31 dicembre 2019

La grande rapina al treno (Edwin S. Porter, 1903)

La grande rapina al treno, aka Assalto al treno (The great train robbery)
di Edwin S. Porter – USA 1903
con Justus D. Barnes, Broncho Billy Anderson
***1/2

Visto su YouTube.

Quattro fuorilegge armati assaltano un treno e rapinano i suoi passeggeri, fuggendo poi a cavallo. Inseguiti dallo sceriffo e dalla sua “posse”, vengono raggiunti fra i boschi e infine uccisi in uno scontro a fuoco. Girato nel novembre 1903 negli studi Edison di New York ma anche in esterni (in New Jersey e presso la ferrovia di Lackawanna), “La grande rapina al treno” è uno dei film muti del primissimo periodo della storia del cinema divenuti oggi più iconici (secondo, forse, soltanto al “Viaggio nella Luna” di Georges Méliès), e come tale è stato ricoperto da una patina di mito che ne ha esaltato oltre misura i pregi e le innovazioni. È stato etichettato di volta in volta come il primo western della storia del cinema (in realtà già nel 1894 William K. L. Dickson aveva filmato un rodeo e delle sequenze con la leggendaria Annie Oakley), il primo film d'azione o addirittura il primo “film narrativo” (qualunque cosa questo voglia dire). Ma anche se l'originalità di Porter deve essere un po' ridimensionata (l'ispirazione, evidente, è data dai film di "inseguimento" britannici come “Stop thief!” di James Williamson e “A daring daylight burglary” di Frank Mottershaw), resta comunque una pellicola assai sofisticata per l'epoca, con l'utilizzo dell'azione parallela, di molteplici posizioni della camera, del montaggio di diverse sequenze in funzione narrativa (in totale ci sono ben 14 scene, che in alcuni casi mostrano eventi che accadono simultaneamente: per esempio lo sceriffo e i suoi uomini vengono avvertiti e partono all'inseguimento mentre i rapinatori sono in fuga), e con un'inquadratura finale (o, in certe copie, iniziale: per Porter la scelta di collocarla all'inizio o alla fine era indifferente, visto che non sembra far parte della storia ed era stata pensata solo per stupire il pubblico) entrata nella leggenda – quella del capo dei banditi (Justus D. Barnes), mostrato in piano medio, che spara sei colpi con la sua pistola verso la macchina da presa, e dunque verso gli spettatori – e che ha contribuito a portare sullo schermo (o a rendere popolare anche presso le platee non americane) l'epica del vecchio west. Il soggetto, oltre che da un dramma teatrale di Scott Marble del 1896, potrebbe essere stato ispirato alle recenti rapine al treno da parte di Butch Cassidy e della sua banda.

Girato con un budget stimato in soli 150 dollari e con una durata di circa 12 minuti, il film riscosse un enorme successo, diventando un vero e proprio blockbuster. Stimolò inoltre rifacimenti (già l'anno successivo Sigemund Lubin ne realizzò una copia identica, con lo stesso titolo: allora le leggi sul copyright non esistevano o erano molto permissive), imitazioni e parodie (come “The little train robbery”, diretto nel 1905 dallo stesso Porter con un cast di soli bambini), e rimase popolarissimo presso il pubblico per almeno un decennio, per poi passare nei libri di storia del cinema e in generale nella cultura popolare. Fra i numerosi omaggi, si potrebbe citare la cosiddetta gun barrel sequence ideata da Maurice Binder per i film di James Bond, nel quale l'agente segreto punta la sua pistola contro lo spettatore, che sarebbe ispirata proprio allo sparo di Barnes. La stessa scena è omaggiata, fra gli altri, nel finale di “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese e in un episodio di “Breaking Bad” (ed è riprodotta pari pari nell'incipit del “Tombstone” di George Pan Cosmatos). Da notare che il titolo “The great train robbery” verrà riutilizzato per un film del 1941, uno del 1978 (in italiano “1855 – La prima grande rapina al treno”, di Michael Crichton) e una serie tv britannica del 2013. Tornando al film, nonostante la semplicità della trama (non sappiamo nulla dei banditi, dei passeggeri e degli inseguitori, a parte il ruolo che rivestono nella vicenda) sono numerosi gli elementi che le danno "colore" e caratterizzazione: la “soggettiva” del treno in movimento mentre i rapinatori cercano di fermare la locomotiva; l'uccisione del passeggero che prova a fuggire, che giunge inattesa e spiazzante; la ragazza che accorre a liberare il telegrafista che i banditi hanno legato, che è probabilmente sua figlia; la sequenza del ballo nel saloon, comica, vivace e prolungata anche al di là della sua importanza nella trama.

Ma dove nasce l'idea di montare insieme più scene con un legame causa-effetto a scopi narrativi (e non solo dunque per passare da un tableau all'altro come avveniva nelle pellicole di Méliès?). Durante i suoi viaggi come proiezionista a scopi dimostrativi (1896-1898), e anche nel breve periodo (1898-1899) in cui lavorò come capo della programmazione in un piccolo museo/teatro (l'Eden Musée a New York), Porter presentava ai suoi spettatori una selezione di cortometraggi che “montava” insieme in un particolare ordine per suscitare l'effetto desiderato (per esempio una serie di riprese panoramiche potevano precedere – fornendogli il contesto – un film a soggetto con attori). Spesso questo montaggio era effettuato direttamente in macchina o attraverso tecniche di vario genere (come la dissolvenza): Porter, e altri cineasti contemporanei (come gli inglesi della scuola di Brighton), si resero così conto che il montaggio stesso poteva diventare uno strumento artistico nelle mani del regista per creare qualcosa di nuovo, ovvero una narrazione più lunga e complessa (e anche per aiutare a rompere la monotonia di riprese in campo lungo sempre uguali). È proprio in questo periodo, dunque, che si passa dai film formati da un'unica inquadratura (come quelli dei fratelli Lumière e i primi lavori di Méliès), che spesso mostravano una danza, uno sketch, un panorama o un “trucco” di magia, a pellicole più sofisticate, composte da numerose sequenze legate cronologicamente l'una all'altra (e il cui particolare accostamento può anche influenzare l'esperienza dello spettatore). Si può dire che siamo di fronte alla nascita del cinema “classico”, caratterizzato dalla narrativa e della continuity, che con lo sviluppo del suo linguaggio consentirà ai registi successivi (a partire da Griffith) di creare dramma, emozioni e spettacolo su scala sempre più ampia.

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