29 maggio 2019

Sacrificio (Andrej Tarkovskij, 1986)

Sacrificio (Offret)
di Andrej Tarkovskij – Svezia/GB/Francia 1986
con Erland Josephson, Gudrun Gísladóttir
***1/2

Visto in divx, con Marisa, Giovanni, Giuliana, Giorgio, Enza e Gabriela.

L'intellettuale Alexander (Josephson), ex attore teatrale diventato poi un illustre giornalista e critico, si è ritirato a vivere con la famiglia in una bella casa sulla costa di un'isola della Svezia. Nel giorno del suo compleanno, mentre riceve la visita di alcuni amici, giunge la terribile notizia dell'imminente scoppio di una guerra nucleare (di cui peraltro l'uomo aveva già percepito alcune visioni premonitrici) che distruggerà il pianeta. Tutto sembra perduto, e la disperazione impera, quando ad Alexander giunge voce che Maria (Gísladóttir), una delle sue domestiche, è una strega dotata di incredibili poteri. Ma per salvare il mondo, l'uomo dovrà sacrificare ogni cosa che ha costruito... Il settimo e ultimo lungometraggio di Tarkovskij (che morirà a dicembre di quello stesso anno, poco dopo aver completato la pellicola) è il secondo che ha girato fuori dall'URSS. Quello precedente, "Nostalghia", era stato realizzato in Italia, la terra dei suoi amati Fellini e Antonioni (e con il loro sceneggiatore, Tonino Guerra). Questo, invece, è nel segno di un altro dei maestri da lui ammirati (ma l'ammirazione, naturalmente, era reciproca), ovvero Ingmar Bergman, che gli presta l'attore protagonista (Erland Josephson, comunque già presente nel film precedente nel ruolo del "pazzo" Domenico), il direttore della fotografia (Sven Nykvist), la scenografa (Anna Asp) e la location (l'isola di Gotland, vicino la sua nativa Fårö). E in un certo senso si nota che lo stile è differente da quello degli altri film di Tarkovskij. A parte i tempi e i campi lunghi, sottolineati dai lenti e amplissimi piani sequenza, ci troviamo immersi in una luce e in ambiente diverso. I muri diroccati, l'acqua che sommerge tutto, la spiritualità che permeava gli ambienti degli altri lavori del regista russo all'inizio sembrano assenti dalla casa di Alexander, e l'unità di spazio, l'ampio ricorso ai dialoghi e ai monologhi nonché il numero ristretto di personaggi sempre in scena ci fa pensare quasi a una piéce teatrale, e la casa come a un palco dove è concentrata tutta l'azione e dove i personaggi entrano ed escono (come nei film di Nikita Michalkov o nei drammi di Cechov). D'altronde il passato di attore di Alexander ("Riccardo III", "L'idiota") e varie citazioni nel film ("Words, words, words", dall'Amleto, con cui forse il protagonista si identifica) sottolineano ulteriormente la cosa. Fanno però eccezione le brevi sequenze delle visioni premonitrici del protagonista, monocromatiche (come in bianco e nero erano anche i sogni e i ricordi di "Nostalghia"), e naturalmente la scena in casa di Maria, che culmina in una magica levitazione.

Testamento spirituale del regista russo, quasi un apologo o una parabola poetica, il film in realtà ha molto in comune con "Nostalghia": non solo perché sono appunto i due lavori girati da Tarkovskij "in esilio", ma perché alla fin fine presentano temi molto simili: il mondo è in pericolo (lì se ne accorgevano soltanto i "pazzi", qui la notizia viene data addirittura in televisione), e per salvarlo bisogna sacrificare sé stessi, o comunque una parte di sé. Per Alexander questa è la casa, la famiglia, ma soprattutto il successo e la reputazione che si è costruito nel corso della sua lunga carriera. Dovrà rinunciare a tutto, bruciando la casa e facendosi credere pazzo anche lui, visto che a quanto pare soltanto i pazzi sono in grado di riconoscere i segni del disastro imminente. I pazzi o gli angeli: c'è infatti la strana figura di Otto (Allan Edwall), il postino del villaggio, che crede nel soprannaturale e ne documenta gli esempi e le testimonianze. Proprio Otto, come un messaggero, indirizza Alexander da Maria. Gli altri – la moglie Adelaide (Susan Fleetwood), l'amico medico Viktor (Sven Wollter), la figlia maggiore Julia, la cameriera Marta – non comprendono nulla di ciò che li circonda, e continueranno a vivere la propria vita, ignari di tutto, nel mondo rinnovato e salvato dal sacrificio di Alexander. L'unico che percepisce qualche cosa è il figlio minore, al quale il padre ha insegnato la possibilità di un miracolo (con il racconto dell'albero secco che, innaffiato tutti i giorni da un monaco devoto, è tornato a rifiorire): un miracolo che non avviene spontaneamente, ma soltanto in seguito a un rituale e a delle azioni. È necessario infatti il passaggio dalla parola ("In principio era il verbo. Perché, papà?") all'azione per poter ottenere un risultato, e bisogna mettersi in gioco, impegnarsi eticamente e sacrificare qualcosa per raggiungere il cambiamento. "Ogni dono che si fa costa un sacrificio, altrimenti che dono sarebbe?", dice Otto quando regala ad Alexander un'antica mappa dell'Europa (il mondo come era un tempo?). E a proposito di doni, fra le immagini chiave del film c'è il dipinto (il realtà poco più di un abbozzo) dell'adorazione dei magi di Leonardo da Vinci. In fondo la domestica Maria, più che una strega, è come una Madonna, e l'unione di Alexander con lei è più spirituale che sessuale: il ritorno in grembo della madre come scintilla per rinascere e rinnovare il mondo, tornando indietro nel tempo. Otto trova il quadro inquietante (preferisce Piero della Francesca, magari la Madonna del parto vista in "Nostalghia"), perché ne percepisce il potere simbolico. A incorniciare il tutto, la musica di J.S. Bach (la passione secondo Matteo, sui titoli di testa e di coda), mentre durante il film si odono alcuni brani di musica tradizionale giapponese (Alexander è un grande cultore del Giappone, e cerca di trasmettere questo amore al figlio). Il film vinse il Grand Prix speciale della giuria al Festival di Cannes (il secondo per il regista russo, dopo "Solaris").

3 commenti:

Marisa ha detto...

Bella recensione di un film ricchissimo e complesso, vero testamento spirituale di un regista molto coerente ed impegnato sia sul piano artistico, che considera il lavoro più alto e responsabile che un uomo possa fare, sia sul piano etico, indissolubilmente legato all'azione che scaturisce dal "Verbo". Grido d'allarme quanto mai attuale in un mondo che ha perso il rapporto con lo Spirito e rifugge dalle proprie responsabilità per attaccare solo gli ultimi (vedi gli immigrati)in cerca di nuovi capri espiatori.
Vorrei richiamare l'attenzione, a proposito dell'enigmatico personaggio di Otto, autentico messaggero(postino)come Ermes tra il divino-trascendente e l'umano sul fatto che colleziona episodi conturbanti e inspiegabili razionalmente, ma che lui documenta scrupolosamente, come quello che racconta ai mondani e increduli amici. La madre che ha perso l'amato figlio di 18 anni in guerra e che facendosi fare casualmente una foto ormai dopo 30 anni dalla perdita, vede accanto a lei nella foto l'immagine del figlio ancora diciottenne...Che lei abbia portato nel suo cuore per tutti quegli anni l'amato figlio che ora la pellicola capta?

Giovanni ha detto...

Grazie Cristian della recensione.
Film complesso e "aperto"... come l'ultima domanda che fa il bambino al "padre"...!
Da rifletterci su per qualche mese.
G.

Christian ha detto...

I film di Tarkovskij sono così: vanno visti, pensati e magari rivisti più volte, e pian piano aprono interi mondi.