30 giugno 2019

Adele H. - Una storia d'amore (F. Truffaut, 1975)

Adele H. - Una storia d'amore (L'histoire d'Adèle H.)
di François Truffaut – Francia 1975
con Isabelle Adjani, Bruce Robinson
***1/2

Rivisto in DVD.

Ossessionata dall'amore per un ufficiale inglese, la secondogenita di Victor Hugo lascia la famiglia e l'Europa per seguirlo (sotto falso nome) fino a Halifax, in Canada, dove l'uomo è di stanza con il suo reggimento. Nonostante lui le dica apertamente di non ricambiare il suo affetto, Adèle non riesce a stare lontano da lui... Ispirandosi alle lettere e ai diari scritti dalla donna (in un codice tutto personale, decifrato solo nel ventesimo secolo), Truffaut racconta una discesa romantica nella patologia e nella follia. Adèle vive in un mondo tutto suo, dove l'amore per Pinson è idealizzato a tal punto da non permetterle di rendersi conto della realtà: così si spiegano alcune delle "pazzie" e delle contraddizioni che compie, come quella di inviargli una prostituta (quando si accorge che l'uomo passa da un'avventura galante all'altra), salvo spacciarsi per sua moglie (e incinta) nel tentativo di mandare a monte il suo matrimonio non appena scopre che si è fidanzato con la figlia di un giudice. Adèle è inoltre una mentitrice compulsiva, che inventa bugie a beneficio di tutti e modella la realtà a proprio piacimento (come una scrittrice, in fondo: che abbia preso dal padre?). Nonostante il sottotitolo italiano, più che "una storia d'amore" (peraltro a senso unico), quella di Adèle è la storia di una ribellione (contro il padre, contro l'Europa, contro le convenzioni, contro il suo stato sociale e la ricchezza), una fuga alla ricerca di una nuova identità e di una forma (per quanto alienata) di autodeterminazione. Purtroppo il suo rapporto con coloro che la circondano è privo di equilibrio: imprigionata nella sua ossessione per Pinson (e probabilmente turbata profondamente dalla morte per annegamento della sorella maggiore Leopoldine, che sogna in continuazione e con cui si identifica più di una volta), non può ricambiare gli affetti dei familiari, degli amici, o del giovane libraio presso cui si rifornisce di risme di carta per scrivere i suoi diari. Fra le scene più curiose, quella in cui medita di rivolgersi a un ipnotista per "convincere" Pinson a sposarla. Victor Hugo stesso, che all'epoca dei fatti viveva in esilio nell'isola di Guernsey, non si vede mai sullo schermo: fu una delle richieste degli eredi dello scrittore per permettere la realizzazione della pellicola. La bellissima e brava Isabelle Adjani, allora solo ventenne, divenne subito una star (e fu anche nominata all'Oscar per questa interpretazione). Truffaut fa un cameo nei panni dell'ufficiale che Adéle incontra per strada e scambia brevemente per Pinson.

29 giugno 2019

La città si difende (Pietro Germi, 1951)

La città si difende
di Pietro Germi – Italia 1951
con Renato Baldini, Paul Müller
**

Visto in TV.

Quattro uomini – il pittore Guido (Paul Müller), l'ex calciatore Paolo (Renato Baldini), il disoccupato Luigi (Fausto Tozzi) e il giovane studente Alberto (Enzo Maggio jr.) – rapinano l'incasso di una partita di calcio allo stadio: non si tratta di delinquenti di professione, ma di disperati che, in una città che mostra ancora le ferite aperte della guerra, sperano in questo modo di rifarsi una vita. Il destino, però, vorrà diversamente. Con un titolo che sembra anticipare la stagione dei poliziotteschi, Germi filma una storia che ricorda invece capisaldi come "Giungla d'asfalto" di Huston o "Rapina a mano armata" di Kubrick, ovvero quella di una rapina portata a termine con successo, ma i cui autori non riescono a goderne i frutti per una serie di circostanze avverse. Quasi diviso in episodi, il film segue le vicende dei quattro protagonisti separatamente: Paolo, che era stato costretto ad abbandonare la carriera agonistica per un infortunio, sarà tradito proprio dall'amante (Gina Lollobrigida) che sperava di riconquistare con il denaro; Luigi, pentito delle sue azioni, cercherà di lasciare la città insieme alla moglie (Cosetta Greco) e alla figlioletta, ma finirà col cedere alla pressione; Guido, braccato dalla polizia, contatterà una banda di contrabbandieri per farsi portare fuori dal paese, ma ci lascerà la pelle; e infine Alberto minaccerà il suicidio saltando giù da un cornicione ma sarà convinto a costituirsi da un accorato discorso della madre (Emma Baron). La sceneggiatura (di Federico Fellini, Tullio Pinelli e Luigi Comencini) risulta purtroppo di maniera, schematica e a tratti anche retorica (vedi il discorso finale della madre di Alberto), più sbilanciata sul versante del neorealismo che del noir, in particolare nell'episodio di Luigi, dai toni fin troppo melodrammatici. La parte migliore è invece quella relativa a Guido, il pittore che insegue un amore impossibile per una donna vista una volta sola (Tamara Lees). Premiato come miglior film italiano alla Mostra di Venezia.

28 giugno 2019

Anteprime dal festival di Cannes 2019 - conclusioni

Una rassegna in formato ridotto (come l'anno scorso) ma di qualità medio-alta. La Palma d'Oro "Parasite" – forse il più bel film dell'anno – mi ha riconciliato, in un certo senso, con il cinema di Bong Joon-ho, che in passato avevo sempre trovato un po' sopravvalutato. Molto interessante anche l'esordio di Ladj Ly, "I miserabili", il cui realismo documentaristico si sposa bene con l'arte del racconto. Buoni ricordi mi lasceranno anche i lavori di Céline Sciamma e di Elia Suleiman, anche se non si tratta certo di capolavori. L'unica delusione è stata la pellicola cinese di Diao Yinan, "The wild goose lake", da cui mi aspettavo sinceramente di più: ottima la forma, meno i contenuti. Il tema prevalente è stato quello dell'osservazione della realtà e soprattutto degli aspetti sociali delle comunità in cui viviamo, che siano città (Suleiman), quartieri o sottoboschi criminali (Ly, Diao), nuclei familiari (Bong) o rapporti sentimentali (Sciamma).

27 giugno 2019

Il paradiso probabilmente (Elia Suleiman, 2019)

Il paradiso probabilmente (It must be heaven)
di Elia Suleiman – Francia/Canada 2019
con Elia Suleiman
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina e Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il regista palestinese Elia Suleiman (sé stesso) osserva in silenzio le piccole e grandi cose assurde della vita che gli capitano intorno: dapprima a Nazareth, dove vive; poi a Parigi, dove si reca in cerca di un produttore per il suo film; e infine a New York, per lo stesso motivo. Il quarto lungometraggio dell'autore di "Intervento divino" è una successione di scenette di varia ambientazine in cui il protagonista si ritrova faccia a faccia con situazioni bizzarre e curiose: si va da piccoli episodi di vita quotidiana, incontri nei bar o per la strada, con i vicini di casa o con perfetti sconosciuti, a scambi "culturali" con gli abitanti di città dall'altro capo del mondo. I segmenti a Parigi e a New York giocano anche con gli stereotipi con cui gli stranieri vedono queste città e i loro abitanti: Parigi è popolata da modelle e da ragazze disinibite, a New York tutti portano con sé un'arma (alcune di queste scene potrebbero essere solo un sogno o il frutto dell'immaginazione del protagonista). Naturalmente dietro il mondo assurdo e surreale (che alcuni critici hanno paragonato variamente a quelli di Samuel Beckett, Buster Keaton o Jacques Tati) non mancano le letture a sfondo sociale o politico, anche al di là dei riferimenti alla Palestina (la battuta migliore è quella della produttrice che, alla notizia che Suleiman vorrebbe girare una commedia sulla pace in Medio Oriente, risponde: "Fa già ridere così"): si pensi agli spazzini che giocano a golf con le lattine per strada o alla donna delle pulizie nel grande magazzino della moda. Molte anche le interazioni con i poliziotti o in generale i tutori dell'ordine (soldati, guardie, vigili urbani), spesso osservati da Suleiman nello svolgimento delle loro mansioni. Il silenzio assoluto del protagonista-spettatore (pronuncia solo un paio di parole, quando è nel taxi a New York) catalizza tutta l'attenzione su quello che avviene al di fuori di lui, mostrando gli aspetti più strani o paradossali della vita circostante, a volte esagerandoli o enfatizzandoli, altre volte con la semplice svagatezza di chi racconta una barzelletta. E così abbiamo il ladro che si prende cura dell'albero di limoni di cui poi ruberà i frutti; l'uccellino che – accudito come un animale domestico – si comporta proprio come un gattino e finge di non saper volare per non dover lasciare l'appartamento; una Parigi deserta per via della parata militare nel giorno della festa nazionale; la visita a un cartomante per scoprire se la Palestina troverà mai l'indipendenza; per non parlare dell'incipit in cui un prete ortodosso perde le staffe di fronte a un imprevisto. C'è spazio anche per qualche momento metafisico o surreale (l'attivista palestinese con le ali da angelo che svanisce nel nulla per sfuggire alla polizia), oltre a diverse situazioni autobiografiche e metacinematografiche ricolme di ironia (di fatto la pellicola racconta il tentativo di Suleiman di cercare finanziamenti per il film stesso, con i produttori che lo rifiutano perché "non sembra abbastanza palestinese"). Fra i pochi volti noti, quello di Gael García Bernal che interpreta sé stesso.

26 giugno 2019

Parasite (Bong Joon-ho, 2019)

Parasite (Gisaengchung)
di Bong Joon-ho – Corea del Sud 2019
con Song Kang-ho, Choi Woo-shik
***1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Il giovane Kim Ki-woo (Choi Woo-shik) vive con la propria famiglia in uno squallido seminterrato: i quattro, perennemente disoccupati, si barcamenano con lavoretti di fortuna (come piegare i cartoni della pizza) e sono così poveri da dover rubare le connessioni WiFi ai vicini di casa del piano superiore. Grazie alla raccomandazione di un amico, Ki-woo riesce a farsi assumere da una famiglia altolocata, i Park, come insegnante di inglese per la figlia adolescente, falsificando i documenti per far credere di essere uno studente universitario. E resosi conto della ricchezza della splendida casa e dell'ingenuità della signora Park, "sistema" pian piano presso di loro tutti i membri della propria famiglia: la sorella Ki-jung (Park So-dam) come insegnante d'arte e terapeuta per il figlio più piccolo; il padre Ki-taek (Song Kang-ho) come autista del signor Park (facendo licenziare con un inganno l'autista precedente); e la madre Chung-sook (Jang Hye-jin) come domestica. I quattro arrivano addirittura a progettare un futuro come proprietari della casa stessa (Ki-woo immagina di sposare la figlia maggiore, una volta che si sarà diplomata): ma una svolta inaspettata rovinerà i loro piani. Una black comedy dai numerosi risvolti sociali che mette a confronto due nuclei familiari totalmente opposti: poverissimi i Kim, abili però a ricorrere a ogni sorta di trucco o di inganno per restare a galla; ricchissimi i Park, che vivono in un mondo tutto loro, fatto di raffinatezze e comodità (e dove i nomi in inglese sostituiscono quelli in coreano), eppure creduloni e inconsapevoli, completamente e facilmente alla mercé dei primi. Aggiungiamoci riflessioni ad ampio raggio sulla famiglia, la solidarietà (come nel recente "Un affare di famiglia" di Koreeda, ma con molta più inventiva e cattiveria), le paure e le ossessioni della Corea del Sud moderna (comprese "frecciatine" internazionali: l'ammirazione e la fiducia cieca verso tutto ciò che viene dagli Stati Uniti, il timore misto a ironia verso la propaganda dei "vicini" della Corea del Nord), ed ecco che la pellicola che ha vinto la Palma d'Oro all'ultimo festival di Cannes si rivela una delle più indovinate nella carriera di Bong Joon-ho, regista da sempre capace di utilizzare i generi e gli stilemi del cinema popolare per travalicarli, raccontare i nostri tempi e far riflettere su un ambito più vasto. Resuscitando persino un tema, quello della lotta di classe, che negli ultimi anni il cinema sembrava aver dimenticato: vedi il malcelato disprezzo che il signor Park, anche inconsapevolmente, mostra verso i più poveri ("Hanno tutti lo stesso odore"), o l'orgoglio e la dignità che spingono il signor Kim a ribellarsi all'ennesimo segnale di questo tipo. La convivenza dei due mondi su un piano di parità è semplicemente impossibile (la parità in realtà non esiste, anche quando i datori di lavoro si illudono che i dipendenti facciano "parte della famiglia" o credono di trattarli con rispetto), con i secondi che non possono far altro che limitarsi a fare i "parassiti" alle spalle dei primi, proprio come gli insetti che infestano, invisibili, una casa. Naturalmente lo spunto ricorda "Il servo" di Losey, e l'intromissione di un corpo estraneo all'interno di una famiglia borghese può addirittura far pensare a "Teorema" di Pasolini, anche se qui manca un contatto vero e sincero che possa innescare un cambiamento: in fondo è come il treno di "Snowpiercer", con i privilegiati nelle carrozze di testa e i miserabili e gli emarginati costretti a stare in coda. Peccato solo che, dopo una prima parte di pellicola assolutamente indovinata, la seconda risulti forse un po' forzata ed ecceda nelle svolte comico-drammatiche (o persino horror) che portano il finale a trascinarsi troppo a lungo. In ogni caso, resta un lungometraggio originale e meritevole del riscontro ricevuto (si tratta della prima Palma d'Oro mai assegnata a un film coreano [aggiornamento: ha vinto poi anche l'Oscar!]). Lee Sun-kyun è il signor Park, Cho Yeo-jeong sua moglie, Jung Ziso la figlia e Lee Jung-eun la domestica. Nella colonna sonora, a sorpresa, a un certo punto spunta "In ginocchio da te" di Gianni Morandi.

25 giugno 2019

Il lago delle oche selvatiche (Diao Yinan, 2019)

The wild goose lake (Nan fang che zhan de ju hui)
di Diao Yinan – Cina 2019
con Hu Ge, Gwei Lun Mei
**

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

In fuga dopo aver ucciso un poliziotto durante uno scontro con una banda rivale, il gangster Zhou Zenong (Hu Ge) attende alla stazione della città la propria moglie Yang Shujun (Wan Qian), che non vede da cinque anni. La sua intenzione è quella di chiedere alla donna di denunciarlo, in modo che possa riscuotere la ricompensa per la sua cattura. Ma al suo posto si presenta una ragazza sconosciuta, la prostituta Liu Aiai (Gwei Lun-mei)... Basato su una struttura contorta (si parte con due lunghi flashback che svelano il motivo per cui i due personaggi si trovano all'appuntamento della stazione) che non lesina colpi di scena, un neo-noir dalle atmosfere sospese, caotico e (ahimè) compiaciuto, ma soprattutto con il grave difetto di perdere ogni presa sullo spettatore a metà strada, fra false direzioni e personaggi dalla caratterizzazione impalpabile. A salvarlo, almeno in parte, è lo stile: la buona regia è coadiuvata da una fotografia notturna vibrante e ricca di sfumature, e non mancano momenti interessanti o scene occasionali che rimangono impresse nella memoria (la polizia che cerca un malvivente nello zoo di notte, sotto gli sguardi curiosi degli animali), anche piuttosto splatter (il motociclista decapitato, il gangster rivale ucciso con l'ombrello). Ma l'atmosfera e la grande cura nel setting (si pensi ai tanti ristorantini e ai locali di quart'ordine nei quali si rifugia Zhou, o alle riunioni dei criminali negli scantinati degli alberghi per spartirsi le zone della città, con evidente parallelo con quelle dei poliziotti che si dividono i quartieri da setacciare), dove il realismo va a braccetto con una forma stilizzata, non bastano per compensare una sceneggiatura carente nella costruzione della storia e dei personaggi. Liao Fan è il capitano della polizia. Il titolo originale significa "Appuntamento a una stazione ferroviaria nel sud", quello internazionale fa riferimento al lago sulle cui rive si svolge parte della vicenda e dove Liu Aiai lavora come "bagnante".

24 giugno 2019

I miserabili (Ladj Ly, 2019)

I miserabili (Les misérables)
di Ladj Ly – Francia 2019
con Damien Bonnard, Alexis Manenti
***

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il poliziotto Stéphane (Damien Bonnard) viene assegnato alla brigata anti-crimine che pattuglia le strade del quartiere Les Bosquets a Montfermeil, comune alla periferia di Parigi dove Victor Hugo aveva ambientato alcune parti de "I miserabili". Oggi i nuovi emarginati sono gli abitanti delle banlieue, immigrati o discendenti degli abitanti delle ex colonie francesi in Africa. Dopo le rivolte del 2005, nel quartiere vige un delicato equilibrio, con l'ordine mantenuto a fatica non solo dalla polizia ma anche da una struttura clandestina organizzata dagli stessi abitanti (con tanto di "sindaco") e dai Fratelli Musulmani (che, se non altro, tengono lontano il traffico di droga). Ciò non toglie che i ragazzini, lasciati a sé stessi, si rendano protagonisti di furti o di piccole e grandi monellerie, una delle quali (il rapimento di un cucciolo di leone da un circo appena giunto in città) provoca l'escalation di eventi raccontata nel film. Opera prima di un regista di origini maliane che in precedenza ha girato solo documentari e cortometraggi (uno dei quali è stato espanso per realizzare questo primo lungometraggio), la pellicola si svolge quasi nell'arco di una sola giornata, la prima in cui Stéphane è di pattuglia insieme ai suoi colleghi Chris (Alexis Manenti) e Gwada (Djibril Zonga). Fra lo Spike Lee di "Clockers" e "L'odio" di Kassoviz (di cui è quasi una versione aggiornata), il film ha il grande merito di ritrarre senza filtri una realtà che il regista conosce bene per averci vissuto in prima persona, senza parteggiare per una parte o per l'altra (il punto di vista è spesso quello dei poliziotti, ma l'impostazione è a tratti corale) e illustrando le difficoltà e gli ostacoli per una pacifica convivenza (il colore della pelle non è nemmeno il primo fra questi). Anche se la violenza non può che chiamare altra violenza, spesso la rabbia (come dice l'Imam) è l'unico metodo a disposizione degli ultimi strati della società per far sentire la propria voce. E come ai tempi di Hugo, è difficile uscire dalla miseria e vincere i pregiudizi. Jeanne Balibar è il commissario di polizia, Issa Perica è il bambino che rapisce il leone, Al-Hassan Ly (figlio del regista) è il ragazzino che filma tutto con il drone.

23 giugno 2019

Ritratto della giovane in fiamme (C. Sciamma, 2019)

Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeunne fille en feu)
di Céline Sciamma – Francia 2019
con Noémie Merlant, Adèle Haenel
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Alla fine del settecento, la pittrice Marianne (Noémie Merlant) viene invitata a recarsi su un'isola al largo della Bretagna per realizzare il ritratto di Héloïse, contessina destinata a sposarsi con un nobile che non ha mai visto, e che pretende appunto una sua immagine prima di accettarla. Ma la ragazza, appena uscita dal convento e refrattaria al matrimonio (di fatto ha preso il posto della sorella, che si è suicidata), non intende posare: e così Marianne, fingendo di essere lì come dama di compagnia, trascorre le giornate osservandola accuratamente, per poi ritrarla in segreto nella sua stanza. Il gioco di sguardi incrociati (dove guardare significa in fondo possedere, e chi guarda viene sempre guardato a sua volta) le farà avvicinare e inevitabilmente innamorare... Al quarto lungometraggio, Céline Sciamma abbandona per la prima volta la contemporaneità, ma non i temi che le sono più cari: e anzi, scegliendo la sua (ex) compagna Adèle Haenel (già co-protagonista del suo film d'esordio, "Naissance des pieuvres") per il ruolo dell'enigmatica Héloïse, ne fa sullo schermo quel ritratto che il personaggio da lei interpretato vuole invece sfuggire. Raffinato ma anche compiaciuto e programmatico, il film è un po' pallosetto nel suo romanticismo letterario, patinato e femminista (che pure spinge noi spettatori a invadere, come guardoni, quell'intimità che i personaggi vorrebbero tenere per sé), nonché privo della vitalità e della naturalezza dei lavori precedenti. Ha però alcuni ottimi momenti, in particolare nella prima parte e nel finale, dove la musica diegetica (l'Estate di Vivaldi) sottolinea i turbamenti e i sentimenti che sconvolgono i personaggi. Da sottolineare anche i riferimenti al mito di Orfeo, il cui sguardo verso Euridice è al tempo stesso un segno d'amore e un modo per dirle addio. Valeria Golino è la contessa, Luàna Bajrami è la servetta Sophie (che le due ragazze aiutano ad abortire). Lo spunto ricorda in parte "Mademoiselle" di Park Chan-wook. Premio a Cannes per la miglior sceneggiatura.

22 giugno 2019

Anteprime dal festival di Cannes 2019

Sto seguendo già da qualche giorno la rassegna milanese dei film presentati all'ultimo Festival di Cannes, e a partire da domani comincerò a pubblicarne le recensioni. Come l'anno scorso, la selezione è alquanto limitata: avendo già visto le pellicole di Jarmusch e Almodóvar, mi sono fiondato sulla Palma d'Oro, "Parasite" di Bong Joon-ho, e sui lavori di Céline Sciamma, Ladj Ly (un esordiente), Diao Yinan ed Elia Suleiman. Stay tuned!

21 giugno 2019

La donna del bandito (Nicholas Ray, 1948)

La donna del bandito (They live by night)
di Nicholas Ray – USA 1948
con Farley Granger, Cathy O'Donnell
***

Rivisto in TV.

Evaso di prigione insieme a due complici, il giovane Arthur Bowers (Farley Granger) si innamora di Katherine (Cathy O'Donnell), nipote di uno dei suoi compagni di fuga. E pur braccato dalla polizia per una serie di rapine, decide di sposarla e di fuggire con lei... Un classico del cinema noir ambientato nel Sud degli Stati Uniti durante la Grande Depressione, il film d'esordio di Nicholas Ray è tratto dal romanzo "Thieves Like Us" di Edward Anderson ed è ispirato alla vicenda reale di Bonnie e Clyde (ad essa alludono le scritte in sovrimpressione sullo schermo prima dei titoli di testa: "Di questo ragazzo... di questa ragazza... nessuno ci ha mai raccontato la vera storia"). Assai curata la caratterizzazione dei due giovani protagonisti, in particolare il ragazzo che all'inizio aspira soltanto a dimostrare la propria innocenza, ma che poi – a causa delle circostanze che congiurano contro di lui, dei complici che non permettono che si rifaccia una vita normale, e dei giornali che lo accusano di essere il capo della banda di rapinatori, trasformandolo in un efferato "pericolo pubblico numero uno" – è quasi costretto a diventare un gangster. Essendo stato realizzato in un'epoca in cui imperava il codice Hays (una delle cui regole richiedeva che lo stile di vita criminale venisse scoraggiato il più possibile), il film sottolinea in continuazione come la fuga di "Bowie" e "Keechie" sia senza speranza: ma questo, anziché essere un limite, rende la pellicola ancor più fatalista, nonché quasi struggente in scene come quella del matrimonio (celebrato rapidamente presso una squallida area di sosta). Ray, alla prima regia (spalleggiato dal produttore John Houseman), mostra già tutto il suo talento con alcune soluzioni innovative (fu il primo, per esempio, a utilizzare riprese aeree – per la precisione in elicottero – per girare scene d'azione come quella dei tre evasi in fuga che apre il film). Bella la fotografia notturna di George E. Diskant, e ottimi i comprimari: da segnalare Jay C. Flippen (T-Dub), Howard Da Silva (Chickamaw), Helen Craig (Mattie, la donna che li tradisce) e Will Wright (il padre di Keechie). Pur completato nel 1947 e presentato l'anno dopo a Londra, il film uscirà nelle sale americane soltanto alla fine del 1949. Robert Altman ne girerà un remake nel 1974, "Gang", con Keith Carradine e Shelley Duvall.

20 giugno 2019

Colpo in canna (Fernando Di Leo, 1975)

Colpo in canna
di Fernando Di Leo – Italia 1975
con Ursula Andress, Marc Porel
*1/2

Visto in TV.

Appena atterrata a Napoli, l'hostess americana Nora Green (Ursula Andress) rimane coinvolta in una faida tra due bande rivali di trafficanti di droga, capeggiate rispettivamente da Silvera (Woody Strode) e Don Calò (Aldo Giuffré). Ad aiutarla ci sono però l'acrobata circense Manuel (Marc Porel) e l'imbranato commissario di polizia Calogero (Lino Banfi). La trama non è forse così lontana da quella di altri noir o poliziotteschi firmati da Fernando Di Leo, ma gli sviluppi e soprattutto i toni della vicenda sono invece tipici della commedia sexy all'italiana di quegli anni, anche in virtù della presenza della Andress (che si mostra generosamente nuda in molte scene) e di comprimari come Banfi (in un doppio ruolo: oltre al commissario è anche un tassista) e Jimmy il fenomeno. In effetti, il mix di registri fra comico e azione spiazza continuamente: passiamo da momenti e situazioni "serie" (o che vorrebbero esserlo) ad altre da farsa totale, con scazzottate alla Bud Spencer (micidiale e interminabile quella finale al Luna Park), scenette comico-demenziali, personaggi macchiettistici dalla caratterizzazione basilare. Quanto alla trama, l'impressione è che venisse inventata man mano che si andava avanti a girare: si spiegano così i colpi di scena gratuiti e le false identità di molti personaggi. Solo in Italia negli anni settanta si producevano film così (magari anche a Hong Kong nei decenni successivi, via!). Peccato che le gag non facciano praticamente mai ridere, altrimenti il film avrebbe anche i suoi pregi nell'essere così assurdo da travalicare (quasi) i propri difetti. Nel cast anche Maurizio Arena (il finto prete), Isabella Biagini, Rosario Borelli e Carla Brait. Musica di Luis Bacalov.

19 giugno 2019

Giovanna d'Arco (Cecil B. DeMille, 1916)

Giovanna d'Arco (Joan the woman)
di Cecil B. DeMille – USA 1916
con Geraldine Farrar, Raymond Hatton
**

Visto su YouTube.

Incorniciata da un prologo e un epilogo ambientati durante la prima guerra mondiale (un ufficiale sul fronte francese trova in una trincea l'antica spada di Giovanna d'Arco, e questa gli appare in sogno raccontandogli la propria storia per incitarlo a difendere la patria), una delle molte versioni cinematografiche della vicenda della pulzella d'Orleans (in precedenza ce n'erano state almeno altre cinque, di cui due di produzione italiana). La protagonista è Geraldine Farrar, attrice e cantante lirica che per DeMille aveva già interpretato Carmen l'anno precedente. La sua recitazione, così enfatica e irrealistica (anche per la mancanza del physique du rôle: la Farrar aveva 34 anni, mentre il personaggio dovrebbe essere adolescente), è purtroppo il punto debole della pellicola, che per il resto è degna di nota a livello produttivo, con grande cura riversata nei costumi, nelle scenografie, nella ricostruzione storica e nelle scene di massa e di battaglia (spettacolare l'assalto al castello di Orleans), al punto da rivaleggiare con le coeve produzioni di Griffith. Anzi, pare che fu proprio in seguito a questo film che DeMille si interessò sempre più a pellicole di ambientazione storica e "colossali", con tanto di effetti speciali (qui il colore, aggiunto in alcune scene – in particolare quella del rogo – grazie a un metodo inventato per l'occasione e poi utilizzato diffusamente negli anni venti, il processo Handschiegl o DeMille-Wyckoff). Perdonabili gli elementi "spuri" nella sceneggiatura (ispirata al dramma di Schiller), come la storia d'amore fra Giovanna e un soldato inglese ferito, mentre quelli più noti (la "chiamata" divina, l'ingresso alla corte del re Carlo, i combattimenti, il processo, il rogo) sono tutti presenti. Nel cast anche Wallace Reid, Hobart Bosworth, Theodore Roberts e James Neill.

17 giugno 2019

I morti non muoiono (Jim Jarmusch, 2019)

I morti non muoiono (The Dead Don't Die)
di Jim Jarmusch – USA 2019
con Bill Murray, Adam Driver
*1/2

Visto al cinema Colosseo.

Per via dello spostamento dell'asse terrestre, causato da tecniche di trivellazione ai poli, i morti si risvegliano ed escono dalle tombe. Nella cittadina di Centerville, a fronteggiare la minaccia, ci sono lo sceriffo Cliff (Bill Murray), i suoi aiutanti Ronnie (Adam Driver) e Mindy (Chloë Sevigny), e la misteriosa straniera Zelda (Tilda Swinton), che gestisce la locale impresa di pompe funebri. Dopo i vampiri ("Solo gli amanti sopravvivono"), Jarmusch affronta alla sua maniera un altro caposaldo del genere horror, gli zombie alla George Romero. Peccato che la pellicola sia blanda e insipida, poco divertente, priva di originalità, di ritmo e di senso ultimo. A parte un paio di colpi di scena nel finale, peraltro ampiamente preannunciati (la natura "aliena" di Zelda e la metacinematograficità della vicenda, con battute come "Come sai che finirà male?" "Ho letto il copione"), c'è ben poco di originale o di accattivante, nemmeno il tentativo di una rilettura "filosofica" come quella del suddetto film sui vampiri. A tratti non si capisce nemmeno se la pellicola vuole essere una parodia, un omaggio o una riproposizione post-moderna del genere (anche perché c'è un fastidioso "scarto" comunicativo fra i personaggi, alcuni dei quali prendono sul serio la situazione mentre altri agiscono come se si trovassero in una commedia). Le battute non fanno ridere, e sono spesso ripetute più volte allo sfinimento; i messaggi sociali (l'apocalisse zombie come una satira del materialismo) sono riciclati da film precedenti (quelli di Romero in primis); quelli drammatici o pseudo-scientifici lasciano il tempo che trovano; e i tanti personaggi escono di scena in maniera del tutto random, lasciando lo spettatore a chiedersi che ruolo avessero nella storia e perché fossero stati introdotti (si pensi, per esempio, ai tre ragazzi di città, o ai giovani detenuti nel carcere minorile). Sprecato, dunque, il buon cast: Steve Buscemi è il fattore razzista, Caleb Landry Jones il gestore della pompa di benzina nonché appassionato di film horror, Danny Glover il commesso del negozio di ferramenta, Selena Gomez la ragazza in viaggio con gli amici, Tom Waits l'eremita Bob, Iggy Pop uno degli zombie. A peggiorare il tutto c'è il mediocrissimo doppiaggio italiano, che fa apparire ancora più svogliati personaggi che parlano quasi al rallentatore (vedi Cliff). Forse il peggior film di Jarmusch. Il titolo è lo stesso di una canzone country (di Sturgill Simpson) che i personaggi ascoltano ripetutamente alla radio (ogni volta citandone per esteso titolo e autore).

15 giugno 2019

Eraserhead (David Lynch, 1977)

Eraserhead - La mente che cancella (Eraserhead)
di David Lynch – USA 1977
con Jack Nance, Charlotte Stewart
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Il tipografo Henry (Nance) sposa Mary (Stewart), dopo che la ragazza ha dato alla luce un figlio prematuro: questi, però, è una mostruosa creatura aliena, il cui pianto incessante rischia di fare impazzire l'uomo... Al primo lungometraggio (con una faticosa gestazione di oltre cinque anni) dopo una serie di corti (perlopiù in animazione) e di sperimentazioni artistiche, Lynch sconvolge lo spettatore con una pellicola quasi muta, in bianco e nero, con forti rimandi al cinema d'avanguardia, surrealista ed espressionista, ma anche con un taglio tutto suo, paragonabile solo a Cronenberg e Tsukamoto, e che mescola il mondo onirico a quello concreto e materico, fra situazioni grottesche e altre profondamente disturbanti, live action ed animazione a passo uno, pupazzi e animatroni, rumori di fondo e corpi che rilasciano liquidi corporei, strane visioni futuristiche e suggestioni retrò. Surreale, horror e angosciante, indimenticabile visivamente (a partire dalle strane fattezze del protagonista, con quella distintiva e folta capigliatura), curato nella scenografia (la casa, la periferia degradata, l'ambiente post-industriale, il teatrino) e negli effetti speciali (curati dallo stesso regista), nella sua folle commistione il film presenta una storia facilmente leggibile come una metafora del matrimonio e della vita adulta, con la paura della famiglia e del ménage coniugale, le ansie e i disagi che sorgono dalla nascita di un figlio che non si desidera, le tentazioni di una scappatella con la vicina di casa, l'insicurezza sul proprio lavoro e sul proprio destino (la testa di Henry si stacca, e il suo cervello viene utilizzato per produrre le gomme delle matite, da cui il titolo). Siamo di fronte a quella "inquietudine del quotidiano" che permeerà in un modo o nell'altro tutti i lavori più personali di Lynch.

14 giugno 2019

The amputee (David Lynch, 1974)

The amputee
di David Lynch – USA 1974
con Catherine Coulson, David Lynch
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Mentre era impegnato nelle riprese del suo primo lungometraggio, "Eraserhead", Lynch venne a sapere che il suo amico e collaboratore Frederick Elmes era stato incaricato dall'American Film Institute di acquistare una grande quantità di videocassette vergini in bianco e nero e di valutare quale fosse il migliore fra due differenti lotti. Lynch allora si offerse di realizzare, nell'arco di una sola giornata, un breve cortometraggio in due versioni, utilizzando prima una e poi l'altra videocassetta. Il risultato è questo "The amputee", di cui esistono appunto due varianti. Il film – girato in un'unica ripresa senza montaggio – mostra una donna, con le gambe amputate appena sopra il ginocchio, seduta su una poltrona e intenta a scrivere una lettera. Mentre un medico (interpretato dallo stesso Lynch) cerca di medicarle le ferite, udiamo la voce della donna recitare la lettera, una lunga confessione a proposito di sentimenti e amicizie, che cita numerosi personaggi senza un vero e proprio background. Anche se è interessante confrontare le due varianti (di durata diversa, rispettivamente 5 e 4 minuti, nonostante il contenuto sia identico sia a livello visivo che di testo), il cortometraggio è forse il meno significativo fra tutti i lavori sperimentali di Lynch.

The grandmother (David Lynch, 1970)

The grandmother
di David Lynch – USA 1970
con Richard White, Dorothy McGinnis
**1/2

Visto in DVD.

Trascurato e maltrattato dai propri genitori, un bambino fa "crescere" una nonna a partire da un seme in soffitta. Finanziato dall'American Film Institute, questo mediometraggio (dura 34 minuti) è il primo passo di David Lynch nel mondo del "vero cinema", dopo due corti studenteschi e sperimentali. In realtà lo stile non è molto diverso dal precedente "The alphabet", con una commistione di riprese dal vero (stavolta preponderanti) e di animazione (alcuni inserti), ma la durata più lunga consente al giovane regista di mettere maggiormente in mostra il suo talento, dimostrando di saper già padroneggiare il mezzo a sufficienza. Praticamente muto, visivamente cupo e inquietante, ricco di sonorità e di immagini angoscianti, il film veicola un tema, quello della paura della famiglia, che sarà al centro anche del primo lungometraggio di Lynch, "Eraserhead", anche se qui è mostrato dal punto di vista del bambino (e non del genitore). Vista l'importanza della musica e dei suoni, va segnalata come degna di nota la prima collaborazione del regista con il sound designer Alan Splet, che lo seguirà in altri suoi lavori. In seguito al completamento del film, Lynch e Splet vennero invitati dall'AFI a frequentare le lezioni del loro Center for Advanced Film Studies.

The alphabet (David Lynch, 1968)

The alphabet
di David Lynch – USA 1968
con Peggy Lentz
**1/2

Visto in DVD.

Dopo la video-installazione "Six men getting sick", David Lynch non pensava di continuare con il cinema. Cambiò idea quando un compagno di studi all'Accademia di Belle Arti, rimasto impresso dal precedente lavoro, gli propose di realizzarne un altro, finanziandogli l'acquisto di una cinepresa. Con questa, a ventidue anni, il regista realizzò il suo primo vero e proprio cortometraggio (dura quattro minuti), che combina live action (l'attrice era la sua prima moglie, Peggy Lentz) e animazione. Il film, surrealista e avanguardista, mostra una ragazza nel letto, in preda agli incubi, che canta la filastrocca con cui viene insegnato l'alfabeto ai bambini. Il significato sembra chiaro: la paura dell'apprendimento, ovvero una delle angoscie più profonde del vissuto infantile. In effetti, il film fu ispirato a una situazione realmente accaduta a una nipotina di Peggy. Dopo una serie di immagini disegnate e animate, di cui sono protagoniste (oltre a figure umane ed animali) le lettere dell'alfabeto, nel finale la ragazza del film muore per un'improvvisa emorragia. La pellicola fu apprezzata al punto che l'American Film Institute concesse a Lynch un finanziamento per produrre un cortometraggio più lungo ed elaborato, che sarà "The grandmother", il quale a sua volta varrà l'accesso del regista al Center for Advanced Film Studies dell'AFI, dove comincerà a girare il suo primo lungometraggio, "Eraserhead".

Six men getting sick (David Lynch, 1966)

Six men getting sick, aka Six figures getting sick (six times)
di David Lynch – USA 1966
animazione su schermo scolpito
**1/2

Visto in DVD.

All'età di vent'anni, mentre frequentava l'Accademia di Belle Arti della Pennsylvania, Lynch ebbe l'occasione di girare il suo primo film: un cortometraggio d'animazione di un minuto, da proiettare in loop su uno schermo scolpito, dove si trovavano tre calchi della sua stessa testa realizzati dall'amico Jack Fisk. La pellicola mostra sei persone (le tre teste scolpite, e altre tre soltanto disegnate) attraverso vari stadi di malattia, visualizzati attraverso perdite di sangue, vomito, e cambiamenti ai loro organi interni: i colori impazziscono di colpo, dando l'idea che gli stomaci esplodano e le teste prendano fuoco. Più un esempio di videoarte che di cinema vero e proprio, l'opera fu ideata dal giovane Lynch nell'ambito di una mostra organizzata dalla scuola, che invitava gli studenti a presentare lavori sperimentali di pittura e scultura. Il regista pensò di proporre un quadro in movimento e con effetti sonori (il suono di una sirena), senza immaginare di avere un futuro come cineasta. Il lavoro, insieme agli altri corti studenteschi e sperimentali che realizzerà negli anni seguenti, è stato poi reso disponibile al pubblico in un DVD con il commento dello stesso Lynch: nella sua semplicità e brevità, già mette in mostra il suo eccezionale talento visivo, l'interesse per il body horror e la capacità di stimolare l'angoscia dello spettatore.

13 giugno 2019

Donne e veleni (Douglas Sirk, 1948)

Donne e veleni (Sleep, my love)
di Douglas Sirk – USA 1948
con Claudette Colbert, Don Ameche
**

Visto in TV.

La ricca newyorkese Alison Courtland (Claudette Colbert) si risveglia sul treno per Boston, con una pistola nella borsetta, senza ricordare nulla della sera precedente. Temendo di soffrire di sonnambulismo e di poter fare del male a qualcuno, accetta il consiglio del marito Richard (Don Ameche) di farsi visitare da uno psichiatra (George Coulouris). Ignora però che quest'ultimo e il coniuge sono complici in un piano per farla impazzire e spingerla al suicidio, in modo da impadronirsi del suo denaro e di lasciare via libera alla tresca del marito con l'amante Daphne (Hazel Brooks). La salverà il simpatico avventuriero Bruce (Robert Cummings), conosciuto per caso. Da un romanzo di Leo Rosten, un noir che guarda ad "Angoscia" di Cukor e ad "Il sospetto" di Hitchcock, ma inferiore ad entrambi. Dal primo proviene il tema del gaslighting (la manipolazione del marito nei confronti della moglie, spinta a credersi pazza, anche attraverso l'ipnosi), dal secondo l'idea che il coniuge avveleni la moglie (qui con una tazza di cioccolata calda con narcotico che le presenta ogni sera). La trama viene svolta senza particolare sottigliezza, ma le buone interpretazioni riescono a dare spessore, anche se solo in parte, ai protagonisti e ad alcuni dei personaggi minori (l'amico cinese di Bruce, il fotografo/finto psicanalista). Del tutto marginale invece, nonostante la prima impressione, il detective della polizia interpretato da Raymond Burr. Senza infamia e senza lode la regia di Sirk, non ancora tuffatosi a pieni polmoni nei melodrammi hollywoodiani che lo renderanno celebre negli anni cinquanta.

12 giugno 2019

L'arbitro (Paolo Zucca, 2013)

L'arbitro
di Paolo Zucca – Italia 2013
con Stefano Accorsi, Jacopo Cullin
**

Visto in TV.

L'arbitro di calcio Cruciani (Stefano Accorsi) aspira a dirigere un'importante finale europea. Caduto in disgrazia, sarà invece inviato per punizione in Sardegna ad arbitrare lo scontro diretto fra due formazioni di Terza Categoria, il Montecrastu e l'Atletico Pabarile. La prima è guidata dall'arrogante proprietario terriero Brai (Alessio Di Clemente), la seconda – da sempre umiliata dai rivali – ha ritrovato entusiasmo ed orgoglio grazie all'oriundo argentino Matzutzi (Jacopo Cullin), innamorato della bella Miranda (Geppi Cucciari), figlia dell'allenatore cieco Prospero (Benito Urgu). All'esordio nel lungometraggio, Zucca amplia e adatta un suo precedente corto (che aveva vinto nel 2009 il David di Donatello come miglior cortometraggio), e si vede: nonostante gli spunti interessanti non manchino (e le scene ambientate nel desolato entroterra sardo – che si alternano in modo un po' scollato con quelle legate al dietro le quinte del gotha del calcio – hanno il loro perché nel raccontare il mondo del pallone "minore", fatto di passione, entusiasmo e accese rivalità campanilistiche), la pellicola ha il respiro corto e presenta molti "riempitivi" (come tutta la superflua sottotrama sulla faida fra i pastori-cugini). L'aspetto più interessante è quello estetico-visivo: girato in bianco e nero, con una certa velleità autoriale, il film ondeggia fra numerosi registri, forse troppi (il neorealismo, la farsa, la citazione (l'ultima cena), il cinema muto, l'apologo morale, persino il western), ma mantiene essenzialmente il tono di una commedia che sconfina nella parodia o nella satira, con parecchi riferimenti – non certo velati – a fatti o personaggi reali: vedi l'arbitro corrotto Mureno (Francesco Pannofino) o il designatore maneggione Candido (Marco Messeri), che fanno il verso rispettivamente a Byron Moreno e Innocenzo Mazzini. Eppure proprio queste figure-macchiette sono i personaggi migliori della pellicola, che invece fatica a uscire dai luoghi comuni nella sua esile trama principale, scivolando nella confusione sul finale. Della parabola personale del meticoloso, ambizioso e religioso protagonista, invece, finisce per importarcene poco.

11 giugno 2019

Il traditore (John Ford, 1935)

Il traditore (The Informer)
di John Ford – USA 1935
con Victor McLaglen, Margot Grahame
***

Visto in TV.

Nella Dublino del 1922, scossa dalle lotte per l'indipendenza, l'energumeno e sempliciotto Gypo Nolan (McLaglen) si arrabatta come può, dopo essere stato espulso da un gruppo di ribelli dell'IRA per non avere avuto il cuore di giustiziare una spia. In un momento di debolezza, accecato dalle venti sterline di taglia (con le quali progetta di andarsene in America insieme all'amata Katie), si trasforma lui stesso in delatore, denunciando alla polizia inglese il suo miglior amico Frankie (Wallace Ford). Ma funestato dai sensi di colpa, si ubriacherà e sperpererà tutto il denaro in bagordi e in atti di generosità, prima di essere catturato e processato dai ribelli... Uno dei primi grandi successi di Ford, che gli valse il premio Oscar come miglior regista (oltre a quelli a McLaglen come miglior attore, a Dudley Nichols per la sceneggiatura non originale e a Max Steiner per la colonna sonora): si tratta del secondo adattamento del romanzo omonimo di Liam O'Flaherty, dopo una versione inglese del 1929 di Arthur Robison. Ambientato tutto in una notte, e praticamente in tempo reale, per le strade nebbiose di una Dublino di periferia, fra bettole e nascondigli di vario genere, è il ritratto di un personaggio ricco di contrasti, forte fisicamente ma debole di spirito, egoista ma dal cuore d'oro, che commette un atto di tradimento (verso l'amico e verso la "causa" dei patrioti) per poi chiedere perdono in lacrime. Insieme al muto "Gloria" del 1926, il film rappresentò l'apice della fama per il caratterista McLaglen. Nel cast anche Preston Foster, Heather Angel, Donald Meek e Una O'Connor. Ford tornerà a raccontare la rivoluzione irlandese due anni più tardi, nel meno noto "L'aratro e le stelle".

10 giugno 2019

Forza bruta (Jules Dassin, 1947)

Forza bruta (Brute force)
di Jules Dassin – USA 1947
con Burt Lancaster, Charles Bickford
**

Visto in TV.

Nel carcere di Westgate, il capitano delle guardie Munsey (Hume Cronyn) usa la "forza bruta" per punire i detenuti e metterli l'uno contro l'altro, provocandoli allo scopo di suscitare una rivolta, destabilizzare l'anziano direttore e prenderne il posto. Ma la cosa gli sfuggirà di mano. Sceneggiato dal futuro regista Richard Brooks (da una storia di Robert Patterson, ispirata all'allora recente "Battaglia di Alcatraz" del maggio 1946), il capostipite di tanti film carcerari, passato alla storia per (l'allora) estrema violenza e brutalità, oltre che per il ritratto simpatetico di criminali e detenuti, al punto che nel finale è necessario l'intervento del medico del carcere (Art Smith) che si rivolge direttamente agli spettatori, affermando che "la fuga è impossibile". La storia, di impostazione corale, si concentra in particolare sui prigionieri della cella R17 – fra i quali Collins (Burt Lancaster) – che a turno rievocano il motivo per cui sono stati incarcerati o mostrano un breve flashback della propria vita precedente, spesso insieme a donne, mogli o compagne (fornendo l'occasione di dare spazio ad attrici come Yvonne De Carlo, Ann Blyth, Ella Raines e Anita Colby, che altrimenti non avrebbero trovato posto in una pellicola tutta ambientata in un setting esclusivamente maschile). Anche se Dassin non lo amava particolarmente, è stato uno dei lungometraggi più celebri del regista prima del forzato "esilio" in Europa in seguito al Maccartismo. Visto oggi, però, appare eccessivamente melodrammatico e irrimediabilmente datato, ricco di ingenuità e povero di ritmo, tranne forse nel finale in cui la rivolta scatena fiamme e distruzione fra le mura del carcere. Interessanti comunque le dinamiche interne della vita in prigione, come le crudeli punizioni che gli stessi reclusi impartiscono a chi, fra loro, si macchia della colpa di aver fatto la spia. Nel cast Sam Levene, Jeff Corey e John Hoyt. Charles Bickford è Gallagher, il "decano" dei prigionieri, che dapprima rifiuta la proposta di Collins di partecipare al progetto di fuga perché in attesa di un condono, e poi cambia idea quando questo gli viene negato senza motivo. La traccia audio della versione italiana tramessa in tv è molto deteriorata, con i dialoghi a stento intellegibili.

8 giugno 2019

X-Men: Dark Phoenix (S. Kinberg, 2019)

X-Men: Dark Phoenix (Dark Phoenix)
di Simon Kinberg – USA 2019
con James McAvoy, Sophie Turner
*1/2

Visto al cinema Colosseo.

Durante una missione di salvataggio nello spazio, Jean Grey (Sophie Turner) viene investita da una misteriosa forza cosmica che amplifica il suo potere a dismisura ma le rende anche impossibile controllarlo, anche perché riporta alla luce quei traumi infantili che il professor Xavier (James McAvoy) aveva sempre cercato di nasconderle... Approfittando del fatto che "Giorni di un futuro passato" ha resettato la linea temporale, il settimo film degli X-Men (nonché l'ultimo prodotto in proprio dalla Fox, prima che i personaggi – come già accaduto con Spider-Man – tornino nell'alveo della Marvel) sceglie di raccontare nuovamente la storia già narrata nel terzo, "Conflitto finale", ossia la saga di Fenice Nera, una delle avventure più celebri e acclamate della serie a fumetti. Il film di Brett Ratner era stato accolto tiepidamente dalla critica, ma questo "remake" non è purtroppo migliore. Kinberg, all'esordio come regista, aveva già lavorato come sceneggiatore e produttore a diverse pellicole della franchise, e curiosamente aveva scritto proprio lui il film del 2006: forse sarebbe stato meglio affidare l'impresa, stavolta, a qualcun altro. La caratterizzazione piatta dei personaggi, debole e meccanicamente funzionale alla trama, e la mancanza di pathos ed epicità sono i difetti principali: mai si respira quell'intensità che rendeva indimenticabile la vicenda imbastita da Chris Claremont e John Byrne sulle pagine dei comics. Se i primi minuti – che ci presentano rapidamente il nuovo status quo degli X-Men agli inizi degli anni novanta (proseguendo nel trend, stabilito da "X-Men: L'inizio" in poi, di ambientare un film in ogni decennio a partire dagli anni sessanta) – sono accattivanti, man mano che la storia prosegue perde forza e incisività, fino a un finale dove il sacrificio di Jean giunge senza trasmettere nulla, anche perché manca ogni riflessione sul tema della corruzione del potere. E non parliamo dei tanti fili narrativi ignorati, lasciati in sospeso o semplicemente risolti in modo superficiale (la persecuzione dei mutanti, il risentimento di Hank verso Xavier). Un esempio: l'idea che gli X-Men siano inizialmente benvoluti e acclamati come eroi, potenzialmente stimolante, viene messa da parte in maniera rapida e poco convincente: possibile che basti un singolo incidente a capovolgere la percezione di tutti? Quanto ai cattivi di turno (fra cui Jessica Chastain), un incrocio fra gli alieni D'Bari e il Club Infernale, appaiono generici e derivativi (e questo purtroppo è un problema comune a molti film di supereroi), necessari solo per giustificare le lunghe scene d'azione. Dicevamo delle caratterizzazioni: non sono pochi i personaggi che cambiano idea in continuazione (Bestia, Magneto), che vengono sacrificati o eliminati dalla storia in maniera improvvisa (Mystica, Quicksilver), che hanno un ruolo tagliato con l'accetta (Ciclope) o soltanto di contorno (Tempesta, Nightcrawler). Gli attori, da parte loro, non sembrano impegnarsi più di tanto: il migliore, come sempre, è Michael Fassbender nella parte di Magneto. Tra le new entry: Dazzler (che si intravede alla festa nel bosco), Selene e Red Lotus (alleati di Magneto). Curiosità: è il primo film degli X-Men in cui non appare Wolverine (e senza un cameo di Stan Lee, cui è dedicata la pellicola). Fra le cose da salvare: la trovata di mostrare, nell'incipit, che i poteri di Jean nascondevano un "lato oscuro" sin dall'inizio, anche prima dell'arrivo di Fenice (è stata proprio lei, da bambina, a causare la morte della madre), anche se questo sminuisce poi la trasformazione in Dark Phoenix (rendendola soltanto un power-up); e la colonna sonora, con il nuovo tema composto da Hans Zimmer, semplice ma interessante.

7 giugno 2019

Le cinque giornate (Dario Argento, 1973)

Le cinque giornate
di Dario Argento – Italia 1973
con Adriano Celentano, Enzo Cerusico
*

Visto in TV.

Il ladruncolo Cainazzo (Celentano) e il fornaio romano Romolo (Cerusico) rimangono coinvolti nell'insurrezione di Milano contro gli austriaci nel 1848. Fra una disavventura e l'altra, sono testimoni delle nefandezze compiute da entrambe le parti. L'unico film di Dario Argento non appartenenente ai generi del thriller o dell'horror è una scalcinata commedia di ambientazione storica, quasi una versione milanese dei film romani di Luigi Magni, dall'andamento episodico, priva di focus e di equilibrio. È evidente come questo tipo di film non fosse nelle corde del regista, che infatti si premurò di chiudere rapidamente la parentesi, tornando – con il successivo "Profondo rosso" – al genere che più gli era congeniale. Si passa da situazioni boccaccesche (l'episodio della donna che deve partorire, quello della contessa ninfomane che fa innalzare le barricate (Marilù Tolo), o quello della vedova del traditore) ad altri che – nelle intenzioni – dovrebbero essere drammatici, per mostrare l'assurdità della guerra, condannare i "potenti" che si accordano alle spalle del popolo o i traditori che approfittano della confusione per arricchirsi. L'intento era chiaro: demistificare il patriottismo e l'eroismo del Risorgimento, mostrando che le battaglie e i grandi eventi storici sono stati condotti senza una vera volontà popolare, o senza un concreto beneficio ("Ci hanno fregato!", grida Celentano alla folla in festa per la vittoria nella scena finale). Ma il risultato è fra il tragicomico e l'imbarazzante, e tutto è estremamente qualunquistico, quando non si scivola nella volgarità o nella farsa, anche per colpa di attori non adeguati, di un forte senso di improvvisazione, della mancanza di collante fra le varie sequenze e di uno scarso valore produttivo. Con l'eccezione di alcune scene a Palazzo Reale e in piazza Belgioioso, la pellicola non è stata girata a Milano ma a Pavia. Celentano non canta: nella colonna sonora, una brutta versione della "Gazza ladra" di Rossini al sintetizzatore, oltre alla melodia dell'Ave Maria di Gounod.

6 giugno 2019

Too much Johnson (Orson Welles, 1938)

Too much Johnson (id.)
di Orson Welles – USA 1938 [incompiuto]
con Joseph Cotten, Edgar Barrier
[sv]

Visto in TV.

Tre anni prima di lanciarsi ufficialmente nella regia cinematografica con "Quarto potere", Orson Welles – allora attivo in radio e a teatro – già si dilettava con la settima arte. Per mettere in scena la commedia "Too much Johnson" di William Gillette con la troupe del Mercury Theatre, aveva pensato di far precedere ciascuno dei tre atti in programma dalla proiezione di un film muto realizzato appositamente (un prologo di 20 minuti, più due intermezzi di 10 ciascuno). Si mise così alla macchina da presa e girò svariati metri di pellicola, con l'attore Joseph Cotten in un ruolo comico: nella prima parte assistiamo alla fuga del protagonista, dopo essere stato sorpreso con l'amante dal marito di lei. Nella seconda c'è la sua partenza dal molo a bordo di una nave da crociera. La terza, infine, è ambientata in una piantagione a Cuba (in realtà le sponde del fiume Hudson). Per motivi tecnici (la sala del teatro risultò troppo bassa per potervi installare lo schermo e il proiettore), la parte filmata dello spettacolo non venne mai utilizzata, e Welles stesso non completò mai il montaggio. Mai mostrata in pubblico, e a lungo ritenuta perduta in un incendio, una copia di lavorazione della pellicola (poco più di un'ora di girato) è stata riscoperta nel 2008 e proiettata per la prima volta a Pordenone nel 2013 nella sua integrità, comprese ripetizioni della stessa scena e frammenti in cui si intravede la troupe. La parte più interessante è sicuramente la prima, quella in cui Welles inscena un folle e scatenato inseguimento per le strade e sui tetti di Manhattan, che fa il verso alle comiche dei "Keystone Cops" di Mack Sennett e richiama le acrobazie di Buster Keaton e Harold Lloyd. Nelle sequenze già montate si riconoscono anche influenze dal cinema surrealista (come nel precedente corto "The hearts of age"), di quello espressionista tedesco (le angolazioni, le inquadrature) e della scuola sovietica (il rapido montaggio). Ma ci sono anche elementi già tipicamenti wellesiani, come l'uso degli spazi e delle ambientazioni (la scena fra le casse e le ceste vuote al mercato, quella in cui il marito toglie il cappello a tutti i passanti). Nonostante l'insuccesso, negli anni a venire Welles avrebbe provato altre volte a mescolare cinema e teatro ("The Green Goddess" nel 1939, "Around the World" nel 1946, "The Miracle of St. Anne" nel 1950, tutti film di cui al momento si sono perse le tracce).

5 giugno 2019

The hearts of age (Orson Welles, 1934)

The Hearts of Age
di Orson Welles, William Vance – USA 1934
con Orson Welles, Virginia Nicolson
*1/2

Rivisto su YouTube.

Cortometraggio muto di otto minuti, diretto da un Orson Welles appena diciannovenne (insieme all'amico del college William Vance) e chiaramente ispirato ai primi film surrealisti di Luis Buñuel (come "Un chien andalou"), Salvador Dalì e Jean Cocteau ("Il sangue di un poeta"). Il tema è quello della vecchiaia e della morte: dopo un montaggio di campane e di tombe (in immagini negative), vediamo infatti un'anziana nobildonna (interpretata da Virginia Nicolson, che sarà la prima moglie del regista) – seduta su una campana che viene fatta ondeggiare da un servo in blackface – ricevere la visita di un elegante gentiluomo (Welles stesso) che si rivelerà essere la Morte. E simboli su questo tema abbondano per tutta la pellicola: teschi, lapidi, una scena di impiccagione e una marcia funebre. Anche se stilisticamente il corto è comunque interessante (soprattutto se visto in prospettiva, per esempio nelle scelte di composizione con inquadrature inusuali e la camera piazzata ad angoli arditi, e nella grande attenzione al montaggio), l'impressione è quella di trovarci di fronte a un semplice esercizio di stile (oltre che di imitazione dei suddetti surrealisti e degli avanguardisti), tanto che lo stesso Welles non lo considerava parte integrante della propria opera, ritenendolo soltanto un "divertimento giovanile". Prima di esordire come regista nel 1941 con "Quarto potere", Welles continuerà comunque a sperimentare con la macchina da presa, realizzando anche diverse sequenze filmate da abbinare a spettacoli teatrali.

4 giugno 2019

Final Fantasy VII: Advent children (T. Nomura, 2005)

Final Fantasy VII: Advent children (id.)
di Tetsuya Nomura [e Takeshi Nozue] – Giappone 2005
animazione digitale
*1/2

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Due anni dopo la sconfitta di Sephiroth (al termine del videogioco "Final Fantasy VII"), in un pianeta in rovine e funestato da una strana malattia, un trio di misteriosi individui cerca di rintracciare i resti della creatura extraterrestre Jenova per resuscitarlo e distruggere il mondo. A loro si opporrà Cloud Strife, che dopo aver perso la voglia di lottare e di vivere tornerà così a battersi insieme ai compagni di un tempo (compresi gli "spiriti" degli amici defunti). Secondo film animato della franchise di "Final Fantasy" (dopo quello del 2001), ma primo a essere direttamente legato ai videogiochi, essendo infatti il sequel diretto del settimo capitolo della saga (il più popolare e di successo), di cui riprende ambientazione (un mondo fantasy post-industriale) e personaggi. Uscito in Giappone direttamente in home video, è stato poi "riveduto e corretto" nel 2009, quando è stata messa in commercio una versione (denominata "Complete", che è quella che ho visto) con circa mezz'ora di scene aggiuntive e una migliore qualità visiva. Nonostante il grande (ed evidente) sforzo produttivo, la pellicola però è quasi inguardabile per chi non è già un fan, per via di una trama confusa, fra noiosi concetti metafisici e la reintroduzione di personaggi ed elementi del gioco senza contesto (e senza spiegarli a uno spettatore che non li conoscesse). Abbiamo inoltre una grafica e soprattutto una regia da videogame, appunto, e un'animazione in CGI all'epoca magari all'avanguardia, ma che appare oggi molto datata; una sceneggiatura fatta di dialoghi stereotipati, con personaggi che vanno e vengono senza spiegazione; e l'assenza di quella varietà di scenari, di temi e di registri (ironia compresa), nonché il senso di esplorazione di un mondo, che caratterizzava il prototipo. Fra le poche cose da salvare, la scena della battaglia contro la creatura gigante evocata dai nemici (cui contribuiscono tutti quelli che erano personaggi giocabili), e le strizzatine d'occhio nella colonna sonora di Nobuo Uematsu (che ripropone diversi temi classici, come la fanfara della vittoria che qui è la suoneria di un cellulare). Tutto sommato accettabile lo stile iper-realistico dei personaggi (migliore di quello del film precedente), anche se rimpiango la grafica super-deformed del videogioco (e a questo punto mi chiedo se non sarebbe stato meglio girare un film in live action). Tetsuya Nomura era il character designer del gioco originale. L'adattamento dei sottotitoli italiani lascia parecchio a desiderare, con frasi che suonano poco scorrevoli, a tratti incomprensibili, e non sempre coerenti con la traduzione del gioco.

3 giugno 2019

Cerco il mio amore (M. Sandrich, 1934)

Cerco il mio amore (The gay divorcee)
di Mark Sandrich – USA 1934
con Fred Astaire, Ginger Rogers
**1/2

Visto in TV.

Appena giunto in Inghilterra, il ballerino americano Guy Holden (Fred Astaire) si innamora di Mimì (Ginger Rogers). Di lei ignora ogni cosa, a partire dal fatto che è (infelicemente) sposata. Dopo averla cercata per tutta Londra, la ritroverà casualmente in un resort balneare, dove verrà scambiato da lei per l'amante "fasullo" con cui vorrebbe farsi sorprendere dal marito per spingerlo a chiedere il divorzio... Primo film da protagonisti per Fred e Ginger (i due avevano già recitato insieme in "Carioca", ma lì erano comprimari), una coppia che entrerà nella storia del cinema con la loro gradevole (e un po' goffa) esuberanza, l'allegria contagiosa, l'impagabile complicità e soprattutto i trascinanti numeri di canto e di ballo, al servizio di garbate commedie degli equivoci perfettamente in linea con il tono delle pellicole romantiche o screwball degli anni trenta. In questa, la cui sceneggiatura riesce a rendere leggero ed esilarante anche un argomento dalle forte connotazioni morali, sono attorniati da un nutrito gruppo di caratteristi, molti dei quali saranno presenze fisse nei film della coppia: Edward Everett Horton (Egbert, l'avvocato di Mimì nonché amico di Guy), Alice Brady (la zia impicciona Ortensia), Erik Rhodes (Tonetti, il finto amante italiano), Eric Blore (il cameriere). Fra le ragazze ospiti dell'albergo c'è anche una Betty Grable a inizio carriera (è lei che danza con Horton). Premio Oscar (il primo della storia in questa categoria) per la canzone "The Continental", eseguita da un ensemble: ma il brano musicale più bello è "Night and day" di Cole Porter, danzata suggestivamente da Fred e Ginger. Nel musical di Broadway originale da cui il film è tratto (intitolato "Gay divorce" e interpretato dallo stesso Astaire) erano presenti anche altri brani di Porter, eliminati dalla versione filmata. Da notare che il "gay" nel titolo originale non significa omosessuale ma semplicemente "allegro".

2 giugno 2019

Carioca (Thornton Freeland, 1933)

Carioca (Flying down to Rio)
di Thornton Freeland – USA 1933
con Gene Raymond, Dolores del Río
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Visto in TV.

Innamorato di una bella ereditiera brasiliana (Del Rio) che ha conosciuto a Miami, il direttore d'orchestra Roger Bond (Raymond) accetta una scrittura a Rio de Janeiro nella speranza di rintracciarla. Ma ignora che lei è già fidanzata proprio con il suo amico Julio (Raul Roulien), direttore dell'albergo in cui dovrà esibirsi con la sua orchestra di varietà. Pur corredata da ottimi numeri musicali (su tutti il brano "Carioca", che dà il titolo al film nell'edizione italiana e che fu anche candidato all'Oscar) e con un notevole successo al botteghino (salvando la casa produttrice RKO da una situazione difficile), si tratterebbe di una commediola musicale come tante, se non fosse per la presenza – in ruoli di secondo piano – di Fred Astaire e Ginger Rogers, che compaiono qui in coppia per la prima volta sullo schermo (sono due membri dell'orchestra di Roger) e si esibiscono anche in una sequenza di danza insieme. Anche se non sono i protagonisti della storia, Fred e Ginger mostrano da subito un'alchimia e un affiatamento sopra le righe e rubano la scena al resto del cast, tanto che la RKO non perderà tempo a "promuoverli" al rango di star nel successivo "Cerco il mio amore". La commedia, in ogni caso, è gradevole, grazie all'ambientazione esotica e ad alcune sequenze degne di nota (le "anime" di Roger e Belinha che escono dai rispettivi corpi per baciarsi, o tutta la coreografia dello spettacolare ballo finale, con le ragazze agganciate alle ali degli aeroplani che sorvolano l'albergo). Mark Sandrich, che dirigerà Fred e Ginger in gran parte dei loro film successivi, è qui regista della seconda unità.