9 agosto 2020

Il Signore degli Anelli: Il ritorno del re (Peter Jackson, 2003)

Il Signore degli Anelli: Il ritorno del re
(The Lord of the Rings: The Return of the King)
di Peter Jackson – USA/Nuova Zelanda 2003
con Elijah Wood, Ian McKellen, Viggo Mortensen
***1/2

Rivisto in DVD (versione estesa).

"La battaglia per il Fosso di Helm è finita, la battaglia per la Terra di Mezzo sta per cominciare". C'eravamo lasciati così, al termine de "Le due torri", sull'orlo della guerra con Sauron e con il destino dell'anello in sospeso. E il terzo e conclusivo capitolo de "Il Signore degli Anelli" non delude le attese, rivelandosi la pellicola più epica e grandiosa della trilogia tratta dal romanzo di J.R.R. Tolkien, nonché la più lunga (oltre quattro ore nell'edizione estesa!). Dopo un breve prologo sull'origine di Gollum, quando era ancora un hobbit di nome Sméagol (Andy Serkis per una scena può recitare in prima persona, senza "rivestimenti" digitali: forse un premio per il suo exploit nel precedente film), prosegue il viaggio di Frodo e Sam verso Mordor. Gollum li guida per un pericoloso sentiero segreto, che sfiora la roccaforte di Minas Morgul (da cui escono le armate di Sauron, guidate dai Nazgûl e dirette contro Gondor) e si inerpica sulle montagne fino alla fortezza di Cirith Ungol. Durante il tragitto Gollum tradisce i suoi compagni: dopo aver separato Sam da Frodo, lascia che questi cada vittima del gigantesco ragno Shelob. Catturato dagli orchi di Cirith Ungol, sarà salvato da Sam che lo sosterrà fino a Monte Fato. Nel frattempo i restanti membri della compagnia dell'anello, finalmente riuniti dopo la battaglia del Trombatorrione, si confrontano con Saruman fra le rovine di Isengard. In una scena presente soltanto nell'edizione estesa del film (ne parliamo dopo) lo stregone bianco è ucciso dal suo stesso servitore, Gríma Vermilinguo. Più tardi i nostri si dividono di nuovo: Gandalf si reca a Minas Tirith, capitale di Gondor, per prepararla all'imminente assedio, conducendo con sé Pipino, che ha incautamente guardato nel palantír di Saruman, la pietra veggente con la quale lo stregone comunicava con Sauron. Aragorn (cui il mezzelfo Elrond ha consegnato Narsil, la spada di Isildur ora riforgiata, a suggello della sua autorità regale), Legolas e Gimli decidono di seguire il Sentiero dei Morti, radunando così gli spiriti di un antico popolo che tremila anni prima aveva tradito la propria alleanza con Gondor e che ora avrà l'occasione di riscattarsi. Merry, infine, rimane a Dunclivo, l'accampamento dove re Théoden ha radunato tutti i guerrieri di Rohan, in attesa di scendere a sua volta in battaglia.

Guidate dall'orco Gothmog, le forze di Sauron assediano Minas Tirith approfittando della confusione che regna in città. Il governatore reggente Denethor ha infatti smarrito ogni speranza e, dopo aver costretto il figlio Faramir a lanciarsi in un'inutile spedizione suicida per riconquistare le rovine di Osgiliath (da cui torna gravemente ferito), si rivela incapace di organizzare una difesa adeguata: sarà Gandalf a farlo al suo posto, dopo aver inviato – con l'aiuto di Pipino – una richiesta d'aiuto a Rohan. I Rohirrim giungono ai campi del Pelennor, davanti alla mura della città, proprio nel momento in cui la sconfitta sembrava ormai imminente, ovvero dopo che gli orchi avevano sfondato la porta di Minas Tirith con l'enorme ariete Grond. L'arrivo della cavalleria capovolge le sorti della battaglia, ma solo per un attimo: alla carica dei Rohirrim contro gli orchi, Sauron risponde con l'avanzata dei Sudroni (a bordo dei colossali olifanti). E mentre Éowyn ha il suo momento di gloria sconfiggendo (con l'aiuto di Merry) il Re degli Stregoni di Angmar, il temibile signore dei Nazgûl che aveva abbattuto re Théoden (e che, secondo una profezia, "nessun uomo può uccidere": viene infatti sconfitto da una donna e da uno hobbit), il provvidenziale arrivo di Aragorn e dell'esercito dei morti a bordo delle navi dei corsari di Umbar sugella finalmente la vittoria delle forze dell'Ovest. Non resta che l'ultimo passo: marciare direttamente contro Mordor per attirare le restanti truppe di Sauron davanti al Cancello Nero, distogliendo l'attenzione dell'Oscuro Signore da Monte Fato, dove Frodo e Sam stanno conducendo in segreto l'anello. Ma nelle viscere del vulcano, proprio davanti al fuoco del Sammath Naur, Frodo si lascerà tentare dal suo potere: sarà l'intervento di Gollum a causare involontariamente la distruzione dell'anello e la sconfitta definitiva di Sauron, il cui spirito si disperde. La lunga pellicola si conclude con una serie di finali concatenati: la felice riunione fra i personaggi sopravvissuti, l'incoronazione di Aragorn a Gondor (e il suo matrimonio con Arwen), il ritorno a casa degli hobbit e, infine, la partenza degli ultimi elfi (ma anche di Gandalf, Bilbo e Frodo) dai Rifugi Oscuri, verso le Terre Imperiture.

A saga conclusa, si può ben dire che si è trattato di un evento cinematografico senza pari e con un respiro d'altri tempi: il film di Peter Jackson (perché è di un unico film diviso in tre parti che si tratta, in fondo: ricordo ancora che le tre pellicole sono state girate tutte insieme e di fila, nell'arco di 14 mesi, per poi richiedere un lungo lavoro di post-produzione) non può essere paragonato a nulla di ciò che era stato prodotto nei trenta-quarant'anni precedenti, almeno da Hollywood. Bisogna tornare a nomi come i già citati David Lean o Akira Kurosawa per trovare termini di confronto adeguati. E rispetto ai due precedenti capitoli, in questa terza pellicola la portata degli eventi si eleva su scala ancora maggiore, mentre la guerra dell'anello finisce col coinvolgere eserciti di proporzioni colossali. Ogni personaggio viene trasfigurato e ogni vicenda innalzata a dimensioni epiche, senza però rinunciare a scrutare nell'intimo dei protagonisti e nelle loro motivazioni personali. Ciascuno, infatti, va incontro alla guerra e alla morte in modo differente: Éowyn nel disperato tentativo di sfuggire al peso delle consuetudini e per combattere al fianco di colui che ama; Faramir per la tragica lealtà nei confronti del padre e del suo popolo; Théoden per il desiderio di riscatto e per tener fede a un'antica alleanza; Pipino per rimediare agli errori commessi; Merry per non lasciare da soli i suoi amici; Aragorn per affrontare senza più alcun timore il suo glorioso destino; Frodo, naturalmente, per vincere i propri fantasmi e le proprie tentazioni, impersonate nel terribile anello. E, più importante di tutti, Sam per l'amicizia e la fedeltà verso l'amico, che non abbandona nemmeno nell'ora più buia, quando le ferite che non guariscono mai e i fardelli troppo pesanti da portare sembrano sbarrare la porta anche agli ultimi raggi di luce. Innumerevoli i momenti indimenticabili e le scene di grande cinema, tanto per gli spettatori a digiuno del romanzo quanto per chi lo conosce a menadito: si pensi al confronto fra Éowyn e il signore dei Nazgûl ("Io non sono un uomo!"), o a Gandalf che conforta Pipino parlandogli della morte ("La grande cortina di pioggia di questo mondo si apre e tutto si trasforma in vetro argentato. E poi... bianche sponde. E al di là di queste, un verde paesaggio sotto una lesta aurora", una descrizione che gli sceneggiatori hanno preso dall'ultimo capitolo del romanzo, quando Frodo veleggia verso Valinor).

Come e forse più degli altri due film, tuttavia, anche questo ha alcuni difetti. Nonostante la lunghezza, mancano delle risoluzioni, e molte cose sono state sacrificate per esigenze di tempo. In particolare, nell'edizione uscita al cinema, è assente il confronto finale con Saruman, lo stregone così catastroficamente sconfitto al termine del secondo film da negare a Christopher Lee persino una comparsata finale, privo di poteri e rinchiuso nella sua torre semidistrutta e guardata a vista dagli Ent: la scena della sua morte per mano di Gríma sarà inserita solo nell'edizione estesa, uscita in DVD. Si tace poi sulle ragioni della follia di Denethor e sull'origine del suo pessimismo, cosa che impoverisce il personaggio, forse quello al quale la trilogia cinematografica ha reso meno giustizia, trasformandolo da una figura tragica in un villain irrazionale e antipatico. Soltanto pochi secondi (e, anche in questo caso, solo nell'edizione estesa) sono riservati alle "Case di guarigione", uno dei miei capitoli preferiti del libro, e di conseguenza a una degna conclusione per Éowyn e Faramir. Infine, nonostante parecchi critici si siano lamentati del finale tirato per le lunghe, io la penso in maniera opposta: trovo che l'incoronazione del re e i "molti addii" siano volati troppo in fretta e avrei desiderato che il regista (e il montatore) ci si fossero soffermati per qualche minutino in più. Il difetto principale, comunque, è che gran parte della prima metà del film serve essenzialmente a far "andare avanti" la storia. C'è troppa carne al fuoco (il palantír, l'arrivo di Gandalf e Pipino a Minas Tirith, la spedizione di Faramir a Osgiliath, Aragorn sul sentiero dei morti, Minas Morgul, Shelob) per soffermarsi su ognuno di questi episodi con la dovuta calma. Il risultato è che per un'ora e mezza le vicende si dipanano senza suscitare lo stesso coinvolgimento emotivo dei film precedenti. Poi, miracolosamente, tutto cambia: quando i cavalieri di Rohan caricano davanti a Minas Tirith, ci accorgiamo di essere di fronte a un momento che attendevamo da anni. Da lì in poi, si sfiora il capolavoro. La battaglia dei campi del Pelennor, colossale ed epica, è molto diversa da quella del Fosso di Helm vista ne "Le due torri": non un assedio notturno sotto la pioggia, ma uno scontro in campo aperto e alla luce del giorno, altrettanto disperato ma decisamente più eroico.

Fra le scene più memorabili ci sono naturalmente quelle degli hobbit a Mordor, il vero nucleo narrativo del film. Di fronte a un Frodo sempre più provato (e tentato) dal fardello che ha scelto di trasportare, abbiamo un Sam che cresce fino a diventare praticamente la figura centrale della pellicola (se indubbiamente Frodo era il protagonista de "La compagnia dell'anello" e Aragorn quello de "Le due torri", Sam lo è a buon diritto de "Il ritorno del re"): e Sean Astin, rimasto un po' nell'ombra nelle pellicole precedenti, diventa di colpo il MVP della trilogia. Come ha detto qualcuno, è facile affrontare drammi e pericoli se si sa che alla fine c'è la ricompensa: ma è quando svanisce persino l'illusione della ricompensa che ci vuole Samvise ("Non posso portare il vostro fardello, padron Frodo, ma posso portare voi"). Sam è un personaggio che cresce lentamente anche nel romanzo, ma giunti alla fine sembra naturale che la storia si chiuda con lui, uno dei pochi a resistere al fascino tentatore dell'anello (a dire il vero, nel romanzo era presente una sezione che descriveva le illusioni di grandezza di Sam quando è in possesso dell'anello, gonfiata a dismisura nell'adattamento a cartoni animati de "Il ritorno del re" firmato dalla Rankin/Bass nel 1980: qui la scena è assente, anche perché lo spettatore non sa che Sam ha l'anello fino a quando non lo rivela anche a Frodo). Anche la momentanea separazione fra i due hobbit per via degli inganni di Gollum è farina del sacco degli sceneggiatori. E sempre dal film Rankin/Bass proviene forse l'ispirazione per alcune scene a Mordor con Frodo e Sam travestiti da Orchi. A livello di scenografie, spicca su tutte la bellissima città bianca di Minas Tirith, con i suoi sette livelli circondati dalle mura e costruiti su uno sperone di roccia sopra i campi del Pelennor. La cittadella con l'albero bianco, dove si trova la sala del trono, testimonia – con i suoi marmi bianchi e neri – della magnificenza della civiltà di Gondor, prestigiosa e antica, ben differente dal popolo di pastori e cavallerizzi di Rohan: il rapporto fra i due regni, nella Terra di Mezzo, è un po' come quello fra l'impero romano (nel periodo della sua decadenza) e le tribù di goti o di barbari a esso soggette. L'architettura e le decorazioni della cittadella sono state ispirate in parte agli scenografi del film da alcuni palazzi e monumenti di Firenze e Siena, oltre che dalla Cappella Palatina di Aquisgrana.

Dei tre film, questo è comunque quello che più si discosta dal materiale di partenza. Molte sono le scene e i personaggi del libro che vengono eliminati, come tutti i capitani di Gondor (Imrahil, Beregond) o altri abitanti di Minas Tirith (Bergil, Ioreth), le già citate Case di guarigione (e dunque l'Athelas), e naturalmente il ritorno nella Contea occupata dai mercenari di Saruman (nonostante le immagini che si erano viste nello specchio di Galadriel). L'edizione estesa rimedia almeno ad alcune delle mancanze più gravi, come l'assenza di risoluzione finale per Saruman (che muore a Orthanc, anziché a Casa Baggins): inizialmente la sequenza avrebbe dovuto concludere "Le due torri", ma Jackson la rinviò al film successivo per terminare il secondo in modo più solenne. Poi, al momento di montare "Il ritorno del re", pensò che sarebbe stato poco opportuno dedicare troppi minuti a un nemico già sconfitto. Qua e là, inoltre, piccole modifiche servono a dare maggiore tensione ad alcune scene. Va bene che quella che conta è la fedeltà allo spirito dell'opera, e non alla lettera, ma avrei gradito qualche scostamento in meno, visto che il libro V (la prima metà del terzo volume della trilogia) è forse quello che più mi piace di tutto "Il Signore degli Anelli". Non ho gradito per nulla il modo in cui è stato caratterizzato Denethor, l'assenza del suo palantír e il suo rapporto con Faramir. E ho trovato poco riuscita anche la rappresentazione di Osgiliath (che nel mondo di Tolkien era la prima capitale di Gondor), che appare un po' finta e di dimensioni ridotte, una manciata di rovine a poche centinaia di metri di distanza da Minas Tirith. Inoltre in questo terzo capitolo mi sembra che l'utilizzo di computer grafica abbia cominciato a prendere la mano ai cineasti, così come l'abuso di correzione digitale dei colori nella fotografia artificiale di Andrew Lesnie (così artificiale che può permettersi di mutare dal giorno alla notte – nell'edizione estesa – la scena in cui Pipino ritrova Merry sul campo del Pelennor): tutte tendenze che funesteranno il cinema hollywoodiano negli anni successivi. Altre modifiche rispetto al romanzo: l'esercito dei morti è decisivo per le sorti della battaglia del Pelennor (in maniera un po' troppo facile), mentre nel libro veniva congedato già prima, e sulle navi dei corsari di Umbar c'erano Gondoriani e Dúnedain (qui assenti, Halbarad compreso). Nella versione più lunga c'è anche la Bocca di Sauron: in un primo tempo era previsto che Sauron stesso, in forma fisica e armatura, si palesasse davanti al Morannon per affrontare Aragorn, ma poi è stato sostituito da un "semplice" troll.

In ogni caso questa trilogia ci ha consegnato un luogo immaginario e cinematografico che resterà nel cuore di molti negli anni a venire. L'interpretazione (e la visione) di Peter Jackson si affianca, senza sostituirla, a quella di Tolkien, con il merito di aver dato un volto a molti personaggi che sarà difficile immaginare con fattezze diverse (a partire da Aragorn, ora re Elessar, impensabile da scindere da Viggo Mortensen). Ottimi tutti gli interpreti, chi più e chi meno: i quattro hobbit (cinque, con un Bilbo ormai invecchiato e pronto a partire per "una nuova avventura"), Legolas (cui Orlando Bloom ha regalato, se non una personalità, almeno numerosi momenti da scavezzacollo: alcune "spacconate", come l'uccisione acrobatica di un olifante, sono state aggiunte in seguito al buon riscontro da parte dei fan), Gimli (personaggio comico, sì, ma anche stranamente intenso: il suo scambio di battute con Legolas – "Non avrei mai pensato di morire fianco a fianco ad un elfo!" - "E fianco a fianco ad un amico?" - "Sì, questo potrei farlo!" – è fra i più commoventi), un Gandalf sempre più autorevole, per non parlare di Théoden (memorabile il suo discorso ai cavalieri prima di attaccare), Éowyn (il confronto con il Re degli Stregoni è uno dei miei momenti preferiti del romanzo, avrò riletto quelle pagine centinaia di volte), Éomer, Faramir. Altri momenti mitici: il "Non inchinatevi a nessuno" rivolto da re Elessar ai quattro piccoli hobbit (mutuato da "Mulan"?), e ovviamente la partenza finale dai Rifugi Oscuri, con l'addio malinconico e agrodolce a un Frodo che non ha più l'anima per continuare a vivere nella Terra di Mezzo: "Siamo partiti per salvare la Contea. E l'abbiamo salvata, ma non per me", dice a Sam. Peter Jackson fa il suo cameo come uno dei corsari di Umbar, mentre Elanor (la figlia di Sam e Rosie) è interpretata dalla vera figlia di Sean Astin. Non dimentichiamo infine i personaggi in CGI: Gollum, innanzitutto, che anche nella corruzione e nella malvagità si rivela una figura tragica, nonché indispensabile per la buona risoluzione della vicenda. Ma anche il ragno gigante Shelob, protagonista di una delle sequenze più horror e raccapriccianti, e le aquile che giungono a combattere nel momento più opportuno. Qualcuno si è lamentato di un possibile buco di sceneggiatura (perché le aquile non sono state usate sin dall'inizio per portare l'anello a Monte Fato?), dimenticando che la missione di Frodo doveva essere segreta per non attirare l'attenzione di Sauron, e che i Nazgûl pattugliavano i cieli.

Il successo della pellicola è stato strepitoso, tanto al botteghino (all'epoca fu il secondo film a raggiungere il miliardo di dollari di incassi, dopo "Titanic") quanto presso la critica. Candidato a ben 11 premi Oscar (compresi quelli per il miglior film e la miglior regia), fece un raro clean sweep vincendo tutte e 11 le statuette ed eguagliando così il record dello stesso "Titanic" e di "Ben-Hur". In un certo senso, i premi sono da considerare assegnati non solo a questo film ma all'intera trilogia (che nel complesso ha vinto 17 Oscar su 30 nomination e ha rappresentato una vera pietra miliare nel cinema fantastico, nonché un avanzamento senza pari per la tecnologia degli effetti speciali). Per l'occasione Jackson tornò a lavorare con il montatore Jamie Selkirk, suo collaborare abituale ma assente nei primi due film della trilogia (ognuna delle tre pellicole ha infatti un montatore diverso, forse per differenziarle almeno in parte). La fenomenale colonna sonora di Howard Shore si arricchisce di un bel tema dedicato a Gondor (che si ode per la prima volta quando Gandalf cavalca verso la cittadella), mentre fra le canzoni spicca quella di Pipino (cantata da Billy Boyd) durante l'assalto di Faramir a Osgiliath, e quella di Annie Lennox sui titoli di coda (illustrati da Alan Lee), "Into the West", che nel testo è una sorta di rimando a "L'ultima canzone di Bilbo", scritta dallo stesso Tolkien. Se prima di questa trilogia il regista era già noto e apprezzato per la sua creatività e il suo entusiasmo cinefilo, ma solo da pochi fan, il successo lo renderà per alcuni anni uno dei nomi più potenti di Hollywood, al punto che due anni più tardi avrà carta bianca per realizzare un altro dei suoi sogni di bambino, un costosissimo remake del suo film preferito, "King Kong". La Terra di Mezzo, però, non scomparirà dagli schermi cinematografici. Negli anni seguenti appariranno omaggi, fan movie (come "The Hunt for Gollum" e "Born of Hope", entrambi del 2009) e infine, dal 2012 al 2014, quel prequel tanto atteso, "Lo Hobbit", firmato sempre da Jackson e diviso anch'esso (stavolta malauguratamente) in tre pellicole: avrebbe dovuto dirigerlo Guillermo del Toro, con il buon Peter soltanto come produttore, ma poi le cose sono andate diversamente e Jackson non ha resistito a far visita di nuovo alla meravigliosa Terra di Mezzo, un mondo immaginario che una volta conosciuto non abbandonerà tanto facilmente la mente e il cuore.

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