio che aziona il suo tanto celebre vulcano finto, all'interno della villa in Sardegna, quando è da solo. E Scamarcio? dimenticato. La lunghezza della pellicola, e il parallelo con personaggi ed eventi reali, può certamente lasciare qualcosa allo spettatore, ma nel complesso mi è parso un film inutile, uno sfoggio di stile che a livello artistico e tecnico, beninteso, è sempre bello o quantomeno interessante, ma che non offre nulla che non si fosse già visto nei lavori precedenti di Sorrentino (e con qualche citazione da "The Wolf of Wall Street" di Scorsese): siamo quasi di fronte a un lungo videoclip, a una sorta di portfolio o demo, con sequenze accompagnate da una colonna sonora che abbina la musica di Lele Marchitelli con varie canzoni pop (ma ci sono anche "Domenica bestiale" di Fabio Concato, cantata da lui stesso, e "Voi che sapete" da "Le nozze di Figaro" di Mozart, per non parlare delle canzoni napoletane intonate da Servillo/Berlusconi, fra cui "Malafemmena"; e non poteva mancare ovviamente "Meno male che Silvio c'è"). Un film in fondo innocuo, che infatti è passato quasi inosservato (niente scandali, sollevazioni o processi) e che, a distanza di soli due anni, già pochi ormai si ricordano. La sua colpa, forse, è anche quella di essere uscito quando ormai Berlusconi è già lentamente scivolato fuori dall'attenzione e dalla vita politica italiana, dopo una sovraesposizione multidecennale che ci ha resi tutti un po' stanchi e poco propensi a interessarci nuovamente al personaggio e a tutto ciò che lo circonda. Nel cast anche Dario Cantarelli (il maggiordomo vestito di bianco), Kasia Smutniak (Kira/Began), Euridice Axen (la moglie di Morra), Fabrizio Bentivoglio (Santino/Bondi), Roberto De Francesco (Sala/Mora), Anna Bonaiuto (Cupa/Santanché) e Ricky Memphis (Pasta/Lavitola).

9 ottobre 2020

Un compleanno da ricordare (J. Hughes, 1984)

Un compleanno da ricordare (Sixteen Candles)
di John Hughes – USA 1984
con Molly Ringwald, Anthony Michael Hall
**1/2

Visto in TV.

Nel giorno tanto atteso in cui compie sedici anni, la liceale Samantha (Molly Ringwald) scopre che nessuno della sua famiglia, la cui attenzione è calamitata dal matrimonio della sorella previsto per il giorno dopo, si è ricordato della ricorrenza. E a scuola le cose non vanno molto meglio, visto che Sam non trova il coraggio di dichiararsi a Jake (Michael Schoeffling), il ragazzo più grande di cui è innamorata, mentre nel contempo deve tenere a bada le attenzioni non gradite dell'intraprendente matricola Ted (Anthony Michael Hall)... È il film d'esordio alla regia per Hughes, maestro della commedia per teenager degli anni ottanta, che poi firmerà classici del genere come "Breakfast club", "La donna esplosiva" e "Una pazza giornata di vacanza", prima di dedicarsi esclusivamente alla sceneggiatura. I temi ci sono tutti: quelli legati alla crescita e allo scarto generazionale (i nonni, e le figure adulte in generale, sono comicamente distanti, assenti, disinteressati o incomprensibili), quelli comico-farseschi, quelli incentrati sulle dinamiche famigliari e scolastiche, e quelli prettamente romantici, miscelati insieme in maniera efficace e con un finale soddisfacente. Il punto di vista è quasi sempre adolescenziale, mai moralista (anche quando si parla di sesso), retorico o paternalista, il che naturalmente è un grande pregio. Certo, non mancano personaggi (il cinese Long Duk Dong, la tettona, la ragazza geek) sopra le righe o politicamente scorretti, che oggi per vari motivi sarebbero considerati imbarazzanti o impresentabili, ma in realtà non si va mai oltre la "semplice" stupidità (che indubbiamente a tratti può anche far ridere). Più problematiche forse la battuta sull'automobile nera e in generale il personaggio di Caroline. Da notare l'utilizzo ironico di celebri temi musicali. Nel vasto cast, in ruoli minori, anche i fratelli John e Joan Cusack.

8 ottobre 2020

Che fine ha fatto Bernadette? (R. Linklater, 2019)

Che fine ha fatto Bernadette? (Where'd You Go Bernadette)
di Richard Linklater – USA 2019
con Cate Blanchett, Billy Crudup
**1/2

Visto in TV (Prime Video), con Sabrina.

Un tempo un'eccentrica ma brillante architetta, Bernadette Fox (Blanchett) si è ritirata dalle scene da vent'anni. Fortemente misantropa, vive da reclusa in una grande e decadente villa a Seattle, dove l'ha portata il marito Elgie (Crudup) che lavora alla Microsoft, e trascorre le giornate facendo acquisti su internet, comunicando con un'assistente virtuale o in perenne lite con la vicina Audrey (Kristen Wiig) e con le madri dei compagni di classe della figlia sedicenne Bee (Emma Nelson), unica persona che la comprende. Ma proprio il desiderio della figlia di organizzare una crociera in Antartide per tutta la famiglia la fa piombare in uno stato di stress e di ansia irrazionale. E quando il marito suggerisce un suo ricovero in una clinica psichiatrica, Bernadette fugge di casa e si reca in Antartide da sola. Qui, in un continente ghiacciato che è più un luogo mentale che fisico, ritroverà fiducia ed entusiasmo grazie a una nuova sfida creativa, quella di progettare una base scientifica al Polo Sud. Da un romanzo di Maria Semple, un ritratto di una donna irrequieta e in balia delle proprie spinte creative e distruttive (come la trimurti della mitologia indiana): Bernadette è un'artista che ha smesso di creare, soggetta a pressioni sociali e a responsabilità da cui cerca di fuggire in ogni modo, che però saprà trovare un nuovo equilibrio nel luogo più lontano e isolato di tutti. Nonostante un lieto fine un po' facile, la pellicola scorre gradevole e leggera, grazie a personaggi simpatici (anche nella loro acidità) e a situazioni a tratti esilaranti, che mescolano il dramma con la commedia, senza rinunciare a descrivere l'alienazione in una società moderna e interattiva. La critica non l'ha gradita più di tanto, ma io mi sono divertito. Il cast comprende anche Laurence Fishburne, Zoë Chao, Judy Greer e James Urbaniak. Nella colonna sonora (e sui titoli di coda, che illustrano la costruzione della base in Antartide) c'è "Time after time" di Cyndi Lauper. Il titolo italiano, senza motivo e in maniera poco originale, richiama "Che fine ha fatto Baby Jane?".

7 ottobre 2020

5 cm al secondo (Makoto Shinkai, 2007)

5 cm al secondo (Byosoku 5 senchimetoru)
di Makoto Shinkai – Giappone 2007
animazione tradizionale
**

Visto in TV.

Diviso in tre episodi ambientati a qualche anno di distanza l'uno dall'altro, il secondo lungometraggio di Makoto Shinkai (anche se rientra nella definizione per il rotto della cuffia, visto che dura poco più di un'ora) è una riflessione poetica e romantica sui rapporti sentimentali e sui concetti di spazio e tempo che tengono a distanza le persone. Nel primo segmento, "Il capitolo dei fiori di ciliegio", il protagonista Takaki e l'amica Akari si separano alla fine delle scuole elementari, quando lei si trasferisce da Tokyo nella vicina prefettura di Tochigi. Un anno più tardi, Takaki cercherà di raggiungerla in treno. Ma una forte nevicata manda in tilt il sistema dei trasporti, e il ragazzo giungerà in ritardo all'appuntamento... Il secondo, "Cosmonauta", è ambientato alla fine del liceo, che Takaki ha frequentato nell'isola di Tanegashima, dove sorge il centro spaziale giapponese. Stavolta la voce narrante è quella di Kanae, ragazza di lui innamorata, che però rinuncia a dichiararsi quando capisce che l'amico ha un'altra persona nel cuore. Infine il terzo, "5 centimetri al secondo", ci mostra il protagonista nella vita adulta, in preda ai rimpianti per ciò che non è stato: le scenografie tornano nei luoghi del primo episodio, mentre un rapido montaggio di immagini, sogni e ricordi (sulle note della canzone "One more time, one more chance" di Masayoshi Yamazaki) permette di riconnettere le esistenze di Takaki e Akari. Se preso a sé stante, ciascuno dei tre segmenti è caratterizzato da una storia in fondo esile e banale, con personaggi debolmente caratterizzati e che non rifuggono dai cliché delle storie romantiche o a sfondo scolastico. A dargli un valore aggiunto è il collante, nonché lo stile realizzativo, che mostra un estremo realismo nel disegno degli sfondi, con ambientazioni e scenografie al limite del fotoricalco. Meno indovinati invece i personaggi, dal design anonimo e appena abbozzato. Nel complesso una pellicola a tratti interessante ma che lascia il tempo che trova, forse troppo forzatamente (e pesantemente) "poetica", ma che potrà risuonare in chi sta vivendo (o ha vissuto) un'adolescenza fatta di amori incompiuti. Vaghe suggestioni cosmico-fantascientifiche (l'esplorazione spaziale come metafora dei contatti umani) nel secondo segmento, il migliore dei tre. Il pretestuoso titolo, spiegato quasi subito, si riferisce alla presunta velocità con cui i fiori di ciliegio cadono a terra.

6 ottobre 2020

Parigi ci appartiene (Jacques Rivette, 1961)

Parigi ci appartiene (Paris nous appartient)
di Jacques Rivette – Francia 1961
con Betty Schneider, Françoise Prévost
*1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

A Parigi, nell'estate del 1957, la studentessa di lettere Anne Goupil (Betty Schneider) viene introdotta dal fratello Pierre (François Maistre) in un circolo di artisti e intellettuali irrequieti e nichilisti. Uno di essi, lo scrittore americano Philip Kaufman (Daniel Crohem), in esilio dagli Stati Uniti per via del maccartismo, le rivela che il recente suicidio del musicista Juan potrebbe essere dovuto a un complotto da parte di una misteriosa "organizzazione" che intende prendere il potere su scala mondiale, e che la sua ex ragazza, l'enigmatica femme fatale Terry Yordan (Françoise Prévost), ne sarebbe coinvolta. Terry ora sta con Gerard Lenz (Giani Esposito), regista teatrale impegnato a mettere in scena, fra mille difficoltà, il "Pericle" di Shakespeare. Innamoratasi di Gerard, quando scopre che proprio lui potrebbe essere la prossima vittima, Anne si getta alla ricerca di un nastro perduto con la registrazione delle musiche di Juan, che potrebbe essere la chiave del mistero. Distribuito nel dicembre 1961 dopo una lunga gestazione (era stato scritto nel 1957 e girato a partire dal 1958), il primo (ambizioso) lungometraggio di Jacques Rivette è uno strano thriller avvolgente ma fumoso, che fino alla fine lascia nell'incertezza e nel dubbio, senza compensare lo spettatore per la lunga visione. Tutto è infatti vago e confuso, e si respira un forte senso di improvvisazione, non giustificato dal fascino che gli autori della Nouvelle Vague hanno sempre nutrito per la narrativa e il cinema di genere (giallo, noir e spionaggio in primis). Il titolo (ispirato a una frase di Peguy, "Paris n'appartient à personne") è ironico, visto che i protagonisti si sentono tutt'altro che parte di Parigi: sono soli e squattrinati, immigrati e alienati, carichi di dubbi e di angoscia esistenziale, e la città stessa fa di tutto per tenerli a distanza (si intravedono piazze deserte, strade notturne, tetti e piccole stanze in affitto). Crisi personali, paure di complotto, paranoia politica, mistero e tensione si intrecciano senza un vero perché: e se alcuni personaggi sono ben costruiti (l'ingenua e innocente Anne, che ha il suo contraltare nella fredda e misteriosa Terry; Gerard, che perde il controllo sul proprio spettacolo quando inizia a accettare troppi compromessi), l'insieme manca di troppa sostanza per convincere appieno. Come in molti film della Nouvelle Vague, l'arte fa capolino da tutte le parti: i personaggi guardano una sequenza del "Metropolis" di Fritz Lang, Philip disegna inquietanti mostri stilizzati dalla bocca enorme, il "Pericle" è descritto come una metafora della vita intera (o forse del film stesso: "Pericle descrive un mondo caotico ma non assurdo, come il nostro", dice Gerard). Nel cast anche Jean-Claude Brialy (Jean-Marc, l'attore amico di Anne) e Jean-Marie Robain (l'ambiguo economista De Georges). Camei per Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Jacques Demy e lo stesso Rivette.

Le coup du berger (Jacques Rivette, 1956)

Le coup du berger
di Jacques Rivette – Francia 1956
con Virginie Vitry, Jean-Claude Brialy
**1/2

Visto su YouTube, in originale.

La bionda Claire (Virginie Vitry) riceve in regalo una bella pelliccia di visone dal suo amante Claude (Jean-Claude Brialy). Non potendo giustificare la cosa agli occhi del marito Jean (Jacques Doniol-Valcroze), escogita allora un trucco: chiude la pelliccia in una valigia che lascia al deposito bagagli della stazione, e finge di aver trovato per caso il tagliando che consente di ritirarla, incaricando il marito di farlo. La valigia che Jean riporta a casa, tuttavia, non contiene la preziosa pelliccia ma soltanto un manto di coniglio di scarso valore. La sera, a una festa, vedendo la pelliccia indossata dalla sorella Solange (Anne Doat), Claire capirà che anche il marito aveva un'amante... Tratto da un racconto di Roald Dahl ispirato a un popolare aneddoto (già portato al cinema due anni prima in "Accadde al commissariato" di Giorgio Simonelli, e in seguito trasposto anche in un episodio della serie televisiva "Alfred Hitchcock presenta"), e raccontato da una voce narrante (quella di Rivette) come se si trattasse di una simbolica partita a scacchi (il titolo originale, "Il colpo del pastore", è l'equivalente del nostro "matto del barbiere"), questo cortometraggio segna l'esordio professionale da regista per Jacques Rivette e, in un certo senso, per l'intero gruppo della Nouvelle Vague. Le riprese furono eseguite nell'appartamento di Claude Chabrol, all'epoca collega di Rivette ai "Cahiers du cinéma", che lo finanziò grazie a un'eredità della moglie, insieme alla casa di produzione Les Films de la Pleïade di Pierre Braunberger, e contribuì alla sceneggiatura con Rivette e il direttore della fotografia Charles Bitsch. Jean-Marie Straub è l'aiuto regista. Fra gli invitati alla festa si riconoscono lo stesso Chabrol, François Truffaut e Jean-Luc Godard.

5 ottobre 2020

Un lupo mannaro americano a Londra (J. Landis, 1981)

Un lupo mannaro americano a Londra
(An American Werewolf in London)
di John Landis – USA/GB 1981
con David Naughton, Jenny Agutter
***

Rivisto in TV.

Due giovani americani, in vacanza in Gran Bretagna, vengono aggrediti nella brughiera scozzese da una misteriosa creatura selvaggia: Jack (Griffin Dunne) ci rimette le penne, mentre David (David Naughton), ricoverato a Londra, viene informato dal fantasma dell'amico che al primo plenilunio si trasformerà in un lupo mannaro. Mettiamo subito le cose in chiaro: nonostante il nome del regista/sceneggiatore (e il titolo che richiama "Un americano alla corte di Re Artù" di Mark Twain, libro peraltro citato nei dialoghi), questo film non è una commedia, bensì un horror con tutte le carte in regola e con una notevole dose di gore, che gioca ad attualizzare un classico dei mostri Universal ("L'uomo lupo" del 1941 con Lon Chaney Jr., anch'esso citato dai personaggi), rivisitandolo in chiave moderna, realistica e quotidiana. Landis aveva già realizzato qualcosa del genere con il suo film d'esordio, "Slok", ma quello era a tutti gli effetti una parodia. Qui invece, coadiuvato dagli stupefacenti (per l'epoca) effetti speciali di Rick Baker (che mostrano "in diretta" la trasformazione di David in licantropo, oltre che Jack in vari stati di decomposizione, e che vinsero la prima edizione dell'Oscar per il miglior trucco), confeziona un film che fa davvero paura e che coinvolge anche con la trovata di rendere protagonista della vicenda (suo malgrado) proprio il "mostro", per lunghi tratti inconsapevole di essere tale e convinto che l'amico che gli appare anche dopo la morte sia soltanto uno dei tanti incubi notturni che lo perseguitano. Fra le dichiarate fonti di ispirazione, anche "Il mastino dei Baskerville" e naturalmente "Dracula" (per le scene nel pub). Landis ammise che la sequenza della trasformazione era forse troppo lunga, ma la qualità del lavoro di Rick Baker fu tale che non se la sentì di tagliare alcunché. Fra le scene più memorabili, quella in cui David cerca di farsi arrestare da un bobby insultando gli inglesi ("La regina Elisabetta è un uomo!... Shakespeare è francese!") e quella in cui incontra le proprie vittime in un cinema porno a Piccadilly Circus (il film che si vede sullo schermo, girato appositamente da Landis, è "See You Next Wednesday", pellicola-cameo che ricorre per scherzo in quasi tutti i lavori del regista). Jenny Agutter è l'infermiera Alex, che accudisce David e si innamora di lui. Nel cast anche John Woodvine (il dottor Hirsch), Brian Glover (uno degli avventori del pub "L'agnello maciullato") e Frank Oz (l'ambasciatore americano). La bella colonna sonora comprende molte canzoni e ballate dedicate alla luna, come "Blue Moon" (sui titoli di testa e di coda), "Moondance" e "Bad Moon Rising". Nel 1997 è uscito un sequel ("Un lupo mannaro americano a Parigi").

4 ottobre 2020

Sangue bleu (Nino Oxilia, 1914)

Sangue bleu
di Nino Oxilia – Italia 1914
con Francesca Bertini, Angelo Gallina
**1/2

Visto su YouTube.

L'irrequieta principessa Elena di Montvallon (o Mira di Monte Cabello, a seconda delle copie) si separa consensualmente dal consorte, il principe Egon, stufo della sua continua gelosia. Per via delle macchinazioni di una rivale, che grazie alle foto di due investigatori privati la fa accusare di frequentazioni illecite, le viene però tolta la custodia dell'amata figlioletta. Caduta in disgrazia e finita nelle braccia di un attore francese (André Habay), che ne dilapida le ricchezze al gioco e la costringe a recitare in teatro (!) per guadagnare altro denaro, mediterà il suicidio in scena, durante una rappresentazione della "Carmen". Curioso melodramma (genere che all'epoca era assai popolare nel cinema italiano: si pensi anche a "Ma l'amor mio non muore" di Mario Caserini, uscito l'anno precedente) con la classica eroina che soffre senza colpe per la crudeltà di chi le sta intorno, ambientato in un mondo di nobili costretti a "contaminarsi" con la borghesia (la protagonista soffre perché le è stata tolta la figlia, certo, ma anche perché deve umiliarsi recitando in pubblico, lei che in precedenza lo aveva fatto soltanto per beneficenza e davanti ai suoi pari), ma che dà ampio spazio alla rappresentazione dei sentimenti e dei tormenti interiori attraverso suggestive immagini. Da sottolineare l'inatteso lieto fine. Al di là del soggetto prosaico, quello del talentuoso Oxilia – già noto come poeta e commediografo, e celebre per "Addio giovinezza!" – è un cinema già maturo per i temi e per lo stile: la regia cerca inquadrature varie e dinamiche, la fotografia sfrutta in maniera magistrale le luci e le ombre, le scenografie sono realistiche e non più teatrali, la recitazione comincia a scolorire l'enfasi in momenti più intimi e compassati. Il regista morirà purtroppo a soli 28 anni durante la prima guerra mondiale, dopo aver firmato solo una manciata di film. La Bertini fu una delle prime "dive" del cinema italiano, insieme a Maria Jacobini e Lyda Borelli. La copia esistente è stata restaurata a partire da una pellicola conservata in un museo olandese.

3 ottobre 2020

La vallée (Barbet Schroeder, 1972)

La vallée, aka Obscured by Clouds
di Barbet Schroeder – Francia 1972
con Bulle Ogier, Michael Gothard
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Interessata all'acquisto di piume di uccelli esotici, Viviane (Bulle Ogier), moglie di un diplomatico in vacanza in Nuova Guinea, si unisce alla spedizione di un gruppo di ragazzi francesi verso una valle misteriosa nel cuore dell'isola, situata fra montagne inaccessibili e in zone inesplorate e non segnate sulle mappe. Il secondo lungometraggio di Schroeder racconta di un viaggio verso l'ignoto che è contemporaneamente una ricerca della libertà e del cambiamento e un desiderio di tornare al "paradiso perduto". Già prima di partire la protagonista, ricca e annoiata borghese, si lascia attrarre dallo stile di vita libero e anticonformista dei suoi compagni di viaggio, che praticano l'amore libero e consumano droghe: e l'incontro con la natura e gli indigeni la portano lentamente a conoscere e ad esplorare sempre di più la parte più "naturale" e selvatica del mondo che la circonda e di sé stessa. La meta, come detto, è simbolicamente il "paradiso" (da cui provengono appunto gli uccelli del paradiso, il cui bellissimo piumaggio colorato è irresistibile fonte di desiderio), e il percorso per raggiungerlo – dapprima in jeep, poi a cavallo e infine a piedi, attraversando la giungla e inerpicandosi su montagne avvolte nella nebbia – è disseminato di insidie (quale il serpente, di cui inizialmente Viviane ha terrore ma con cui poi familiarizza). Ma attenzione: come Olivier (Michael Gothard), uno dei quattro compagni di Viviane, spiega a una protagonista che dopo essere stata accolta fra gli indigeni e invitata a partecipare alle loro cerimonie si illude di essere entrata a far parte della tribù, "il paradiso ha tante uscite ma nessun ingresso", e una volta persa l'innocenza è quasi impossibile ritrovarla: "dalla conoscenza non si torna indietro, e forse dovevamo fare il contrario di quello che abbiamo fatto, ovvero dare un altro morso alla mela". Gli aborigeni che appaiono sullo schermo appartenevano alla tribù Mapuga. Come il precedente "More", anche questo film ha una colonna sonora firmata appositamente dai Pink Floyd, che la pubblicarono nell'albo "Obscured by Clouds". Mai doppiata o distribuita in Italia, la pellicola è fortemente legata alla cultura hippie e anni '70. Ma per l'interessante stile quasi improvvisato e antropologico sembra anticipare certe cose di Peter Weir e Werner Herzog.

2 ottobre 2020

Moonlight whispers (Akihiko Shiota, 1999)

Moonlight whispers (Gekko no sasayaki)
di Akihiko Shiota – Giappone 1999
con Kenji Mizuhashi, Tsugumi
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La liceale Satsuki (Tsugumi) rompe il fidanzamento con Takuya (Mizuhashi), suo compagno nella squadra di kendo della scuola, dopo aver scoperto che lui è incapace di condurre una relazione normale. Il ragazzo, infatti, è masochista e feticista, le ruba oggetti intimi e la registra di nascosto, preferendo questi simulacri a un rapporto diretto con lei. Non si tratta però di una perversione fine a sé stessa, ma dell'unico modo che ha di amarla: vuole starle vicino, osservarla e condividere la sua vita come se fosse il suo cagnolino. Dopo l'iniziale repulsione, pian piano anche lei comincia a essere attratta, seppur controvoglia, dal potere che esercita su di lui, umiliandolo e costringendolo a seguirla e ad assistere di nascosto ai suoi incontri con altri ragazzi. I temi del feticismo, della dominanza e della sottomissione, delle perversioni sessuali e del sadomasochismo sono trattati con inconsueta delicatezza in una pellicola – tratta da un manga – di ambientazione liceale e con tutte le caratteristiche dei film romantici per adolescenti, come solo i giapponesi sanno fare. Siamo di fronte in fondo a una storia di coming-of-age, con due ragazzi alla scoperta di un modo diverso da quello comunemente accettato (ma altrettanto valido) di amarsi. Insieme a "Don't look back", uscito in contemporanea, si tratta del film d'esordio (e forse più noto) di Shiota.

1 ottobre 2020

La ragazza nella nebbia (D. Carrisi, 2017)

La ragazza nella nebbia
di Donato Carrisi – Italia 2017
con Toni Servillo, Alessio Boni
**

Visto in TV, con Sabrina.

In una cittadina di montagna, isolata in una valle delle Alpi, una ragazza sparisce misteriosamente alla vigilia di Natale. A indagare sulla sua scomparsa, temendo sia rimasta vittima di un omicidio, giunge lo spregiudicato ispettore Vogel (Toni Servillo), i cui metodi consistono nel richiamare l'attenzione dei mass media e spettacolarizzare la vicenda, manipolando le informazioni e spingendo così il colpevole a commettere un passo falso. Colpevole che l'ispettore ritiene di aver individuato nel professor Martini (Alessio Boni), insegnante nel liceo locale: e pur avendo soltanto lievi indizi, non esita a manipolare le prove per poterlo arrestare... L'opera prima dello scrittore Donato Carrisi, tratta ovviamente da un suo romanzo, è un giallo-noir ricco di colpi di scena e dalla struttura non banale (la vicenda principale è in realtà raccontata in flashback dallo stesso ispettore Vogel al dottor Flores (Jean Reno), psichiatra che lo interroga perché a sua volta è accusato di un omicidio), con un soggetto interessante (anche se per molti versi implausibile) ma numerosi problemi a livello di sceneggiatura. E non mi riferisco solo ai dialoghi scolastici, di qualità amatoriale o da fiction televisiva, ma soprattutto alla caratterizzazione dei personaggi, Vogel in primis, per certi versi pretestuosa (e funzionale solo alle necessità dell'intreccio) e per altri oscillante e contraddittoria (è davvero poco credibile, per esempio, che un ispettore che ci è stato presentato come poco interessato alla verità, al punto da non esitare a mandare sotto processo un sospettato senza prove o addirittura falsificandole, nonché abituato a manipolare i media e l'opinione pubblica, si trasformi improvvisamente in un vendicatore in prima persona in nome di un senso di giustizia che mai aveva dimostrato di possedere). Anche l'ambientazione è troppo vaga: girato in Alto Adige (in Val d'Ega, a Nova Levante e Carezza), il film si svolge in una cittadina dal nome francese, dove si parla italiano ma i cognomi sono tedeschi: che volesse essere in Svizzera? Imperdonabile comunque la neve che va e viene, da scena a scena, in maniera casuale. Nel complesso, un film che avrebbe meritato una revisione della sceneggiatura e una regia più esperta, visto che l'idea di base e gli attori di talento non mancavano. Curiosità: dieci anni prima, Servillo aveva interpretato un film per certi versi simile a questo, "La ragazza del lago" di Andrea Molaioli.