30 luglio 2019

Stasera ho vinto anch'io (R. Wise, 1949)

Stasera ho vinto anch'io (The Set-Up)
di Robert Wise – USA 1949
con Robert Ryan, Audrey Totter
***

Rivisto in TV.

Stoker Thompson (Robert Ryan), anziano pugile la cui carriera non è mai decollata e che da tempo è sulla via del tramonto, attende di salire sul ring di Paradise City per battersi da sfavorito con il più giovane "Tiger" Nelson. A sua insaputa, il suo manager Tiny (George Tobias) si è accordato con il gangster Sullivan affinché perda dopo la seconda ripresa: e convinto che il vecchio atleta non abbia alcuna possibilità di vittoria (e per tenere per sé il denaro ricevuto), non si è nemmeno premurato di dirglielo. Contemporaneamente la moglie Julia (Audrey Totter), disillusa e stufa di vederlo perdere sul ring, medita di lasciarlo. Ma contro ogni pronostico, il veterano Stoker saprà ritrovare dentro di sé la forza e l'orgoglio per dare sfogo al proprio desiderio di rivalsa, a costo di pagarne le conseguenze. Assai conciso (dura poco più di un'ora) e girato interamente in tempo reale (i minuti che scorrono per lo spettatore sono gli stessi che scorrono per i personaggi, come sottolineato dai numerosi orologi che vengono inquadrati durante la vicenda), un piccolo gioiellino che va annoverato fra le migliori pellicole sul tema del pugilato, "sport cinematografico" per eccellenza, di cui mostra tutto il sordido sottobosco che lo circonda e che ne determina il fascino: ring e stadi di periferia, scommettitori incalliti o semplici appassionati, pugili professionisti e dilettanti allo sbaraglio, campioni e falliti, vecchie volpi e giovani novellini con la paura del primo incontro, abitudini e scaramanzie, le chiacchiere e i riti nello spogliatoio mentre si attende che giunga il proprio turno di salire sul ring. Grazie alla trovata del tempo reale abbiamo la possibilità di prepararci e trepidare insieme al protagonista prima dell'incontro, di assistere agli sguardi degli spettatori (molti dei quali ben caratterizzati con pochi tratti) durante il combattimento, di vivere quest'ultimo round dopo round e colpo dopo colpo, mentre all'esterno Julia cammina per le strade della città e del parco dei divertimenti adiacenti, chiusa nei suoi pensieri, fino alla stazione degli autobus da cui vorrebbe partire. E per questi motivi la semplicità dell'intreccio non va a detrimento della tensione, anzi contribuisce ad accrescerne l'intensità e il coinvolgimento emotivo. La sceneggiatura di Art Cohn è ispirata a un poema narrativo di Joseph Moncure March del 1928 (dove però il pugile protagonista era nero e appena uscito di prigione: l'elemento razziale viene qui a mancare). Ryan venne scelto perché prima di diventare attore era stato campione dei pesi massimi al college. Il titolo italiano si riferisce all'ultima frase pronunciata dalla moglie Julia.

29 luglio 2019

Platform (Jia Zhangke, 2000)

Platform (Zhantai)
di Jia Zhangke – Cina 2000
con Wang Hongwei, Zhao Tao
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La vita di Cui Mingliang (Wang Hongwei), membro di una compagnia teatrale itinerante di canto e di ballo, e dei suoi amici Yin Ruijuan (Zhao Tao), Zhang Jun (Liang Jingdong) e Zhong Ping (Yang Tianyi), nella Cina dal 1979 al 1989, ovvero dagli ultimi strascichi della Rivoluzione Culturale maoista ai primi segnali della globalizzazione con l'apertura alle influenze occidentali (evidenti dal cambiamento degli spettacoli allestiti dai ragazzi: si passa da canti popolari, didattici e patriottici a canzoni pop o rock e numeri di breakdance). La storia si svolge a Fenyang, la città natale del regista (nella provincia settentrionale di Shanxi), ma i ragazzi portano i loro spettacoli dapprima nei villaggi vicini e poi in regioni anche più remote, come la Mongolia interna. I cambiamenti della Cina a livello sociale, economico e politico fanno da sfondo alle vicissitudini, agli amori, alle esperienze artistiche dei giovani protagonisti, che rispetto ai genitori sono meno interessati alle ideologie e più aperti alla vita. Cui Mingliang è innamorato di Yin Ruijuan, nonostante l'opposizione dei padre di lei. Zhang Jun mette incinta Zhong Ping e va a viverci insieme, pur non essendo sposati. Sanming (Han Sanming), cugino di Mingliang che non ha completato gli studi, è costretto a lavorare in una miniera di carbone. E nel frattempo la compagnia teatrale viene privatizzata, gli elettrodomestici arrivano in ogni casa, gli eventi della vita portano i ragazzi a cambiare lavoro o a prendere strade diverse... Al secondo lungometraggio, Jia Zhangke è già padrone della materia trattata: pur con qualche lungaggine (il film dura due ore e mezza), c'è grande attenzione alla descrizione dell'ambiente, alle interazioni fra i personaggi, ma soprattutto al racconto – attraverso piccoli e grandi episodi – di un paese in profonda e costante trasformazione. In una scena, i protagonisti cantano "Bella ciao" in cinese. Zhao Tao (destinata a diventarne la musa) recita qui per la prima volta in un film del regista. Il titolo (la piattaforma ferroviaria) si riferisce alla metafora ricorrente del treno, presente nel primo spettacolo cui assistiamo, in una delle canzoni pop eseguite più avanti, nel fatto che uno dei punti di ritrovo dei ragazzi è sotto i binari della ferrovia sopraelevata: e naturalmente il treno simboleggia il desiderio di partire per andare altrove.

27 luglio 2019

Il club (Pablo Larrain, 2015)

Il club (El club)
di Pablo Larraín – Cile 2015
con Alfredo Castro, Antonia Zegers
***

Visto in divx.

In una casa sulla costa, nel sud del Cile, quattro preti allontanati dalle loro parrocchie perché colpevoli di vari crimini (pedofilia, omosessualità o connivenza con la dittatura) conducono una vita riservata e da reclusi in compagnia di una suora sorvegliante (Antonia Zegers). In teoria dovrebbero trascorrere il tempo in preghiera e penitenza, ma in realtà si dedicano soprattutto ad addestrare un levriero per farlo competere nelle corse dei cani e guadagnare soldi con le scommesse. Sotto un'atmosfera grigia e plumbea, le cose peggiorano dapprima quando l'ingresso di un quinto prete trascina con sé anche un uomo – il suo ex chierichetto, diventato ora un folle barbone (Roberto Farías) – che lo accusa di aver abusato di lui; e poi precipitano con l'arrivo di un "consulente spirituale", padre Garcia (Marcelo Alonso), che vorrebbe instaurare regole più rigide e magari chiudere addirittura la casa... Larraín parla di chiesa e di pedofilia, è vero, ma tra le righe si riferisce soprattutto alla dittatura cilena (e alla successiva resa dei conti): non solo perché uno dei sacerdoti è stato un cappellano militare, che come confessore conosce (e serba per sé) tanti segreti dei torturatori, ma perché l'intera vicenda è una metafora su vittime e carnefici, su chi è colpevole (ma non prova sensi di colpa, anzi preferirebbe dimenticare tutto e trascorrere una vecchiaia tranquilla) e su chi non può far a meno di ricordare, o gridare al mondo, quello che gli è successo. Cupo e d'atmosfera, il film non banalizza l'argomento, mostrandone invece tante sfaccettature senza retorica o qualunquismo: parla di sofferenza, dolore, morte, violenza, sopraffazione, controllo dei propri istinti, espiazione, vendetta e follia, lasciando che i punti di vista di ciascuno vengano alla luce e illustrando le turbe psichiche di vittime e carnefici, prigionieri in fondo gli uni degli altri e legati indissolubilmente fra loro. Fra i quattro sacerdoti spicca Alfredo Castro (intenso come sempre) nei panni di padre Vidal. Gran premio della giuria al Festival di Berlino.

26 luglio 2019

Katia, regina senza corona (R. Siodmak, 1959)

Katia, regina senza corona (Katia)
di Robert Siodmak – Francia 1959
con Romy Schneider, Curd Jürgens
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Innamorata dello zar Alessandro II (Jürgens), la giovane principessa decaduta Ekaterina "Katia" Dolgorukova (Schneider) ne diventa la protetta e l'amante, restando al suo fianco durante i suoi tentativi di riformare l'impero (abolendo il servaggio e concedendo una costituzione al popolo), ma dovrà assistere impotente al suo assassinio per mano di rivoluzionari fomentati dai suoi stessi ministri. Remake di un film del 1938 con Danielle Darrieux, la pellicola si ispira alla biografia di Katia scritta dalla principessa rumena Martha Bibescu e romanza diversi dettagli della vicenda reale, mantenendo però intatti i principali eventi storici. Come risultato, il film soffre per una certa mancanza di equilibrio, essendo quasi diviso in due: una prima parte più romantica e sentimentale, incentrata sul rapporto fra i due protagonisti, e una seconda più storica e politica, con lo zar che deve far fronte alle rivolte popolari e ai complotti di corte, in particolare quelli del ministro della polizia Koubaroff (Pierre Blanchar). Poco ispirato, ma si salvano la regia competente di Siodmak (al secondo film francese dopo essere tornato in Europa) e gli interpreti. La Schneider, all'epoca solo ventunenne, era già celebre per le pellicole in cui aveva vestito i panni di un'altra "sovrana", l'imperatrice Sissi (Elisabetta d'Austria). Monique Mélinand è la zarina Maria, Françoise Brion la rivoluzionaria Sofia Perovskaya.

25 luglio 2019

La carovana dei mormoni (J. Ford, 1950)

La carovana dei mormoni (Wagon Master)
di John Ford – USA 1950
con Ben Johnson, Ward Bond
**

Rivisto in TV.

Due giovani cowboy che commerciano in cavalli (Ben Johnson e Harry Carey Jr.) vengono assoldati da una comunità di mormoni per guidare la loro carovana verso ovest, attraverso il deserto dello Utah, fino alla valle che intendono colonizzare. Dovranno però fare i conti con una banda di fuorilegge che si nasconderanno fra loro per sfuggire alle forze dell'ordine. Western "on the road" sul tema della (più o meno pacifica) convivenza: i mormoni, dallo stile di vita rigoroso e integerrimo, si troveranno a dividere il cammino non solo con i due protagonisti, ma dapprima con un medico-ciarlatano e le sue due accompagnatrici, e poi con la gang familiare dei Clegg (il patriarca e i quattro figli-nipoti), per non parlare del breve incontro con gli indiani (anche se i pellerossa dimostreranno di non avere alcuna ostilità nei loro confronti). Insolitamente quieto e blando, il western tratteggia queste dinamiche sullo sfondo della lenta marcia attraverso il deserto, il passaggio dei guadi e dei fiumi, le pause per riposarsi o per concedersi qualche momento di svago (il ballo, i corteggiamenti fra i cowboy e le ragazze). Ford lo considerava uno dei suoi lavori preferiti. Rivisto oggi, però, offre ben poco di memorabile e risulta basilare per storia e personaggi (dei due protagonisti non sappiamo assolutamente nulla), anche perché (a differenza per esempio di "Ombre rosse") è quasi privo di epicità e di figure carismatiche. Ward Bond è il capo dei mormoni, Charles Kemper il patriarca dei banditi, Joanne Dru l'assistente del dottore. La pellicola ha ispirato una serie televisiva, "Carovana" (o "Carovane verso il west"), con lo stesso Bond.

23 luglio 2019

La sala della musica (Satyajit Ray, 1958)

La sala della musica (Jalsaghar)
di Satyajit Ray – India 1958
con Chhabi Biswas, Gangapada Basu
***1/2

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Biswambhar Roy (Chhabi Biswas) è uno zamindar (membro dell'aristocrazia ereditaria e proprietaria terriera) ormai in decadenza. Anche di fronte alle crescenti difficoltà economiche, che lo costringono a vendere tutti i suoi terreni e le proprietà (e persino i gioielli di famiglia), e ai drammi familiari (un'alluvione gli porta via la moglie e l'unico figlio, ponendo di fatto fine alla sua dinastia, che morirà con lui), non intende scendere a compromessi con i nuovi arricchiti, impersonati dall'usuraio Mahim Ganguly (Gangapada Basu). E soprattutto non vuole rinunciare alla sua più grande passione, la musica, continuando a organizzare – a beneficio dei vicini – sontuosi concerti e spettacoli di ballo all'interno del proprio (ormai fatiscente) palazzo, dal quale non esce mai. Tratto da un celebre racconto dello scrittore bengalese Tarasankar Bandyopadhyay, il film è permeato da un fortissimo senso di fatalità e di "fine del mondo" (si svolge negli anni in cui lo stesso governo indiano stava abolendo il sistema degli zamindari) ma anche di nostalgia e rispetto per i valori culturali del passato: per certi versi potrebbe essere paragonato ad alcune cose di Luchino Visconti. La lentezza della narrazione e le lunghe sequenze di musica, di canto e di ballo non distraggono lo spettatore, anzi lo catturano quasi ipnoticamente (la musica indiana, d'altronde, fa spesso questo effetto), aiutandolo a calarsi dell'atmosfera e a partecipare emotivamente mentre assiste alla fine di un'era, una fine che giunge comunque con orgoglio, raffinatezza e nobiltà. La pellicola è stata girata nel palazzo di Nimtita Raajbari, nel Bengala occidentale.

22 luglio 2019

Il corriere - The mule (C. Eastwood, 2018)

Il corriere - The mule (The Mule)
di Clint Eastwood – USA 2018
con Clint Eastwood, Bradley Cooper
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Giunto all'età di novant'anni, il floricultore Earl Stone (Eastwood, che torna a recitare in un suo film a dieci anni di distanza da "Gran Torino") deve fare i conti con i propri fallimenti: per pensare al lavoro ha sempre trascurato la famiglia, finendo con l'alienarsela. E l'avvento della concorrenza su internet ha portato comunque alla chiusura la sua attività, lasciandolo in mezzo ai debiti. Disperato, accetta dunque la proposta di diventare corriere per un cartello messicano della droga, trasportando la merce a bordo del proprio pickup dal Texas fino a Chicago. Insospettabile per via della sua età e dei suoi modi, diventerà così uno dei corrieri più affidabili e redditizi del cartello, sfuggendo per lungo tempo alle strette maglie delle indagini dell'agente della DEA Colin Bates (Bradley Cooper). Da una storia vera, una pellicola se vogliamo semplice e lineare, ma con il valore aggiunto dato dalla capacità di Clint (tanto come regista quanto come attore) di costruire un personaggio unico e interessante: Earl è incredibilmente disinibito a livello morale (non gli sorgono mai dubbi o scrupoli che quello che sta facendo sia sbagliato, ed è sempre perfettamente consapevole della situazione), dai modi grezzi ma in fondo buono (sempre pronto ad aiutare o a fare amicizia con chiunque, nonostante le venature razziste del personaggio), non tanto dissimile dunque da altre figure da lui portate sullo schermo in passato (a cominciare, appunto, dal protagonista di "Gran Torino"). E anche se qualche passaggio della vicenda è un po' inverosimile (possibile che Earl non si renda conto fino al terzo viaggio di cosa stia davvero trasportando?) o schematico (i rapporti del protagonista con la propria famiglia, il comportamento ottuso degli uomini che il cartello invia a sorvegliarlo durante i viaggi), il ritratto della vecchiaia (con tutte le sue idiosincrasie, come quelle per la tecnologia) e della capacità di "reinventarsi" che ne consegue è a suo modo affascinante, rendendo facile allo spettatore partecipare emotivamente ai lunghi viaggi sulle strade polverose che conducono dal Texas all'Illinois. Perfetto il finale. Nel cast anche Dianne Wiest (la moglie), Alison Eastwood (la figlia), Taissa Farmiga (la nipote), Andy García (il boss del cartello messicano), Laurence Fishburne (il capo della DEA) e Michael Peña (l'agente Trevino).

20 luglio 2019

Viaggio nella Luna (Georges Méliès, 1902)

Viaggio nella Luna (Le voyage dans la Lune)
di Georges Méliès – Francia 1902
con Georges Méliès, Bleuette Bernon
****

Rivisto su YouTube.

Oggi, cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, valeva la pena di riguardarsi la prima pellicola mai girata sull'argomento della conquista umana del nostro satellite. Liberamente ispirato a Jules Verne (e al suo classico romanzo “Dalla Terra alla Luna” del 1895), ma probabilmente anche all'allora più recente “I primi uomini sulla Luna” di H. G. Wells (1901), il film è senza dubbio il più noto fra tutti i lavori di Méliès. Ingenuo, estroso, surreale, teatrale e ovviamente muto (e privo di didascalie: ma all'epoca in sala era spesso presente un “narratore” che spiegava al pubblico quello che accadeva sullo schermo), il film comincia con un congresso di astronomi (con il tipico cappello a punta da stregoni) che decide di costruire una navicella per raggiungere la Luna: si tratterà di un proiettile cavo, sparato da un enorme cannone appositamente fabbricato e puntato verso il nostro satellite. Dopo aver progettato e supervisionato la costruzione dell'apparecchio, sei degli astronomi (fra cui il presidente Barbenfouillis, interpretato dallo stesso Méliès) si introducono nella navicella e vengono lanciati verso l'obiettivo: il proiettile si conficca nell'occhio del “faccione” della Luna, in una delle immagini più iconiche della storia dei cinema dei primordi, entrata nell'immaginario collettivo (ma è da notare che il regista francese aveva già mostrato sullo schermo una Luna dal volto umano in due suoi lavori precedenti: “Le cauchemar” del 1896 e soprattutto “La Luna a un metro” del 1898). Scesi sulla superficie del satellite (dove si respira come se ci fosse atmosfera), dopo un breve sonnellino disturbato da varie visioni e da una tempesta di neve, ne esplorano l'interno (dove crescono funghi e ci sono cascate d'acqua) e finiscono per scontrarsi con una tribù di seleniti (una sorta di demoni-crostacei), di cui sconfiggono il re. Costretti a fuggire (la ripartenza avviene semplicemente facendo cadere la navicella verso il basso, da un precipizio!), gli scienziati ammarano sul nostro pianeta, recando con sé un selenita, e saranno portati in trionfo dalla popolazione, che erigerà anche una statua a Barbenfouillis.

Méliès aveva già girato film assai complessi e divisi in più quadri (a partire da “Cenerentola” nel 1899), collegati dal montaggio o dalle dissolvenze, ma questo – che fra l'altro era la sua 400° pellicola – risultò subito degno di particolare nota per la ricchezza dei fondali e delle scenografie, per l'afflato avventuroso e fantastico della vicenda, e per il sapiente uso dei trucchi ottici (sovrimpressioni, doppie esposizioni) e teatrali che il regista aveva già messo a punto nei lavori precedenti, qui al servizio di “effetti speciali” del tutto funzionali alla storia e non soltanto messi in scena per stupire gli spettatori (come invece accadeva in molti altri film dell'epoca – non a caso si parla di “cinema delle attrazioni” e dello stesso Méliès). Con un costo stimato di 10.000 franchi (dovuti al gran numero di comparse e di costumi necessari, come quelli dei seleniti) e una durata di circa 14 minuti, era anche il film più lungo e ambizioso del cineasta francese fino ad allora: il coraggio venne ampiamente ripagato, visto che la pellicola divenne subito estremamente popolare e conobbe un successo di enorme portata, trasformandosi forse nel primo vero blockbuster globale della storia del cinema. La Star Film ne vendette copie in tutto il mondo, distribuendolo sia in bianco e nero sia (come era già accaduto per altri lavori) a colori, ossia con un'operazione di tinteggiatura a mano direttamente sulla pellicola. E naturalmente non mancarono casi di pirateria (ad opera, in particolare, di Thomas Edison in America) e la comparsa di imitazioni più o meno riuscite (“Excursion dans la lune” di Segundo de Chomón, del 1908, per esempio, ne è un rifacimento scena per scena). Da notare alcuni sottotesti satirici (sul colonialismo e l'imperialismo: impossibile prendere del tutto sul serio i balletti, le parate e le cerimonie che circondano prima il lancio e poi il ritorno degli astronomi sulla Terra). Estremamente influente e considerato ancora oggi il capostipite della fantascienza cinematografica, nel suo genere sarà eguagliato e forse superato soltanto da un'altra pellicola di Méliès, “Viaggio attraverso l'impossibile”, due anni più tardi. In tempi recenti, il film è stato omaggiato in “Hugo Cabret” di Martin Scorsese.

19 luglio 2019

Così parlò Bellavista (L. De Crescenzo, 1984)

Così parlò Bellavista
di Luciano De Crescenzo – Italia 1984
con Luciano De Crescenzo, Renato Scarpa
***

Visto su Dailymotion, con Sabrina, per ricordare Luciano De Crescenzo.

Il primo film di Luciano De Crescenzo (tratto dal suo stesso romanzo d'esordio, diventato un "caso" di costume) è una collezione di vignette e di episodi di ambientazione napoletana, tenuti insieme da una trama assai esile. Nel condominio dove vive Gennaro Bellavista (De Crescenzo), professore di filosofia in pensione, giunge da Milano il dottor Cazzaniga (Scarpa), nuovo direttore del personale dell'AlfaSud. Per Bellavista, che si diletta a erudire il suo circolo di "discepoli" – fra cui il portiere Salvatore (Benedetto Casillo), il netturbino Saverio (Sergio Solli) e il poeta Luigino (Gerardo Scala) – è l'occasione di mettere alla prova la sua teoria secondo cui gli uomini si dividono fra quelli "d'amore" (che cercano la compagnia e la condivisione) e quelli "di libertà" (che amano la solitudine e l'efficienza), fra epicurei e stoici, fra napoletani e milanesi, insomma. Ma su Cazzaniga, almeno, dovrà ricredersi. Nel frattempo, la sua unica figlia Patrizia (Lorella Morlotti) rimane incinta del fidanzato Giorgio (Geppy Gleijeses), architetto disoccupato. Per tirare avanti, i due provano a gestire il negozio di articoli religiosi dello zio di Giorgio, ma dovranno fare i conti con le richieste della camorra... Diviso in mille rivoli, fra stereotipi (il caffè, il gioco del lotto) e barzellette, situazioni ed episodi che mettono in luce la poesia e la filosofia dei napoletani, le difficoltà della vita moderna (il traffico, gli elettrodomestici) e l'arte di arrangiarsi (più o meno illegalmente), il film corre sul filo del piacere affabulatorio che caratterizza lo spirito partenopeo. Molte scenette si rifanno a situazioni realmente vissute o raccolte da De Crescenzo (per esempio quella del cavalluccio rosso), altre (come il rapporto con il milanese Cazzaniga) sembrano anticipare "Benvenuti al Sud". E nel bene (la capacità di inventarsi lavori dove non ce ne sono, di sapersi godere la vita o di trovare qualcosa di bello e di poetico in ogni cosa) e nel male (la camorra, la burocrazia, la droga, la disoccupazione giovanile), la pellicola è un sincero omaggio alla creatività, alla bellezza di Napoli, alla sua espressività (celebre la scena in cui un pregiudicato dà indicazioni a una passante, usando la mimica delle mani anche se ammanettate). Qualche critico l'ha accusata di guardare troppo al passato (criticando la modernità, vedi le tirate contro i "giovani d'oggi"), ma è lo stesso amore per le tradizioni e i riti (collettivi e familiari) della napoletanità che si ritrova per esempio nelle commedie di Eduardo De Filippo, cui senza dubbio si ispira. Frase cult: "Si è sempre meridionali di qualcuno". Il titolo è un'ovvia citazione di Nietzsche ("Così parlò Zarathustra"). Fra i tantissimi attori, molti dei quali provenienti dal teatro o dal cabaret, ci sono anche Tommaso Bianco (il tassista), Isa Danieli (la moglie di Bellavista), Marina Confalone (la domestica), Francesco De Rosa (il venditore di bare), Renato Rutigliano, Riccardo Pazzaglia, Gino Maringola, Antonio Allocca, Nunzio Gallo. Con un seguito, "Il mistero di Bellavista", uscito l'anno seguente.

18 luglio 2019

Spider-Man: Far from home (Jon Watts, 2019)

Spider-Man: Far from home (id.)
di Jon Watts – USA 2019
con Tom Holland, Jake Gyllenhaal
**1/2

Visto al cinema Colosseo.

Nel corso di una gita scolastica in Europa con la propria classe, Peter Parker/Spider-Man (Holland) deve vedersela con la minaccia di Quentin Beck/Mysterio (Gyllenhaal), ex dipendente di Tony Stark che sfrutta droni e tecnologie illusorie per far credere di essere un super-eroe. Il secondo film di questa nuova incarnazione dell'Uomo Ragno, nonché primo film Marvel dopo il gran finale di "Avengers: Endgame", è praticamente la versione supereroistica di film come "National Lampoon's European Vacation" ("Ma guarda un po' 'sti americani") o "Se è martedì deve essere il Belgio": le disavventure di un gruppo di sprovveduti americani in tour per le nazioni e le città del Vecchio Continente. Le varie tappe prevedono, fra le altre, Venezia, Praga e Londra (oltre alla Germania e all'Olanda, con vari gradi di sterotipazione). Si prosegue inoltre con il taglio da teen movie che già aveva caratterizzato il precedente "Homecoming", in ossequio alle prime storie di Stan Lee e Steve Ditko, in cui il personaggio era un liceale alle prese con problemi scolastici, rapporti con i compagni di classe e vicende sentimentali (qui il tentativo di dichiararsi all'amata MJ (Zendaya), mentre di converso il suo miglior amico Ned "fila" con la biondina Betty Brant). A parte alcuni accenni agli eventi cataclismatici dei film degli Avengers, liquidati peraltro con eleganza (il "Blip" che ha fatto sparire per cinque anni metà degli abitanti della Terra), la pellicola scorre leggera mescolando diversi filoni, il teen movie con i ragazzi in gita e l'azione supereroistica. Peccato che chi conosce già il personaggio di Mysterio dai fumetti presagirà sin dalla sua apparizione la verità sul suo conto: in ogni caso, in epoca di fake news e di effetti speciali digitali, le sue capacità illusorie si vestono di nuovi e interessanti significati. Qualche passaggio a vuoto nella trama (perché Beck desidera tanto la tecnologia di Stark se di fatto vi aveva già accesso?) e qualche battuta di troppo (specialmente nella prima parte: ma bisogna ammettere che nessuno come la Marvel fonde così bene l'azione e la comicità) impediscono alla pellicola di volare al di sopra del semplice intrattenimento, anche perché le scene di combattimento sono come al solito la parte più noiosa (belle, invece, le sequenze delle illusioni). E sono convinto che l'Uomo Ragno, fuori dal suo ambiente urbano e lontano da New York, funzioni meno bene. Ma se si cerca solo il divertimento questo non manca di certo, Holland si conferma il miglior Peter Parker di sempre, e il cast di comprimari è azzeccato, con parecchi ritorni più o meno attesi: Jon Favreau torna a ritagliarsi un ruolo importante nei panni di Happy Hogan (qui "fidanzato" con zia May), Samuel L. Jackson è un redivivo Nick Fury (ma nelle scene post-credits si rivela che lui e Maria Hill sono stati impersonati per tutta la pellicola da due alieni Skrull, già visti in "Captain Marvel"). E nel finale, il cliffhanger per il film successivo è dato dall'apparizione di J.K. Simmons nei panni di J. Jonah Jameson (che aveva già interpretato nella trilogia di Sam Raimi), che rivela al pubblico l'identità di Spider-Man. Nella colonna sonora, alcune imbarazzanti canzoni italiane (come "Stella stai" di Umberto Tozzi).

17 luglio 2019

La grande scommessa (Adam McKay, 2015)

La grande scommessa (The big short)
di Adam McKay – USA 2015
con Steve Carell, Christian Bale
***

Visto in TV, con Sabrina.

Tratto da un saggio del giornalista finanziario Michael Lewis, il film racconta la storia (vera) di alcuni gruppi di speculatori che nel 2007 riuscirono a prevedere l'imminente crollo del mercato immobiliare americano, innescato dalla crisi dei mutui subprime (prestiti ad alto tasso di rischio di insolvenza), e fecero così una fortuna "scommettendo" contro la stabilità del mercato stesso. La narrazione non è tipica di una normale pellicola di finzione: nonostante l'argomento possa essere a forte rischio di noia (soprattutto per chi, come me, di economia capisce poco), i toni sono spigliati, il montaggio è rapido, i personaggi ben caratterizzati, l'argomento non viene banalizzato (la commedia non va mai a discapito della serietà del soggetto, ma aiuta a mostrarne l'assurdità di fondo) e gli intenti sono quasi quelli di un documentario, ovvero didattici, con i protagonisti stessi che a volte guardano in camera e si rivolgono direttamente allo spettatore, per non parlare dei momenti in cui alcuni vip (le attrici Margot Robbie e Selena Gomez, il cuoco Anthony Bourdain, l'economista Richard Thaler) spiegano alcuni concetti attraverso una serie di esempi. Condotto per mano da un cast di grandi nomi (Christian Bale, Ryan Gosling, Brad Pitt e Steve Carell fra gli altri), il lungometraggio intrattiene e diverte, senza risparmiare strali e denunce contro le storture del sistema capitalistico e bancario americano, le cui redini erano in mano a responsabili tanto stupidi e incoscienti quanto criminali e truffaldini. I vari personaggi che la storia segue (spesso senza che si incrocino fra loro) lavorano per arricchirsi, certo, ma sono anche spinti da un desiderio di rivincita personale contro Wall Street, e l'avidità si mescola all'idealismo. Dopo aver raccontato la sua storia, il film si conclude cinicamente, mostrando come in fondo sia cambiato poco o nulla. Da notare che si tratta del primo film "serio" di Adam McKay, nonché del suo primo senza Will Ferrell. Cinque nomination agli Oscar, con il premio (meritato) per la migliore sceneggiatura non originale: non era certo facile adattare in modo accattivante un saggio di economia!

15 luglio 2019

Nuvole di maggio (N. B. Ceylan, 1999)

Nuvole di maggio (Mayis sikintisi)
di Nuri Bilge Ceylan – Turchia 1999
con Muzaffer Özdemir, Emin Ceylan
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli in inglese.

Il cineasta Muzaffer (Muzaffer Özdemir) fa ritorno da Istanbul nel suo paese di origine, dove vivono ancora i genitori Emin e Fatma (interpretati dai veri genitori del regista), con l'intenzione di cercare volti e location per un film. Praticamente il seguito del lavoro d'esordio del regista, "Kasaba" (o il suo making of: la scena che Muzaffer gira con i parenti nel bosco è proprio una di quelle della pellicola precedente, e la trovata ricorda un po' il gioco di scatole cinesi della trilogia di Koker di Abbas Kiarostami), di cui prosegue il discorso sui temi della famiglia e delle proprie radici. Oltre al protagonista, il lungometraggio segue la vita e i problemi di altri tre personaggi, tutti scelti da Muzaffer per recitare nel suo film: il padre Emil (Emil Ceylan), preoccupato che il governo espropri il terreno che ha sempre curato e coltivato per cinquant'anni; il piccolo Ali (Muhammad Zimbaoglu), un bambino che desidera che il padre gli regali un orologio con suoneria, e che per dimostrare di essere in grado di prendersene cura accetta di tenere in tasca per quaranta giorni un uovo senza romperlo; e Saffet (Emin Toprak), cugino di Muzaffer, che sogna di poter lasciare il villaggio e di trovare un lavoro nella grande città, a Istanbul. La storia di quest'ultimo personaggio, in un certo senso, sarà proseguita e raccontata nel successivo film di Ceylan, "Uzak", che con "Kasaba" e questo forma un'ideale trilogia. Lento, minimalista e affascinante, anche se a tratti un po' pretenzioso (nel senso che pretende molta attenzione e pazienza dallo spettatore, comunque ripagandolo), il film inizia a mettere in mostra i grandi punti di forza del regista turco, a partire da una certa qualità tarkovskiana che si riconosce soprattutto nella fotografia (si pensi alle scene del vecchio Emin che vaga nel suo bosco) e nella colonna sonora (a base di Bach, Händel e Schubert). Proprio la contaminazione stilistica fra Kiarostami e Tarkovskij, insieme ad elementi comunque personali e autobiografici, è quella che descrive al meglio il cinema di Ceylan.

14 luglio 2019

Le forze del male (Abraham Polonsky, 1948)

Le forze del male (Force of Evil)
di Abraham Polonsky – USA 1948
con John Garfield, Beatrice Pearson
**1/2

Visto in divx.

Joe Morse (John Garfield), avvocato senza troppi scrupoli, è complice del gangster Ben Tucker (Roy Roberts) nel tentativo di impadronirsi di un lucroso giro di scommesse legate a una popolare lotteria clandestina (la "truffa dei numeri") associata alle corse dei cavalli. A questo scopo, i due complottano per far fallire tutte le ricevitorie indipendenti, per poi rilevarle a poco prezzo: fra queste c'è anche quella gestita dal fratello di Joe, Leo (Thomas Gomez), che dunque si adopera affinché venga risparmiato dal fallimento e inserito nell'organizzazione. Le sue manovre al di là della legalità, però, metteranno a repentaglio non solo il rapporto con il fratello ma anche quello con Doris, graziosa ragazza che lavora per Leo e di cui Joe si innamora... Un originale gangster movie che racconta le dinamiche dietro le quinte del mondo delle ricevitorie clandestine (chiamate "banche dei numeri"), dove si muovono personaggi poco raccomandabili, ovvero gangster che cercano di ricostruirsi una reputazione come uomini d'affari (Tucker opera per far legalizzare le scommesse, naturalmente dopo che si sarà impadronito di tutta l'attività) ma non rinunciano ai propri metodi sporchi. Da notare che il gangster rivale di Tucker, chiamato in italiano Garcia, nella versione originale era italo-americano (Bill Ficco). Howland Chamberlain è il contabile pentito Bauer, Marie Windsor è la conturbante moglie di Tucker. Lo sceneggiatore Polonsky, all'esordio come regista, era di idee comuniste (qui è chiaro l'attacco al capitalismo) e sarà a breve inserito nella lista nera del Maccartismo: di conseguenza vedrà compromessa la sua carriera e tornerà a dirigere un paio di film soltanto vent'anni più tardi.

13 luglio 2019

La terra del desiderio (I. Bergman, 1947)

La terra del desiderio (Skepp till India land)
di Ingmar Bergman – Svezia 1947
con Birger Malmsten, Holger Löwenadler
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Tornato in patria dopo sette anni, il marinaio Johannes Blom (Malmsten) ritrova Sally (Gertrud Fridh), la donna che un tempo aveva amato, e va con la mente ai drammatici giorni che avevano preceduto la sua partenza, caratterizzati in particolare dal difficile rapporto con il padre Alexander (Löwenadler), capitano di una barca per il recupero dei relitti sommersi. Ispirato a un dramma teatrale di Martin Söderhjelm (sceneggiato dal regista), il terzo film di Ingmar Bergman è un capitolo decisamente minore della sua filmografia. Gran parte dell'azione si svolge in flashback ed è incentrata sul rapporto fra padre e figlio, con il primo autoritario, violento, egoista e inaffidabile, che disprezza il figlio (anche perché gobbo) e che, quando scopre di stare per diventare cieco, progetta di abbandonare lui e la moglie (Anna Lindahl) per andarsene con la giovane amante Sally, ballerina di varietà. Questa, pronta a tutto pur di sfuggire alla povertà, finirà invece per innamorarsi di Johannes, ma le circostanze avverse li separeranno. Il tema dei rapporti familiari (e quello del padre severo e autoritario) è già tipicamente bergmaniano e anticipa altri lavori successivi del regista: ma a parte qualche bel tocco nella descrizione dei personaggi e l'ambientazione acquatica, fra barche e chiatte ormeggiate presso il porto, non c'è poi molto di interessante. Il titolo originale significa "La nave per le Indie".

11 luglio 2019

Giocando nei campi del signore (H. Babenco, 1991)

Giocando nei campi del signore (At Play in the Fields of the Lord)
di Héctor Babenco – USA/Brasile 1991
con Aidan Quinn, Tom Berenger
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Il giovane pastore protestante Martin (Aidan Quinn), insieme alla moglie Hazel (Kathy Bates) e al figlio Billy, si reca in Brasile per unirsi alla missione del collega fondamentalista Leslie (John Lithgow) nel tentativo di convertire una tribù di indios, i Niaruna. L'incontro con questi, che vivono ancora allo stato selvaggio all'interno della foresta amazzonica, cambierà le sue prospettive e metterà in crisi le sue certezze e la sua fede. Lo stesso capiterà a Lewis Moon (Tom Berenger), indiano americano che viaggia insieme all'avventuriero Wolf (Tom Waits): incaricati da Guzman, il comandante della polizia locale, di scacciare i Niaruna dal loro territorio per lasciare spazio ai cercatori d'oro, si unirà invece a loro, sospinto dal desiderio di inseguire le proprie radici di pellerossa e di riscoprire la sua vera natura. Da un romanzo di Peter Matthiessen, una pellicola epica, drammatica e fluviale (dura oltre tre ore) che fa riflettere sui temi del confronto fra culture, del rispetto delle religioni altrui, e della scoperta del lato primigenio di sé. I personaggi si dividono essenzialmente in due: quelli che subiscono il fascino degli indios, che cercano di comprenderli o ne sono quantomeno attratti e incuriositi (Lewis Moon, Martin, ma anche suo figlio Billy che non perde tempo a giocare nudo insieme ai bambini "selvaggi"), e quelli che invece li rifuggono, li disprezzano o li vedono soltanto a scopi utilitaristici, per "civilizzarli" o sfruttarli (Leslie, Hazel, Guzman). I primi, fra i quali va annoverata anche Andy (Daryl Hannah), la moglie di Leslie, piombano prima o poi in una crisi (che sia personale o spirituale) che li spinge a mettere in discussione le proprie certezze; i secondi, invece, proseguono imperterriti sulla loro strada, destinata a portare morte e distruzione. E quasi non si accorgono della relatività dei loro ideali, di quanto siano insignificanti le piccole differenze (i protestanti contro i cattolici, che si vedono in "opposizione" quando per gli indios non c'è alcuna differenza), o di come sia dannoso voler imporre agli altri il proprio sistema di valori (in questo il prete cattolico locale sembra guardare molto più lontano). Certo, il film ha anche i suoi difetti (la lunghezza e la poca linearità della sceneggiatura sono figli dell'adattamento letterario), ma l'aria che si respira (fra "Mission" e il cinema di Peter Weir e Werner Herzog), grazie anche agli scenari amazzonici, gratifica ampiamente lo spettatore. Fra le scene memorabili, il volo di Tom Berenger e Tom Waits sull'aeroplano biposto verso le cascate, e l'incontro fra Lewis Moon e una Daryl Hannah nuda nel bel mezzo della foresta. Il produttore Saul Zaentz aveva provato ad adattare il romanzo di Matthiessen sin dalla sua pubblicazione nel 1965. James Cameron ha citato il film come uno di quelli che più lo hanno ispirato nella realizzazione di "Avatar".

10 luglio 2019

La Cina è vicina (M. Bellocchio, 1967)

La Cina è vicina
di Marco Bellocchio – Italia 1967
con Glauco Mauri, Elda Tattoli
**1/2

Visto in divx.

Pur di famiglia ricca e aristocratica, il professor Vittorio Gordini (Glauco Mauri) accetta di candidarsi come assessore per il partito socialista alle imminente elezioni amministrative del comune in cui risiede (mai nominato, ma il film è stato girato a Imola), fra le perplessità della sorella Elena (Elda Tattoli), che anziché alla politica preferisce dedicarsi agli affari di famiglia e ai suoi numerosi amanti, e l'aperta ostilità del fratello minore Camillo (Pierluigi Aprà), membro di una cellula clandestina maoista. Ma dietro le quinte della campagna elettorale, ribollono vicende sentimentali e interessi privati: Vittorio, non corrisposto, è invaghito di Giovanna (Daniela Surina), sua segretaria e di fatto domestica di casa, che invece ama il ragionier Carlo (Paolo Graziosi), il militante socialista al quale proprio Vittorio ha sottratto la candidatura e che, attratto dalla sua ricchezza, metterà incinta Elena nella speranza di farsi sposare. Al suo secondo film dopo "I pugni in tasca", Bellocchio (con la "collaborazione artistica" di Elda Tattoli) torna a raccontare l'intimità di una famiglia (stavolta nella provincia romagnola, anziché piacentina), mettendo sotto la lente d'ingrandimento soprattutto le numerose contraddizioni della politica, della società e della morale italiana. Le ideologie si svuotano e perdono significato (gli slogan dei giovani "cinesi" sembrano scioglilingua fini a sé stessi, le loro azioni sono poco più che goliardate), quando non votate ad ambizioni o interessi del tutto personali (il sesso, la ricchezza); destra e sinistra si confondono, il socialismo è solo una scusa per il proprio trasformismo mentre il comunismo più spinto convive con gli ambienti conservatori e clericali (Camillo fa il chierichetto e lavora per la curia; Carlo ricorre a un amico prete per impedire a Elena di abortire; Vittorio chiede alle religiosissime zie zitelle di appoggiare la propria candidatura). E mentre tutti sembrano interpretare un ruolo (soprattutto l'ipocrita e pragmatico Carlo), quelli che nella loro ingenuità sono davvero sinceri (come è in fondo Vittorio) rimangono vittime delle circostanze: alla fine si deve raggiungere un compromesso per sopravvivere (o tirare a campare). Forse meno dirompente o memorabile del lungometraggio d'esordio, il film – che vinse il premio speciale della giuria a Venezia e il cui titolo (lo slogan che Camillo e i suoi amici scrivono sui muri della sede dei socialisti) è preso in prestito da un libro del giornalista Marco Emanuelli – ha comunque molti momenti interessanti, non privi di una certa ironia: il coro dei bambini stonati per il prelato sordo, il tragicomico comizio in piazza che finisce in rissa, gli "attentati" con la bomba o con cani e gatti. A differenza del cinema politico italiano di quegli anni, non c'è attenzione per le battaglie sociali, i movimenti operai o studenteschi e, appunto, le idee maoiste nel merito, ma solo per le contraddizioni interne a un nucleo familiare (peraltro sui generis: nessun genitore ma tre fratelli, con il maggiore a fare quasi da padre per il minore). La fotografia è di Tonino Delli Colli. Fra i gli amici di Camillo si riconosce Alessandro Haber. Nella colonna sonora (di Ennio Morricone) si sentono anche le canzoni "29 settembre" di Lucio Battisti e "Poesia" di Don Backy.

9 luglio 2019

Aquaman (James Wan, 2018)

Aquaman (id.)
di James Wan – USA 2018
con Jason Momoa, Amber Heard
*1/2

Visto in TV.

Figlio di un abitante della superficie e di una regina del regno sommerso di Atlantide, e dunque "ponte fra terra e mare", il forzuto Arthur Curry (Jason Momoa) è il supereroe noto come "Aquaman" (già apparso nel film del 2017 "Justice League", appartenente come questo al cosiddetto DC Extended Universe). Per impedire al suo fratellastro Orm (Patrick Wilson) – che aspira a unificare tutte le tribù sottomarine sotto il ridicolo nome di "Ocean Master" – di dichiarare guerra alla superficie, Arthur è costretto a rivendicare il trono di Atlantide: e a questo scopo, con l'aiuto della principessa Mera (Amber Heard), si lancia alla ricerca del leggendario tridente di re Atlan. Dal fumetto della DC Comics creato da Mort Weisinger e Paul Norris, un film che può contare su tanti effetti speciali, su spettacolari scene sottomarine (a tratti con "vibrazioni" che ricordano il "Ponyo" di Miyazaki: ma la sensazione di assistere a una pellicola d'animazione può far venire in mente anche il "Nemo" della Pixar) e su un protagonista dall'innegabile carisma fisico (stendiamo un velo pietoso invece sulla caratterizzazione psicologica). Peccato però che soggetto, sceneggiatura e dialoghi siano a livelli più che basilari e che in due ore manchi la minima sorpresa (con l'unica eccezione, forse, della scena legata alle origini del villain minore Black Manta). Tutto sembra già visto: l'origine del personaggio, la quest, le prove che deve superare, lo scontro finale con il cattivo (ma non troppo: c'è una sorta di riconciliazione finale). I pochi temi che avrebbero meritato un approfondimento (l'inquinamento dei mari da parte degli esseri umani, la ricerca di vendetta di Black Manta) sono soltanto abbozzati, e il grande sfoggio di tecnica e di budget non aiuta a superare la noia. Fra le location spicca una Sicilia più idilliaca che realistica. Willem Dafoe è Vulko, il mentore dell'eroe; Nicole Kidman è la regina Atlanna, sua madre; Dolph Lundgren è Nereus, il padre di Mera.

7 luglio 2019

Sorgo rosso (Zhang Yimou, 1987)

Sorgo rosso (Hong gaoliang)
di Zhang Yimou – Cina 1987
con Gong Li, Jiang Wen
**1/2

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Alla fine degli anni venti, in una zona rurale della provincia di Shandong (nella regione nord-orientale della Cina), la giovane Jiu-Er (Gong Li), "Nove Fiori", viene destinata in matrimonio dalla famiglia a un uomo ricco, anziano e malato, proprietario di una distilleria di vino di sorgo nel bel mezzo del deserto. L'uomo, però, muore dopo una sola notte di nozze, e la ragazza diventa così l'unica proprietaria della fabbrica, che farà prosperare con l'aiuto dei lavoranti, uno dei quali (Jiang Wen) diverrà il padre di suo figlio. Nove anni più tardi, con l'arrivo dei giapponesi, Jiu-er e gli uomini della distilleria si sacrificheranno per combattere gli invasori. Uno dei primi film della cosiddetta "quinta generazione" cinese (ovvero di quei registi e autori cresciuti dopo la Rivoluzione Culturale), nonché il primo titolo della Repubblica Popolare della Cina a essere distribuito ufficialmente nel nostro paese, il lungometraggio – che vinse l'Orso d'Oro al festival di Berlino e fece conoscere internazionalmente il regista Zhang Yimou (qui all'esordio) e l'attrice Gong Li – adatta con grande intensità le prime due parti (di cinque) dell'omonimo romanzo epico-generazionale di Mo Yan. Siamo lontani dalle opere di propaganda che avevano caratterizzato il cinema cinese nei decenni precedenti (anche se ne permangono alcune tracce: si pensi al comportamento di Jiu-Er quando diventa padrona della distilleria, rifiutando di farsi chiamare capo e coinvolgendo tutti i lavoratori nella sua gestione collettiva; o in generale alla seconda parte, quando la vicenda cambia rapidamente di tono, e da fiaba quasi atemporale si fa più drammatica e legata agli eventi storici): i personaggi sono mossi da passioni e sentimenti individuali, come l'erotismo o il desiderio di vendetta. In effetti, nel finale Jiu-Er e i suoi uomini non si battono contro i giapponesi per difendere la patria, ma per vendicare uno dei loro compagni, il "fratello Liu" (Ting Rujun), ucciso dagli invasori. Nonostante fosse il suo primo lavoro da regista, il film mette già in mostra tutta la maestria e la vena autoriale di Zhang Yimou, che trasfigura i bei paesaggi desertici, le terre frequentate dai briganti e i vasti campi di canne di sorgo mossi dal vento con una fotografia (di Gu Changwei) filtrata con colori intensi, soprattutto rossicci. Da notare che lo stesso Zhang, prima di darsi alla regia, è stato direttore della fotografia. Il rosso, che richiama tanto il vino di sorgo quanto il sangue (ed è ovviamente anche il colore della Cina), e dunque tutte le passioni che muovono i personaggi, caratterizza cromaticamente ogni scena della pellicola (con l'eccezione di alcune vedute notturne, con la luna piena verde che si staglia nel cielo senza stelle), culminando con la rossa eclissi finale. L'attenzione ad ambienti e culture rurali e marginali della Cina rende "viva" la vicenda (si pensi alle tradizioni legate al matrimonio della ragazza, o al canto dei lavoranti per la distillazione del vino). L'intera storia è raccontata dalla voce di un narratore fuori campo, nipote dei due protagonisti (proprio come avverrà in un successivo film di Zhang, "Il viaggio verso casa").

5 luglio 2019

La mia vita con John F. Donovan (X. Dolan, 2018)

La mia vita con John F. Donovan (The Death and Life of John F. Donovan)
di Xavier Dolan – Canada/Gran Bretagna 2018
con Kit Harington, Jacob Tremblay
**

Visto al cinema Colosseo.

L'undicenne Rupert (Jacob Tremblay), trapiantato dagli Stati Uniti in Gran Bretagna insieme alla madre (Natalie Portman), aspira a diventare un attore come il suo idolo John F. Donovan (Kit Harington), eroe di una serie tv. Ma non è l'unica cosa che hanno in comune: sia il bambino incompreso e bullizzato a scuola, sia il divo dalla vita apparentemente di successo, sono in realtà soli, infelici, emarginati e impossibilitati a esprimere la propria vera natura. John è gay, ma non può dichiararlo al pubblico né agirlo, prigioniero del proprio ruolo e dello show business (con tanto di una fidanzata di facciata): e come Rupert, si sente fuori posto nel mondo e schiacciato da tutto ciò che lo circonda, compreso il difficile rapporto con la madre (i padri, come spesso capita nel cinema di Dolan, sono assenti). All'insaputa di tutti, pur non essendosi mai incontrati di persona (anché perché vivono in continenti diversi), i due hanno una lunga corrispondenza epistolare: che anni più tardi, dopo la morte di John, sarà al centro di un libro scritto da Rupert, diventato a sua volta autore e divo di successo, intervistato da una giornalista (Thandie Newton) poco ricettiva ("Sono solo disavventure del primo mondo"). Al primo film in lingua inglese del francofono Dolan non mancano certo gli spunti e i temi interessanti (molti dei quali, come al solito, semi-autobiografici), così come la forte attenzione ai personaggi, ai loro sentimenti e alle loro relazioni: peccato che, man man che la pellicola proceda, aumentino i cliché e si notino momenti sempre più retorici e forzati (in particolare quando è di scena il bambino, personaggio poco credibile e dai dialoghi innaturali: la meno riuscita è la scena del tema sulla madre con successiva riconciliazione). E le due storie narrate in flashback scorrono troppo parallele, senza un reale punto di contatto (fra John e Rupert non c'è una comunicazione diretta, tanto che non leggiamo mai le loro lettere, con l'eccezione di quella finale, e dunque non percepiamo in che modo il divo tormentato abbia il tempo di riuscire a dare fiducia e un appiglio a distanza al suo giovane fan). Nel cast anche Ben Schnetzer (Rupert da adulto), Susan Sarandon (la madre di John) e Kathy Bates (la manager). Michael Gambon è l'uomo incontrato nel ristorante. Nella colonna sonora pop si sentono "Rolling In The Deep" di Adele, "Bittersweet Symphony" dei Verve e "Stand by me" nella versione di Florence and The Machine. Curiosità: da piccolo Dolan ammirava Leonardo DiCaprio e gli scrisse una lettera che, a differenza di quanto accade nel film, rimase senza risposta.

4 luglio 2019

Roberta (William A. Seiter, 1935)

Roberta (id.)
di William A. Seiter – USA 1935
con Irene Dunne, Randolph Scott
**1/2

Visto in divx.

A Parigi in cerca di fortuna (e di un ingaggio) con la sua orchestra di amici spiantati, l'americano John Kent (Randolph Scott) "eredita" la sartoria di alta moda Roberta, fondata da sua zia Minnie (Helen Westley) e diretta ora dall'ex principessa russa Stephanie (Irene Dunne), di cui si innamora. Tratta dall'omonimo musical del 1933 di Otto Harbach e Jerome Kern che ebbe molto successo a Broadway, una commedia romantico-musicale ricca di vivacità ed eleganza, anche per via dell'ambientazione parigina e del tema della moda. Ma più che i due interpreti principali, degni di nota sono i comprimari, in particolare Fred Astaire e Ginger Rogers, che recitavano in coppia per la terza volta e che rubano spesso e volentieri la scena ai veri protagonisti grazie ai loro numeri di ballo, alle dinamiche e alla simpatia dei rispettivi personaggi: Fred è Huck Haines, il direttore dell'orchestra e il miglior amico di John, mentre Ginger è la sedicente contessa polacca Scharwenka (in realtà un'americana dell'Illinois che si finge tale per poter frequentare il jet set). Siamo in effetti in una Parigi ricolma di veri e finti aristocratici russi o dell'Est Europa (fuggiti dopo la rivoluzione), in balia dei capricci della moda, che sembrano volubili come gli stessi sentimenti dei personaggi: vedi per esempio Sophie (Claire Dodd), l'ex fiamma di John che lo aveva lasciato perché lo riteneva un bifolco e che lo rivorrebbe ora che, grazie a Stephanie, è diventato più raffinato. Nel frattempo, le vicende amorose si intrecciano con i destini della sartoria (che culminano in una grande sfilata per presentare nuovi modelli: i costumi sono di Bernard Newman). E leggerezza e sofisticazione vanno miracolosamente di pari passo. Le coreografie sono dello stesso Astaire e di Hermes Pan (accreditato per la prima volta). Irene Dunne canta numerose canzoni, la più celebre delle quali, destinata a diventare un classico, è "Smoke gets in your eyes". Degne di nota, però, anche "I'll be hard to handle" (su cui Fred e Ginger danzano il tip tap, di fatto dialogando – e "litigando" – attraverso il ballo), "I won't dance" e "Lovely to look at". Victor Varconi è il principe Ladislaw, Luis Alberni è il proprietario del caffé russo, mentre fra le modelle c'è una giovane Lucille Ball. Un remake nel 1957 ("Modelle di lusso").

2 luglio 2019

Gremlins (Joe Dante, 1984)

Gremlins (id.)
di Joe Dante – USA 1984
con Zach Galligan, Phoebe Cates
***

Rivisto in TV.

Il giovane Billy (Galligan), che vive con la sua famiglia in una piccola cittadina nei pressi di New York, riceve in regalo per Natale un "mogwai", una buffa creaturina pelosa acquistata dal padre in un negozietto d'antiquariato a Chinatown, con la raccomandazione di accudirla seguendo tre regole precise: non esporla alla luce, non bagnarla mai con l'acqua e non darle da mangiare dopo mezzanotte. Naturalmente le trasgredirà tutte e tre, con il risultato che la creatura si moltiplicherà dando vita a un esercito di "gremlin", mostriciattoli diabolici e dispettosi che semineranno caos e distruzione per le strade della città. Ispirandosi a una leggenda urbana nata durante la seconda guerra mondiale (gli spiritelli che sabotavano gli aerei) e resa popolare da un libro per bambini di Roald Dahl, Joe Dante (insieme allo sceneggiatore Chris Columbus e al produttore Steven Spielberg) mescola in maniera irresistibile horror, commedia e ambientazione natalizia, sfornando una delle pellicole che a metà degli anni ottanta crearono un nuovo filone nel campo dell'intrattenimento cinematografico per adolescenti, spingendo addirittura la Motion Picture Association of America (MPAA) a introdurre una nuova etichetta di rating (PG-13, ovvero vietato ai minori di 13 anni). In effetti non mancano i momenti che potrebbero impressionare gli spettatori più piccoli, e alcuni degli scherzi dei gremlin sono decisamente crudeli o violenti (ricordando in questo i cartoni animati dei Looney Tunes: non a caso nel film c'è un cameo dell'animatore Chuck Jones nei panni dell'uomo che apprezza i disegni di Billy). La sceneggiatura di Columbus, scritta soltanto per dimostrare le proprie capacità alle case di produzione ma che colpì Spielberg al punto da volerla portare sullo schermo, rimane tuttora una delle sue cose migliori, grazie appunto all'irresistibile mix fra commedia, horror e satira del consumismo (vedi il finale ambientato nel reparto giocattoli di un grande magazzino, proprio come "Zombi" di Romero), dell'intrattenimento (i gremlin sono avidi divoratori di cinema e televisione) e dell'atmosfera natalizia, con tutto il suo corredo di buoni sentimenti (e con non poche citazioni da Dickens – la "cattiva" signora Dingle è una sorta di Scrooge – e da Frank Capra – di cui si vede in televisione "La vita è meravigliosa"). In origine, addirittura, lo script prevedeva alcune scene ancora più forti (con la morte della madre e del cane di Billy) che non sono state filmate: e anche il racconto di Kate (Phoebe Cates) sulla morte del padre a Natale, a sua volta la trascrizione di una popolare leggenda urbana, fu oggetto di contesa fra Spielberg (che voleva eliminarlo) e Dante (che insistette per lasciarlo, ritenendo che ben rappresentasse l'anima del film). Molte comunque le citazioni: da "L'invasione degli ultracorpi" (vista anch'essa in tv) a "Il pianeta proibito" (il robot Robby appare al convegno degli inventori cui partecipa il padre di Billy). La sequenza in cui i gremlin si accalcano al cinema a vedere "Biancaneve" può ricordare classici b-movie horror come "The blob" (da notare come Dante ambienterà un altro suo film in un cinema, "Matinée"), mentre le tre regole da non trasgredire fanno subito pensare alle fiabe classiche: ecco perchè si può perdonare il fatto che apparentemente non abbiano senso. In un'epoca pre-digitale, il mogwai Gizmo e i numerosi gremlin sono stati realizzati con pupazzi e animatroni. Carina la colonna sonora di Jerry Goldsmith e John Debney. Oltre a un sequel dello stesso Dante (uscito nel 1990), negli anni immediatamente successivi il film ha ispirato numerose pellicole simili ("Critters", "Ghoulies", "Munchies", "Hobgoblins", ecc.).