28 febbraio 2020

Outrage coda (Takeshi Kitano, 2017)

Outrage coda (id.)
di Takeshi Kitano – Giappone 2017
con Takeshi Kitano, Toshiyuki Nishida
**

Visto in divx.

Terzo e conclusivo capitolo, dopo "Outrage" (2010) e "Outrage beyond" (2012), della saga yakuza di Kitano. Otomo ("Beat" Takeshi) si è ritirato a vivere in Corea, nell'isola di Jeju, affiliandosi all'organizzazione del potente signor Chang (Tokio Kaneda). Nel frattempo, in Giappone, il clan Hanabishi (che ha assorbito i Sanno) è guidato dall'infido Nomura (Ren Osugi), malvisto dai suoi stessi sottoposti perché è più un impiegato che un vero yakuza ("Non hai neanche un tatuaggio!"), che pianifica di eliminare i suoi scomodi vice, Nishino (Toshiyuki Nishida) e Nakata (Sansei Shiomi), gangster della vecchia guardia. Ma questi si coalizzano contro di lui, sfruttando la ruggine fra Chang e il giovane Hanada (Pierre Taki) per scatenare una guerra fra bande, nella quale sarà coinvolto anche Otomo, che assieme al fido Ishikawa (Nao Omori) tornerà in Giappone per mettere in atto la propria vendetta. Rispetto ai due film precedenti, il ritmo è più disteso e meno frenetico: le scene d'azione e di violenza sono limitate, mentre per gran parte della pellicola assistiamo a lunghi dialoghi o confronti faccia a faccia, attraverso i quali si dipanano in modo freddo e tagliente gli intrighi, i complotti e le lotte clandestine fra i vari membri della yakuza. Pur proseguendo dunque nel raccontare guerre di potere e tradimenti incrociati, il film risulta perciò assai distante come tono dai precedenti: inoltre, complice il ruolo limitato che il regista riserva a sé stesso, solo a tratti si intravedono le caratteristiche anarchiche e poetiche del Kitano di un tempo (per esempio nell'incipit, con gli yakuza intenti a pescare sul molo in immancabile camicia hawaiana; e nelle brevi scene degli scoppi di improvvisa violenza). Mitica la risposta di Otomo quando Hanada gli chiede come si chiami: "Il mio nome è 'levati dai coglioni'. Bel nome vero?". L'ultima inquadratura, riservata alla morte del protagonista, sembra rappresentare un ennesimo e malinconico addio al genere (resuscitato, pare, solo per ragioni di cassetta), una sorta di canto del cigno. Nel complesso, non si può parlare di delusione, ma solo di inevitabilità (e di mancanza di sorprese). Nel vasto cast – è quasi un film corale! – anche Yutaka Matsushige (il poliziotto Shigeta), Tatsuo Nadaka, Ken Mitsuishi e Hakuryu, molti dei quali ritornano dai film precedenti. Musiche di Keiichi Suzuki.

26 febbraio 2020

Il selvaggio (László Benedek, 1954)

Il selvaggio (The Wild One)
di László Benedek – USA 1954
con Marlon Brando, Mary Murphy
***

Visto in divx.

Una banda di bikers, guidata dal ribelle Johnny (Marlon Brando), arriva in una tranquilla cittadina di provincia, in cerca di birra, musica e divertimento, seminando disordine, confusione e anarchia. La tensione fra i motociclisti e gli abitanti del paese cresce a dismisura, nonostante i tentativi dell'anziano sceriffo di mantenere la calma, fino a sfociare in tragedia. Uno dei primi film hollywoodiani a descrivere il mondo delle gang di motociclisti, antesignano di "Easy rider" nel dare corpo al desiderio di fuga, di libertà e di ribellione di giovani insofferenti verso le regole e le convenzioni sociali dei loro padri. Brando, con il suo giubbotto di pelle nera, le basette, gli occhiali scuri e il berretto, divenne una vera e propria icona, un bad boy che influenzò profondamente l'immaginario culturale degli anni cinquanta (in coppia con James Dean, che l'anno successivo sarà protagonista di "Gioventù bruciata"). Il film si dipana quasi come un western, con la cittadina di provincia la cui tranquillità è messa a dura prova dall'arrivo dei motociclisti, ma quello che più colpisce è la figura di Johnny, antieroe al tempo stesso carismatico e perdente, che vaga senza meta e senza alcun rispetto o fiducia per l'autorità o il conformismo. A chi gli chiede, infatti, "Contro che cosa vi ribellate?", risponde senza battere ciglio: "Contro di voi". E dunque persino nei confronti della banda rivale guidata da Chino (Lee Marvin) mostra una solidarietà che non può invece essere espressa verso la polizia o il sistema. L'unico personaggio con cui sembra poter stringere una qualche forma di contatto umano è Kathie (Mary Murphy), la giovane barista che, proprio come lui, sogna di fuggire dall'ambiente in cui vive ma che è comunque legata alla propria comunità e al rispetto delle regole, anche perché è la figlia dello sceriffo locale (Robert Keith). Fra i due sboccia qualcosa, forse amore (anche se entrambi lo negano), e l'ultima cosa che il ragazzo farà prima di abbandonare il paese sarà donarle quel trofeo di corsa (rubato) che per lui simboleggiava l'orgoglio e il riscatto sociale. Pur fra molte controversie per l'aver portato la violenza delle bande sullo schermo e il ritratto simpatetico dei protagonisti (nonostante gli atti di teppismo, i bikers non sono veramente cattivi: la sceneggiatura punta semmai il dito contro i "benpensanti"), la pellicola – ispirata ai disordini di Hollister del 1947, gonfiati dalla stampa sensazionalistica – riscosse un grande successo e contribuì a collocare Brando nell'olimpo dei più grandi attori americani.

24 febbraio 2020

Spider-Man: Un nuovo universo (aavv, 2018)

Spider-Man: Un nuovo universo (Spider-Man: Into the Spider-Verse)
di Bob Persichetti, Peter Ramsey, Rodney Rothman – USA 2018
animazione digitale
***

Visto in TV.

Morso da un ragno radioattivo, il giovane Miles Morales sviluppa poteri simili a quelli del suo idolo Spider-Man. E quando questi rimane ucciso in uno scontro con Goblin, Miles ne prende il posto nel tentativo di salvare la città dalla distruzione causata da un acceleratore di particelle costruito da Kingpin. Sarà aiutato da un gruppo di altri Spider-Man "alternativi", provenienti da vari universi paralleli. Il primo lungometraggio animato dedicato all'Uomo Ragno non fa parte del Marvel Cinematic Universe vero e proprio ma si ispira alle versioni alternative del personaggio apparse nei fumetti nel corso della sua storia pluridecennale, a cominciare dal protagonista (proveniente dalla collana Ultimate scritta da Brian Michael Bendis). Al fianco di Miles troviamo infatti un Peter (B.) Parker maturo e disilluso, che gli fa da mentore, inizialmente controvoglia; una giovane Gwen Stacy che nel suo mondo è diventata Donna Ragno al posto di Peter (dalla serie "Spider-Gwen"); lo Spider-Man degli anni '30 (e in bianco e nero!), dalla serie "Spider-Man Noir"; Spider-Ham, la versione parodistica e funny animal del personaggio, nata negli anni '80; e la versione manga Peni Parker, con la sua armatura/esoscheletro SP//dr, apparsa per la prima volta nella storyline "Spider-Verse" (Ragnoverso), pubblicata dalla Marvel nel 2014 e alla quale forse si ispira l'intero film. Il mondo stesso in cui vive Miles Morales e in cui si svolge la vicenda non è quello dell'Uomo Ragno standard: qui Peter Parker è biondo, per esempio, e i vari villain pescano a piene mani da continuity separate o da particolari contesti fumettistici: abbiamo così il Goblin dell'universo Ultimate, il Kingpin disegnato da Bill Sienkiewicz in "Love and War", una controparte femminile del Dottor Octopus... Fra gli sgherri di Kingpin figurano anche Prowler, Lapide (Tombstone) e lo Scorpione. Se il tutto sembra una "festa per nerd", e in effetti è così, la pellicola ha il merito di riuscire a intrattenere e divertire pienamente anche lo spettatore comune, magari a digiuno di fumetti, visto che la conoscenza dei rimandi e delle citazioni (molte delle quali non fini a sé stesse ma funzionali alla trama) non è assolutamente necessaria per comprendere la storia, apprezzare l'evoluzione dei personaggi e gustarsi le scene d'azione. Il tutto grazie a un aspetto visivo davvero originale e accattivante, tanto che proprio l'estetica è l'elemento più interessante del film. L'animazione è digitale, ma tenta di simulare sullo schermo molti effetti del disegno a mano e le tecniche di colorazione (difetti compresi!) dei comic book: e così abbondano le puntinature, i retini (persino l'effetto del duo-tone sulle ombre), i tratti di china, i colori fuori registro, e finanche le didascalie e i balloon nelle scene più concitate. Persino l'animazione a scatti, in certe scene, pare voluta (e non dà assolutamente fastidio). La tavolozza cromatica è esplosiva e quasi psichedelica, degna del mondo della pop art o di quei graffiti di cui proprio Miles riempie le pareti e i muri del suo ambiente urbano. Aggiungiamoci poi le ispirazioni ai diversi stili di tanti celebri disegnatori di fumetti (ogni controparte di Spider-Man porta con sé un differente stile di disegno o di animazione), ed ecco che il risultato è energetico e creativo, tanto che già solo per l'aspetto tecnico la pellicola si merita i numerosi elogi (e i premi, come l'Oscar per il miglior film d'animazione) che ha ricevuto. Ideato da Phil Lord (che per la prima volta firma una sceneggiatura senza il suo abituale collega Chris Miller), il film è stato diretto da tre registi: secondo Lord, a Peter Ramsey si devono le scene d'azione, a Rodney Rothman quelle da commedia, e a Bob Persichetti "la poesia". Nel complesso il film rappresenta un magnifico omaggio a Spider-Man e alla sua storia fumettistica, esaltando i valori e le caratteristiche comuni a tutte le versioni del personaggio. Nella scena dopo i titoli di coda, troviamo persino l'Uomo Ragno del 2099 e quello del cartone animato degli anni sessanta (di cui riprende la celebre scena dei due Spider-Man che si fronteggiano, divenuta un meme). Visto il successo, sono stati messi in cantiere un sequel e uno spin-off.

23 febbraio 2020

Ghost town (David Koepp, 2008)

Ghost Town (id.)
di David Koepp – USA 2008
con Ricky Gervais, Greg Kinnear
**

Visto in TV.

In seguito a un arresto cardiaco durato sette minuti mentre era sotto anestesia, il dentista Bertram Pincus (Ricky Gervais) scopre di aver acquisito la capacità di vedere gli spiriti dei defunti che, per un motivo o per l'altro, non hanno ancora abbandonato il nostro mondo perché rimasti legati ad esso per delle questioni in sospeso. Inizialmente refrattario ad aiutarli, cambierà idea quando il fantasma del fedifrago Frank (Greg Kinnear) gli chiede di intervenire per rompere il fidanzamento della sua vedova Gwen (Téa Leoni) con l'avvocato Richard (Billy Campbell). Innamorato a sua volta della donna, Bertram inizia così a frequentarla, riuscendo in qualche modo a conquistare il suo affetto... E scoprirà che non sono i morti ad avere dei conti in sospeso, ma i vivi, che si rifiutano di lasciarli andare via perché rosi da sensi di colpa o egoismi di varia natura. Commedia romantica costruita su uno spunto non originalissimo (è lo stesso tema trattato, in maniera diversa, in "Ghost" e ne "Il sesto senso") ma sufficientemente gradevole, grazie anche ai buoni interpreti, su tutti il comico inglese Gervais nel suo primo ruolo da protagonista al cinema, nei panni di un omuncolo cinico e misantropo che saprà riscattarsi grazie all'amore.

22 febbraio 2020

L'ombra del dubbio (A. Hitchcock, 1943)

L'ombra del dubbio (Shadow of a doubt)
di Alfred Hitchcock – USA 1943
con Joseph Cotten, Teresa Wright
**1/2

Visto in divx.

Quando lo zio Carlo (Joseph Cotten), l'elusivo fratello minore di sua madre, giunge da New York a casa loro, in California, per visitarli dopo tanto tempo, la giovane Carla (Teresa Wright), che ne condivide il nome (in originale si chiamano entrambi Charlie), è particolarmente contenta, essendo sempre stata affezionata a questo zio così misterioso, bello, benestante e con la fama di avventuriero. Ma ben presto le risulta evidente che Carlo sta scappando da qualcosa: e quando la ragazza scopre che la polizia è in cerca di un "killer di vedove" che si è dato alla fuga, si convince che proprio lo zio sia il responsabile dei delitti... Un insolito thriller di ambientazione familiare che lo stesso Hitchcock considerava fra i suoi lavori preferiti, dove la tensione del noir e il cinismo del mondo esterno fanno capolino nella quotidianità, nella routine e nelle convenzioni sociali di una famiglia del tutto normale e serena. Il mistero relativo allo zio e alle ragioni della sua fuga è prolungato per tutta la pellicola, con l'amata nipote che lentamente passa dall'iniziale fiducia verso di lui (il rapporto fra i due è talmente stretto da sfiorare la telepatia) alla paura e alla repulsione, senza che il resto della famiglia sospetti minimamente qualcosa: e la realtà si ritrova trasfigurata non solo dai sospetti (l'ombra del dubbio, come recita il titolo) ma anche dall'immaginazione, dalla fantasia e dai sogni, oltre che dalla fascinazione per la letteratura e i romanzi polizieschi che contagia anche altri membri della famiglia, come la piccola Anna (Edna May Wonacott), accanita lettrice, e il padre Joe (Henry Travers), che "gioca" con l'amico Herbie (Hume Cronyn) a inventare i modi più fantasiosi per uccidersi a vicenda. Se Carlo vive alla giornata (li suo motto è "non pensare al passato né al futuro, solo l'oggi esiste") e dietro l'apparenza affabile disprezza il mondo intero, per Carla l'intera vicenda rappresenta l'ingresso nell'età adulta, attraverso le fasi della disillusione verso lo zio e dell'innamoramento per il giovane poliziotto (Macdonald Carey) che dà la caccia all'assassino. Forse a uno spettatore moderno, che si aspetta sempre il twist finale, la conclusione può risultare deludente: ma ai tempi di Hitchcock l'attrattiva nasceva proprio dalla suspense in sé, dalla rappresentazione del crimine e delle devianze sullo schermo in un contesto apparentemente a loro estraneo, quello appunto della normalità e della quotidianità. Nel cast anche Patricia Collinge (la madre) e Wallace Ford (il poliziotto anziano). Sir Alfred fa un cameo nei panni dell'uomo che, giocando a carte, ha una scala completa di picche. Memorabile la preghiera serale della piccola Anna: "Signore, benedici la mamma, papà, Capitan Midnight, Veronica Lake e il presidente degli Stati Uniti". Alla sceneggiatura, ispirata forse dai delitti di Earle Nelson negli anni venti, ha lavorato anche lo scrittore Thornton Wilder. La colonna sonora di Dimitri Tiomkin, alla prima collaborazione con Hitchcock, cita ripetutamente il valzer "La vedova allegra" di Franz Lehár, che allude – insieme alle immagini di coppie che ballano – ai delitti del killer. Il doppiaggio italiano dell'epoca, oltre ad "italianizzare" i nomi dei personaggi, presenta una strana inflessione in alcune voci che lo rende particolarmente bizzarro: questo perché fu doppiato a Madrid, in attesa che la guerra finisse, ad opera di attori italiani che si trovavano momentaneamente nel paese iberico.

21 febbraio 2020

Paddington (Paul King, 2014)

Paddington (id.)
di Paul King – GB 2014
con Hugh Bonneville, Nicole Kidman
**

Visto in TV, con Sabrina.

Giunto a Londra dal misterioso Perù in cerca di una nuova casa, l'orsacchiotto Paddington (così chiamato perché viene trovato nella stazione ferroviaria con questo nome) è accolto e ospitato dalla famiglia Brown, che lo aiuterà a rintracciare l'esploratore della Società Geografica che quarant'anni prima aveva visitato il suo paese, e a sfuggire alla perfida tassidermista (Nicole Kidman) che intende impagliarlo per esporlo nel Museo di Storia Naturale. Da una popolare serie di libri per bambini, un gradevole film per famiglie che fonde (in maniera eccellente) l'animazione in CGI con la live action. Oltre a essere tecnicamente ben fatto, presenta diverse gag indovinate (alcune talmente sottili da passare quasi inosservate) e un leggero accenno a temi complessi (come l'immigrazione). Peccato che, di contro, la trama e l'intreccio siano davvero poco originali e ricordino moltissimi altri film di questo tipo (a partire dal recalcitrante capofamiglia che, pian piano, si affeziona a sua volta all'orsetto): è in tutto e per tutto un film per bambini. Nel cast "umano" anche Sally Hawkins e Jim Broadbent. Nella versione originale la voce di Paddington è di Ben Whishaw. Grande successo di pubblico e di critica, che ha portato alla realizzazione di un sequel nel 2017 (sempre scritto e diretto da King), mentre un terzo capitolo sarebbe in cantiere.

Nota: anche se il protagonista è graficamente generato al computer, non metto il tag "Animazione" perché altrimenti dovrei inserirlo anche per film come "Star Wars" o "Il Signore degli Anelli". Intendo riservarlo ai film completamente in animazione (tradizionale, stop motion o digitale che sia), oppure a quelli che fondono live action e animazione tradizionale (cioè disegnata a mano).

20 febbraio 2020

Tenebre (Dario Argento, 1982)

Tenebre
di Dario Argento – Italia 1982
con Anthony Franciosa, Daria Nicolodi
***

Visto in divx.

Giunto a Roma per promuovere il suo nuovo libro, lo scrittore americano Peter Neal (Franciosa) collabora con l'ispettore Germani (Giuliano Gemma) alle indagini su un misterioso serial killer che uccide le sue vittime a colpi di rasoio e che per i suoi delitti sembra ispirarsi proprio al romanzo, per di più tormentando lo scrittore con lettere anonime. Dopo l'horror soprannaturale di "Suspiria" e "Inferno", Dario Argento torna alle atmosfere del giallo urbano che avevano caratterizzato i suoi primi lavori (nonostante il titolo del film – che è anche quello del libro di Peter – richiami appunto l'horror: curiosamente quasi tutta la pellicola si svolge in pieno giorno). Se nella prima parte si ha l'impressione che il regista torni su terreni già battuti, riciclando trovate già viste nei lavori precedenti (come il giovane assistente Gianni (Christian Borromeo) che si sforza di ricordare un dettaglio che gli è sfuggito), o addirittura proponendo sequenze volutamente raffazzonate, fra cliché narrativi e recitazioni amatoriali, da metà in poi il film svela la propria reale natura e riesce sinceramente a sorprendere lo spettatore, anche grazie ai moltissimi rimandi metatestuali (è quasi come se Peter, in quanto scrittore di gialli, decida all'improvviso di prendere la vicenda nelle proprie mani e di riscriverla a modo suo). Alcune trovate apparentemente implausibili, come la ragazza (Lara Wendel) inseguita dal cane feroce che finisce per caso proprio nel covo dell'assassino, si scoprono così giustificate dai riferimenti letterari (in questo caso al "Mastino dei Baskerville" di Arthur Conan Doyle, citato ripetutamente dai personaggi). In effetti non poche sono le frecciatine ai cliché del giallo classico, o whodunit che dir si voglia: da Germani che si vanta di "aver indovinato l'assassino a pagina trenta" del libro di Peter, salvo fare una brutta fine nella realtà, alla rottura di alcune delle regole più basilari di questo tipo di narrativa (la rivelazione finale è quasi uno sberleffo). Girato in una Roma di periferia, per lo più all'EUR, lontano dai suoi luoghi più riconoscibili (Argento ha dichiarato che l'intenzione iniziale era quella di ambientare la storia in una città immaginaria e nel futuro), il film è ricco di nudità (Mirella Banti, Eva Robin's) e di effetti sanguinolenti (di cui sono vittima, fra le altre, Ania Pieroni, Mirella D'Angelo e soprattutto Veronica Lario, nel ruolo forse più celebre della sua carriera prima di sposare Silvio Berlusconi: la scena in cui è uccisa veniva regolarmente censurata durante i passaggi televisivi della pellicola sulle reti Mediaset, a onor del vero perché piuttosto truculenta). La sequenza della conferenza stampa, in cui la giornalista lesbica accusa lo scrittore di essere misogino e sessista perché nei suoi romanzi le donne sono soltanto vittime, sembra voler fare un compendio delle accuse rivolte in passato allo stesso Argento, molte delle quali a sproposito (in "Suspiria", per esempio, i personaggi femminili erano tutt'altro che stereotipati), e che il regista ha voluto ironicamente giustificare in qualche modo, riempiendo "Tenebre" di donne-vittime. Fra le scene più memorabili, oltre a quella già citata del flashback con Eva Robin's in tacchi a spillo rossi sulla spiaggia, sono da ricordare la lunga (e gratuita) panoramica dell'edificio girata con la gru e il momento, nel finale, in cui l'assassino si rivela essere proprio dietro l'ispettore (una scena anch'essa implausibile, ma che secondo alcuni critici enfatizza il tema del "doppio oscuro" che ricorre ripetutamente nella pellicola), entrambe in seguito citatissime, per esempio da Brian De Palma. Nel ricco cast (come ogni giallo che si rispetti, i sospettati devono essere molti!) ci sono anche John Saxon (Bullmer, l'agente di Peter), Daria Nicolodi (Anne, la sua assistente: la scena conclusiva, in cui urla sotto la pioggia, avrebbe ispirato Asia Argento a diventare attrice a sua volta), Carola Stagnaro (l'ispettrice Altieri), John Steiner (il critico letterario Cristiano Berti). Piccoli camei per Lamberto Bava e Michele Soavi. Musiche di Claudio Simonetti, Fabio Pignatelli e Massimo Morante, tre dei membri originali dei Goblin.

19 febbraio 2020

I due papi (Fernando Meirelles, 2019)

I due papi (The two popes)
di Fernando Meirelles – USA/GB/Italia/Argentina 2019
con Jonathan Pryce, Anthony Hopkins
**1/2

Visto in TV.

Nel 2012, frustrato dall'incapacità della chiesa cattolica di rinnovarsi in un mondo che cambia e in un momento critico funestato da scandali e da perdita di consensi, il cardinale argentino Jorge Bergoglio invia le proprie dimissioni a Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI. Ma questi, anziché accettarle, lo invita a Roma per una lunga conversazione a porte chiuse, nella residenza estiva di Castel Gandolfo, durante la quale gli rivela in anteprima l'intenzione di lasciare a sua volta il trono pontificio. E gli chiede di rimanere cardinale, visto che in prospettiva proprio lui potrebbe essere eletto nuovo papa e intraprendere finalmente le riforme che ritiene necessarie: cosa in effetti avverrà, quando salirà al soglio in Vaticano con il nome di papa Francesco. Da un'opera teatrale di Anthony McCarten, un insolito biopic che immagina l'amicizia "dietro le quinte" fra due papi – l'attuale e il precedente – diversissimi fra loro sotto ogni profilo (da notare che è anche la prima volta da seicento anni che due pontefici coesistono simultaneamente). Due attori straordinari e decisamente in parte, entrambi candidati all'Oscar (Pryce come protagonista, Hopkins come non protagonista), danno vita a personaggi ritratti nella loro intimità, lontano dalle cerimonie, dai riti e dai fasti delle apparizioni in pubblico. Ne risulta un film simpatico e gradevole, ma forse troppo innocuo e leggero, oltre che lievemente agiografico e compiacente. C'è senza dubbio qualche libertà nella caratterizzazione, e i dialoghi semplificano un po' troppo le questioni religiose, politiche e sociali nonché i loro contrasti: anche se si confrontano ripetutamente sulle rispettive visioni del mondo e della chiesa, il film preferisce mostrarci il loro volto umano e quotidiano, mentre mangiano la pizza, canticchiano, fischiettano o danzano, guardano la televisione o si raccontano barzellette, ma anche i rimpianti per il passato, i sensi di colpa e il peso della solitudine. Bergoglio non si perdona il ruolo durante la dittatura militare in Argentina, quando non ha saputo alzare la voce contro la giunta preferendo collaborare con essa per salvare più vite possibile, mentre Ratzinger confessa di attraversare una crisi personale e spirituale, e di non sentire più la voce di Dio come un tempo. E sembra quasi paradossale che proprio uno dei papi considerati più conservatori, tradizionalisti e dogmatici abbia preso una decisione così "rivoluzionaria" come quella di rinunciare al proprio incarico. "La verità può essere vitale, ma senza l'amore e insostenibile": sembra una frase di Bergoglio, ma in realtà l'ha scritta Ratzinger. E dopo averci mostrato il nuovo papa viaggiare per il mondo e immergersi fra i poveri, i rifugiati e gli immigrati, il film si conclude con i due "amici" che assistono insieme (sui titoli di coda) alla finale dei mondiali di calcio del 2016, Germania-Argentina appunto. Juan Minujín è Jorge Bergoglio da giovane, in una serie di flashback (particolarmente intensi quelli ambientati durante la dittatura militare).

18 febbraio 2020

Pupazzi senza gloria (Brian Henson, 2018)

Pupazzi senza gloria (The Happytime Murders)
di Brian Henson – USA 2018
con Melissa McCarthy, Maya Rudolph
**

Visto in TV.

In un mondo in cui gli esseri umani convivono fianco a fianco con pupazzi animati (il film è diretto dal figlio di Jim Henson, il creatore dei Muppet), la coppia formata dall'investigatore privato Phil Phillips e dalla sua ex collega poliziotta Connie Edwards (Melissa McCarthy) indaga su una serie di misteriosi omicidi ai danni dei protagonisti di un vecchio show televisivo, "L'allegra combriccola" ("The Happytime Gang"). Con un occhio a "Chi ha incastrato Roger Rabbit" (di cui riprende temi e ambientazioni noir, sostituendo i pupazzi ai disegni animati) e un altro a "Meet the Feebles" di Peter Jackson (di cui ripropone perversioni, vizi, volgarità e tutto quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare), una bizzarra pellicola per adulti che gioca a ribaltare le aspettative legate ai programmi per bambini con pupazzi animati (come il celebre "Sesame Street", i cui produttori hanno infatti cercato di fare causa al film, senza successo). Al di là dei luoghi comuni della narrativa hard boiled o del buddy movie poliziesco, il film punta le sue carte su un umorismo volgare, pecoreccio e demenziale, spesso talmente imbarazzante da risultare quasi esilarante. E affronta temi scomodi come il razzismo (i pupazzi sono discriminati e disprezzati dagli esseri umani; uno di loro – Larry, il fratello di Phil – giunge addirittura a "schiarirsi" la pelle, da blu che era, per assomigliare di più a un vero uomo, in analogia con Michael Jackson), il sesso (la scena della "sveltina" e dell'eiaculazione di Phil nel suo ufficio è di quelle che non si dimenticano) e la tossicodipendenza (ma qui la droga non è altro che zucchero). Le battute e le gag sono di qualità quantomeno altalenante, con alcune di livello davvero basso ("Se sei un pupazzo... sono pupazzi amari!"), e molti interpreti in carne e ossa potrebbero finire col vergognarsi di avere questo titolo nella propria filmografia: eppure, se si sta al gioco, il divertimento non manca. Il titolo italiano strizza ovviamente l'occhio ai "Bastardi senza gloria" di Tarantino, ma non c'è alcuna pertinenza: fra le citazioni cinematografiche, invece, la più evidente è quella da "Basic instinct".

17 febbraio 2020

Deadpool 2 (David Leitch, 2018)

Deadpool 2 (id.)
di David Leitch – USA 2018
con Ryan Reynolds, Josh Brolin
**1/2

Visto in TV.

In seguito alla morte improvvisa della sua compagna Vanessa (Morena Baccarin), Wade Wilson/Deadpool (Ryan Reynolds) cade in depressione e tenta inutilmente il suicidio. Dopo un fallimentare tentativo di entrare a far parte degli X-Men, l'anti-eroe trova una nuova ragione di vita: proteggere Russell Collins/Firefist (Julian Dennison), giovane mutante dai poteri pirocinetici, che è braccato da Cable (Josh Brolin), un killer cibernetico giunto dal futuro. Il secondo film dedicato al mercenario chiacchierone con il potere mutante di rigenerare le proprie ferite (il che lo rende praticamente immortale) è forse migliore anche del precedente. L'irriverenza del personaggio, fucina di gag e di battute dissacranti, continua a distaccarlo notevolmente dalla seriosità del panorama degli X-Men, un universo di cui però fa parte a pieno titolo. E l'insolita commistione di registri (il comico-demenziale e il tragico-melodrammatico), per quanto più sbilanciata sul primo versante, riesce a dare alla trama e ai personaggi quello spessore che era assente nel primo film. Anche le gag, quando non esagerano sul piano dell'umorismo scurrile e adolescenziale, riescono a strappare più di un sorriso, in particolare quelle metacinematografiche (oltre a essere consapevole di trovarsi in un film, Wade cita di continuo altre pellicole, lanciando non poche frecciatine ai titoli dell'Universo DC) e metafumettistiche. Per fronteggiare Cable, a un certo punto Deadpool forma una propria squadra di supereroi, X-Force: ma tranne la superfortunata Domino (Zazie Beetz), ci lasceranno tutti le penne piuttosto incerimoniosamente, prima ancora che inizi la missione. Dal primo episodio, in qualità di spalle, tornano Colosso e Testata Mutante Negasonica (che introduce la sua fidanzata Yukio), mentre fra gli avversari appaiono Black Tom Cassidy (Jack Kesy) e l'inarrestabile Fenomeno (con la voce, in originale, dello stesso Reynolds). Da notare che versioni differenti del Fenomeno e di Yukio erano già apparse in precedenti film degli X-Men (rispettivamente in "X-Men: Conflitto finale" e "Wolverine: L'immortale"), ma qui vengono bellamente ignorate. Belle le sequenze d'azione, con un utilizzo (scoperto e consapevole) del ralenti. Nel cast anche Eddie Marsan, Terry Crews e Rob Delaney. Brevissimi camei per Matt Damon e Brad Pitt. Nella scena post-credits vediamo Wade viaggiare nel tempo (e in altri film) per rimediare agli errori del passato (come uccidere la versione di sé stesso che era apparsa in "X-Men Le origini: Wolverine", e persino l'attore Ryan Reynolds prima che reciti in "Green Lantern"). Deadpool, Cable e Domino furono tutti creati da Rob Liefeld nei primi anni novanta: sembra quasi incredibile ritrovarli insieme trent'anni dopo in un film come questo.

15 febbraio 2020

Quel treno per Yuma (Delmer Daves, 1957)

Quel treno per Yuma (3:10 to Yuma)
di Delmer Daves – USA 1957
con Glenn Ford, Van Heflin
***1/2

Visto in TV.

L'allevatore Dan Evans (Van Heflin) si offre volontario per aiutare a scortare il fuorilegge Ben Wade (Glenn Ford) al treno delle 3:10 che dovrà condurlo alla prigione di Yuma, prima che la sua banda giunga a liberarlo. Ma al momento della verità, si ritroverà solo contro tutti. Da un racconto di Elmore Leonard, un western che ha fatto storia, anche per via del celebre tema musicale di George Duning (che nel film viene cantato e riproposto in più salse, e persino fischiettato da Ford). Alcuni aspetti della trama possono ricordare "Mezzogiorno di fuoco" e "Un dollaro d'onore" (l'atmosfera di attesa e di sospensione, il ritrovarsi da soli contro un nemico preponderante), mentre del tutto originale è la caratterizzazione del "cattivo", affabile e sempre in controllo della situazione, e il rapporto di rispetto e quasi di amicizia che stringe con il "buono". Quest'ultimo, che si era offerto per la missione soltanto per intascare la ricompensa e salvare così la sua fattoria in crisi per via della siccità, viene poi spinto dalla propria coscienza e dall'integrità morale a rischiare la vita (per "difendere il diritto di vivere in pace e nell'ordine") quando tutto gli suggeririrebbe di lasciar perdere: ad aiutarlo, alla fine, sarà addirittura il bandito stesso. Molti momenti memorabili, una bella fotografia in bianco e nero e una buona caratterizzazione di tutti i personaggi, compresi quelli di contorno – l'ubriacone Alex Potter (Henry Jones), che si riscatterà; il ricco possidente Butterfield (Robert Emhardt); Alice (Leora Dana), la moglie di Dan; Emmy (Felicia Farr), l'ex cantante e ora commessa del saloon, corteggiata da Ben Wade; Charlie (Richard Jaeckel), il giovane complice di Ben – lo rendono uno dei western più incisivi e gradevoli degli anni cinquanta, giustamente diventato un classico. Un remake nel 2007, con Russell Crowe e Christian Bale.

14 febbraio 2020

Solino (Fatih Akin, 2002)

Solino (id.)
di Fatih Akin – Germania/Italia 2002
con Barnaby Metschurat, Moritz Bleibtreu
**1/2

Visto in divx.

Emigrata in Germania dal sud dell'Italia, la famiglia Amato – composta dal padre Romano (Gigi Savoia), dalla madre Rosa (Antonella Attili) e dai figli Giancarlo (Moritz Bleibtreu) e Gigi (Barnaby Metschurat) – apre una pizzeria a Duisburg, nel bacino della Ruhr. Ma i fratelli, una volta cresciuti nel nuovo paese, cercheranno una propria strada. E fra Gigi, aspirante regista, e il geloso Giancarlo esploderà la rivalità, anche perché innamorati della stessa ragazza, Johanna (Patrycia Ziółkowska). Diviso in tre sezioni ambientate a dieci anni di distanza l'una dall'altra (1964, 1974 e 1984), il terzo film di Akin (nonché il primo di cui non ha scritto la sceneggiatura, opera di Ruth Toma) affronta alcuni degli argomenti a lui più cari, l'immigrazione e il cibo, aggiungendovi l'amore per il cinema e il tema della disgregazione della famiglia, con l'amicizia-rivalità fra i protagonisti che si dipana appunto nell'arco di vent'anni. Se la prima parte, quando i due fratelli sono ancora bambini, è gradevole ma anche un po' stereotipata e di maniera (con un occhio a Tornatore e al suo "Nuovo Cinema Paradiso"), le successive appaiono più interessanti e sincere nel ritratto di personaggi che non sono mai del tutto buoni né del tutto cattivi. Nicola Cutrignelli interpreta Gigi da bambino. Nel cast anche Tiziana Lodato (Ada) e Vincent Schiavelli (il regista Baldi, che ispira Gigi con il suo motto "Ardore e passione!"). Solino è un paese fittizio: il film è stato girato a Leverano e dintorni, in Puglia. Mai distribuita in Italia (a quanto ne so), la pellicola è bilingue: gli attori italiani parlano italiano, quelli tedeschi alternano le due lingue (e tutto sommato non se la cavano male). La bella colonna sonora (di Jannos Eolou) comprende diverse canzoni italiane di quegli anni.

12 febbraio 2020

La calda notte dell'ispettore Tibbs (N. Jewison, 1967)

La calda notte dell'ispettore Tibbs (In the heat of the night)
di Norman Jewison – USA 1967
con Sidney Poitier, Rod Steiger
***1/2

Visto in TV.

Di passaggio per una cittadina nel Mississippi, in una calda notte d'estate, l'ispettore Virgil Tibbs (Poitier) – poliziotto di colore proveniente da Philadelphia – viene dapprima accusato (in quanto nero!) di essere il responsabile di un omicidio avvenuto in strada quella stessa notte, e poi convinto controvoglia a collaborare alle indagini, aiutando lo sceriffo locale Gillespie (Steiger) a dipanare la matassa. Iconico poliziesco che, più che sulla trama gialla, è incentrato su un altro tema, ovvero quel razzismo allora ancora molto diffuso negli stati del profondo sud. In effetti gli Stati Uniti stavano vivendo una stagione di forti tensioni e sconvolgimenti a livello sociale, e proprio film come questo (e come "Indovina chi viene a cena?", uscito lo stesso anno e interpretato sempre da Poitier), diedero il loro contributo alla lotta per i diritti civili. La cittadina fittizia in cui si svolge la storia è pervasa da forti tensioni, palpabili sotto l'aspetto pigro e sonnolento dei suoi abitanti. Alcune scene, come quella in cui il protagonista, alla domanda "Come ti chiamano dalle tue parti, Virgil?", risponde "Mi chiamano Signor Tibbs!", o quella in cui schiaffeggia il signorotto locale Endicott, proprietario di piantagioni di cotone gestite come ai tempi della guerra civile, fecero una forte impressione su un pubblico non abituato a un nero che rifiutava di porgere l'altra guancia. E nonostante tutto, il rapporto fra Tibbs e Gillespie, iniziato sotto i peggiori auspici, finirà col consolidarsi: i due stringeranno, se non proprio un'amicizia, una sorta di legame empatico (anche lo sceriffo, a suo modo, è solo ed emarginato all'interno della città). In ogni caso, al di là della ripetuta insistenza sul tema del razzismo e dell'odio (da cui non è immune nemmeno il "perfetto" protagonista, presentato come un detective geniale ed educato, che pure si lascia tentare dall'orgoglio di dimostrare di essere superiore ai bianchi e dal desiderio che il colpevole sia la persona più disprezzabile della città), il film può vantare anche una grande qualità artistica e produttiva: dalla regia di Jewison alle interpretazioni dei due protagonisti (e dei comprimari: da ricordare almeno Warren Oates nel ruolo del poliziotto Sam, Larry Gates in quelli di Endicott, e Lee Grant in quelli della moglie della vittima dell'omicidio), senza trascurare la fotografia di Haskell Wexler (che, per la prima volta in un film hollywoodiano a colori di una major, tenne conto del colore della pelle di Poitier nella scelta delle luci) e la colonna sonora di Quincy Jones (con la canzone "In the heat of the night" interpretata da Ray Charles). La pellicola ricevette sette nomination e vinse cinque premi Oscar, compreso quello per il miglior film: premiati anche l'ottimo Steiger come miglior attore, Stirling Silliphant per la sceneggiatura (adattata da un romanzo di John Ball) e il futuro regista Hal Ashby per il montaggio. Diede inoltre origine a due sequel di minor valore (nel 1970 e nel 1971) e a una serie tv (senza Poitier, dal 1988 al 1994).

11 febbraio 2020

The Post (Steven Spielberg, 2017)

The Post (id.)
di Steven Spielberg – USA 2017
con Meryl Streep, Tom Hanks
**1/2

Visto in TV.

All'inizio degli anni settanta il "Washington Post" era ancora un quotidiano pressoché locale e a conduzione familiare, guidato da Katharine Graham (Streep) dopo la morte del marito. Tutto cambia però nel 1971, quando il giornale ha la possibilità di pubblicare i cosiddetti "Pentagon papers", documenti top secret che dimostrano come il governo degli Stati Uniti abbia più volte mentito sulla situazione in Vietnam, interferendo da decenni nelle dinamiche del sud-est asiatico e, soprattutto, proseguendo incessantemente l'impegno nella guerra pur sapendo che la situazione non volgeva a proprio favore. Incalzata dal direttore del quotidiano Ben Bradlee (Hanks), Katharine deve decidere se pubblicare o no i documenti: il rischio di una rappresaglia di Nixon o una condanna in tribunale per aver divulgato informazioni riservate potrebbero significare la chiusura del giornale. Ma la donna troverà il coraggio di andare avanti: e dopo una sentenza della Corte Suprema in suo favore ("La stampa deve servire chi è governato, non chi governa"), il "Post" vedrà crescere il proprio profilo e diventerà uno dei giornali più importanti e prestigiosi del paese (il film si chiude con l'inizio di un'altra celebre vicenda che lo vedrà protagonista, quella dello scandalo Watergate). Nel filone di "Tutti gli uomini del presidente" e "Il caso Spotlight", una pellicola che trasuda integrità e impegno civile, denuncia delle storture del potere e difesa del diritto all'informazione e alla libera stampa: il tipo di film in cui gli americani sono maestri, e in cui Spielberg sa dare il suo meglio, anche se non manca qualche semplificazione (il vero ruolo di apripista fu il lavoro del "New York Times") e la professionalità della regia e degli attori lascia trasparire pochi guizzi. Ma il taglio scelto, quello di mostrare i dubbi e i dilemmi personali di Katharine, divisa fra la salvaguardia delle amicizie con i potenti di Washington e il rispetto ai doveri e agli ideali di un giornalismo libero e indipendente, è del tutto indovinato. Nel cast anche Bob Odenkirk, Tracy Letts e Sarah Paulson. Due candidature agli Oscar (per il film e per la Streep).

10 febbraio 2020

Tully (Jason Reitman, 2018)

Tully (id.)
di Jason Reitman – USA 2018
con Charlize Theron, Mackenzie Davis
***

Visto in TV, con Sabrina.

Alla nascita del terzo figlio, Marlo (Theron) – madre iperstressata e vessata dalle incombenze domestiche e familiari (compresa la gestione dei due figli precedenti, uno dei quali con seri problemi di comportamento) – accetta il consiglio di rivolgersi a una "tata notturna", ovvero la giovane e misteriosa Tully (Davis), che si prenda cura del neonato durante la notte, consentendo a lei di riposare, di "ricaricare le pile", ma soprattutto di ritrovare una sorta di equilibrio mentale, emotivo e psicologico. La presenza discreta della ragazza, con cui Marlo fa rapidamente amicizia, sembra dare i suoi frutti: ma c'è un plot twist in agguato. Scritto da Diablo Cody, alla terza collaborazione con il regista (dopo "Juno", che già in qualche modo trattava di maternità, e "Young adult", dove c'era anche la Theron), non è un thriller ma un interessante studio sulla depressione post-parto e sulle difficoltà della genitorialità, attraverso l'analisi di un personaggio costretto a fare i conti con il presente e i raffronti con il passato, e che compie un percorso di riconnessione con sé stessa per ritrovare la gioia di vivere che aveva da giovane e che le difficoltà quotidiane del matrimonio e della maternità (che spesso è costretta ad affrontare da sola) le hanno fatto progressivamente perdere. E la sceneggiatura riesce a rendere credibile un soggetto che, in mani sbagliate, avrebbe potuto risultare ridicolo o implausibile, gettando nel mix anche alcuni elementi visionari e fantastici (le sirene, il fatto che Tully sia una sorta di Mary Poppins che aiuta però non i bambini ma i genitori). Ottima la Theron, in una delle sue prove migliori, così come la confezione (dalla regia alla fotografia). Ron Livingston è il marito, Mark Duplass il fratello. Il tema della madre stressata e delle difficoltà della maternità che portano verso la pazzia può ricordare "Badabook".

9 febbraio 2020

Men, women & children (J. Reitman, 2014)

Men, Women & Children (id.)
di Jason Reitman – USA 2014
con Adam Sandler, Rosemarie DeWitt
**

Visto in divx.

Le relazioni sociali, l'approccio al sesso e i rapporti familiari all'epoca della dipendenza da internet e dai social media, per un gruppo di studenti liceali (di una scuola del Texas) e dei loro genitori. La pellicola, di impostazione corale, fonde le storie di diversi personaggi, teenager e adulti, i cui mondi sono divisi dall'incomprensione ma legati in fondo dalle stesse problematiche. Don (Adam Sandler) e Helen (Rosemarie DeWitt), i genitori di Chris (Travis Tope), grande consumatore di pornografia online, hanno perso da tempo l'intesa sessuale e cercano conforto fuori dal contesto familiare grazie a internet, rispettivamente con una escort e con amanti conosciuti su un sito di incontri. Il giovane Tim (Ansel Elgort), stella della squadra di football della scuola, lascia lo sport per tuffarsi in un gioco di ruolo online, con costernazione di suo padre Kent (Dean Norris), preoccupato che la vita virtuale sostituisca quella reale, resa problematica dall'abbandono della madre. Ma ignora che Tim una vita reale ce l'ha, cementata dall'amicizia con Brandy (Kaitlyn Dever), la cui madre Patricia (Jennifer Garner) è ossessionata dal dover proteggere la figlia controllando ogni dettaglio della sua presenza online, dalle chat ai messaggi sui social network. Tutto il contrario di Joan (Judy Greer), madre di Hannah (Olivia Crocicchia), che invece incoraggia la figlia a postare foto ammiccanti di sé stessa su un sito personale e a inseguire il sogno di diventare modella o attrice. Infine c'è Allison (Elena Kampouris), innamorata di Brandon (Will Peltz) e tormentata dal proprio aspetto fisico. Sullo schermo, a fianco dei personaggi, compaiono messaggi, chat, screenshot, ricerche e digitazioni online, come per illustrare un universo che ormai passa più attraverso i dispositivi elettronici che non la comunicazione faccia a faccia. Ma fra menzogne e incomprensioni, alla fine i nodi vengono al pettine: e le tragedie sfiorate faranno comprendere a molti i propri errori. Forse il film più pretenzioso di Reitman, nonché il suo primo vero flop di pubblico e di critica: un ambizioso tentativo di analisi sociale che, pur presentando diversi spunti interessanti (e con un buon cast che mescola giovani attori sconosciuti e volti affermati: in piccoli ruoli ci sono anche Timothée Chalamet – al debutto sul grande schermo – e J. K. Simmons), sfocia in una serie di cliché e di banalità, con alcuni personaggi (come quello intepretato da Jennifer Garner) ai limiti della bidimensionalità. Il mix fra esistenzialismo adolescenziale ("Se sparissi domani, l'universo non se ne accorgerebbe"), crisi di mezza età, problemi di autostima, il rapporto delle diverse generazioni con il sesso, e la denuncia dell'invadenza dei dispositivi online nella vita di tutti i giorni mette fin troppa carne al fuoco, eppure la struttura corale contribuisce a alleggerire il peso melodrammatico delle singole vicende, alcune delle quali si lasciano seguire con interesse. Anche per questo, pur senza mostrare traccia della leggerezza, dell'ironia e del cinismo dei lavori precedenti del regista, la pellicola riesce comunque a dipingere un ritratto profondo dei rapporti fra genitori e figli nell'era di internet. La voce narrante, in originale, è di Emma Thompson.

7 febbraio 2020

Il grande cielo (Howard Hawks, 1952)

Il grande cielo (The Big Sky)
di Howard Hawks – USA 1952
con Kirk Douglas, Dewey Martin
***

Rivisto in DVD, per ricordare Kirk Douglas.

Nel 1832, l'avventuriero Jim Deakins (Kirk Douglas) e la giovane testa calda Boone – "Bill" nel doppiaggio italiano – Caudill (Dewey Martin) vengono ingaggiati come cacciatori nella spedizione guidata da Zeb Calloway (Arthur Hunnicutt) e finanziata da un mercante francese (Steven Geray). L'obiettivo: risalire il fiume Missouri a bordo di un barcone per oltre 3000 chilometri, da Saint Louis fino ai territori inesplorati del Montana, per commerciare in pellicce con gli indiani Piedi Neri. A bordo dell'imbarcazione c'è anche una donna, una giovane pellerossa chiamata Occhio d'Anitra (Elizabeth Threatt), figlia di un capo tribù da cui fu rapita anni prima: la speranza dei mercanti è che, riportandola a casa, possa aiutarli a convincere gli indigeni a trattare con loro. Pellicola epica e avventurosa di ambientazione fluviale (come il precedente "Il fiume rosso", sempre di Hawks) che racconta, in maniera romanzata e avvincente (e con qualche concessione al gusto hollywoodiano), la prima spedizione di uomini bianchi nei vasti e sconosciuti territori del Nord-Ovest ("È un territorio immenso. La sola cosa che c'è di più grande è il cielo", spiega Calloway). Durante il lungo viaggio i nostri eroi dovranno fronteggiare le forze della natura, gli attacchi di indiani ostili (i Corvi, nemici dei Piedi Neri) e gli agguati degli uomini della rivale Compagnia delle Pellicce, oltre che appianare le tensioni interne (dovute soprattutto alla presenza "tentatrice" della giovane e orgogliosa Occhio d'Anitra). Ma saranno ricompensati. La vicenda è narrata in prima persona dall'esperta guida indiana Zeb, zio di Bill: e per un western dell'epoca, mostra un'insolita simpatia verso i pellerossa (Calloway spiega che essi temono una sola cosa: la "malattia" dell'uomo bianco, ovvero l'avidità). La pellicola fu girata quasi interamente in esterni, nel Parco Nazionale di Grand Teton. Buddy Baer è il gigantesco Romaine (che potrebbe aver ispirato il personaggio di Gros-Jean nei fumetti di Tex), Hank Worden è l'indiano alcolizzato Poordevil (Pelleeossa), Jim Davis è il "cattivo" Streak (Stoker nell'edizione italiana). Due nomination agli Oscar (per Hunnicutt e per la fotografia di Russell Harlan). Esiste una versione colorizzata.

5 febbraio 2020

Morte di un maestro del tè (Kei Kumai, 1989)

Morte di un maestro del tè (Sen no Rikyu: Honkakubo ibun)
di Kei Kumai – Giappone 1989
con Eiji Okuda, Toshiro Mifune
***

Rivisto in divx, con Marisa, Luigi, Laura, Lia ed Elena.

A ventisette anni dalla scomparsa di Sen no Rikyu (Mifune) – grande maestro del tè che si era ucciso in seguito a presunti screzi con Hideyoshi Toyotomi (Shinsuke Ashida), il signore feudale di cui era al servizio – il suo discepolo Honkakubo (Okuda), monaco zen ritiratosi a vivere in isolamento fra le montagne, viene convocato dal nobile Uraku (Kinnosuke Yorozuya) che vorrebbe comprendere le vere ragioni del suo suicidio. Da un testo di Yasushi Inoue ("Il testamento di Honkakubo") ispirato a personaggi realmente esistiti, un film misterioso ed enigmatico, lento e austero come i gesti della "cerimonia del tè" (cha-no-yu) che fa da sfondo all'intera vicenda: un rito somministrato da Rikyu e dagli altri maestri ai loro signori feudali e ai soldati, prima di partire per le battaglie (siamo alla fine del sedicesimo secolo, nell'epoca delle guerre civili), quasi come preparazione alla morte, e in quanto tale assimilabile a una cerimonia religiosa (come la comunione nella messa cristiana). Non si tratta solo di freddo o vuoto formalismo: Rikyu, la cui intera vita è all'insegna dell'etica, segue i dettami dell'ikigai, filosofia di vita che richiede l'estrema cura di ogni particolare, per quanto piccolo, perché ogni cosa è legata all'impermanenza. E non può dunque sacrificare i valori della semplicità, dell'onestà e della libertà, nemmeno per compiacere il proprio padrone, di cui peraltro era uno dei più affezionati confidenti (in questo ricorda moltissimo la figura di Tommaso Moro per come è ritratta nel film "Un uomo per tutte le stagioni"). La ricerca e la comprensione dei veri motivi della morte di Rikyu rappresentano l'ultimo tassello del rapporto fra il maestro e il suo discepolo, che a distanza di anni continua a vederlo e a parlare con lui, oltre che a sognarlo (una visione ricorrente in cui il maestro percorre la strada verso l'aldilà, e all'allievo che vuole seguirlo ribatte: "No, questo è il mio sentiero"). Assai sobria e rigorosa, la pellicola appare austera anche visivamente (ricorda qualcosa dell'ultimo Kurosawa, come "Kagemusha"), tanto da sembrare in bianco e nero: in realtà non mancano scene a colori, ma la monocromaticità risalta nei giardini zen dei templi di Kyoto e nella neve che ricopre ogni cosa. Nello stesso anno (1989) uscì anche un altro film sullo stesso soggetto: "Rikyu", di Hiroshi Teshigahara.

4 febbraio 2020

Dream (Kim Ki-duk, 2008)

Dream (Bimong)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2008
con Joe Odagiri, Lee Na-young
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Due perfetti sconosciuti, l'artigiano Jin (Odagiri) e la sarta Ran (Lee), scoprono di essere uniti da uno strano legame: di notte, mentre l'uomo sogna, la donna – in stato di sonnambulismo – vive nella realtà le esperienze del sogno di lui. E poiché Jin è ancora innamorato della sua ex ragazza, al punto da cercare di raggiungerla nei suoi sogni, Ran si trova costretta a tornare dal suo ex compagno, che invece detesta con tutto il cuore. Una pellicola notturna e bizzarra, onirica e misteriosa, la cui atmosfera di spaesamento – oltre che dal soggetto ultraterreno, che in certe scene rievoca il surrealismo di "Ferro 3" – è accentuata dal fatto che i due personaggi parlano due lingue diverse (giapponese lui, coreano lei). In effetti i personaggi, come viene spiegato, si trovano ai lati opposti di uno spettro, come il bianco e il nero (o lo yin e lo yang), uniti da un legame simbolico e immateriale (vedi anche il bel finale in cui lei si tramuta in farfalla per raggiungere lui). Migliore dei precedenti "Time" e "Soffio", ma altrettanto esile e pretestuoso, il film chiude una fase piuttosto infelice della filmografia di Kim Ki-duk, caratterizzata da pellicole sfornate a getto quasi continuo ma piuttosto carenti dal lato della sceneggiatura, costruite su suggestioni ed esoticismi che spesso restano fini a sé stessi. In questo caso, almeno, lo spunto è interessante, anche se nella parte centrale il film si trascina un po' troppo, fra fumose visioni oniriche e momenti in cui i personaggi provano a dormire a turno o si sforzano di non dormire affatto (come in "Nightmare"!). L'impasse creativa, ma anche un incidente avvenuto sul set (l'attrice rischiò di morire mentre girava la scena dell'impiccagione nel finale), convinsero il regista a prendersi una salutare pausa di tre anni, prima di tornare al cinema nel 2011 con lo pseudo-documentario "Arirang". Curiosità: nella colonna sonora si sente ripetutamente una canzone in dialetto abruzzese, "Scura maje". Non è la prima volta che Kim utilizza un brano italiano in un suo lavoro (era già capitato in "Bad guy").

3 febbraio 2020

Virus letale (Wolfgang Petersen, 1995)

Virus letale (Outbreak)
di Wolfgang Petersen – USA 1995
con Dustin Hoffman, Rene Russo
**

Visto in TV, con Sabrina.

Quando una letale epidemia, causata da un virus di origine africana che provoca una forte febbre emorragica, colpisce una cittadina degli Stati Uniti, il medico militare Sam Daniels (Dustin Hoffman) e la sua ex moglie Robby (Rene Russo) si ritrovano a lottare contro il tempo per rintracciare l'animale ospite e portatore sano (una scimmietta) prima che l'esercito, che ha isolato la città, la rada al suolo con una bomba. Thriller medico-catastrofista, ai tempi ispirato all'emergenza Ebola nello Zaire (anche se ci fu qualcuno che ci vide un parallelo con l'AIDS) e che oggi evoca ovviamente l'epidemia causata dal coronavirus cinese a Wuhan. Se da un lato è da apprezzare un'accuratezza scientifica superiore alla media dei film hollywoodiani (un personaggio osserva correttamente come la combinazione fra un tempo d'incubazione molto breve e un tasso di mortalità elevatissimo – caratteristiche tipiche dei virus in questo tipo di pellicole – renderebbe in realtà l'epidemia ben poco pericolosa, visto che gli infetti morirebbero prima di avere il tempo di contagiare altre persone), dall'altro la successione degli eventi è quanto mai inverosimile, con personaggi maldestri che sembrano trovare proprio ogni modo per diffondere il contagio senza volerlo. E non possono mancare i militari cattivi che vogliono nascondere l'esistenza del virus, non per evitare il panico fra la popolazione ma per usarlo in guerra come arma biologica. Alla fine, la cosa migliore è il cast: in ruoli minori ci sono Morgan Freeman, Donald Sutherland, Kevin Spacey, Cuba Gooding Jr. e Patrick Dempsey. Il rapporto fra i due protagonisti Hoffman e Russo, che interpretano una coppia di scienziati appena divorziati, ricorda quello visto in "The Abyss".

2 febbraio 2020

Survivor (James McTeigue, 2015)

Survivor (id.)
di James McTeigue – USA/GB 2015
con Milla Jovovich, Pierce Brosnan
*1/2

Visto in TV.

Kate Abbott (Milla), agente di sicurezza presso l'ambasciata americana a Londra, scopre un complotto per far entrare un gruppo di terroristi negli Stati Uniti. Ma a causa delle macchinazioni dello spietato killer detto "L'orologiaio" (Brosnan), e dopo che una bomba ha ucciso tutta la sua squadra, sarà proprio lei a essere accusata di tradimento e a dover fuggire per provare la propria innocenza, fino a sventare personalmente l'attentato che i terroristi stanno organizzando. Ambientato negli anni immediatamente successivi all'11 settembre, un mediocre thriller d'azione dai temi vagamente hitchcockiani (la caccia all'uomo – in questo caso una donna – innocente, con resa dei conti finale in un celebre luogo pubblico, una Times Square affollata di newyorkesi per festeggiare il capodanno), ma purtroppo assai noioso e con molti problemi di scrittura. La trama è infatti piena di forzature e di buchi logici, con tutti i personaggi (tranne la protagonista, ovviamente) che si comportano in modo stupido. Carenti le caratterizzazioni e sprecato il cast (che oltre a Milla e Brosnan comprende Dylan McDermott, il diretto superiore di Kate, James D'Arcy, l'ispettore inglese che le dà la caccia, e Angela Bassett, l'ambasciatrice americana). Decente almeno la confezione, con una regia competente pur senza guizzi.

1 febbraio 2020

Il sergente York (Howard Hawks, 1941)

Il sergente York (Sergeant York)
di Howard Hawks – USA 1941
con Gary Cooper, Walter Brennan
**1/2

Visto in divx.

Quando il pacifista Alvin York (Gary Cooper), contadino delle montagne del Tennessee, viene chiamato sotto le armi per andare a combattere in Europa (siamo nel 1916, durante la Grande Guerra), cerca inizialmente di dichiararsi obiettore di coscienza. Ma cambierà idea e si dimostrerà un eroe, sconfiggendo da solo un intero plotone di soldati tedeschi durante l'offensiva sulle Argonne. Ispirato a una storia vera (York è stato uno dei soldati americani più decorati della prima guerra mondiale), un film campione d'incassi che fonde l'ingenuità e la simpatia di un personaggio alla Frank Capra con la retorica e il patriottismo: uscito nelle sale americane in concomitanza con l'attacco di Pearl Harbour, riscosse uno strepitoso successo di pubblico e spinse molti giovani spettatori – almeno così si dice – ad andare ad arruolarsi non appena usciti dal cinema. Cooper, che per prepararsi alla parte si recò in visita alla fattoria del vero Alvin York, dà vita a un personaggio semplice ma ricco di contraddizioni: nella prima parte, interamente dedicata alla vita rurale nel Tennessee, lo vediamo ubriacone, scapestrato e attaccabrighe, per poi mettere la testa a posto per amore della bella Gracie (Joan Leslie), iniziare a lavorare sodo per comprarsi un terreno e seguire gli insegnamenti del pastore locale (Walter Brennan). E in guerra riuscirà a conciliare la sua devozione e il rispetto della vita umana con l'amore per la patria e la difesa della libertà. Un personaggio, come detto, che pare uscito da un film di Capra: il sempliciotto che deve confrontarsi con un mondo esterno ben più complesso di quello in cui ha sempre vissuto (si pensi anche al finale, in cui viene accolto in patria con tutti gli onori e rifiuta le proposte di lavorare come attore o testimonial per tornare invece nella sua terra). Alla sceneggiatura ha contribuito John Huston. Dieci nomination agli Oscar, con due statuette: per Cooper come miglior attore e per il montaggio.