31 dicembre 2020

Strange days (Kathryn Bigelow, 1995)

Strange days (id.)
di Kathryn Bigelow – USA 1995
con Ralph Fiennes, Angela Bassett
***1/2

Rivisto in DVD.

Nella Los Angeles del 1999, caotica, violenta e alla vigilia del nuovo millennio, l'ex poliziotto Lenny Nero (Ralph Fiennes) si guadagna da vivere come spacciatore di "memorie virtuali", ovvero registrazioni clandestine di esperienze altrui che, tramite un apposito circuito neuronale, possono essere trasmesse al cervello di un fruitore che le guarda in tempo reale come se fossero sue: si tratta di una tecnologia illegale e diffusa solo sul mercato nero, perché – proprio come una droga – può provocare dipendenza e alienazione dalla realtà. Quando la prostituta Iris, prima di essere uccisa da un misterioso killer, gli chiede aiuto perché è entrata in possesso di una clip che svela la complicità della polizia nell'assassinio del popolarissimo rapper nero Jeriko One (rivelazione che rischia di far esplodere ancora di più la violenza nelle strade), Nero si preoccupa che anche la sua ex fidanzata Faith (Juliette Lewis) possa essere in pericolo: Faith ora sta infatti con Philo Gant (Michael Wincott), l'ambiguo manager di Jeriko One, che potrebbe essere implicato nel suo omicidio... Scritta e prodotta da James Cameron (che all'epoca era sposato con la Bigelow), ma più dark e "adulta" dei suoi soliti film, una pellicola cyberpunk originale e potente, fra le migliori a portare sullo schermo il tema degli innesti di memoria artificiale (la si paragoni per esempio al contemporaneo "Johnny Mnemonic", di maggior successo al botteghino ma complessivamente meno riuscito) all'interno di una vicenda che fonde il giallo-thriller (l'identità dell'assassino rimane in dubbio fino alla fine) con i temi sociali (le rivolte per le strade si ispirano alle proteste dopo il caso di Rodney King), passando per l'introspezione esistenziale fino a un finale spettacolare e liberatorio. Il film si svolge infatti nell'arco di sole 24 ore, quelle che precedono il capodanno del 2000 e l'inizio di un nuovo millennio ("il 2K") che è atteso con toni apocalittici, quasi fosse "la fine del mondo". E le sequenze conclusive, con la pioggia di coriandoli colorati che ricopre la folla in festa per le strade, non si dimenticano facilmente. Da apprezzare il world building cupo e distopico, la fotografia colorata, la regia (con le numerose "soggettive" delle memorie virtuali) ma anche la costruzione dei personaggi, in particolare quelli di contorno, che rivestono ruoli non stereotipati: fra questi Mace (Angela Bassett), la tostissima autista di colore che aiuta Nero nella sua indagine, e l'amico Max (Tom Sizemore), suo ex collega "sballato". Vincent D'Onofrio e William Fichtner sono i due poliziotti cattivi. Flop di pubblico alla sua uscita, forse anche per i sottotesti pornografici, il film – complice anche una difficile reperibilità – ha lentamente conquistato un'aura da cult movie: rimane tuttora il miglior lavoro della Bigelow, insieme a "Point Break". Il look di Ralph Fiennes con il giubbotto nero ha ispirato il personaggio di Harlan Draka nella serie a fumetti "Dampyr" della Sergio Bonelli Editore. Il titolo della pellicola proviene dall'omonima canzone dei Doors: ma sui titoli di coda spicca "While the Earth sleeps" di Peter Gabriel e dei Deep Forest.

30 dicembre 2020

The midnight sky (George Clooney, 2020)

The Midnight Sky (id.)
di George Clooney – USA 2020
con George Clooney, Felicity Jones
*1/2

Visto in TV (Netflix), con Sabrina.

Rimasto solo in una stazione scientifica nell'Artico, su una Terra resa inabitabile da una catastrofe radioattiva e i cui ultimi abitanti si sono rifugiati sottoterra, uno scienziato morente (Clooney) cerca di comunicare con l'equipaggio di un'astronave che sta tornando da una missione di esplorazione su K-23, satellite di Giove che potrebbe ospitare la razza umana. A bordo della navetta, anche se lo scopriremo solo alla fine, c'è anche la figlia segreta dell'uomo, Sullivan (Jones), un cui simulacro muto e sotto forma di bambina (Caoilinn Springall) gli tiene compagnia nella sua immaginazione. Ambizioso ma noiosissimo film di "fantascienza umanistica", sulle orme di "Interstellar" e "Ad astra", tratto da un romanzo di Lily Brooks-Dalton. Di fatto è come assistere a due pellicole in simultanea, visto che le vicende dello scienziato e dell'astronave procedono in parallelo quasi senza punti di contatto (se non i temi della comunicazione e della "famiglia"), e che la rivelazione finale non aggiunge chissà quale significato recondito alle lungaggini che l'hanno preceduta. Quanto agli aspetti filosofici (e alle implicazioni biologiche), risultano banali o poco approfonditi. Rimangono le belle immagini (ottimi gli effetti speciali) e le scene della navigazione nello spazio, anche se molte delle vicissitudini che capitano ai personaggi sono del tutto improbabili e gli errori scientifici non sono pochi, quasi un peccato imperdonabile se commesso decenni dopo "2001" (e altri film più accurati da questo punto di vista, in primis "Gravity" con lo stesso Clooney). Da dimenticare in fretta. Gli altri membri dell'equipaggio della nave sono David Oyelowo, Kyle Chandler, Demián Bichir e Tiffany Boone, mentre Ethan Peck è Clooney da giovane.

29 dicembre 2020

Phenomena (Dario Argento, 1985)

Phenomena
di Dario Argento – Italia 1985
con Jennifer Connelly, Donald Pleasence
***

Visto in TV.

La quattordicenne Jennifer Corvino (Connelly), figlia di un celebre attore americano, viene mandata a frequentare un collegio femminile nelle Alpi, in una regione (soprannominata "la Transilvania della Svizzera") dove da alcuni mesi un misterioso serial killer si accanisce contro ragazze della sua età. Ma Jennifer, che soffre di sonnambulismo notturno, è dotata della straordinaria capacità di comunicare con gli insetti. E proprio le mosche che si nutrono dei cadaveri, come le spiega l'entomologo McGregor (Donald Pleasence), che abita nei pressi del pensionato della scuola, potrebbero aiutarla a rintracciare l'assassino... Forse l'ultimo film davvero "bello" di Dario Argento, nonché il preferito del regista stesso: un thriller/horror che da un lato riprende numerosi elementi dei lavori precedenti (la protagonista straniera, la scuola femminile e l'ambientazione mitteleuropea, in particolare, ricordano "Suspiria") ma dall'altro presenta uno stile molto più freddo e preciso, mai così "perfetto", rispetto a tutto ciò che aveva sfornato in passato. Le suggestioni sono parecchie, a partire dal legame empatico e telepatico di Jennifer con gli insetti, per proseguire con il rapporto fortemente antagonistico nei confronti della scuola e delle altre studentesse (odio e antipatia sono ricambiate), compresa la severa direttrice (Dalila Di Lazzaro) e la sua vice Frau Brückner (Daria Nicolodi). Indimenticabile anche la figura "paterna" fornita dal professor McGregor, paralitico che vive isolato nei suoi studi, con una scimmietta addestrata (!), Inga, come assistente. Molte le sequenze di pregio: dalle visioni notturne di Jennifer durante il suo sonnambulismo (la soggettiva del corridoio pieno di porte) alle scene "fiabesche" di lei, vestita di bianco, che cammina nel bosco guidata da una lucciola. E non mancano ovviamente scene "forti", specialmente in un finale che è un crescendo di momenti horror, splatter o ad effetto, dove talvolta l'aspetto serafico e angelico della Connelly sembra quasi stonare con le atrocità che la circondano. Fra gli interpreti figurano anche Fiore Argento, prima figlia di Dario (la giovane turista uccisa nella scena iniziale), Federica Mastroianni (Sophie), Patrick Bauchau (l'ispettore Geiger) e il regista Michele Soavi (l'assistente di quest'ultimo). Trucco ed effetti speciali (comprese le sequenze degli insetti) sono opera di Sergio Stivaletti. La ricca colonna sonora dei Goblin e di Claudio Simonetti comprende anche alcuni brani heavy metal ("Flash of the Blade" degli Iron Maiden, "Locomotive" dei Motörhead). Da notare che, come per i precedenti "Inferno" e "Tenebre", anche in questo caso il titolo è suggestivo ma pare dato un po' a caso, senza un legame con i contenuti della pellicola.

28 dicembre 2020

Polar Express (Robert Zemeckis, 2004)

Polar Express (The Polar Express)
di Robert Zemeckis – USA 2004
animazione digitale
**

Visto in TV, con Sabrina.

La notte di Natale, un bambino – che ha proprio l'età in cui si cominciano ad avere dubbi sull'esistenza di Babbo Natale – sale a bordo del Polar Express, treno magico diretto al Polo Nord, su cui vivrà numerose avventure che lo porteranno di nuovo a credere nella magia del Natale. Tratto da un libro illustrato per ragazzi di Chris Van Allsburg (adattato dallo stesso Zemeckis e da William Broyles Jr., già sceneggiatore di "Cast Away"), il primo – e tutto sommato il migliore – dei tre film di animazione in performance capture realizzati dal regista fra il 2004 e il 2009 (gli altri sono "La leggenda di Beowulf" e un altro film natalizio, "A Christmas Carol"), impantanando per un decennio la propria carriera in sperimentazioni tecniche. Per l'epoca, in ogni caso, la pellicola fu a suo modo innovativa nella resa digitale dei personaggi che si basano sulla recitazione di attori in carne e ossa. il mattatore in particolare è Tom Hanks, che interpreta il protagonista (ma la voce in originale è di Daryl Sabara) nonché tutti i personaggi "adulti": il controllore del treno, il vagabondo clandestino, Babbo Natale, e altri ancora (nel progetto originario Hanks avrebbe dovuto ricoprire proprio tutti i ruoli, ma l'impresa si rivelò troppo faticosa, e dunque salirono a bordo altri attori: la ragazzina per esempio è Nona Gaye, l'amico solitario è Peter Scolari). Nonostante un fastidioso effetto "uncanny valley" (la sensazione sgradevole che si prova quando la resa dei volti e delle figure umane si avvicina troppo alla realtà, ma non abbastanza da risultare credibile e realistica), il tono magico, fiabesco e natalizio della vicenda, tipico appunto dei libri illustrati e di avventure per bambini, facilita l'immersione dello spettatore e a tratti ricorda altri classici del cinema americano del genere come "Willy Wonka e la fabbrica del cioccolato" (anche citato, attraverso il biglietto dorato che dà accesso al treno) o "Il mago di Oz". E naturalmente, per lo stesso motivo, le peripezie dei protagonisti non sono da prendere sul serio: tutto è magico, fantastico e implausibile, come in un sogno, anche se ogni azione porta con sé una ricompensa, un'ammonizione o una morale.

27 dicembre 2020

Little Nemo (Winsor McCay, 1911)

Winsor McCay: The Famous Cartoonist of the N.Y. Herald and His Moving Comics, aka Little Nemo
di Winsor McCay – USA 1911
con Winsor McCay, John Bunny
**1/2

Visto su YouTube.

Il disegnatore Winsor McCay scommette con i suoi colleghi di essere in grado di "animare" i propri personaggi. Viene deriso, ma dopo un mese di lavoro presenta loro il risultato: i protagonisti della popolare strip "Little Nemo in Slumberland" si muovono sulla pagina disegnata e interagiscono fra loro. Pietra miliare nello sviluppo del cinema d'animazione, questo breve corto (11 minuti, ma l'animazione vera e propria occupa soltanto la parte conclusiva, poco più di 2 minuti) si ispira ai precedenti esperimenti di pionieri come James Stuart Blackton ("The enchanted drawing", 1900; "Humorous phases of funny faces", 1906) ed Émile Cohl ("Fantasmagorie", 1908). L'animazione – in seguito colorata a mano in alcune copie – è ottenuta filmando, uno dopo l'altro, migliaia di disegni realizzati su fogli di carta di riso (4000, per la precisione, come viene esplicitato nel film stesso), sotto la supervisione del citato Blackton. Una tecnica simile a quella dei "flip book" e decisamente efficace, anche se dispendiosa (non a caso sono assenti gli sfondi e tutti gli elaborati dettagli che caratterizzavano le bellissime tavole a fumetti dell'artista): le innovazioni successive di Earl Hurd (l'uso dei rodovetri in acetato) e di Raoul Barré (il fissaggio dei fogli alla tavola), già dal 1914, semplificheranno di molto il procedimento. McCay stesso ricorrerà ai rodovetri dal 1918, ma in questo suo primo lavoro (e nei due successivi, "How a mosquito operates" del 1912 e "Gertie il dinosauro" del 1914) fa ancora tutto a mano e su carta. A differenza dei film che verranno, qui la sequenza animata non ha una vera trama: i personaggi – inizialmente Impie, Nemo e Flip, tre dei protagonisti della serie a fumetti – danzano davanti allo spettatore, vengono deformati e distorti. Lo stesso Nemo poi disegna la principessa, le dona un fiore e i due volano via a bordo di un drago. Flip e Impie cercano di inseguirli con un'automobile che però esplode: e i due cadono addosso al Dottor Pill. Prima della sequenza, alcune scene dal vivo mostrano comicamente McCay al lavoro nel suo studio, fra montagne di carta da disegno e barili di inchiostro, disturbato da un assistente che porta scompiglio nella stanza. La didascalia introduttiva recita "The first artist to attempt drawing pictures that will move" ("Il primo artista che prova a disegnare immagini che si muovono", ignorando i precedenti tentativi dei citati Blackton e Cohl). Fra i "colleghi" di McCay nella scena iniziale ci sono il cartoonist George McManus, l'editore Eugene V. Brewster e l'attore John Bunny (che poi fa visita a McCay anche nel suo studio). Il personaggio di Little Nemo tornerà al cinema molti anni dopo, nel 1984 (ispirando il film dal vivo "Nemo" di Arnaud Sélignac) e nel 1989 (la pellicola d'animazione giapponese "Piccolo Nemo - Avventure nel mondo dei sogni").

26 dicembre 2020

Dream of a rarebit fiend (McCutcheon, Porter, 1906)

Dream of a rarebit fiend
di Wallace McCutcheon, Edwin S. Porter – USA 1906
con John P. Brawn
**1/2

Visto su YouTube.

Dopo essersi rimpinzato di welsh rarebit (pesantissima pietanza a base di formaggio fuso su fette di pane tostato) al ristorante, un uomo torna a casa barcollante e si mette a letto. Ma l'abbuffata ha le sue conseguenze: prima vede il mobilio e i propri vestiti animarsi, poi sogna tre diavoletti che escono dal recipiente della fonduta per tormentarlo, e infine è il letto stesso (con lui sopra) a danzare, a ruotare vorticosamente e a decollare, uscendo dalla finestra e librandosi sulla città. Rimasto appeso a una banderuola, il malcapitato precipita attraverso il soffitto per ritrovarsi nella sua camera, finalmente sveglio. Tratto dall'omonima strip a fumetti di Winsor McCay (che anticipa in molte cose la successiva e più celebre "Little Nemo"), è uno dei numerosi film che Edwin S. Porter diresse insieme a Wallace McCutcheon nel periodo (1905-1907) in cui quest'ultimo aveva temporaneamente lasciato la Biograph per lavorare per la compagnia di Edison. Ricco di effetti speciali, ovvero trucchi ottici (sovrimpressioni, mascherini) e teatrali (oggetti che si muovono), il corto è vivace e inquietante, anche se non distante da quanto avevano già fatto alcuni registi francesi (Georges Méliès, ovviamente, ma anche il Ferdinand Zecca di "Rêve à la Lune"). Notevole però la trovata di far partecipare lo spettatore al disorientamento del protagonista (per esempio dondolando la macchina da presa quando l'uomo è ubriaco, per simulare l'effetto di trovarsi su una nave in mezzo alla tempesta) e anche la panoramica dei tetti della città. Caso fra i primi al mondo, Edison mise in commercio anche una "colonna sonora" per il film, ovvero un pezzo per banda militare composto da Thomas W. Thurban e inciso su cilindro nel 1907. Il cartoonist Winsor McCay adatterà di persona altri episodi del suo "Rarebit fiend" sotto forma di animazione pionieristica ("How a mosquito operates" nel 1912, "Bug vaudeville", "The pet" e "The flying house" nel 1921).

25 dicembre 2020

A Very Murray Christmas (S. Coppola, 2015)

A Very Murray Christmas (id.)
di Sofia Coppola – USA 2015
con Bill Murray, Miley Cyrus
**

Visto in TV, con Sabrina, in originale con sottotitoli.

La notte di Natale, Bill Murray è al Carlyle Hotel di New York, intento a registrare controvoglia uno "special televisivo" in diretta a base di canzoni natalizie e sketch comici. Ma una violenta tempesta di neve isola l'albergo, impedendo agli ospiti previsti (fra cui George Clooney e Miley Cyrus) di raggiungerlo. Costretto a fare tutto da solo, in condizioni rese ancora più proibitive da un blackout elettrico, Murray trascorrerà il tempo chiacchierando e duettando con artisti di passaggio (Chris Rock, Maya Rudolph), con il personale dell'albergo (Jenny Lewis, David Johansen, i Phoenix) e con una coppia che avrebbe dovuto sposarsi quella sera stessa (Jason Schwartzman e Rashida Jones). Meta-special televisivo che alterna canzoni (per lo più a tema natalizio) con scenette e brevi gag autoironiche, in una sorta di omaggio/parodia ai variety show di un tempo: sicuramente per trascorrere un'ora durante le feste c'è di peggio. Nel finale, quando Murray batte la testa, nei suoi sogni appaiono i veri Clooney e Cyrus (vestita da Babbo Natale) che si esibiscono con lui in una scenografia degna di Broadway. Il pianista Paul Shaffer e l'attore Dimitri Dimitrov interpretano sé stessi. Amy Poehler e Julie White sono le due produttrici, Michael Cera l'aspirante manager.

24 dicembre 2020

Babbo Natale non viene da Nord (M. Casagrande, 2015)

Babbo Natale non viene da Nord
di Maurizio Casagrande – Italia 2015
con Maurizio Casagrande, Annalisa Scarrone
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Recatosi a Salerno per impersonare Babbo Natale per lavoro, il prestigiatore Marcello (Maurizio Casagrande) sbatte la testa e perde la memoria. Viene accolto da un prete, padre Tommaso (Giampaolo Morelli), e dai ragazzini di famiglia disagiata di cui si occupa, il cui rifugio (il Giardino della Minerva) è minacciato dalla perfida Alice (Tiziana De Giacomo), che vorrebbe farne un centro estetico. Con l'aiuto di India (Annalisa Scarrone), figlia di Marcello e aspirante cantante che assomiglia in maniera incredibile alla vera Annalisa, riusciranno però a risolvere la situazione, in tempo per festeggiare il Natale. Ambientata nella città campana nel periodo delle suggestive "Luci d'artista", una commedia natalizia che unisce i classici buoni sentimenti del genere a una comicità tipicamente teatrale – o cabarettistica – e meridionale (Casagrande, qui alla seconda regia cinematografica, è un collaboratore di lunga data di Francesco Salemme). Peccato però che molti spunti vengano dimenticati strada facendo o risolti troppo facilmente (vedi l'amnesia di Marcello), che l'ironia corrosiva della prima parte sparisca nella seconda, e che molte gag o situazioni appaiano decisamente superflue. Angelo Orlando è Gerardo, il manager di Marcello. Chicco Paglionico è Robertino, l'affarista che ha perso l'orto botanico al gioco con Alice. Piccole comparsate, fra gli altri, per Eva Grimaldi, Nino Frassica, Massimiliano Gallo, Maria Grazia Cucinotta, Rocco Mortelliti, Graziella Marina e Antonio Casagrande (padre di Maurizio).

Il segreto di Natale (Peter Sullivan, 2014)

Il segreto di Natale (Christmas under wraps)
di Peter Sullivan – USA 2014
con Candace Cameron Bure, David O'Donnell
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

La giovane dottoressa Lauren Brunell (Cameron Bure), che aspira a un posto da praticante chirurgo in un prestigioso ospedale di Boston, viene invece inviata come medico generale nella sperduta e isolata cittadina di Garland, in Alaska. Qui, in mezzo alla neve e fra persone semplici, imparerà che le cose migliori della vita giungono inaspettate e non sono il frutto di un'accurata pianificazione. Si scoprirà infatti circondata dall'affetto dell'intera popolazione del villaggio, e troverà l'amore nel "tuttofare" Andy (O'Donnell), figlio di Frank Holliday (Brian Doyle-Murray), il patriarca locale che potrebbe essere, forse, Babbo Natale... Scritto e diretto da uno specialista in tv movie natalizi, un film con una bella ambientazione nordica, buoni sentimenti e tanti luoghi comuni ("segui quello che ti dice il cuore, non la mente"), a malapena ravvivato dal "mistero" su Frank (sarà davvero Santa Claus?) e dal tema della dottoressa rampante che si ritrova suo malgrado a fare il medico di base. Guardabile in periodo di feste, ma non ci si attenda più di quello che il filone promette. Robert Pine e Joyce Cohen sono i genitori di Lauren, Kendra Mylnechuk è l'infermiera Billie. Sulle piattaforme di streaming è noto anche con il titolo originale.

23 dicembre 2020

The party (Sally Potter, 2017)

The party (id.)
di Sally Potter – GB 2017
con Kristin Scott Thomas, Timothy Spall
***

Visto in TV.

Per festeggiare la propria nomina a ministro ombra della salute per il partito di opposizione, Janet (Kristin Scott Thomas) invita a cena in casa propria un gruppo ristretto di conoscenti: l'amica cinica e disillusa April (Patricia Clarkson) con il marito tedesco Gottfried (Bruno Ganz), "life coach" e filosofo new age; l'attivista lesbica e femminista Martha (Cherry Jones) con la sua giovane compagna Jinny (Emily Mortimer); e la collega di partito Marianne con suo marito, il banchiere Tom (Cillian Murphy). Ma nell'attesa che Marianne (che è in ritardo) si presenti, una serie di annunci e confessioni da parte degli altri ospiti cambia repentinamente il tono della serata: dall'imminente separazione fra April e Gottfried, all'attesa di tre gemelli (grazie alla fecondazione artificiale) da parte di Martha e Jinny. Infine prende la parola Bill (Timothy Spall), il marito di Janet, colui che l'ha sempre sostenuta, che rivela di avere una grave malattia e di voler trascorrere i suoi ultimi giorni non con lei, ma con la sua amante, ovvero Marianne... Di impianto teatrale, ambientato tutto fra quattro mura e con soli sette (ottimi) attori, il film è una cinica black comedy sulle relazioni interpersonali fra un gruppo di persone, esponenti di un'elite intellettuale, che si scoprono preda di quelle passioni e quei difetti ai cui credevano di essere immuni. E così rapporti pluridecennali di amore, di amicizia, di fiducia e di rispetto si svelano fragili o si frantumano nel giro di una serata, così come valori e convinzioni politiche, sociali o religiose vengono messi alla prova in maniera crudele (non senza un po' di compiacimento da parte di una regista che si diverte ad esporre alla berlina la presunta superiorità morale di certi personaggi). Siamo dalle parti, per intenderci, del "Carnage" di Roman Polanski, verso il quale ci sono affinità stilistiche e tematiche. Curiosa ma efficace la breve durata (solo 70 minuti), che consente di mantenere i giusti tempi fino all'improvviso colpo di scena finale, nonché la scelta di uscire al cinema in bianco e nero (ma in tv passa anche una versione a colori). Il titolo (che in inglese ha un doppio senso: può significare "la festa" ma anche "il partito") è identico a quello originale di "Hollywood Party" di Blake Edwards.

22 dicembre 2020

Pericolosamente insieme (I. Reitman, 1986)

Pericolosamente insieme (Legal Eagles)
di Ivan Reitman – USA 1986
con Robert Redford, Debra Winger
**

Visto in divx.

Il rampante procuratore distrettuale Tom Logan (Redford) e l'avvocato difensore Laura Kelly (Debra Winger) uniscono le forze per difendere una ragazza, Chelsea Deardon (Daryl Hannah), dall'accusa di aver ucciso un collezionista d'arte per recuperare un quadro di suo padre, celebre pittore morto in un incendio (doloso?) diciotto anni prima. Al primo film "serio" della sua carriera (ovvero non prettamente comico, anche se non mancano tocchi da commedia screwball nel rapporto fra i due protagonisti), Reitman firma un thriller giudiziario scritto da Jim Cash e Jack Epps, Jr., la coppia di sceneggiatori di "Top gun". Nonostante però le buone prove degli interpreti (in particolare di un Redford molto in forma), il film soffre per una storia poco interessante, che fatica a decollare e a catturare l'attenzione dello spettatore. Ed è un peccato, visto che l'alchimia fra i due legali (inizialmente rivali, e poi alleati) è ben costruita, e che il mistero della colpevolezza o meno di Chelsea si trascina a lungo, man mano che gli altri possibili "cattivi" (Terence Stamp, John McMartin) vengono trovati uccisi. Nel cast anche Brian Dennehy (il detective Cavanaugh) e Roscoe Lee Browne (il giudice). Nel progetto originale i due avvocati avrebbero dovuto essere entrambi maschi (interpretati da Dustin Hoffman e Bill Murray) e la pellicola sarebbe stata simile a un buddy movie poliziesco. Quando è subentrato Redford, il tono è diventato quello di una commedia romantica e sofisticata nello stile dei classici con Spencer Tracy e Katharine Hepburn (il riferimento d'obbligo è "La costola di Adamo"). La colonna sonora è di Elmer Bernstein, alla sua ultima collaborazione con Reitman. Sui titoli di coda si sente "Love Touch" di Rod Stewart. Nota: esiste una versione alternativa, montata per la tv americana, con un finale radicalmente diverso.

21 dicembre 2020

A casa tutti bene (G. Muccino, 2018)

A casa tutti bene
di Gabriele Muccino – Italia 2018
con Stefano Accorsi, Gianmarco Tognazzi
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Per festeggiare le nozze d'oro di Pietro e Alba, i numerosi membri della loro famiglia allargata si riuniscono sull'isola dove questi risiedono (isola senza nome: ma il film è stato girato a Ischia). Ma la sospensione dei traghetti per via del maltempo costringerà tutti a trattenersi sull'isola più del previsto, due giorni durante i quali esploderanno litigi, tensioni, gelosie, rancori e infedeltà. Con un ampio cast corale, Muccino torna ad affrontare temi in fondo già visti a più riprese, tanto nel suo cinema quanto in quello cui fa (o vorrebbe fare) riferimento: un'analisi cinica e spesso impietosa del malessere e delle nevrosi individuali o di gruppo, che si trasforma in un gioco al massacro senza però un particolare intento di fornire una rappresentazione realistica o credibile della società contemporanea. I personaggi, infatti, rappresentano soltanto sé stessi: individui antipatici, egoisti, qualunquisti, buzzurri o idioti (oltre che generici e intercambiabili nei propri ruoli), che si esprimono attraverso dialoghi banali e retorici, scene gridate o stereotipate, caratterizzazioni da fiction nazional-popolare (non a caso sono tutti identificati solo con il nome, come in una soap opera: ignoriamo persino il cognome della famiglia!), le immancabili canzoni cantate in coro, amori e tradimenti di scarso interesse e di cui non ci importano gli sviluppi, e naturalmente nessuna idea a livello di stile, di ricerca visiva o di composizione dell'immagine. Il vasto cast (del tutto inutile specificare o distinguere i ruoli) comprende Stefano Accorsi, Carolina Crescentini, Elena Cucci, Tea Falco, Pierfrancesco Favino, Claudia Gerini, Massimo Ghini, Sabrina Impacciatore, Ivano Marescotti, Giulia Michelini, Sandra Milo, Giampaolo Morelli, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino, Gianmarco Tognazzi: ma ognuno recita per conto proprio (o a coppie) le proprie scenette, biascicando frasi a volta difficili da comprendere per via del solito mix micidiale fra l'incompetenza dei fonici e le pessime dizioni che funestano da vent'anni il cinema italiano (maledetto il giorno in cui è stato abbandonato il doppiaggio in nome di un presunto realismo o, più probabilmente, dell'ego degli attori). Con poche ma notevoli eccezioni, a dire il vero: si vede per esempio che la Sandrelli è della "vecchia scuola", ovvero che ha studiato dizione. Non che poi ci fosse molto da comprendere: se il soggetto in fondo ha i suoi meriti, i dialoghi – come detto – sono la cosa peggiore del film, espositivi e didascalici, mediocri e fasulli sia quando vorrebbero essere "poetici" sia nelle tante sequenze delle litigate. Di maniera anche la colonna sonora di Nicola Piovani.

20 dicembre 2020

La volpe (Powell e Pressburger, 1950)

La volpe (Gone to Earth), aka Cuore selvaggio (The wild heart)
di Michael Powell, Emeric Pressburger – GB/USA 1950
con Jennifer Jones, David Farrar, Cyril Cusack
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La contadina Hazel (Jennifer Jones) vive col padre (Esmond Knight), apicoltore e fabbricante di bare, in una fattoria nello Shropshire, ai confini col Galles, nella campagna inglese di fine ottocento. Selvatica ma dalla voce angelica, e figlia di una "zingara", ha ereditato dalla madre l'amore per la natura e gli animali, tanto che ha "adottato" un cucciolo di volpe, Foxy, salvandola dai cacciatori. Ma quando incontra il nobile Jack Reddin (David Farrar), sfrontato e appassionato proprio di caccia, non saprà resistere al suo fascino, cadendo nella sua trappola nonostante l'amore più puro e innocente che prova per il giovane reverendo Edward (Cyril Cusack). Da un romanzo di Mary Webb, un melodramma romantico e fatalmente tragico, ricco di metafore (forse sin troppo esplicite, a partire dalla caccia), impreziosito dalla fotografia in Technicolor di Christopher Challis e dallo stile barocco e sopra le righe di Powell e Pressburger, anche sceneggiatori. Tutto, dalla recitazione alla musica, dalle immagini ai colori, concorre al ritratto di un amour fou e di un personaggio dominato da pulsioni irrazionali e dalla comunione con la natura (Hazel vede gli animali – non solo la volpe – come parte della propria famiglia, tanto da discutere con chi li ritiene "senza anima"), guidata solo dal proprio istinto e da una saggezza arcana (gli incantesimi lasciatile dalla madre), in aperta opposizione con la morale e il perbenismo degli altri abitanti del villaggio. In questo, se vogliamo, è simile al cacciatore, che a sua volta segue i propri istinti e non si cura di ciò che pensano gli altri. I conflitti, come si vede, sono tanti: quello fra carnalità e spiritualità (impersonificati dal sensuale nobile e dal virtuoso reverendo: Hazel concede il proprio corpo al primo, ma chiama il secondo "Mia anima"), quello fra natura e civiltà, quello fra istinto e morale. Temi forse stereotipati ma sviluppati con competenza e immersi in un ambiente ricco di colore locale. Ben caratterizzati i personaggi di contorno, dal padre di Hazel alla madre del reverendo (Sybil Thorndike), fino al signor Vessons (Hugh Griffith), il domestico di Reddin, ostile verso le avventure galanti del proprio padrone. Insoddisfatto del risultato, il co-produttore David O. Selznick (marito della Jones) fece rimontare il film con numerosi tagli e nuove scene girate da Rouben Mamoulian espressamente per il mercato americano, dove venne proiettato nel 1952 con il titolo "The wild heart" (questa versione è uscita in Italia come "Cuore selvaggio"). Il titolo originale, "Gone to Earth", si riferisce al grido dei cacciatori quando la volpe braccata si rifugia nella propria tana: un "ritorno alla terra" che segna anche l'inevitabile destino finale della protagonista.

19 dicembre 2020

Green fish (Lee Chang-dong, 1997)

Green fish (Chorok mulkogi)
di Lee Chang-dong – Corea del Sud 1997
con Han Suk-kyu, Shim Hye-jin, Moon Sung-keun
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Tornato a casa dopo il servizio militare, il ventiseienne Mak-dong (Han) trova la propria famiglia e l'intero mondo intorno a sé nel caos più completo. I fratelli si sono allontanati l'uno dall'altro e vivono allo sbando e in difficoltà economica, il quartiere si sta trasformando in peggio, e dove c'erano vasti campi stanno per sorgere moderni palazzoni. L'incontro con la misteriosa Mi-ae (Shim), cantante in un cabaret e "pupa" del boss locale Bae Tae-gon (Moon), porta Mak-dong in contatto col sottobosco della malavita: preso in simpatia dal boss per via del suo coraggio e del suo carattere schietto, ne diventa presto uno degli uomini più fidati, occupandosi dei lavori più pericolosi nella speranza di guadagnare il denaro necessario a riunire i propri parenti e aprire un ristorante a gestione familiare... L'opera prima di Lee Chang-dong, il futuro regista di "Peppermint candy" e "Poetry", è un film intenso e ricco di ingredienti, forse fin troppi: la famiglia di Mak-dong, le faide fra bande di gangster, il rapporto con Mi-ae, la società coreana che cambia, il desiderio di rivalsa e quello, parallelo, del ritorno alla felicità dell'infanzia (il titolo fa riferimento a un pesce preso da Mak-dong da ragazzo, simbolo – come la slitta di "Quarto potere" – della spensieratezza di gioventù e di un momento in cui la famiglia era unita). Il tutto si colloca in una società corrotta (poliziotti e politici prendono le mazzette) e un mondo violento, dove c'è poco scampo per i puri, per chi agisce solo in base ai propri istinti o sentimenti, e per chi insegue un sogno: quello del protagonista verrà infatti realizzato solo dopo la sua morte, e a rendersi conto del suo sacrificio sarà chi gli è sopravvissuto, come Mi-ae (incinta forse di lui): la scena in cui viene uccisa la gallina per preparare la zuppa per lei richiama in un certo senso proprio il sacrificio di Mak-dong. Bella e già matura la regia (Lee, anche sceneggiatore, aveva lavorato come assistente in un paio di pellicole, prima di decidere di fare il gran salto dietro la macchina da presa), bravi gli attori e interessante la colonna sonora melodica (che richiama a tratti il Morricone di "C'era una volta in America" e il Bernard Herrmann di "Taxi driver"). Alcune sequenze (quella nei bagni pubblici e quella nella cabina telefonica, improvvisata da Han) sono entrate nella memoria collettiva dei cinefili coreani.

18 dicembre 2020

Palm Springs (Max Barbakow, 2020)

Palm Springs - Vivi come se non ci fosse un domani (Palm Springs)
di Max Barbakow – USA 2020
con Andy Samberg, Cristin Milioti
**1/2

Visto in TV (Prime Video), con Sabrina.

Ospite a un matrimonio perché fidanzato con una delle damigelle, Nyles (Samberg) sta vivendo in un loop temporale da quando è entrato in una misteriosa grotta nel deserto, nei pressi del resort di Palm Springs dove si svolge la cerimonia: ogni giorno per lui si ripete infatti uguale al precedente. Ma una sera, senza volerlo, trascina con sé nella grotta anche Sarah (Milioti), la depressa sorella maggiore della sposa. E da allora saranno in due a rivivere la medesima giornata, attraversando varie fasi (dalla depressione al cazzeggio, dall'esplorazione all'innamoramento, dai tentativi di suicidio a quelli di trovare una via per rompere l'incantesimo). Un soggetto senza troppa originalità (è l'ennesima variazione di "Ricomincio da capo", alias "Il giorno della marmotta": non a caso le prime parole con cui Nyles comincia la sua giornata sono "Buongiorno, marmottina!", rivoltegli dalla fidanzata Misty) ma con una sceneggiatura vivace e personaggi divertenti. Rispetto al classico con Bill Murray ci sono alcune differenze: intanto si inizia in media res (Nyles ha già vissuto la giornata migliaia o forse milioni di volte); poi il protagonista non è prigioniero da solo nel loop ma può portarci altre persone (oltre a Sarah c'è anche il vendicativo Roy, interpretato da J.K. Simmons); e infine, anziché un misterioso evento karmico, la via di fuga è offerta dalla scienza (fisica quantistica ed... esplosivi!). Per il resto gli ingredienti sono quelli attesi: riflessioni sul senso della vita, sull'amore e sul giusto approccio all'esistenza (una serena accettazione, un moderato cinismo, o un'ostinata ricerca di una via di fuga per andare avanti?). A un certo punto, dopo essersi innamorati, i due protagonisti si trovano di fronte a un dilemma: meglio vivere per l'eternità in un contesto statico con la persona amata, oppure evolvere insieme, anche se col rischio prima o poi di perdersi? Camila Mendes e Tyler Hoechlin sono gli sposini, Meredith Hagner è (l'infedele) Misty, Peter Gallagher il padre della sposa, June Squibb la nonna (dalle cui parole si potrebbe sospettare che anche lei sia prigioniera nel loop). Nella colonna sonora anche "The partisan" di Leonard Cohen e "Cloudbusting" di Kate Bush. Il regista Max Barbakow e lo sceneggiatore Andy Siara, entrambi all'esordio nel lungometraggio, erano compagni di studi all'American Film Institute.

17 dicembre 2020

Jesus rolls (John Turturro, 2019)

Jesus Rolls - Quintana è tornato! (The Jesus Rolls)
di John Turturro – USA/Francia 2019
con John Turturro, Bobby Cannavale, Audrey Tautou
*1/2

Visto in TV (Prime Video).

Appena uscito di prigione, Jesus Quintana (Turturro) trova ad attenderlo l'amico Petey (Bobby Cannavale). Dopo aver rubato una macchina, i due vagabondano insieme alla giovane francese Marie (Audrey Tautou), che si concede ad entrambi senza riuscire a raggiungere l'orgasmo: ce la farà con il giovane Jack (Pete Davidson), figlio della misteriosa Jean (Susan Sarandon), un'altra ex carcerata con cui Jesus e Petey avevano fatto conoscenza, prima che si suicidasse. Sconclusionata e deludente pellicola episodica che sarebbe, almeno in teoria, uno spin-off de "Il grande Lebowski" dei fratelli Coen, visto che il personaggio di Jesus Quintana proviene da una (singola) scena dei quel film (anche se era stato creato e caratterizzato da Turturro per proprio conto, già prima delle riprese): ma il legame è quanto mai esile (al bowling è dedicata una sola sequenza, più un paio di accenni), e in realtà si tratta di un remake de "I santissimi" (1974) di Bertrand Blier, film che fece scandalo alla sua uscita per il suo ritratto di personaggi sbandati e i temi sessuali. In effetti lo stile c'entra poco o nulla con quello dei Coen: siamo più dalle parti di un mix fra l'irriverenza di "Borat" e le prime pellicole on the road di Jim Jarmusch, con un incipit che ricorda "The Blues Brothers" (l'uscita dalla prigione, scena peraltro ripetuta poi per altri due personaggi) e uno sviluppo che pare improvvisato al momento (la trama, di fatto, è inesistente). A tratti esistenzialista e surreale, in questa successione di scenette scollegate – che anche quando vogliono far ridere non ci riescono mai – Jesus cessa persino di essere il personaggio centrale, con l'attenzione che si sposta presto sugli altri comprimari. Ma alla fine ci si chiede quale voleva essere il fine ultimo della pellicola. Nel cast, in piccoli ruoli, si riconoscono fra gli altri Christopher Walken (il direttore della prigione), Jon Hamm (il parrucchiere), Sonia Braga (la madre di Jesus), J.B. Smoove (il meccanico), Tim Blake Nelson (il medico) e Michael Badalucco (la guardia al supermercato).

16 dicembre 2020

Submergence (Wim Wenders, 2017)

Submergence (id.)
di Wim Wenders – Francia/Germania/Spagna 2017
con James McAvoy, Alicia Vikander
*1/2

Visto in TV.

La ricercatrice oceanica Danielle Flinders (Alicia Vikander) e l'agente dei servizi segreti britannici James More (James McAvoy) si conoscono e si innamorano sulla costa atlantica della Francia. Quando lei partirà per una spedizione nel Mare del Nord e lui per una missione in Somalia (dove sarà catturato e imprigionato dagli jihadisti), la distanza li terrà separati ma non potrà bloccare il loro amore e una sorta di "connessione" attraverso l'acqua. Da un romanzo di J.M. Ledgard, un film confuso e malriuscito, passo falso di Wenders e flop di critica e al botteghino. I personaggi forse ci sono, ma mancano una storia coerente e significati che facciano da collante alle due vicende parallele, quella della scienziata che studia la vita nei fondali marini più oscuri (applicando la matematica alle immersioni in sommergibile) e quella dello 007 alle prese con i terroristi che cercano di convertirlo all'Islam. Se la parte con lui è un minimo avvincente, quella con lei pare un inutile riempitivo. Da un lato abbiamo stereotipi e luoghi comuni, dall'altro personaggi improbabili o di cui si fatica a capire il senso ultimo. E le belle immagini della spiaggia francese o delle isole del nord (peraltro un po' troppo fotografate o patinate) restano soltanto sullo sfondo di un intreccio che non giunge mai a catturarci veramente. La nave su cui si imbarca Danielle si chiama L'Atalante, e la scena finale, con l'immersione, sembra quasi voler citare il capolavoro di Jean Vigo.

15 dicembre 2020

La farfalla sul mirino (S. Suzuki, 1967)

La farfalla sul mirino (Koroshi no rakuin)
di Seijun Suzuki – Giappone 1967
con Joe Shishido, Koji Nanbara
***

Visto in TV (Prime Video).

Goro Hanada (Shishido), "killer numero 3" al servizio di una potente organizzazione criminale, ama il profumo del riso bollito e non sopporta la solitudine, che dovrebbe essere invece l'unica compagna di un assassino. Per questo sceglie di sposare la folle Manami (Mariko Ogawa), che gira sempre nuda per casa, e si lascia poi attrarre dalla misteriosa Misako (Annu Mari), una ragazza ossessionata dalla morte, che lo contatta per commissionargli un omicidio. Ma una farfalla che si posa per un attimo sul mirino del suo fucile (il caso, il destino?) gli fa mancare il colpo: e per questo motivo viene condannato a morte dalla sua stessa organizzazione, che gli manda contro l'avversario più pericoloso di tutti, il Fantasma, ovvero il "killer numero 1" (Nanbara). La pellicola più famosa (anzi, famigerata) di Seijun Suzuki è un delirante e confuso B-movie anarchico e frammentario, dal ritmo sconnesso e dai contenuti risibili che mescolano thriller ed erotismo, ma dallo stile altamente personale. Girato in un avvolgente bianco e nero espressionista, ricco di suggestioni e di momenti bizzarri, il lungometraggio pare procedere per proprio conto in un mondo astratto e surreale, popolato da killer spietati e da donne folli, che agiscono in preda a pulsioni e feticismi, attraverso situazioni improvvisate e debolmente legate le une alle altre che si dipanano in un'atmosfera torbida e notturna: i fantasiosi omicidi commessi da Hanada, il suo perverso rapporto con la moglie, le farfalle e gli uccellini morti di cui si circonda Misako, e infine lo scontro fra i due killer che si braccano come il gatto con il topo, condividendo lo stesso spazio e la stessa casa, prima di affrontarsi nella penombra di un palazzetto dello sport. A tratti ridicolo e a tratti struggente, il film è sicuramente superiore alla somma delle sue parti. La casa di produzione Nikkatsu aveva chiesto a Suzuki (autore anche della sceneggiatura insieme a un gruppo di collaboratori, accreditati collettivamente con lo pseudonimo Hachiro Guryu, ovvero "Il gruppo degli otto") di realizzare un film di yakuza tradizionale, anche per lanciare definitivamente la carriera dell'attore Joe Shishido (che anni prima si era gonfiato le guance con un'operazione di chirurgia plastica per avere lineamenti più "mascolini" e recitare così parti da cattivo e da duro), e non fu per nulla soddisfatta del confuso risultato finale, licenziando il regista e ritirando la pellicola dalla circolazione. Ne seguì una celebre disputa legale che, se da un lato rese Suzuki un eroe della controcultura e del cinema underground, dall'altro gli fece terra bruciata intorno e gli impedì di dirigere un altro film per dieci anni. Col tempo, la pellicola è stata riscoperta dal pubblico e rivalutata dalla critica, diventando un autentico cult movie. In Italia è uscita anche con il titolo "Il marchio dell'assassino", traduzione letterale dell'originale, mentre in America è nota come "Branded to kill". Ispirata in parte dai film di James Bond e dai noir americani, ma anche dalla pop art e dal teatro kabuki, ha influenzato a sua volta Jim Jarmusch (che ne ha citato una scena in "Ghost dog"), Quentin Tarantino, John Woo, Johnnie To, Takeshi Kitano ("Getting any?"), Wong Kar-wai ("Angeli perduti") e persino la serie di Lupin III (personaggio del quale Suzuki stesso dirigerà un film nel 1985, "La leggenda dell'oro di Babilonia"). Nel 2001 il regista firmerà una sorta di sequel/remake/omaggio con "Pistol opera".

14 dicembre 2020

Reazione a catena (Mario Bava, 1971)

Reazione a catena (aka Ecologia del delitto)
di Mario Bava – Italia 1971
con Claudine Auger, Luigi Pistilli
**1/2

Visto in TV.

La morte della contessa Federica (Isa Miranda), paralitica proprietaria di una tenuta su una baia che fa gola a molti, dà il via a una serie di omicidi che coinvolge tutti coloro che le stanno attorno. Cinicissimo giallo-nero nel quale Bava inscena, come da titolo, una serie di cruenti delitti: se all'inizio sembra di assistere a un giallo che ci invita a indovinare l'identità dell'assassino (cosa difficile, perché tutti sembrano nutrire interessi verso la tenuta della contessa), ben presto ci rendiamo conto che nessuno è innocente. E man mano che si procede nella catena degli omicidi, con numerose sequenze splatter e gore (la pellicola è a tutti gli effetti un'antesignana degli slasher degli anni ottanta), ci accorgiamo che non c'è alcun protagonista positivo (anzi: a prescindere dallo stato sociale o da qualsiasi altra caratteristica, tutti sono ugualmente e "democraticamente" cattivi, avidi, disprezzabili), fino allo sberleffo finale appena prima dei titoli di coda. Proprio l'apparente nichilismo, o il pessimismo cosmico se vogliamo (ma senza compiacimento), diventa così la ragion d'essere della pellicola, una delle poche di cui il regista si dichiarò soddisfatto (e che potè girare senza pressioni o imposizioni indesiderate da parte dei produttori). Fra gli interpreti: Leopoldo Trieste e Laura Betti (l'entomologo Paolo e sua moglie Anna), Chris Avram e Anna Maria Rosati (l'architetto Franco e la sua amante Laura), Claudio Volonté (il pescatore Simone, figlio illegittimo della contessa), Giovanni Nuvoletti (Filippo, il marito della contessa), Claudine Auger e Luigi Pistilli (Renata, la figlia di quest'ultimo, e suo marito Alberto), Brigitte Skay, Paola Rubens, Guido Boccaccini e Roberto Bonanni (i quattro ragazzi Sylvie, Denise, Luca e Roberto). Memorabile il nudo integrale della Skay, quando si tuffa nella baia e trova uno dei cadaveri. Da sottolineare anche la fotografia dello stesso Bava, dominata dalle tinte fosche e dai colori autunnali, e la regia dinamicissima, con camera a mano, movimenti rapidi e soggettive per accrescere la tensione. Gli effetti speciali sono di Carlo Rambaldi, la musica di Stelvio Cipriani. Lamberto Bava, figlio del regista e suo assistente, avrebbe diretto alcune sequenze (come quella della morte di Simone).

13 dicembre 2020

Deserto rosso (M. Antonioni, 1964)

Il deserto rosso, aka Deserto rosso
di Michelangelo Antonioni – Italia/Francia 1964
con Monica Vitti, Richard Harris
***

Rivisto in divx.

Giuliana (Monica Vitti), moglie del chimico industriale Ugo (Carlo Chionetti), attraversa una crisi esistenziale e depressiva. Dopo un incidente stradale (in realtà un tentativo di suicidio) e una breve permanenza in clinica, appare distratta e dissociata ("C'è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos'è"), spaventata ("Ho paura delle strade, delle fabbriche, dei colori, della gente, di tutto!"), in crisi d'identità ("Ma io chi sono?") e in balìa dell'angoscia (sogna di sprofondare nelle sabbie mobili), ma con il desiderio di amare e di essere amata: un desiderio che non può placare né con il marito, sempre assente per lavoro ed emotivamente distante, né con il figlio, ben più a suo agio di lei nel mondo moderno che lo circonda (ha un robot per giocattolo, si diletta con il microscopio). L'incontro con Corrado (Richard Harris), ingegnere minerario amico del marito, sembra poterle fornire un appiglio: ma anche l'uomo vive in uno stato di perenne irrequietezza, mai soddisfatto e sempre pronto a cercare la felicità altrove, tanto che sta per trasferire l'industria di famiglia il più lontano possibile, in Patagonia (ovvero in un luogo, si spera, ancora incontaminato). "Chissà se c'è nel mondo un posto dove si va a stare meglio. Forse no", commenta Giuliana. Il primo film a colori di Michelangelo Antonioni (e la fotografia di Carlo Di Palma è molto interessante: le tinte appaiono per lo più spente e smorte, ma con occasionali colori più vivaci, come le "seducenti" pareti rosse del capanno da pesca dove Ugo, Giuliana, Corrado e altri amici – Max (Aldo Grotti), Linda (Xenia Valderi) e Milly (l'ex spogliarellista Rita Renoir) – trascorrono una movimentata serata) riprende ulteriormente il tema dell'alienazione che il regista (anche sceneggiatore insieme a Tonino Guerra) aveva già affrontato nella precedente trilogia in bianco e nero, sempre con la Vitti ("L'avventura", "La notte" e "L'eclisse"). Stavolta, ancor più che nei film precedenti, è tutta l'umanità che sembra aver perso il contatto con una natura che viene sfruttata e inquinata (siamo negli anni del "boom economico" e della crescita senza precedenti dell'industria italiana, di cui il film mette in dubbio i valori). Esemplare la scena finale, con il dialogo fra Giuliana e il figlioletto sui fumi che escono dalle ciminiere: "Perché quel fumo è giallo?", "Perché c'è il veleno", "Allora se un uccellino passa lì in mezzo muore?", "Ormai gli uccellini lo sanno, e non ci passano più". Ma sono tanti i momenti e gli episodi che, in questo contesto, appaiono significativi: la nave con l'epidemia a bordo (indice di un mondo malato), i personaggi sperduti nella nebbia, la paralisi misteriosa e temporanea del bambino (un semplice tentativo di attirare la sua attenzione, ma che rende evidente il distacco fra persone e apparenze). La soluzione, per quanto è possibile, è nell'amore e nei rapporti umani ("Una goccia più una goccia fa una goccia"), anche perché il mondo esterno è grigio e rumoroso, sporco e inquinato (innumerevoli sono le scene, come quelle nella fabbrica, con fumi e vapori, e un forte e sgradevole rumore di fondo che quasi copre i dialoghi). Frase cult: "Mi fanno male i capelli", citazione da una poesia di Amelia Rosselli. La colonna sonora di Giovanni Fusco comprende anche composizioni elettroniche di Vittorio Gelmetti. La spiaggia incontaminata di sabbia rosa dove è ambientata la "fiaba" che Giuliana racconta al figlio è quella di Budelli, in Sardegna, mentre il resto del film si svolge a Ravenna e dintorni (ma con scenari completamente disumanizzati). Bellissima e straordinaria la Vitti. Leone d'oro a Venezia, la pellicola disorienta e può apparire oggi forse datata nello stile ma non nei contenuti (anche se gli anni del boom sono passati, il tema dell'inquinamento è ancora attuale). Giuliana non è pazza o dissociata, ma sta male per ragioni ben precise (che però solo lei intravede: il mondo va verso la distruzione). Il titolo è enigmatico (quello di lavorazione era "Celeste e verde", le tinte con cui Giuliana immaginava di dipingere le pareti del suo negozio, già suggerendo l'importanza della sperimentazione cromatica). In ogni caso, il nome corretto del film, come figura nei titoli di testa, è "Il deserto rosso", con l'articolo: tuttavia è più comunemente noto come "Deserto rosso", senza articolo (compare così, infatti, sulla locandina).

12 dicembre 2020

Amen (Kim Ki-duk, 2011)

Amen (id.)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2011
con Kim Ye-na, Kim Ki-duk
**1/2

Visto su YouTube, per ricordare Kim Ki-duk.

Una ragazza coreana (Kim Ye-na) sbarca a Parigi in cerca di qualcuno (forse il suo innamorato?). La giovane vaga per la città, citofona inutilmente ai recapiti di cui dispone, grida il nome dell'uomo che sta cercando in mezzo alla folla, prende treni per Venezia prima e per Avignone poi, ma invano. Nello scompartimento di uno di questi treni, viene addormentata, derubata e violentata da uno sconosciuto in tuta mimetica e maschera antigas, che in seguito comincia a pedinarla di nascosto. Quando la ragazza scopre di essere rimasta incinta, lo sconosciuto la approccia, chiedendole di tenere il bambino... Forse il film più esile e minimalista di Kim, girato "in trasferta" con la camera a mano, senza dialoghi (il rumore di fondo è in presa diretta) e con una sola attrice (anzi due: il regista stesso, oltre a reggere la videocamera, interpreta l'uomo con la maschera antigas). In questo estremo artigianalismo non è molto diverso dal precedente "Arirang": ma se quello era una confessione a cuore aperto, qui Kim sembra quasi volersi imporre una sorta di invisibilità, cancellando persino il proprio volto, continuando però ad espiare i propri peccati. E perciò, anche se la prima impressione è che la trama sia stata improvvisata sul momento, non si può negare che non manchino l'interesse e l'intensità: si partecipa al viaggio e alle vicende della protagonista senza nome, sola in terra straniera, e si rimane stranamente avvinti dal suo volto irregolare, dalle sue lacrime, dalle notti trascorse sulle panchine, e dal mistero dell'uomo che la segue (spesso l'inquadratura corrisponte alla soggettiva di questi) donandole denaro o abiti, sentendosi in colpa per ciò che ha fatto. Espliciti anche alcuni sottotesti religiosi, a partire dal titolo e dalle sequenze ambientate in chiesa o presso luoghi di culto, quasi a voler leggere la vicenda come quella di una novella Maria di fronte al mistero dell'annunciazione. Musica di Schubert (l'Andantino D. 959).

11 dicembre 2020

L'ascesa (Larisa Shepitko, 1977)

L'ascesa, aka Ascensione (Voskhozhdeniye)
di Larisa Shepitko – URSS 1977
con Boris Plotnikov, Vladimir Gostyukhin
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

In Bielorussia, durante l'invasione tedesca nella seconda guerra mondiale, i partigiani sovietici Rybak (Vladimir Gostyukhin) e Sotnikov (Boris Plotnikov) lasciano il proprio drappello per andare in cerca di cibo nelle fattorie della zona, ricoperte di neve. Saranno catturati dai soldati nazisti e processati da un poliziotto collaborazionista, Portnov (Anatolij Solonitsyn), che condannerà a morte Sotnikov e tre abitanti del villaggio da cui lui stesso proviene (un vecchio, una donna e una bambina), risparmiando invece Rybak che ha accettato di cambiare casacca. Da un romanzo di Vasil Bykaŭ, l'ultimo film di Larisa Shepitko è un intensissimo lungometraggio a sfondo bellico (ma anche filosofico: si pensi al dialogo sul tema della coscienza) che traccia un parallelo – anche se più spirituale che religioso – fra il protagonista Sotnikov e la figura di Gesù Cristo, con tanto di processo di fronte a Pilato, elementi salvifici (Sotnikov manifesta la volontà di sacrificarsi e di espiare le colpe di tutti), via crucis ed esecuzione finale. C'è anche un "Giuda", il compagno Rybak, appellato così (e con disprezzo) dagli abitanti del villaggio, che dopo la morte dell'amico tenta di impiccarsi con la propria cintura ma non ne ha il coraggio (così come in precedenza aveva immaginato più volte di fuggire, prefigurandosi le conseguenze, senza poi farlo); e varie altre immagini allegoriche, a partire dall'agnello che i due partigiani trovano in una fattoria e si portano dietro, sulle spalle; per non parlare della neve bianchissima che copre l'intero paesaggio, donandogli un'atmosfera trascendentale. Memorabile anche la colonna sonora di Alfred Schnittke, che cresce di intensità in determinati momenti come quello dell'impiccagione. Metafore a parte, il film parla anche con toni concreti della tragedia della guerra (che assume però una dimensione intima e personale, senza toni retorici o propagandistici: lo sguardo è sempre rivolto al singolo individuo), dell'invasione della propria patria, del coraggio (di alcuni) e delle paure (di altri), di integrità e di tradimento, del restare fedeli alla propria coscienza anche di fronte alla morte o dell'abbracciare l'opportunismo pur di salvarsi la vita: scelte che cambiano le esistenze di chi, prima della guerra, era un semplice maestro di matematica (Sotnikov) o il direttore di un coro di bambini (Portnov). Ottime tutte le interpretazioni: Plotnikov (il cui volto, con lo sguardo perso, pare quasi ipnotizzato) e Gostyukhin erano due sconosciuti attori di teatro, che la Shepitko scelse appositamente. Il vecchio, la donna e la bambina sono rispettivamente Sergei Yakovlev, Lyudmila Polyakova e Viktorija Gol'dentul. Da notare il ruolo da cattivo per Solonitsyn, l'attore-feticcio di Andrej Tarkovskij. Orso d'oro al festival di Berlino. La Shepitko morirà in un incidente stradale nel 1979: suo marito Elem Klimov firmerà nel 1985 un altro celebre film antibellico, "Va' e vedi".

10 dicembre 2020

Terminator: Destino oscuro (Tim Miller, 2019)

Terminator: Destino oscuro (Terminator: Dark Fate)
di Tim Miller – USA 2019
con Mackenzie Davis, Natalia Reyes
*1/2

Visto in TV (Now Tv).

La soldatessa umana "potenziata" Grace (Mackenzie Davis) giunge nel 2020 dal futuro con lo scopo di proteggere l'operaia messicana Dani Ramos (Natalia Reyes), futura leader della resistenza umana, dal Terminator Rev-9 (Gabriel Luna) che è stato inviato per ucciderla. Ad aiutarla c'è anche la guerrigliera Sarah Connor (una rediviva Linda Hamilton), che credeva di aver sventato l'avvento delle macchine nel precedente "Terminator 2" (salvo scoprire che il futuro è sì cambiato, ma non di molto: al posto di Skynet ci sarà un'altra rete informatica malvagia, Legion: cambia il nome ma non la sostanza), nonché "Carl" (Arnold Schwarzenegger), un modello T-800 che dopo aver finalmente ucciso John Connor nel 1998 è rimasto nel nostro continuum temporale e ha sviluppato una coscienza. Il sesto film di "Terminator" è l'ennesimo reboot della serie: come il quinto ("Terminator Genisys") decide di ignorare del tutto il terzo e il quarto capitolo (nonché la serie televisiva "The Sarah Connor Chronicles") e di ripartire direttamente dal secondo. Di fatto fa (male) le stesse cose che aveva fatto il già non trascendentale "Genisys", con l'aggravante di giungere dopo (e di essere prodotto da Cameron, che ha anche contribuito al soggetto). Questa tendenza di Hollywood a guardare sempre al passato ma in modo selettivo, scegliendo di ignorare i propri passi falsi nascondendo la polvere sotto il tappeto (vedi anche i casi di Spider-Man e dei Ghostbusters) è davvero antipatica: con che spirito si guarderà ormai un film o ci si affezionerà ai suoi personaggi, sapendo che se la pellicola non andrà bene al botteghino sarà "cancellata" da quella successiva? E fosse almeno un bel film: tutto sa invece di già visto, dal Terminator buono (ma in "T2" Schwarzy era stato riprogrammato, non sviluppava da solo un'improbabilissima coscienza umana!) a quello cattivo capace di rigenerarsi e composto da metallo liquido (che qui sembra catrame nero, e ha la caratteristica di poter separare il proprio scheletro dal resto del corpo). Oltre a non essere originale, poi, il lungometraggio non ha nulla della forza creativa o della potenza visionaria del miglior Cameron: le situazioni non sorprendono, le sequenze d'azione annoiano, i personaggi sono derivativi (compresa l'agguerrita Dani) e la fantasia non vola mai (e per un film di fantascienza questo è un peccato mortale). Aggiungiamoci una regia anonima e dei dialoghi scontati e adolescenziali. Fra i pochi spunti interessanti (ma non approfonditi): l'accenno alle macchine che prendono il posto degli operai nelle fabbriche e l'aggancio al tema (di attualità) dell'immigrazione clandestina dal Messico agli Stati Uniti. Da segnalare anche la sequenza iniziale con i robot cattivi che escono dal mare, in stile sbarco in Normandia. La scelta anticlimatica di uccidere John Connor a inizio film è stata poi molto criticata: come per la morte di Newt in "Alien³", ci si sbarazza con troppa noncuranza di un personaggio chiave delle pellicole precedenti. Curiosità: a pronunciare la frase-tormentone "I'll be back" ("Torno presto", in italiano) stavolta è Linda Hamilton, non Schwarzenegger. Visto il finale aperto (il "destino oscuro" rappresentato dal cupo futuro delle macchine non viene sventato: tutto il film racconta solo della fuga dei nostri eroi dal Terminator cattivo, senza peraltro mai un piano preciso per sconfiggerlo), i produttori pensavano di rendere questo film il primo di una nuova trilogia (tanto per cambiare: era l'intenzione anche del quarto e del quinto capitolo!), ma il meritatissimo flop al botteghino ha bloccato ogni piano. E chissà che il settimo film, se mai ci sarà, non resetterà di nuovo tutto.

9 dicembre 2020

L'abisso (Urban Gad, 1910)

L'abisso, aka Precipizio (Afgrunden)
di Urban Gad – Danimarca 1910
con Asta Nielsen, Poul Reumert
***

Visto su YouTube.

Attratta da un mondo più libero e selvaggio, la giovane insegnante di piano Magda (Asta Nielsen) abbandona il fidanzato "perbene" Knud (Robert Dinesen) per fuggire con il "bad boy" Rudolf (Poul Reumert), cowboy e artista circense. Per due volte Knud la rintraccerà: la prima, in un albergo a Copenaghen, la donna cederà ancora al fascino di Rudolf; la seconda, in un piano bar dove si esibisce per guadagnarsi da vivere, sarà tentata di tornare a un'esistenza normale. Ma Rudolf cercherà di trattenerla, e nella colluttazione che ne segue, sarà ucciso dalla ragazza. Opera prima di Urban Gad, nipote di Paul Gauguin e regista teatrale senza alcuna esperienza di cinema (tanto che si fece coadiuvare dall'operatore Alfred Lind), il film è un capitolo importante della cinematografia danese ed europea in generale, visto che segna anche l'esordio di Asta Nielsen, una delle prime e più celebri dive (e sex symbol) degli anni dieci. Indimenticabile la "scandalosa" scena del ballo che la Nielsen danza sul palco di un teatro con Reumert vestito da gaucho, in cui la donna prima lega l'uomo con il lazo e poi gli si struscia addosso: sensualità e bondage che fecero enorme scalpore (e su cui si accanì la censura di alcuni paesi, tagliando la scena in numerose copie e aiutando così a preservarla, visto che la sequenza in questione risulta oggi molto meno rovinata del resto del film!). Anche se la trama è semplicistica, altamente melodrammatica e a sfondo morale (la sceneggiatura, scritta dallo stesso Gad, non fa nulla per farci simpatizzare con la protagonista Magda, che in fondo è causa della sua stessa tragedia e non una vittima delle circostanze), è da apprezzare il realismo di fondo, pilotato dalla recitazione naturalistica (per l'epoca) e dalle numerose scene girate in esterni. La pellicola, che dura 37 minuti (la cinematografia danese fu una delle prime a uscire regolarmente dai limiti ristretti del singolo rullo di durata), è girata con camera fissa, senza primi piani, ed è priva di dialoghi: i venti cartelli sono semplicemente didascalie che introducono le scene come capitoletti. Gad e la Nielsen, che per alcuni anni furono anche sposati, si trasferirono in Germania nel 1911, dove continuarono a sfornare film di successo insieme al produttore Paul Davidson. Con l'avvento del sonoro, Asta si ritirò dalle scene cinematografiche e tornò al teatro; e con quello del nazismo, fece rientro in Danimarca per dedicarsi alla scrittura e all'attivismo politico.

8 dicembre 2020

Mank (David Fincher, 2020)

Mank (id.)
di David Fincher – USA 2020
con Gary Oldman, Amanda Seyfried
**

Visto in TV (Netflix).

Nel 1940, costretto a letto per via di una gamba ingessata e isolato in uno chalet fuori città con un'infermiera (Monika Gossmann) e una dattilografa (Lily Collins), l'esperto e alcolizzato scrittore Hermann J. Mankiewicz (Gary Oldman) si dedica nell'arco di due mesi a redigere la sceneggiatura per il film che diventerà "Quarto potere" di Orson Welles. Una serie di flashback (ambientati dal 1930 al 1937) ce ne svelano i retroscena, ovvero i rapporti di familiarità e antagonismo che intercorsero fra lo scrittore e William Randolph Hearst (Charles Dance), il potente magnate della stampa al quale è ispirato Charles Forster Kane, il protagonista del film di Welles. "Mank" lo conobbe tramite il giovane collega Charles Lederer (Joseph Cross), nipote dell'attrice Marion Davies (Amanda Seyfried), amante di Hearst. Entrato inizialmente nelle grazie dell'imprenditore, che lo ammirava per il suo spirito caustico, lo sceneggiatore finirà per essere messo in disparte dall'industria hollywoodiana (all'epoca dominata dal sistema degli studios) a causa delle sue simpatie socialiste: e molto di ciò che avverrà durante l'elezione del governatore della California del 1934, quando la campagna del candidato democratico Upton Sinclair sarà boicottata da falsi cinegiornali prodotti proprio dagli studi del cinema, lo porterà a sviluppare uno dei temi del capolavoro di Welles (il potere dei mass media, in grado di influenzare l'opinione pubblica). Il secondo biopic firmato da David Fincher (dopo "The social network": ed entrambi scelgono come soggetto un vero e proprio "mito" della cultura americana) non è all'altezza del precedente. Nonostante la buona ricostruzione del mondo degli studios e dell'era della grande depressione, la pellicola risulta fredda, pesante, patinata e manieristica, e la sceneggiatura dà per scontata la conoscenza di troppe cose, nomi e personaggi. Inoltre, il tentativo di richiamare l'atmosfera di quegli anni (attraverso la fotografia in bianco e nero di Erik Messerschmidt, la colonna sonora retrò di Trent Reznor e Atticus Ross, e persino l'audio in mono, a dire il vero un po' fastidioso) sembra voler compensare il fatto che molti eventi e particolari sono stati romanzati o alterati. Discutibili infatti le caratterizzazioni di svariate figure di contorno, dal fratello Joe (Tom Pelphrey), ovvero il futuro regista Joseph L. Mankiewicz, la cui statura è alquanto sminuita, passando per Louis B. Mayer (Arliss Howard), ritratto come il "cattivo" del film. In generale il lungometraggio pare quasi un'agiografia di Mank, svalutando tutte le figure attorno a lui (da Welles a John Houseman, ridotto a poco più di un galoppino). Concludendosi con l'Oscar per la sceneggiatura (l'unico vinto da "Quarto potere") assegnato a Mankiewicz e Welles, entrambi assenti alla cerimonia, accenna anche alla disputa sulla paternità che ne seguì, sposando la versione (avanzata dalla critica Pauline Kael, ma controversa e ormai screditata) che questa fosse quasi esclusivamente opera del primo: in realtà Welles intervenne sulla (lunghissima) bozza originale, alterandola anche durante le riprese, e dunque è giusto che il risultato finale sia accreditato a entrambi. Nel complesso l'idea di fondo della pellicola (spiegare l'origine di "Quarto potere" attraverso il risentimento e il desiderio di rivalsa di Mank contro Hearst e la corruzione di Hollywood) è debole, per non parlare dei rimandi interni: ogni paragone che sorga spontaneo fra il film di Welles e questo non può che andare a favore del primo. Ottima comunque la prova di Oldman, ben calato nella parte. Tom Burke è Welles, Sam Troughton è Houseman, Ferdinand Kingsley è Irving Thalberg, Tuppence Middleton è Sara (la moglie di Hermann), Jamie McShane è il (fittizio) aiuto regista Shelly Metcalf, che si suicida per i sensi di colpa dopo la mancata elezione di Sinclair. La sceneggiatura è firmata dal padre del regista, Jack Fincher, che la completò negli anni novanta: il figlio l'avrebbe voluta girare già vent'anni fa (con Kevin Spacey come protagonista), ma all'epoca i produttori non gli consentirono di realizzare un film in bianco e nero, cosa che in tempi recenti è invece tornata di moda.

7 dicembre 2020

American animals (Bart Layton, 2018)

American animals (id.)
di Bart Layton – USA 2018
con Barry Keoghan, Evan Peters
**1/2

Visto in TV.

Per il suo secondo lungometraggio, Layton ricorre ancora una volta a una storia vera (come nel precedente "L'impostore"), raccontando del furto di alcuni libri rari (fra cui una copia de "L'origine della specie" di Darwin, da cui proviene la frase che apre il film e gli dà il titolo) da una biblioteca universitaria nel Kentucky da parte di quattro studenti, più o meno sbandati. Interviste ai veri protagonisti del furto (nonché ai loro genitori e a un professore) inframmezzano le sequenze girate con attori che li impersonano (Barry Keoghan, Evan Peters, Jared Abrahamson e Blake Jenner), rendendo la pellicola qualcosa a metà fra il film di finzione e il documentario. E tanti piccoli dettagli cambiano a seconda di chi li racconta, come a voler comunicare che siamo di fronte a una ricostruzione che può non essere del tutto attendibile. Questa struttura, nonché l'ottima regia e le buone interpretazioni, si abbinano però a una storia non eccessivamente originale e forse meno interessante della precedente. Per lo meno i personaggi sono ben costruiti: i quattro studenti che si improvvisano rapinatori, preparando in anticipo ogni dettaglio – anche attraverso la visione di film celebri basati su furti e rapine (guardano "Rapina a mano armata" di Kubrick, si affibbiano soprannomi basati sui colori come ne "Le iene" di Tarantino) – ma poi pasticciando e commettendo innumerevoli errori, e che esibiscono paure, perplessità, incertezze e ripensamenti, fino ai sensi di colpa che conducono al loro inevitabile arresto, sono ragazzi anche brillanti che soffrono nel sentirsi ingranaggi di un sistema, che sognano la libertà e vogliono distinguersi in un'impresa fuori dal comune: lo specchio di una gioventù che, guidata dal sogno americano, aspira ad elevarsi al di sopra degli altri e di raggiungere il successo a tutti i costi, anche con scorciatoie illegali. Il regista ce li mostra in chiave simpatetica, anche se il suo sguardo è, appunto, quasi zoologico o entomologico. Piccola parte per Udo Kier nel ruolo del ricettatore olandese.

6 dicembre 2020

Soldato Jane (Ridley Scott, 1997)

Soldato Jane (G.I. Jane)
di Ridley Scott – USA 1997
con Demi Moore, Viggo Mortensen
**

Rivisto in DVD.

Nell'ottica di integrare anche le donne nei reparti più specializzati della marina e dell'esercito degli Stati Uniti, il tenente Jordan O'Neill (Demi Moore) – soprannominata "G.I. Jane" dalla stampa – viene ammessa al corso di addestramento più duro di tutti, quello del corpo scelto dei Navy SEAL. Accolta inizialmente con aperta ostilità e con molti pregiudizi di genere, e sottoposta a un programma di addestramento massacrante e intensivo agli ordini del severo istruttore capo John James Urgayle (Viggo Mortensen), O'Neill rinuncerà a ogni trattamento diverso dagli altri (sia in senso positivo che negativo: non vuole né discriminazioni né favoritismi) e saprà guadagnarsi pian piano il rispetto dei compagni, fino a guidare il proprio gruppo al salvataggio dell'istruttore durante un'esercitazione al largo delle coste libiche che si tramuta, per via di un'emergenza, in una vera missione. Sceneggiato da David Twohy da un soggetto di Danielle Alexandra, un film che nelle intenzioni vorrebbe essere un manifesto per la parità di genere e contro i pregiudizi nell'esercito, ma che a conti fatti si rivela una pellicola enfatica, esagerata e testosteronica (fra le scene clou: il momento in cui la protagonista si rade i capelli per adeguarsi al taglio dei compagni, con paragone esplicito a Giovanna d'Arco; e il grido di orgoglio e ribellione verso l'istruttore: "Succhiami il cazzo!"). Mascolina, muscolosa, in canottiera o divisa, O'Neill ricorda la Vasquez di "Aliens". La regia di Ridley Scott (che dopo "Alien" e "Thelma & Louise" si mette al servizio di un'altra "donna forte"), la fotografia di Hugh Johnson e, tutto sommato (checché se ne dica), le buone interpretazioni garantiscono comunque una discreta confezione, rendendo il film decisamente guardabile (a tratti anche con un discreto e perverso piacere). Debole invece la caratterizzazione dei personaggi, inesistente o puramente funzionale alla storia: O'Neill, che afferma di lottare per sé stessa e non per un principio, quasi non ha voce all'interno della storia, mentre l'unico tratteggiato con qualche originalità è l'istruttore interpretato da Mortensen, severo ma giusto e a tratti enigmatico, che lascia intravedere caratteristiche interessanti (come l'amore per la cultura e la poesia: legge Neruda, Coetzee e D.H. Lawrence, e ascolta Puccini) e il cui rapporto con O'Neill evolve nel tempo sostenendo l'interesse dello spettatore. Se la parte dell'addestramento è potente e viscerale, nella seconda metà il film deraglia un po' (e finisce col sembrare una versione seria di "Stripes" di Ivan Reitman). Anne Bancroft è la senatrice texana che all'inizio sembra battersi per la parità dei diritti e che promuove la partecipazione di O'Neill all'addestramento, salvo sacrificarla poi per ragioni di opportunità politica. Nel cast anche Jason Beghe, Josh Hopkins e Jim Caviezel.

5 dicembre 2020

Gli uomini, che mascalzoni... (M. Camerini, 1932)

Gli uomini, che mascalzoni...
di Mario Camerini – Italia 1932
con Lya Franca, Vittorio De Sica
**1/2

Visto in TV.

Per corteggiare Mariuccia (Franca), giovane commessa in una profumeria, lo chauffeur Bruno (De Sica) finge di essere ricco e la invita a una gita ai laghi sull'automobile del proprio padrone... Quando scopre che è stato licenziato, la ragazza cercherà di procurargli un nuovo lavoro accettando di andare al luna park e poi a cena con un ricco industriale, suscitando così la gelosia dell'ignaro Bruno. La riconciliazione fra i due avverrà a bordo del taxi guidato proprio dal padre della ragazza. Spigliata e leggera commedia romantica e degli equivoci, che all'epoca riscosse un grande successo di pubblico e di critica. Fra i suoi pregi, la scelta (allora insolita) di girare quasi interamente in esterni anziché nei teatri di posa, in una Milano che appare vivace e operosa: dalle strade, che cominciavano a essere invase dal traffico (tram, automobili e biciclette), alla fiera campionaria, con tutti i suoi padiglioni che trasudano modernità e intraprendenza commerciale. Belle anche le sequenze sul lago, una serie di scenari da cartolina su cui si sovrappongono le voci dei due personaggi come se fossero degli spiriti. La freschezza e il realismo dell'ambientazione concorrono a rendere il film quasi un antesignano del neorealismo o addirittura della Nouvelle Vague. Ma la pellicola ha anche avuto una notevole importanza, con il senno di poi, per tutto il cinema italiano: si tratta infatti del primo ruolo di rilievo da protagonista per Vittorio De Sica, in precedenza commediante teatrale, qui alla sua prima collaborazione con il regista Mario Camerini, per il quale reciterà in diverse altre pellicole prima di esordire a sua volta alla regia. Fra le altre cose, nella scena del ballo De Sica si esibisce come cantante in quello che sarà uno dei suoi cavalli di battaglia, la canzone "Parlami d'amore Mariù", che diventerà immensamente popolare (persino più del film). Il padre è Cesare Zoppetti. Alla sceneggiatura hanno collaborato Aldo De Benedetti e Mario Soldati.

4 dicembre 2020

Terrore nello spazio (Mario Bava, 1965)

Terrore nello spazio
di Mario Bava – Italia/Spagna/USA 1965
con Barry Sullivan, Norma Bengell
**1/2

Visto in TV.

Dopo aver ricevuto un misterioso segnale proveniente dalla sua superficie, due navi spaziali sono costrette ad atterrare su un pianeta sconosciuto dove si verificano strani fenomeni. Gli astronauti scopriranno che gli abitanti del pianeta vivono "su un diverso piano di vibrazione" e sono in grado di impossessarsi dei corpi dei loro compagni morti. Da un racconto di Renato Pestriniero, uno dei primi e forse il più celebre fanta-horror del cinema italiano, capace di influenzare molte pellicole successive, a partire da "Alien" (la scena in cui i protagonisti trovano un'altra astronave schiantatasi in passato sullo stesso pianeta, con tanto di enorme e inquietante scheletro di una gigantesca creatura extraterrestre, è stata fonte di ispirazione per Dan O'Bannon e Ridley Scott). In quanto debitore a sua volta a "Il pianeta proibito", non può poi non ricordare "Star Trek", la serie televisiva che debutterà solo l'anno successivo: in effetti ne anticipa molti elementi (la plancia di comando, le uniformi, la rigida divisione in ruoli militari all'interno dell'equipaggio, e le attrezzature "scientifiche" della nave che svolgono un ruolo chiave nella vicenda, come il "deviatore di meteore"), per non parlare delle suggestive scenografie – anche se evidentemente finte e in cartapesta – della superficie del pianeta, che Bava rende però inquietanti grazie alla fotografia colorata e all'onnipresente nebbia (l'aspetto visivo del film, è stato commentato, ricorda nei suoi colori le copertine delle riviste di fantascienza, come le illustrazioni pulp e surrealiste di Karel Thole). Realizzata con un budget limitato e non priva di ingenuità se vista con gli occhi di oggi, la pellicola è comunque originale nel suo mix di horror e SF, presenta un discreto finale a sorpresa ed è indicativa del modo in cui il genere fantascientifico cominciava ormai a essere "preso sul serio" anche nel nostro paese (erano gli anni del boom di "Urania") e non solo in chiave di parodia, commedia o satira come in precedenza. Alla sceneggiatura hanno collaborato Alberto Bevilacqua e Callisto Cosulich, mentre nella creazione dei modellini e degli effetti speciali c'è la mano di Carlo Rambaldi. Il cast è internazionale (l'attore americano Barry Sullivan interpreta il comandante, mentre nel resto dell'equipaggio ci sono la brasiliana Norma Bengell, lo spagnolo Ángel Aranda, la greca Evi Marandi e gli italiani Stelio Candelli e Federico Boido). Rieditato nel 1979 con il titolo "Alien è terrore nello spazio", in USA il film è noto come "Planet of the Vampires".

3 dicembre 2020

Operazione Cougar (Zhang Yimou, 1989)

Operazione Cougar (Daihao meizhoubao)
di Zhang Yimou, Yang Fengliang – Cina 1989
con Ge You, Gong Li
*

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Un aereo privato commerciale, in volo da Taipei a Seul, viene dirottato da un gruppo terroristico. Costretti a un atterraggio di emergenza in un campo nei pressi di Pechino, i criminali chiedono alle autorità di liberare il loro capo (imprigionato a Taiwan), minacciando di uccidere gli ostaggi. Per far fronte alla situazione, pur non avendo contatti diplomatici ufficiali da 40 anni, i governi di Pechino e Taipei decidono di collaborare inviando in segreto una task force formata da membri di entrambi i paesi. Forse la pellicola più atipica e meno significativa di tutta la filmografia di Zhang Yimou, un thriller noioso e abbastanza dozzinale, di scarso valore e nessun interesse se paragonato con le cose che in contemporanea venivano prodotte a Hong Kong (anche se il modello è semmai smaccatamente americano), e naturalmente distante anni luce dai lavori di ambientazione storica dello stesso Zhang. Che lo diresse per fare un favore a un amico che lo aveva finanziato: ma molti elementi dello script vennero eliminati dalla censura cinese, lasciando la pellicola monca e senza personaggi o aspetti di rilievo, se non l'eccessiva enfasi con cui si sottolinea ripetutamente (e con molta retorica) la collaborazione fra le nazioni rivali, un auspicio forse per una riconciliazione anche nella realtà. Lo stile cerca di rimediare alla povertà del budget con numerosissimi primi piani e pochi momenti concitati, mentre quelli più "operativi" sono resi attraverso una serie di fotogrammi fissi (a mo' di reportage fotografico) accompagnati da una voce fuori campo. Ridicolo il finale che ripropone scene già viste (anche tragiche) con una canzoncina allegra in sottofondo. Ge You è il capo dei dirottatori, Liu Xiaoning e Wang Xueqi rispettivamente i comandanti delle squadre di Pechino e Taipei, Gong Li l'infermiera che collabora controvoglia con i terroristi perché innamorata del loro capo (un personaggio fondamentalmente inutile, inquadrata spesso ma praticamente senza linee di dialogo). Il co-regista Yang Fengliang dirigerà insieme a Zhang anche il successivo "Ju Dou", dopodiché le carriere (e le fortune) dei due prenderanno strade differenti.

2 dicembre 2020

L'albero del vicino (H. G. Sigurðsson, 2017)

L'albero del vicino (Undir trénu, aka Under the tree)
di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson – Islanda 2017
con Steinþór Hróar Steinþórsson, Edda Björgvinsdóttir
*1/2

Visto in TV.

Atli (Steinþórsson) viene cacciato di casa dalla moglie Agnes (Lára Jóhanna Jónsdóttir) perché sorpreso a guardare un vecchio film porno che aveva girato con la sua ex. Si trasferisce così a casa dei genitori Baldvin (Sigurður Sigurjónsson) e Inga (Björgvinsdóttir), scoprendo che questi sono in lite con i vicini, Konrad (Þorsteinn Bachmann) ed Eybjorg (Selma Björnsdóttir) per via del loro albero che fa troppa ombra nell'altro giardino. Dalla semplice richiesta di sfrondare un po' la pianta, il dissidio si ingigantisce poco a poco, passando da piccoli dispetti ad atti vandalici sempre maggiori... Attraverso due storie parallele (la lite coniugale e quella condominiale), una metafora dei rapporti umani che si deteriorano senza che sia possibile parlarsi per comprendersi a vicenda o troavre un punto d'incontro. Personaggi antipatici e sgradevoli (i peggiori sono le donne, come la moglie e la madre di Atli) e una regia fredda e senza particolari qualità fanno ben poco per rendere piacevole la visione. Nel finale, quella che poteva sembrare anche una commedia, per quanto cupa e grottesca, si colora di cinismo noir. Musiche di Daníel Bjarnason.

30 novembre 2020

L'Atalante (Jean Vigo, 1934)

L'Atalante (id., aka Le chaland qui passe)
di Jean Vigo – Francia 1934
con Jean Dasté, Rita Parlo, Michel Simon
****

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Jean (Dasté) sposa la bionda Juliette (Dita Parlo) e la porta a vivere con sé sull'Atalante, la chiatta di cui è capitano e con la quale, insieme all'anziano père Jules (Michel Simon) e a un giovane mozzo (Louis Lefèbvre), naviga per i canali della rete fluviale francese. Ma la ragazza, anche se non era mai uscita in precedenza dal proprio villaggio, fatica ad adattarsi alla vita a bordo e sogna di visitare le bellezze di Parigi. Una sera, mentre la chiatta è attraccata a Corbeil, Juliette scende sulla riva per raggiungere da sola la grande città. Jean, in preda all'ira, decide di ripartire senza aspettarla. Se ne pentirà quasi subito, e la separazione forzata lo farà precipitare nella depressione e nella disperazione. Sarà père Jules a risolvere la situazione, ritrovando la ragazza e riportandola a bordo. L'ultimo film di Jean Vigo (che morirà nell'ottobre dello stesso anno, un mese dopo l'uscita del film, a soli 29 anni, per le complicazioni della tubercolosi), nonché il suo unico lungometraggio (il precedente "Zero in condotta" durava solo 41 minuti), è una delle pellicole più belle, influenti e significative del cinema francese. Eppure alla sua uscita fu pressoché ignorata, quando non ferocemente criticata. Colpa dei distributori, che tagliarono e alterarono pesantemente il materiale girato, ma in un certo senso anche dello stile filmico di Vigo, anarchico e apparentemente datato: "L'Atalante" sembra infatti quasi un film muto di dieci o vent'anni prima: i (pochi) dialoghi non hanno molta importanza e, quando ce l'hanno, potrebbero essere tranquillamente sostituiti da cartelli. Più importante – nonostante una sincronizzazione del sonoro non sempre perfetta – è la musica, composta da Maurice Jaubert, con "la canzone dei marinai" (le chant des mariniers) che nel finale aiuta père Jules a ritrovare Juliette, perché la ragazza la sta ascoltando in una audioteca pubblica. Da notare che i distributori, alla prima uscita del film, la sostituirono con la più popolare "Le chaland qui passe" di Lys Gauty (ovvero una cover di "Parlami d'amore Mariù"!), reintitolando in questo modo anche la pellicola. Soltanto negli anni quaranta il film venne riproposto con il titolo originale e le scene in precedenza tagliate, prima di essere completamente restaurato nel 1990.

Se lo spunto narrativo appare esile e molto semplice (Vigo e il co-sceneggiatore Albert Riéra adattarono un breve soggetto di Jean Guinée, dopo che l'idea iniziale del regista di girare un film sull'anarchico Eugène Dieudonné era stata scartata per evitare problemi in seguito all'accoglienza controversa di "Zero in condotta"), la profondità dei personaggi, il realismo dell'ambientazione e la poesia che ne scaturisce hanno pochi rivali in campo cinematografico, grazie anche alla leggerezza e alla libertà che la pellicola emana in ogni fotogramma e che suscitarono l'entusiasmo, per esempio, dei registi della Nouvelle Vague che la riscoprirono nel dopoguerra. Evidenti, per esempio, le influenze che il film (come peraltro tutto il cinema di Vigo) ebbe sui lavori di François Truffaut. Il film ha toni universali, al tempo stesso concreti e onirici, drammatici e comici, realistici e fiabeschi. Il suo romanticismo, che vola a livelli altissimi, non trascura gli aspetti più difficili di una relazione amorosa (i bisticci, i rancori, le gelosie), facilitando il coinvolgimento di ogni spettatore. All'interno di un setting prosaico e proletario, la poesia nasce dalle immagini, dai personaggi, dai sentimenti, dall'ambientazione, dalla vita, dalle piccole cose (gli innumerevoli gattini che circondano père Jules, la musica, la superficie dell'acqua). Se Jean Dasté aveva già recitato per Vigo nel film precedente, Dita Parlo (appena tornata in Francia dopo aver lavorato sei anni in Germania) e Michel Simon (la "star" della pellicola, protagonista due anni prima del "Boudu salvato dalle acque" di Jean Renoir) gli furono suggeriti dalla produzione. Simon, in particolare, dà vita a un personaggio indimenticabile, un tuttofare comico e burbero protagonista di divertenti gag (come quella in cui è vittima dello scherzo del mozzo, che gli fa credere di poter suonare un disco con il dito). Girato nell'inverno 1933/34 (e chissà se le condizioni fredde e umide non abbiano aggravato la salute del regista), diverse scene furono improvvisate, come tutta la sequenza del venditore ambulante nella sala da ballo, per la quale Vigo lasciò ampia libertà all'attore Gilles Margaritis.

Naturalmente è impossibile parlare de "L'Atalante" senza fare un riferimento a "Fuori orario", la trasmissione notturna su Rai 3 che per anni ha utilizzato una sequenza di questo film come sigla d'apertura, abbinata alla canzone "Because the night" di Patti Smith. Ogni cinefilo che abbia trascorso innumerevoli notti a seguire (o a videoregistrare) la trasmissione contenitore di Enrico Ghezzi in cerca di "chicche" cinematografiche la conosce ormai a memoria, e tutto ciò non fa altro che accrescere l'amore verso questa pellicola. Si tratta peraltro di una delle sequenze più immaginifiche, suggestive e visionarie, quella in cui Jean si tuffa nel fiume "in cerca" di Juliette, che in precedenza gli aveva detto che se si guarda sott'acqua con gli occhi aperti si vedrà la persona amata. Vigo (memore di alcune sequenze del suo precedente cortometraggio "Taris o del nuoto") accosta in sovrimpressione le immagini di Jean che nuota sott'acqua con l'apparizione ridente di Juliette, in abito da sposa, quale ninfa o sirena sottomarina. L'eccellente fotografia di Boris Kaufman (fratello di Dziga Vertov) e il montaggio di Louis Chavance fanno il resto. Lo scenografo è Francis Jourdain, un vecchio amico del padre del regista. L'ambientazione fluviale concorre certo ad accrescere il fascino del film, una pellicola che in fondo parla di movimento passivo: i protagonisti si lasciano trascinare dalle acque e dalla corrente, quando qualcuno vuole "fare" qualcosa finisce col provocare un danno (Juliette quando vuole andare a Parigi, Jean quando decide di abbandonarla), ma solo perché non hanno messo chiarezza nei propri sentimenti. Il tuffo in acqua servirà proprio a questo, a scuotersi e schiarirsi le idee: e l'abbraccio finale fra i due innamorati ne segna la felice riconciliazione, senza alcun bisogno di parole, di scuse o di giustificazioni. Cosa c'è di più (semplicemente) romantico?

29 novembre 2020

Brivido nella notte (Clint Eastwood, 1971)

Brivido nella notte (Play Misty for me)
di Clint Eastwood – USA 1971
con Clint Eastwood, Jessica Walter
**1/2

Visto in TV.

Dave Garner (Eastwood), DJ radiofonico che conduce una trasmissione notturna in una piccola emittente californiana, scopre che la sua affezionata ascoltatrice Evelyn (Jessica Walter), che telefona ogni sera per chiedere la canzone "Misty" di Erroll Garner, è una stalker psicopatica innamorata di lui. E dopo un incontro casuale di una notte, non riesce più a togliersela di dosso: dapprima la donna porta scompiglio nella sua sfera privata e professionale, e poi cerca addirittura di attentare alla sua vita. Il film che segna l'esordio alla regia per Eastwood è un thriller psicologico che in certe cose sembra anticipare "Misery": come nel classico di Stephen King e Rob Reiner, a renderlo memorabile è l'antagonista, una donna ossessiva e fanatica, violenta e senza inibizioni, magistralmente interpretata da una Jessica Walter che fu anche nominata ai Golden Globe. Pur con qualche calo di ritmo e qualche ingenuità sopra le righe, alla prima esperienza dietro la macchina da presa Clint si dimostra un regista già solido e capace di sfruttare bene sia gli attori (compreso sé stesso!) sia le scenografie (le coste frastagliate della penisola di Monterey: la sceneggiatura di Jo Heims era ambientata inizialmente a Los Angeles, ma Eastwood volle spostarne il setting per dare alla vicenda uno sfondo più particolare e realistico, vedi anche le scene girate durante il festival jazzistico). Donna Mills è la fidanzata ufficiale di Dave, Don Siegel (che lo stesso anno aveva diretto l'amico Clint nel primo "Ispettore Callaghan") è il barista, John Larch è il detective della polizia.

28 novembre 2020

Processo a Giovanna d'Arco (R. Bresson, 1962)

Processo a Giovanna d'Arco (Procès de Jeanne d'Arc)
di Robert Bresson – Francia 1962
con Florence Delay, Jean-Claude Fourneau
**1/2

Visto in divx.

Processata a Rouen da un tribunale ecclesiastico asservito agli invasori inglesi, la "pulzella di Orléans" – che afferma di udire nella sua testa le voci di santa Caterina e santa Margherita e il conforto di san Michele, che le avrebbero intimato di prendere le armi in favore del re di Francia – viene condannata a morte come eretica (in quanto ritiene di poter comunicare con Dio senza la mediazione della chiesa e dei sacerdoti) e bruciata sul rogo. Tratto direttamente dagli atti e dalle minute del processo del 1431, nonché dalle deposizioni e testimonianze di quello di venticinque anni dopo, che riabilitò Giovanna, il film è breve (dura solo 65 minuti), asciutto e privo di qualsivoglia fronzolo, com'è nello stile di Bresson. Impossibile però non fare un confronto con il capolavoro di Dreyer, "La passione di Giovanna d'Arco" del 1928, che – forse perché muto – era molto più intenso e "spirituale". Questo si dipana in maniera più meccanica e distaccata, come un resoconto stenografico o la ricostruzione di una seduta in tribunale: tantissime domande su dettagli spesso insignificanti (ma, immagino, teologicamente importanti), cui Giovanna risponde sempre con raziocinio e dignità, rifiutando di farsi trascinare dove gli inquisitori vorrebbero. Anche le inquadrature sono sempre le stesse, ripetute uguali e inserite nel ritmo monotono della pellicola. Fra i pregi: il rigore, la compostezza e il senso di austerità (favorito dal bianco e nero), che fanno percepire, se non le emozioni, la trascendenza e la spiritualità (come era in Dreyer), quanto meno il peso della storia e la posta in gioco. Gli interpreti, come capita spesso nei film del regista, sono attori non professionisti: Florence Delay (accreditata come Florence Carrez) diventerà una scrittrice; Jean-Claude Fourneau (che interpreta il vescovo Cauchon) era un pittore surrealista.

27 novembre 2020

Dear ex (Mag Hsu, Hsu Chih-yen, 2018)

Dear ex (Shei xian ai shang ta de)
di Mag Hsu, Hsu Chih-yen – Taiwan 2018
con Roy Chiu, Hsieh Ying-hsuen
**1/2

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Poco prima di morire per un tumore, il padre del giovane Song Cheng-hsi (Joseph Huang) aveva abbandonato lui e la moglie Liu San-lian (Hsieh Ying-hsuen) per tornare dal suo amante gay di un tempo, il teatrante Chieh (Roy Chiu), che si è preso cura di lui nei suoi ultimi giorni. Lasciato dal padre e in rotta con la madre, Cheng-hsi si ritrova così in mezzo alla diatriba fra lei e Chieh, nominalmente incentrata su chi sia il beneficiario dell'assicurazione sulla vita del padre, ma in realtà su chi l'uomo amasse veramente (il titolo originale del film recita appunto "Chi ha iniziato ad amarlo prima"). In piena fase di ribellione, il ragazzo scappa di casa e si trasferisce a vivere proprio da Chieh, cercando di comprenderne la personalità. Da uno spunto che ricorda "Le fate ignoranti", ma girato con lo stile di Wong Kar-wai o Hou Hsiao-hsien, un film intimo, sensibile ed equilibrato, ben scritto e recitato, con un tono spigliato (quasi da commedia) e una fotografia coloratissima che dona personalità all'insieme, mentre gli occasionali flashback approfondiscono la vicenda e arricchiscono i personaggi, rendendoli sempre più tridimensionali. Peccato solo che verso il finale si faccia un po' scontato, perdendo in parte la verve iniziale (veicolata anche dai disegni, dalle scritte e dagli schizzi che appaiono animati sullo schermo, come se fossero i ghirigori di Cheng-hsi su un proprio diario). Fra i molti ingredienti che concorrono all'insieme: la professione di Chieh, che lavora in teatro (con mille difficoltà) ed è dunque abituato a recitare e dissimulare i propri sentimenti; la nevroticissima Liu, alla disperata ricerca di punti di riferimento dopo la rivelazione dell'omosessualità del marito; le sedute di psicanalisi cui Cheng-hsi si sottopone controvoglia, che lo aiutano a fare chiarezza nella sua adolescenza ribelle; e la figura del padre (Spark Chen), inizialmente misteriosa, che i vari retroscena aiutano pian piano a mettere a fuoco: e meno male, visto che è attorno a lui che ruota la storia e dipendono tutti gli altri personaggi. Fra le cose più belle c'è il fatto che ognuno ha le proprie ragioni e la propria (diversa) sensibilità, senza dunque buoni o cattivi (termini peraltro usati spesso, ma a sproposito, da Cheng-hsi): i notevoli conflitti fra i protagonisti sono destinati a essere superati quando subentra la comprensione. La colonna sonora, con la canzone-tormentone dello spettacolo teatrale su Bali, è di Lee Ying-hung. Alla prima regia cinematografica, la scrittrice Mag Hsu e il videomaker Hsu Chih-yen non sono imparentati.