31 maggio 2019

Le onde del destino (Lars von Trier, 1996)

Le onde del destino (Breaking the waves)
di Lars von Trier – Danimarca/Sve/Fra/Ola/Nor 1996
con Emily Watson, Stellan Skarsgård
****

Rivisto in divx, con Marisa, Giovanni, Giuliana, Giorgio, Enza e Gabriela.

Sulle fredde coste della Scozia, la giovane Bess McNeil (Watson), membro di un'austera comunità calvinista, sposa lo "straniero" Jan Nyman (Skarsgård), operaio che lavora al largo su una piattaforma petrolifera. Quando Jan rimane paralizzato a causa di un incidente sul lavoro, Bess – che ha un rapporto diretto e del tutto particolare con Dio – si convince che potrà guarirlo soltanto donando e sacrificando sé stessa. Il film che ha rivelato il talento di Lars von Trier al grande pubblico (fu anche il suo primo film che vidi al cinema) è una pellicola eccezionale e sopra le righe, incapace di lasciare indifferente lo spettatore. Diviso in otto capitoli più un epilogo, introdotti ciascuno da un'immagine ritoccata digitalmente dal videoartista Per Kirkeby e accompagnata da una canzone degli anni settanta (si va dai Jethro Tull ai Procol Harum, da Leonard Cohen a Elton John, dai Deep Purple a David Bowie), il film segue in un certo senso il tragitto della passione di Cristo, virata al femminile, con tanto di momenti clou come la lapidazione (i bambini che gettano pietre a Bess) e il sacrificio finale, con l'ascensione in cielo al suono di quelle campane che la comunità locale non aveva mai voluto mettere nella propria chiesa (a Bess, invece, la musica piace: lo sottolinea proprio all'inizio, quando al parroco che le chiede che cosa abbiano mai portato di buono gli stranieri risponde: "La loro musica"). La scena finale con le campane è di una commozione devastante: non riesco a non piangere ogni volta che la vedo. Certo, Lars von Trier è ateo, ed è stato accusato di voler programmaticamente e ipocritamente provocare le emozioni e la commozione del pubblico, cosa peraltro da non escludere vista la sua natura di marpione e l'accusa di essere un "pornografo dei sentimenti" che gli viene spesso rivolta dai critici che lo trovano antipatico. Ma sarà un caso se proprio i registi e gli autori non allineati (vedi Scorsese), quando non addirittura atei o marxisti (penso per esempio a Pasolini), realizzano i film più belli sulla religione e la spiritualità? Inoltre, LVT qui si rifà a quello che ritiene il suo più grande maestro, ovvero Carl Theodor Dreyer: impossibile non vedere un parallelo con "Ordet", altro film danese incentrato su un miracolo che si compie attraverso un personaggio umile e considerato pazzo da tutti.

Prima di una serie di eroine di Lars von Trier che soffrono e si sacrificano per amore, Bess è una ragazza buona e generosa, profondamente religiosa anche se a modo suo (come già detto, quando è da sola parla direttamente con Dio, modulando la propria voce), benvoluta dalla sua comunità, ma anche semplice, apparentemente debole (Jan è l'unico a vederla come "più forte" degli altri), immatura (non riesce a resistere alla lontananza del marito, come una bambina che non sa controllarsi e che vuole tutto e subito) e con un passato di problemi psichiatrici (è stata ricoverata brevemente dopo la morte del fratello). Per di più vive in un contesto dove alle donne è proibito persino di parlare in chiesa, dove le regole che governano la vita quotidiana sono severe e assolute, dove i peccati non vengono perdonati ("Sei un peccatore e brucerai all'inferno", si ode dire ai funerali). Ed è proprio Dio a mettere alla prova lei e il suo amore: quel Dio che "dà e toglie a suo piacimento", e che la esaudisce a modo suo quando lei, soffrendo per la lontananza di Jan, lo prega di farlo tornare a casa in qualche modo. Paralizzato, Jan cerca invece la morte e, non trovandola, spinge la moglie a cercarsi un amante (e a raccontargli poi le sue esperienze), forse nella speranza che possa staccarsi da lui e costruirsi una nuova vita. Bess, invece, interpreta la sua richiesta come una prova da superare per potergli restituire la salute, comprendendo che sacrificando tutta sé stessa (la sua scelta di "prostituirsi" non può che farle piombare addosso la disapprovazione di tutti, facendola scacciare dalla casa e dalla comunità) otterrà in cambio la guarigione dell'uomo. Un sacrificio, si badi bene, che come tutti i sacrifici richiede di passare dalla parola all'azione ("Come si può amare una parola?", domanda Bess in chiesa). Dopo un primo momento di smarrimento, accompagnato anche dal momentaneo silenzio della voce di Dio, i dubbi e le incertezze di Bess svaniscono e saprà accettare fino in fondo le conseguenze di quello in cui crede. Con piena consapevolezza: al dottor Richardson (Adrian Rawlins), scettico come la cognata e infermiera Dodo (Katrin Cartlidge), entrambi estranei alla comunità ma anche alla sua religiosità, la ragazza spiega che il proprio talento è quello di "avere fede".

Girato (intertitoli a parte) interamente con la camera a mano e con una fotografia (di Robby Müller) naturalistica, "grezza" e sgranata, il lungometraggio mette in mostra uno stile decisamente diverso da quello dei lavori precedenti (l'anno prima LVT aveva presentato insieme a Thomas Vinterberg il manifesto etico e cinematografico "Dogme 95", al quale è evidentemente debitore, anche se non ne segue ancora alla lettera tutte le regole: l'unico film del regista ad appartenere ufficialmente al movimento sarà il successivo "Idioti"). Nei film della trilogia "europea", inoltre, il protagonista era maschile e gli stilemi guardavano al cinema noir classico, seppur rivisitato: siamo quasi di fronte a un rinnovamento completo. Nel progetto iniziale (Von Trier ha lavorato alla sceneggiatura per cinque anni) il ruolo di protagonista sarebbe dovuto andare a Helena Bonham-Carter, che rifiutò dopo aver letto il copione. Il suo rimpiazzo, Emily Watson, era praticamente all'esordio: il suo è un vero tour de force, che le è valsa il plauso della critica ma che, come capita spesso con le attrici di Lars von Trier, l'ha anche lasciata esausta e incapace di lavorare nuovamente con il regista danese (succederà anche a Björk, a Nicole Kidman, a Kirsten Dunst: l'unica attrice che "sopravviverà" a più di una pellicola con lui sarà Charlotte Gainsbourg). Lo svedese Stellan Skarsgård diventerà invece un habitué del regista. Nonostante il grande successo (vinse, fra gli altri, il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes), il film ha comunque diviso il pubblico e suscitato parecchie controversie. Critici ciechi hanno accusato LVT di misoginia, di voler rappresentare eroine martiri e sottomesse (capiterà anche in "Dancer in the dark"), senza cogliere il valore etico e simbolico del sacrificio. Pazienza, non è certo (e non vuole esserlo) un regista per tutti. Personalmente lo considero uno dei tre autori più grandi e importanti degli anni novanta (insieme, per motivi diversi, a Takeshi Kitano e a Quentin Tarantino), e questo film per me rimane tuttora il suo capolavoro. Nel cast anche Jean-Marc Barr (Terry, l'amico di Jan) e Udo Kier (il marinaio sadico). Jonathan Hackett è il pastore, Sandra Voe è la madre di Bess.

29 maggio 2019

Sacrificio (Andrej Tarkovskij, 1986)

Sacrificio (Offret)
di Andrej Tarkovskij – Svezia/GB/Francia 1986
con Erland Josephson, Gudrun Gísladóttir
***1/2

Visto in divx, con Marisa, Giovanni, Giuliana, Giorgio, Enza e Gabriela.

L'intellettuale Alexander (Josephson), ex attore teatrale diventato poi un illustre giornalista e critico, si è ritirato a vivere con la famiglia in una bella casa sulla costa di un'isola della Svezia. Nel giorno del suo compleanno, mentre riceve la visita di alcuni amici, giunge la terribile notizia dell'imminente scoppio di una guerra nucleare (di cui peraltro l'uomo aveva già percepito alcune visioni premonitrici) che distruggerà il pianeta. Tutto sembra perduto, e la disperazione impera, quando ad Alexander giunge voce che Maria (Gísladóttir), una delle sue domestiche, è una strega dotata di incredibili poteri. Ma per salvare il mondo, l'uomo dovrà sacrificare ogni cosa che ha costruito... Il settimo e ultimo lungometraggio di Tarkovskij (che morirà a dicembre di quello stesso anno, poco dopo aver completato la pellicola) è il secondo che ha girato fuori dall'URSS. Quello precedente, "Nostalghia", era stato realizzato in Italia, la terra dei suoi amati Fellini e Antonioni (e con il loro sceneggiatore, Tonino Guerra). Questo, invece, è nel segno di un altro dei maestri da lui ammirati (ma l'ammirazione, naturalmente, era reciproca), ovvero Ingmar Bergman, che gli presta l'attore protagonista (Erland Josephson, comunque già presente nel film precedente nel ruolo del "pazzo" Domenico), il direttore della fotografia (Sven Nykvist), la scenografa (Anna Asp) e la location (l'isola di Gotland, vicino la sua nativa Fårö). E in un certo senso si nota che lo stile è differente da quello degli altri film di Tarkovskij. A parte i tempi e i campi lunghi, sottolineati dai lenti e amplissimi piani sequenza, ci troviamo immersi in una luce e in ambiente diverso. I muri diroccati, l'acqua che sommerge tutto, la spiritualità che permeava gli ambienti degli altri lavori del regista russo all'inizio sembrano assenti dalla casa di Alexander, e l'unità di spazio, l'ampio ricorso ai dialoghi e ai monologhi nonché il numero ristretto di personaggi sempre in scena ci fa pensare quasi a una piéce teatrale, e la casa come a un palco dove è concentrata tutta l'azione e dove i personaggi entrano ed escono (come nei film di Nikita Michalkov o nei drammi di Cechov). D'altronde il passato di attore di Alexander ("Riccardo III", "L'idiota") e varie citazioni nel film ("Words, words, words", dall'Amleto, con cui forse il protagonista si identifica) sottolineano ulteriormente la cosa. Fanno però eccezione le brevi sequenze delle visioni premonitrici del protagonista, monocromatiche (come in bianco e nero erano anche i sogni e i ricordi di "Nostalghia"), e naturalmente la scena in casa di Maria, che culmina in una magica levitazione.

Testamento spirituale del regista russo, quasi un apologo o una parabola poetica, il film in realtà ha molto in comune con "Nostalghia": non solo perché sono appunto i due lavori girati da Tarkovskij "in esilio", ma perché alla fin fine presentano temi molto simili: il mondo è in pericolo (lì se ne accorgevano soltanto i "pazzi", qui la notizia viene data addirittura in televisione), e per salvarlo bisogna sacrificare sé stessi, o comunque una parte di sé. Per Alexander questa è la casa, la famiglia, ma soprattutto il successo e la reputazione che si è costruito nel corso della sua lunga carriera. Dovrà rinunciare a tutto, bruciando la casa e facendosi credere pazzo anche lui, visto che a quanto pare soltanto i pazzi sono in grado di riconoscere i segni del disastro imminente. I pazzi o gli angeli: c'è infatti la strana figura di Otto (Allan Edwall), il postino del villaggio, che crede nel soprannaturale e ne documenta gli esempi e le testimonianze. Proprio Otto, come un messaggero, indirizza Alexander da Maria. Gli altri – la moglie Adelaide (Susan Fleetwood), l'amico medico Viktor (Sven Wollter), la figlia maggiore Julia, la cameriera Marta – non comprendono nulla di ciò che li circonda, e continueranno a vivere la propria vita, ignari di tutto, nel mondo rinnovato e salvato dal sacrificio di Alexander. L'unico che percepisce qualche cosa è il figlio minore, al quale il padre ha insegnato la possibilità di un miracolo (con il racconto dell'albero secco che, innaffiato tutti i giorni da un monaco devoto, è tornato a rifiorire): un miracolo che non avviene spontaneamente, ma soltanto in seguito a un rituale e a delle azioni. È necessario infatti il passaggio dalla parola ("In principio era il verbo. Perché, papà?") all'azione per poter ottenere un risultato, e bisogna mettersi in gioco, impegnarsi eticamente e sacrificare qualcosa per raggiungere il cambiamento. "Ogni dono che si fa costa un sacrificio, altrimenti che dono sarebbe?", dice Otto quando regala ad Alexander un'antica mappa dell'Europa (il mondo come era un tempo?). E a proposito di doni, fra le immagini chiave del film c'è il dipinto (il realtà poco più di un abbozzo) dell'adorazione dei magi di Leonardo da Vinci. In fondo la domestica Maria, più che una strega, è come una Madonna, e l'unione di Alexander con lei è più spirituale che sessuale: il ritorno in grembo della madre come scintilla per rinascere e rinnovare il mondo, tornando indietro nel tempo. Otto trova il quadro inquietante (preferisce Piero della Francesca, magari la Madonna del parto vista in "Nostalghia"), perché ne percepisce il potere simbolico. A incorniciare il tutto, la musica di J.S. Bach (la passione secondo Matteo, sui titoli di testa e di coda), mentre durante il film si odono alcuni brani di musica tradizionale giapponese (Alexander è un grande cultore del Giappone, e cerca di trasmettere questo amore al figlio). Il film vinse il Grand Prix speciale della giuria al Festival di Cannes (il secondo per il regista russo, dopo "Solaris").

28 maggio 2019

Black Panther (Ryan Coogler, 2018)

Black Panther (id.)
di Ryan Coogler – USA 2018
con Chadwick Boseman, Michael B. Jordan
**

Visto in divx.

La piccola nazione del Wakanda, situata nel cuore dell'Africa nera e completamente isolata dal mondo esterno, è segretamente ricca e tecnologicamente avanzata (pur conservando riti etnici e tradizioni ancestrali) grazie al vibranio, un metallo di origine extraterrestre che si trova nel suo sottosuolo e che consente di sviluppare armi e tecnologie avveniristiche. T'Challa (Chadwick Boseman), nuovo monarca dopo la morte del padre T'Chaka (avvenuta in "Captain America: Civil War", film che introduceva il personaggio nel Marvel Cinematic Universe), intende proseguire la politica di isolamento voluta dai propri antenati: ma la sua decisione sarà messa a dura prova dal cugino rivale Killmonger (Michael B. Jordan), che ne vuole usurpare il trono. Supereroe minore della Casa delle Idee, Pantera Nera (o Black Panther, come il marketing impone di chiamarlo anche in Italia) è il protagonista del primo film Marvel con un cast quasi esclusivamente di colore (fanno eccezione Martin Freeman nei panni dell'agente della CIA Everett Ross e l'ottimo Andy Serkis in quelli del malvagio trafficante d'armi Klaw, già visto a sua volta in "Avengers: Age of Ultron"), osannato proprio per questo motivo dalla critica e dal pubblico d'oltreoceano (e nominato a ben sette premi Oscar, compreso quello per il miglior film, vincendo le statuette per la scenografia, i costumi e la colonna sonora). Eppure, nonostante gli elogi, l'impressione è quella di trovarsi di fronte a un prodotto non particolarmente profondo o innovativo, nemmeno considerando la media della Marvel. Abbiamo una trama poco originale (con rimandi a "Il re leone" nelle scene delle visioni in cui T'Challa parla con il padre defunto), un protagonista di scarso carisma (molto meglio il cattivo, che almeno ha reali motivazioni, e persino i comprimari), scene d'azione piuttosto mediocri (alcuni combattimenti sembrano quasi al rallentatore), una CGI onnipresente ma non sempre di eccellente qualità, una sceneggiatura priva di dialoghi memorabili (per non parlare delle occasionali battutine che stonano con la seriosità di tutto il resto). Gli accenni alle questioni razziali antiche o moderne (il colonialismo, lo schiavismo, le lotte per i diritti civili, il dramma dei profughi) donano almeno una patina di spessore a quello che resta comunque un film d'intrattenimento, rendendo comprensibile l'entusiasmo, l'orgoglio e l'identificazione da parte del pubblico afro-americano (è praticamente la versione moderna – e supereroistica – dei film di blaxploitation degli anni settanta). Lupita Nyong'o è Nakia, spia wakandiana ed ex fidanzata di T'Challa; Danai Gurira è la guerriera Okoye, guardia del corpo del re; Letitia Wright è Shuri, la sorellina scienziata di T'Challa che gli fornisce armi e gadget (praticamente una variante di "Q" di James Bond). Daniel Kaluuya e Winston Duke sono due capi tribù del Wakanda. Piccoli ruoli per Angela Bassett (la regina madre), Forest Whitaker (lo sciamano) e Isaach De Bankolé (uno degli anziani). Stan Lee (che ha creato il personaggio insieme a Jack Kirby nel 1966 sulle pagine de "I Fantastici Quattro") fa il suo consueto cameo nel ruolo di un giocatore al casinò in Corea. Scadente il doppiaggio italiano. A parte gli accenni ai due film Marvel già citati e il controfinale con Bucky Barnes, la pellicola è essenzialmente fruibile a sé stante: ma il personaggio (del quale è in produzione un secondo capitolo "a solo") riapparirà nei lungometraggi successivi degli Avengers.

27 maggio 2019

Sully (Clint Eastwood, 2016)

Sully (id.)
di Clint Eastwood – USA 2016
con Tom Hanks, Aaron Eckhart
**1/2

Visto in TV.

Biopic sul capitano Chesley "Sully" Sullenberger, pilota civile che il 15 gennaio 2009 fece ammarare con successo sul fiume Hudson un aereo di linea con 155 passeggeri a bordo, appena decollato dall'aereoporto La Guardia di New York, i cui motori erano stati messi entrambi fuori uso dall'impatto con uno stormo di uccelli. Più che sull'evento in sé – ottimamente ricostruito in un paio di flashback a metà pellicola – il film si concentra sui giorni immediatamente successivi, quelli in cui Sully, benché acclamato come un eroe (l'episodio fu soprannominato "il miracolo sull'Hudson", visto che tutte le persone coinvolte sopravvissero, e contribuì a riportare un po' di serenità in una New York ancora ferita dall'attentato delle Torri Gemelle e nel bel mezzo di una grave crisi economica), è costretto a fare i conti da un lato con l'improvvisa attenzione e la pressione mediatica, cui non è abituato (e la consapevolezza che monta poco a poco è spesso interrotta da dubbi e persino da incubi, più o meno a occhi aperti), e dall'altro con l'inchiesta delle autorità dell'aviazione civile per determinare se la sua decisione fu davvero quello più corretta e meno rischiosa possibile. La sceneggiatura (ispirata al libro di memorie dello stesso Sully) e la regia solida di Eastwood, insieme al concreto realismo degli effetti speciali, permettono di evitare il rischio dell'agiografia fine a sé stessa: pur celebrando l'eroismo del protagonista e di tutti i soccorritori impegnati successivamente per recuperare i passeggeri ("Il meglio di New York"), l'enfasi rimane sull'uomo prima che sull'eroe (un merito qui anche alla recitazione controllata di Tom Hanks) e il tema della collaborazione e della competenza durante le operazioni di salvataggio genera il senso di ottimismo che traspare dal finale. Grande successo di pubblico, con qualche polemica in patria per il ruolo eccessivamente "antagonistico" con cui è stato ritratto il board della sicurezza dell'aviazione civile.

26 maggio 2019

See you yesterday (Stefon Bristol, 2019)

See you yesterday (id.)
di Stefon Bristol – USA 2019
con Eden Duncan-Smith, Danté Crichlow
*1/2

Visto in TV (Netflix).

La liceale Claudette "CJ" (Duncan-Smith) e il suo amico Sebastian (Crichlow), geni della scienza, mettono a punto una "macchina del tempo" (contenuta negli zaini che indossano) per la mostra scientifica della scuola. Quando il fratello maggiore di CJ, Calvin (Brian Bradley), viene ucciso in strada per errore dalla polizia che lo scambia per un rapinatore, i due ragazzi decidono di tornare indietro nel tempo per salvarlo. Ma ogni tentativo peggiorerà le cose... Prodotto da Spike Lee per Netflix, un tv movie che fonde un classico tema della fantascienza con un'ambientazione realistica e attenta alle questioni sociali (gli abusi e la violenza della polizia, il movimento "Black Lives Matter") e alla street culture (la storia si svolge a Brooklyn). Il risultato, però, non è particolarmente accattivante. La confezione e la qualità produttiva sono prettamente televisive, gli elementi fantascientifici sono quelli già visti mille volte (i paradossi nel rincontrare sé stessi o nel cambiare la storia), le dinamiche alquanto noiose, con contorno di luoghi comuni. E la sceneggiatura non sa nemmeno come concludere la vicenda (che infatti resta aperta). Di interessante c'è soltanto la conferma di come l'industria dell'intrattenimento americana (da Hollywood alle varie tv on demand come appunto Netflix) si rivolga ormai in maniera sempre più massiccia a un pubblico (adolescente) di minoranze etniche che solo qualche anno fa era del tutto trascurato. Il regista, anche sceneggiatore, ha ampliato un suo corto di due anni prima. Cameo di Michael J. Fox (che esclama "Grande Giove!") come professore dei due ragazzi.

24 maggio 2019

Dolor y gloria (Pedro Almodóvar, 2019)

Dolor y gloria (id.)
di Pedro Almodóvar – Spagna 2019
con Antonio Banderas, Penélope Cruz
***

Visto al cinema Colosseo.

Il regista e scrittore Salvador Mallo (Antonio Banderas), che convive con la depressione e con dolori e malattie croniche, fatica a uscire dal guscio in cui si è rinchiuso negli ultimi anni. Un'opportunità gliela offre il restauro di una sua pellicola di 32 anni prima, "Sabor", alla cui presentazione viene invitato insieme all'attore protagonista, Alberto Crespo (Asier Etxeandía), con il quale non si parla da allora dopo aver litigato per divergenze sulla sua interpretazione. Riallacciare i rapporti con Alberto lo porta a ritrovare anche l'amante di un tempo, Federico (Leonardo Sbaraglia), di passaggio a Madrid da Buenos Aires, che assiste alla recita di un monologo incentrato proprio sulla loro vita insieme. E nel frattempo, mentre sperimenta pericolosamente con l'eroina nel tentativo di sopportare il dolore che lo attanaglia (cosa curiosa, visto che i rapporti con Alberto e con Federico furono messi a repentaglio proprio dalle loro tossicodipendenze), rivive la propria infanzia in una serie di sogni o di ricordi a occhi aperti: i momenti trascorsi insieme alla madre, il trasferimento con la famiglia in una "grotta" a Paterna, le prime pulsioni omosessuali verso il giovane imbianchino Eduardo (César Vicente)... Siamo di fronte all'"Otto e mezzo" (o "Lo specchio") di Almodóvar: un film praticamente autobiografico (il regista ha detto: "il tasso di autobiografia sul fronte dei fatti è del 40 per cento, ma per quello che riguarda un livello più profondo, si tratta del 100 per cento. In tutti i posti dove il personaggio di Antonio è stato, ci sono stato anche io, la casa di Salvador è una copia della mia, ci sono i miei mobili, i miei quadri, tutto quello che nel film non ho vissuto potrei però averlo vissuto"). E dunque c'è tutto quello che avevamo visto (o intravisto) nei precedenti film: l'amore per l'arte (che si fonde con la vita), o meglio la potenza salvifica dell'espressione artistica (il cinema, la scrittura, il teatro, il disegno), che permea non solo Salvador ma un po' tutti i personaggi; il fascino del cinema, in particolare quello della Hollywood classica (Natalie Wood in "Splendore sull'erba", Marilyn Monroe in "Niagara"); e ancora, le esperienze infantili e formative, la povertà, la scuola dai preti, la sofferenza della malattia. Non a caso Almodóvar fa ricorso ai suoi attori feticcio: un Banderas barbuto, mai così sofferto e misurato (all'ottavo film con il regista), una splendida Penélope Cruz nel ruolo della madre Jacinta da giovane (o forse, come ci rivela l'ultima inquadratura, è soltanto l'attrice che la interpreta nel nuovo film di Salvador: si spiegherebbe così la mancata somiglianza con Julieta Serrano, che interpreta invece Jacinta da anziana), e Cecilia Roth nel breve ruolo di Zulema. Nora Navas è la manager tuttofare Mercedes, Asier Flores è Salvador bambino. A livello di perfezione la regia, grazie anche a una fotografia che dona una concretezza eterea e iperrealista ai colori, ai materiali, alle scenografie, agli oggetti di scena.

23 maggio 2019

La vita agra (Carlo Lizzani, 1964)

La vita agra
di Carlo Lizzani – Italia 1964
con Ugo Tognazzi, Giovanna Ralli
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Luciano Bianchi (Tognazzi), intellettuale di provincia, lascia il paese natìo per trasferirsi a Milano dopo che un'esplosione ha devastato la miniera locale, causando 43 morti (il riferimento reale è alla tragedia di Ribolla, avvenuta nel 1954). La sua intenzione è quella di farsi giustizia, distruggendo con il tritolo l'enorme grattacielo (il “torracchione”) in cui ha sede la compagnia mineraria. Ma nel corso di un anno (raccontato tutto in un lungo flashback), la sua spinta rivoluzionaria si esaurirà e lui finirà con rientrare nei ranghi e farsi riassorbire dal “sistema”. Dal romanzo semi-autobiografico di Luciano Bianciardi, sceneggiato con Luciano Vincenzoni, una pellicola antropologica, dai toni a tratti surreali (Tognazzi parla in prima persona direttamente allo spettatore) e satirici, che riflette sull'Italia moderna, sulle conseguenze del miracolo economico, sulla trasformazione della società e della cultura (per mantenersi Luciano cambia diversi lavori, da consulente culturale a traduttore di romanzi dall'inglese, trovando infine successo come ideatore di slogan pubblicitari (ovvero “persuasore occulto”), finendo col tornare a lavorare come responsabile del marketing proprio per quella compagnia che lo aveva licenziato in precedenza). Se in provincia ha lasciato una moglie e un figlio, nonché il ruspante amico Libero (Giampiero Albertini) con il quale si è accordato per distruggere il grattacielo, in città si trova un'amante, la giornalista Anna (Giovanna Ralli), anch'essa inizialmente contestatrice e poi riassorbita pian piano in un ruolo borghese. Insieme a lei si trasformerà proprio in quell'“italiano medio” verso il quale provava insofferenza: passa da una squallida pensione a una camera in affitto (nell'appartamento di una bizzarra coppia “svizzera”), fino all'acquisto di una casa propria nelle periferie in via di sviluppo (oltre a un'automobile, passando dalla condizione di “pedone” schiacciato ai margini della strada a quella di “autista” che la strada la occupa, sia pure imbottigliato nel traffico). Nel complesso, un film dai toni acuti che ritrae in modo emblematico (e senza retorica passatista) un periodo storico-culturale ben preciso, quello in cui l'Italia stava diventando un paese moderno, con tutte le contraddizioni del caso: molti temi anticipano addirittura “Fight Club” (benché la costellazione psicologica sia ben diversa). In alcune sequenze c'è un giovane Enzo Jannacci che canta in trattoria un paio di canzoni poco note (fra cui "L'ombrello di mio fratello"). Nel romanzo (e nella realtà), Bianchi/Bianciardi proveniva da Grosseto e non da Guastalla.

22 maggio 2019

I visitatori (Elia Kazan, 1972)

I visitatori (The visitors)
di Elia Kazan – USA 1972
con James Woods, Patricia Joyce
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Bill (James Woods), che vive con la compagna Martha (Patricia Joyce) e il figlio neonato Hal in un cottage di proprietà del padre di lei, Harry (Patrick McVey), affermato scrittore western, riceve l'inaspettata visita di due suoi ex commilitoni – il sergente Mike (Steve Railsback) e il caporale Tony (Chico Martínez) – con i quali aveva combattuto in Vietnam, e che si sono fatti due anni di prigione quando proprio Bill li aveva denunciati alla corte marziale per aver violentato e ucciso una ragazza vietnamita. Tutto questo, naturalmente, viene alla luce poco a poco (all'inizio Bill non aveva raccontato nulla a Martha), ma già da subito la tensione appare alta, per crescere ulteriormente durante la serata... Da una sceneggiatura del figlio Chris (ispirata a un episodio realmente accaduto, lo stesso che sarà alla base di "Vittime di guerra" di Brian De Palma), il penultimo film di Elia Kazan è un intenso dramma da camera che si iscrive nella riflessione sulla guerra del Vietnam – anzi, forse su tutte le guerre – che l'America stava portando avanti in quegli anni: una guerra che nella sua disumanità è capace di trasformare chiunque in un mostro, in particolare i giovani che non riescono ad adeguarsi alle aspettative e ai “miti” della conquista e dell'avventura delle generazioni che li avevano preceduti. A questo proposito, trattandosi dello script di un figlio d'arte, notevole è la figura del padre/suocero, simbolo di quell'America militarista e conservatrice che idolatra le armi e la legge del più forte. Anche Harry ha combattuto una guerra, il secondo conflitto mondiale, e non nasconde di provare più simpatia per Mike che per il genero pacifista (“Ho sempre pensato che fosse un po' finocchio”, dice, quando viene a sapere che a differenza degli altri non si è "divertito" con la ragazza vietnamita). L'impianto del film è quasi teatrale, con solo cinque personaggi e il rispetto delle unità di spazio (la casa in campagna) e di tempo (si svolge tutto in una giornata, in meno di 24 ore).

21 maggio 2019

Ida (Paweł Pawlikowski, 2013)

Ida (id.)
di Paweł Pawlikowski – Polonia/GB/Fra/Dan 2013
con Agata Trzebuchowska, Agata Kulesza
***1/2

Visto in divx alla Fogona.

Polonia, anni sessanta. Pochi giorni prima di prendere i voti, la giovane novizia Anna esce per la prima volta dal convento per trascorrere qualche giorno con l'unica parente che le è rimasta: la zia Wanda, giudice comunista che vive a Varsavia. Inizialmente la donna (che appare fredda, ostile, disillusa, nonché dedita ai vizi e alla vita mondana) sembra volerla respingere. Ma poi le rivela la verità su di lei: il suo vero nome è Ida, la sua famiglia era ebrea e i suoi genitori sono stati uccisi durante la guerra. Insieme, le due partono per il villaggio dove vivevano, per scoprire come sono morti (denunciati da un vicino che si è poi impadronito della loro casa) e dove sono stati sepolti. Il doloroso viaggio, oltre ad avvicinarle, cambierà profondamente entrambe le donne. Con stile solenne ed essenziale, come un film di Bresson (è girato in bianco nero e in 4:3) o magari – vista la breve durata: un'ora e venti scarsa – un episodio del “Decalogo” del connazionale Kieslowski, Pawlikowski firma forse il suo capolavoro: un film che affronta la delicata questione della complicità dei civili polacchi nelle atrocità naziste durante la guerra, ma non solo. Formalmente elegante, intenso e toccante, nella sua semplicità affronta temi esistenziali (da diversi punti di vista) e il modo di reagire ai dolori della vita, ritirandosi da essa o tuffandocisi completamente, accettando le cose con consapevolezza e serenità oppure rifiutandole con rabbia e furore. La musica, quasi tutta diegetica, spazia dalla classica (la sinfonia “Jupiter” di Mozart, che Wanda ascolta ripetutamente) alle canzonette (fra cui “24 mila baci” e “Guarda che luna”), fino al jazz di John Coltrane suonato dal giovane sassofonista con cui Ida decide di “sperimentare” un po' di quella vita cui dovrà poi rinunciare diventando suora, accettando il consiglio di Wanda secondo cui bisogna conoscere quello che si sceglie di abbandonare, altrimenti il sacrificio non ha alcun valore. Sulle scene finali del suo ritorno in convento, si ode invece una versione per piano della cantata di Bach “Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ”. È il primo film ambientato in patria di Pawlikowski, che in precedenza aveva lavorato per lo più in Gran Bretagna (dove è cresciuto). Premio Oscar per il miglior film straniero.

20 maggio 2019

Il vento e il leone (John Milius, 1975)

Il vento e il leone (The Wind and the Lion)
di John Milius – USA 1975
con Sean Connery, Candice Bergen
*1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Nel 1904, in un Marocco in cui l'autorità del sultano è destabilizzata dalle potenze coloniali straniere, il predone berbero el-Raisuli (Sean Connery) rapisce una donna americana, Eden Pedecaris (Candice Bergen), e i suoi due figli, portandoli con sé nel deserto e scatenando l'ira del presidente Theodore Roosevelt (Brian Keith), che si prende a cuore la faccenda. Mentre l'iniziale ostilità dei rapiti verso el-Raisuli si tramuta man mano in fascinazione e affetto, le truppe americane giungono in Marocco, trovandosi ingabbiate in una ragnatela di intrighi diplomatici e politici, e la tensione cresce fino all'orlo di una guerra. Tratto in parte da una storia vera (che riguardava però un uomo di origine greca, Ion Perdicaris, e non una donna), un fumettone d'avventura ingenuo ed epico ma anche assai noioso, almeno quando sono in scena il protagonista e la donna rapita, anche per via di un mood non ben definito (non si capisce mai se il tutto sia da prendere sul serio o meno) e di tante scene implausibili. Oltre alla prestanza e al carisma di Connery, a spingere Eden e i due figli a simpatizzare progressivamente per il loro rapitore è una sorta di sindrome di Stoccolma, visto che l'analisi delle sue motivazioni politiche (la lotta contro i colonialisti stranieri) è del tutto superficiale. Più interessante la dinamica del confronto a distanza fra Roosevelt e el-Raisuli (sono loro due il “vento” e il “leone” del titolo), che – pur non incontrandosi mai di persona (il presidente non lascia gli Stati Uniti, impegnato com'è nella campagna per la rielezione, nelle trattative per la costruzione del canale di Panama, e nelle sue attività venatorie) – condividono un reciproco rispetto, nonché l'amore per le armi e gli animali selvatici (come l'orso grizzly che il presidente fa impagliare e collocare allo Smithsonian). Naturalmente gli americani (anche se guerrafondai) sono buoni e i tedeschi sono cattivi. Nonostante le premesse, la violenza è sempre tenuta da Milius rigorosamente fuori inquadratura. John Huston è il segretario di stato John Hay, Steve Kanaly il capitano Jerome.

19 maggio 2019

Urlo (Rob Epstein, Jeffrey Friedman, 2010)

Urlo (Howl)
di Rob Epstein, Jeffrey Friedman – USA 2010
con James Franco, Jon Hamm
***

Visto in divx alla Fogona.

Bel documentario su Allen Ginsberg, poeta simbolo della beat generation, incentrato in particolare sul processo che nel 1957 coinvolse Lawrence Berlinghetti come editore di “Urlo”, il poema esistenziale (“la sua visione del mondo in quattro parti”) scritto da Ginsberg due anni prima e accusato di oscenità. Con una cadenza jazz che richiama il fraseggio e lo stile dello stesso autore, la pellicola alterna scene (in bianco e nero) in cui Ginsberg legge il suo poema alla platea del Six Gallery di San Francisco nel 1955; un'intervista rilasciata a New York nel 1957, in cui racconta la propria vita, l'amicizia con Jack Kerouac, Neal Cassady e Carl Salomon, i viaggi, i suoi amori omosessuali, e la genesi dell'opera; e sequenze del processo, in cui l'accusa cerca vanamente di screditare “Urlo”, mettendone in dubbio il valore letterario o artistico e chiamando a testimoniare diversi “esperti” di poesia e letteratura (di fatto, è un processo all'arte stessa e alla possibilità di espressione artistica). In più, ampi stralci del poema sono accompagnati da immagini e sequenze in animazione. Il tutto è molto coinvolgente: il testo di Ginsberg – a un primissimo impatto, una serie di parole assurde o volgari e di versi sconclusionati – sembra via via acquistare sempre più senso e significato, immergendoci in un mondo legato alle esperienze di vita, alla sfera personale e intima (dove il poeta esprime tutti quei sentimenti che prima teneva per sé o che non osava confessare alla famiglia) e naturalmente alla società di quel tempo, fra satira e metafore (come le invettive contro il “Moloch” del consumismo). Si tratta di una vera rivoluzione nella poesia moderna e contemporanea, equivalente a quelle che la pittura aveva vissuto nei decenni precedenti, mostrata nel momento in cui veniva formandosi e di cui siamo oggi ben più consapevoli. Ottimo James Franco nei panni di Ginsberg. Jon Hamm è l'avvocato Jake Ehrlich, Todd Rotondi è Jack Kerouac, Jon Prescott è Neal Cassady.

17 maggio 2019

I figli del fiume giallo (Jia Zhangke, 2018)

I figli del fiume giallo (Jianghu ernu, aka Ash is purest white)
di Jia Zhangke – Cina 2018
con Zhao Tao, Liao Fan
***

Visto al cinema Eliseo.

Nel 2001, a Datong (una città mineraria nella provincia di Shanxi, in crisi da quando il prezzo del carbone è crollato e il governo progetta di chiudere del tutto l'attività estrattiva), Qiao (Zhao Tao) è la ragazza di Bin (Liao Fan), il boss della triade locale. Per difenderlo da un agguato non esita a impugnare una pistola, e finisce così in prigione. Rilasciata dopo cinque anni, scopre che Bin si è trasferito in un'altra regione, ha cambiato vita e ha un'altra donna. Lo ritroverà molti anni più tardi, nel 2018, quando – ormai rimasto solo e malato – sarà lui a cercare lei... Rivisitando i temi già affrontati nei lavori precedenti (la rapida trasformazione della Cina, dove il destino di milioni di persone è influenzato dai progetti di urbanizzazione, dalla crisi economica, dalla costruzione di dighe o di centrali nucleari), Jia firma un lavoro intenso ed elegante, diviso (come già "Al di là delle montagne") in tre diversi periodi storici (2001, 2006 e 2018) durante i quali segue le peripezie della sua protagonista, un'epopea – o forse una parabola – personale (incentrata com'è su due soli personaggi) ma che al tempo stesso riguarda l'intera società cinese al passaggio del millennio. E racconta di un mondo dove i valori e la bellezza del passato vengono progressivamente ridotti in cenere (ma bruciare significa anche purificare, come commenta Qiao e come ci ricorda il titolo internazionale della pellicola, "Ash is purest white"): ecco dunque che nuove bande di giovani delinquenti osano mettere in discussione l'autorità delle triadi, che antiche attività come quella mineraria vengono spazzate via dal progresso e dalle decisioni del governo, che intere città vengano ricoperte dall'acqua, che le zone più arrestrate del paese vengono costrette a forza a modernizzarsi, che per sopravvivere è necessario ricorrere a truffe e furti di ogni tipo. Per non parlare di contraddizioni e coesistenze fra antico e moderno (il socio di Bin che non riesce a vendere le ville perché ritenute infestate dai fantasmi, il medico che pratica medicina tradizionale cinese in una moderna clinica occidentale, il viaggiatore in cerca di extraterrestri). Molto bella la regia, elegante, ariosa e poliedrica, coadiuvata dalla fotografia colorata di Éric Gautier. Da notare anche la colonna sonora, che da nostalgica nel primo segmento (si ode ripetutamente la canzone di Sally Yeh dal film "The killer" di John Woo: lo stesso Bin, insieme ai suoi "fratelli", è mostrato mentre guarda film d'azione come "Tragic Hero" con Chow Yun-fat e Andy Lau) si fa via via più astratta ed elettronica.

16 maggio 2019

Kabei - Our mother (Yoji Yamada, 2008)

Kabei - Our mother (Kabei)
di Yoji Yamada – Giappone 2008
con Sayuri Yoshinaga, Tadanobu Asano
**

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Giappone, primi anni quaranta. Quando il padre (“Tobei”) delle piccole Terumi e Hatsuko, insegnante di tedesco e scrittore dissidente, viene arrestato dalle autorità nazionaliste per aver criticato l'invasione della Cina, è la madre Kayo (“Kabei”) ad allevarle da sole, fra mille difficoltà (la mancanza di denaro e di cibo, un lavoro debilitante, l'ostracismo della società). Ad aiutarla, oltre alle visite occasionali della zia Hisako (Rei Dan), che instillerà in Terumi l'amore per l'arte e il disegno, e del rozzo zio Senkichi (Tsurube Shofukutei), che con la sua semplice schiettezza solleverà il morale di tutti, sarà soprattutto il giovane Yamazaki (Tadanobu Asano), ex studente di Tobei, poi chiamato sotto le armi e destinato a morire in guerra. Da un romanzo autobiografico di Teruyo Nogami (segretaria di produzione di Akira Kurosawa), un racconto episodico che si svolge essenzialmente fra il febbraio 1940 (quando Tobei viene arrestato) e l'inizio del 1942 (quando il padre muore in prigione), a parte alcune scene ambientate subito dopo la guerra e l'amaro controfinale ai giorni nostri, in cui una morente Kayo rifiuta le parole di circostanza che le vengono offerte e dimostra di non aver mai accettato o perdonato l'ingiustizia subita. Tranne quest'ultima scena (la parte migliore del film), però, la pellicola non è mai commovente, i personaggi rimangono figure stereotipate, e ogni spessore e approfondimento è sacrificato a una narrazione “a tema” e di maniera. Yamada affronterà in modo ben più ispirato lo stesso periodo storico, e il tema della guerra vista da “chi è rimasto a casa” (ossia, quasi sempre, vecchi, donne e bambini) nel successivo “The little house”.

15 maggio 2019

Last resort (Paweł Pawlikowski, 2000)

Last resort - Amore senza scampo (Last resort)
di Paweł Pawlikowski – GB 2000
con Dina Korzun, Paddy Considine
**1/2

Visto in divx.

Una giovane madre, Tanya (Dina Korzun), e suo figlio Artyom (Artyom Strelnikov) giungono dalla Russia in Gran Bretagna in cerca di una nuova vita. Ma l'uomo con cui la donna si era fidanzata non si presenta all'aeroporto: i due vengono quindi fermati come immigranti clandestini, trasferiti in una località costiera e alloggiati in uno squallido palazzone, in attesa che la loro richiesta di asilo venga accolta. Qui la ragazza e il bambino stringono una relazione d'affetto e d'amicizia con Alfie (Considine), gestore di un locale di giochi e divertimenti. Fra Ken Loach e i Dardenne, ma con un'ambientazione (il litorale desolato e abbandonato) che ricorda certi film di Garrone (come "L'imbalsamatore" o "Dogman"), un film ben fatto, semplice e coinvolgente, col merito di affrontare il tema dell'immigrazione da un'angolazione originale, con schiettezza e senza particolare retorica. Da ricordare le sequenze in cui Tanya, lei che in patria faceva l'illustratrice di libri per bambini, si lascia tentare per disperazione dall'offerta di recitare come modella in video pornografici per internet, ma anche le scene degli anziani che giocano al bingo, o quelle del ragazzino che bighellona con gli amici occasionali o che rivernicia l'appartamento insieme ad Alfie. Evidente l'impronta est-europea del regista (polacco), anche in un setting britannico. Il titolo ("Ultima risorsa") fa riferimento proprio al resort di divertimenti dove si svolge la storia, che naturalmente d'inverno ha un aspetto tutt'altro che turistico o vacanziero).

13 maggio 2019

Lo specchio (Andrej Tarkovskij, 1975)

Lo specchio (Zerkalo)
di Andrej Tarkovskij – URSS 1975
con Margarita Terechova, Ignat Daniltsev
***

Rivisto in DVD.

Attraverso una serie di sogni e di ricordi, il quarantenne Aleksei (del quale da adulto non vediamo mai il volto, ma udiamo solo la voce: è evidentemente un alter ego di Tarkovskij) rievoca la propria infanzia e in particolare il rapporto con la madre (Margarita Terechova), che dopo la partenza del padre per la seconda guerra mondiale ha cresciuto da sola lui e la sorellina nella cascina di famiglia, una casa di legno in campagna, circondata da campi e da boschi. Da adulto, lo stesso Aleksei ha un figlio, Ignat (Ignat Daniltsev), e la sua ex moglie Natalya ha lo stesso volto della madre nei suoi sogni. Il quarto film di Tarkovskij è il suo lavoro più intimo e personale, e forse anche quello più difficile da raccontare e da decifrare dopo una sola visione (andrebbe rivisto più volte, anche perché se la narrativa non è lineare, visivamente è uno dei più ricchi e belli): una collezione di immagini, reali od oniriche, che rievocano il passato e lo mettono a confronto con il presente, un intricato dedalo di ricordi e di simboli che guardano all'arte (opere e dipinti del rinascimento, in particolare con Leonardo da Vinci che ricorre, la musica di Bach, Pergolesi e Purcell, le citazioni di Dante, Čechov, Puškin e Dostoevskij) e agli elementi della natura: l'acqua (la pioggia, la madre che si lava i capelli), il fuoco (gli incendi del cascinale e del cespuglio), l'aria (il vento che muove la vegetazione, quasi un respiro della natura stessa) e la terra (il fango). Alternando sequenze a colori ad altre in bianco e nero (o color seppia: i colori del passato), filmati di repertorio legati a eventi storici e scene surrealmente ricostruite, il film ripercorre episodi dell'infanzia del protagonista (legati sempre alla madre o, in alcuni casi, al padre che fa un breve ritorno a casa dopo la guerra) alternandoli alle difficoltà del presente. Il risultato è molto suggestivo, per quanto a tratti enigmatico, legato com'è a un vissuto individuale (lo "specchio" del titolo equivale a guardare dentro di sé). E come i ricordi, i volti e i personaggi si confondono (al pari della madre e la moglie, anche Aleksei da giovane è interpretato dallo stesso attore cha fa suo figlio Ignat). Che il film sia autobiografico è reso evidente da parecchi elementi: in casa di Aleksei è visibile un poster di "Andrej Rublev", le poesie recitate dalla voce fuori campo sono scritte dal padre del regista, Arsenij Tarkovskij, mentre nel finale, quando la madre appare con il suo reale volto invecchiato, è interpretata dalla sua vera madre, Marija Višnjakova Tarkovskaja. Per il doppio ruolo di Margarita Terechova, Tarkovskij aveva inizialmente pensato a Bibi Andersson.

12 maggio 2019

Compiti a casa (A. Kiarostami, 1989)

Compiti a casa (Mashgh-e shab)
di Abbas Kiarostami – Iran 1989
con Abbas Kiarostami, Iraj Safavi
***

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Insieme al suo operatore e ad un fonico, il regista Abbas Kiarostami si reca in una scuola elementare per "intervistare" alcuni dei bambini (e anche due genitori) sul tema dei compiti a casa. Che sono troppi, troppo difficili, richiedono tempo (sottratto ai lavori domestici o all'aiuto in casa che i piccoli sono spesso tenuti a dare) e il coinvolgimento attivo di genitori o parenti (molti dei quali illetterati). Per non parlare delle severe punizioni impartite ai figli se i risultati non sono quelli sperati (per i bambini è normale essere picchiati, e molti di loro affermano che faranno lo stesso con i propri figli, quando ne avranno), mentre molto più raramente giungono premi o incoraggiamenti. La pellicola, un vero e proprio documentario nella vena del "Salam cinema" di Mohsen Makhmalbaf, alterna le immagini delle interviste ai bambini (che appaiono timidi, intimoriti quando non proprio spaventati o traumatizzati) a scene della scolaresca che, radunata nel cortile della scuola, recita slogan e inni religiosi. Kiarostami non rilascia commenti, ma dalle domande che fa e dalle risposte che riceve è evidente la sua condanna verso un sistema scolastico che inibisce i piccoli, ne soffoca la creatività, scarica le responsabilità degli insegnanti su di loro o addirittura sulle loro famiglie. E pur nella sua semplicità e schiettezza, il film lascia intravedere sprazzi di poesia (come nel finale, quando lo scolaro più impaurito di tutti recita una preghiera). Kiarostami aveva già abilmente raccontato di bambini e problemi scolastici in numerosi cortometraggi "educativi", oltre che nel classico (di due anni prima) "Dov'è la casa del mio amico?".

10 maggio 2019

I fratelli Sisters (Jacques Audiard, 2018)

I fratelli Sisters (The Sisters Brothers)
di Jacques Audiard – USA/Francia 2018
con John C. Reilly, Joaquin Phoenix
***

Visto al cinema Colosseo.

I fratelli Sisters – il più giovane, impulsivo e violento Charlie (Joaquin Phoenix) e il più maturo, riflessivo e sensibile Eli (John C. Reilly) – sono due bounty killer al servizio del ricco e potente Commodoro, nell'Oregon del 1851, che li utilizza per i lavori più sporchi e per mettere a tacere i suoi nemici. Feroci e spietati, preceduti dalla loro fama di assassini, i due vengono incaricati di rintracciare Warm (Riz Ahmed), un chimico che ha messo a punto una sostanza in grado di rilevare la presenza di oro nei giacimenti fluviali, in fuga insieme all'informatore John Morris (Jake Gyllenhaal). Dal romanzo di Patrick deWitt "Arrivano i Sister", un western d'autore (è il primo film di Audiard in lingua inglese) che gioca con le convenzioni del genere, divertendosi a sovvertirle sia dal lato formale (la fotografia così vivida, la musica dal timbro spiazzante, le sparatorie mostrate attraverso ellissi o fuori campo) che da quello dei contenuti (vedi l'inatteso finale, con la mancata resa dei conti col cattivo, ma anche la struttura a doppio buddy movie, con le due coppie di inseguitori e di inseguiti). Il tutto, vivaddio, prendendo sempre sul serio la materia trattata e senza mai eccedere sul piano post-moderno o parodistico. Personaggi e situazioni sono infatti quelli dei western classici, soltanto leggermente "traslati" o fuori posto: a partire dai due protagonisti, che in altre pellicole non sarebbero che personaggi minori, cioè gli sgherri del cattivo, e che qui invece (soprattutto nel caso del fratello maggiore, interpretato da un ottimo Reilly) vengono portati in primo piano, indagati nel profondo, mostrati nelle loro più intime debolezze (le insospettabili tenerezze di uno spietato sicario che si lava i denti o conserva lo scialle di una donna amata) o nelle incomprensioni del rapporto familiare (evidenziato già dal titolo: "Siamo i fratelli Sisters. Sisters come sorelle"), lasciati in preda ai dubbi o ai rimorsi e infine, in qualche modo, ricompensati con un finale sereno. Rutger Hauer è il Commodoro, nell'unica breve scena in cui appare. Premio per la regia a Cannes.

9 maggio 2019

Una donna in gabbia (R. Walsh, 1937)

Una donna in gabbia (Hitting a New High)
di Raoul Walsh – USA 1937
con Lily Pons, Edward Everett Horton, Jack Oakie
**

Visto in TV.

Per convincere il ricco e bizzoso mecenate Lucius Blynn (Edward Everett Horton) a scritturarla, la cantante Suzette (Lily Pons) finge di essere una selvatica "donna uccello", riverita dagli indigeni africani, facendosi catturare dallo stesso Blynn durante un safari con la complicità del suo agente di pubblicità, lo scaltro Corny Davis (Jack Oakie). Condotta a New York per essere esibita davanti ai microfoni e in teatro, la ragazza avrà però il suo gran da fare nel gestire una doppia identità: quella appunto di Ooga-hunga, la donna uccello che Blynn vuole trasformare in una grande cantante d'opera, e quella di Suzette, stella dell'orchestra jazz diretta dal suo fidanzato (e in questa veste "scoperta" da un rivale di Blynn, il direttore del teatro locale). Buffa commedia degli equivoci costruita su una trovata francamente assurda, ma che si dipana in modo divertente, grazie soprattutto alla verve comica dei due protagonisti maschili (Horton e Oakie). La Pons era un celebre soprano di coloratura dell'epoca: questo è il terzo di tre film che girò per la RKO. Oltre alle canzoni "Let's Give Love Another Chance", "I Hit a New High" e "This Never Happened Before", canta brani da Mignon ("Je suis Titania") e Lucia di Lammermoor (la scena della pazzia).

8 maggio 2019

Tutta una vita (Claude Lelouch, 1974)

Tutta una vita (Toute une vie)
di Claude Lelouch – Francia/Italia 1974
con Marthe Keller, André Dussollier
**1/2

Visto in TV.

"Farò un film sul ventesimo secolo. Un film che inizierà nel 1900 con l'invenzione del cinema e finirà nel 2000 con l'invenzione della felicità. Mescolerò tutti gli argomenti, tutti gli stili... Sarà un film di tre ore per un solo secondo d'amore. Sarà l'anatomia di un colpo di fulmine. E per spiegarlo, andrò indietro di tre generazioni". Così esclama Simon (André Dussollier), praticamente l'alter ego di Lelouch nel suo stesso film: una dichiarazione programmatica forse troppo ambiziosa, anche perché poi la pellicola dura solo due ore (almeno la versione italiana: quella originale aveva mezz'ora in più), termina nel 1974 e non nel 2000 (ma vedi sotto), e gli stili non è che ci siano proprio tutti (anche se si comincia con didascalie scritte e toni di seppia, come nel cinema muto, per passare progressivamente al sonoro e ai colori). Parzialmente autobiografico, complesso e accattivante, il film segue le vite parallele di Simon, appunto, e di Sarah (Marthe Keller), cominciando dal primo incontro dei nonni di lei, proseguendo con frammenti della vita dei genitori, fino a terminare con il loro tanto atteso incontro, attraversando nel contempo tutti i grandi eventi storici (e di costume) del ventesimo secolo. Giovane ladruncolo il primo, che in prigione comincia ad appassionarsi di fotografia per diventare infine regista di film d'autore (passando attraverso il porno e la pubblicità); ricca rampolla di un industriale ebreo (ed ex deportato) la seconda, che cerca continuamente l'amore senza successo, all'inizio viziata e annoiata, poi sempre più consapevole (anche dei conflitti di classe) ma perpetuamente irrequieta. Con un montaggio che comprende spezzoni e documenti d'epoca, e un ampio ricorso ai piani sequenza, il lungometraggio accatasta episodi e situazioni senza pausa, con una marea di personaggi collaterali, fino a una conclusione preannunciata da tempo e che forse per questo rischia di deludere un po' (ma l'immagine delle valigie di lui e di lei affiancate sul nastro trasportatore dell'aeroporto è molto efficace). Nella versione francese era compresa anche una sequenza "futuristica" (raccontata da Simon), eliminata negli altri paesi. In ogni caso, il regista dimostra di trovarsi bene nel dipingere affreschi storico-generazionali a sfondo romantico, come poi farà (in maniera persino più compiuta) anche in "Bolero". Marthe Keller, oltre a Sarah, ne interpreta anche la madre e la nonna materna. Il cast comprende inoltre Charles Denner (il padre di Sarah), Carla Gravina (l'amica lesbica), Charles Gérard e Judith Magre. Il cantante Gilbert Bécaud (che canta "Et maintenant") compare nella parte di sé stesso. Per la versione internazionale, Lelouch ha rigirato tutte le scene in inglese anziché in francese.

6 maggio 2019

Camera con vista (James Ivory, 1985)

Camera con vista (A room with a view)
di James Ivory – GB 1985
con Helena Bonham Carter, Maggie Smith
***1/2

Rivisto in divx.

La giovane inglese Lucy Honeychurch (Helena Bonham Carter) è in vacanza a Firenze insieme all'anziana cugina Charlotte (Maggie Smith) nei primi anni del Novecento. Desiderando una "camera con vista" sull'Arno, le due accettano di scambiare stanza con gli Emerson, padre (Denholm Elliott) e figlio (Julian Sands). Quest'ultimo, George, approfittando dell'atmosfera italiana e di un'opportunità, bacia Lucy. Tornata in patria, la ragazza cerca di dimenticare l'accaduto e organizza le proprie nozze con il compassato Cecilio (Daniel Day-Lewis): ma quando George si trasferirà ad abitare in una villetta vicina alla sua, la passione tornerà segretamente a riaffiorare... Primo di tre film di Ivory tratti da romanzi di E. M. Forster (gli altri saranno "Maurice" e "Casa Howard"), tutti di grande successo: è un delicato, raffinato ed elegante racconto sentimentale che, nemmeno tanto fra le righe, ironizza sulle ipocrisie delle classe agiate inglesi, così flemmatiche e manieristiche, attente alle apparenze, abituate a nascondere le proprie emozioni dietro le formalità e le cortesie, a controllare e reprimere i sentimenti, a mentire agli altri e a sé stessi. Ambientato per la prima metà in Italia (a Firenze, appunto, e dintorni: una destinazione tipica già allora per i turisti britannici nei loro viaggi all'estero in cerca di avventura, arte e "autenticità") e per la seconda metà nella campagna del Surrey, il film può vantare un cast davvero stellare: oltre all'eccellente Bonham Carter – allora soltanto diciannovenne – nei panni di una ragazza che dietro l'aspetto modesto e da bambolina nasconde una forte passione repressa (che esprime soltanto quando suona Beethoven al pianoforte), all'esilarante Maggie Smith, e ai già citati Sands, Day-Lewis ed Elliott, ci sono anche Judi Dench (la scrittrice di romanzi rosa), Simon Callow (il parroco), Rosemary Leach (la madre) e Rupert Graves (il fratello Freddy). Fra le scene più memorabili va ricordato il bagno di Freddy, George e del parroco, nudi nello stagno. Sui titoli di testa si sente "O mio babbino caro" di Giacomo Puccini. La sceneggiatura di Ruth Prawer Jhabvala, collaboratrice abituale di Ivory e del produttore Ismail Merchant, conserva la divisione in capitoli (indicati con titoletti) del romanzo originale. Candidato a otto premi Oscar (fra cui miglior film), ne vinse tre (sceneggiatura non originale, scenografie e costumi).

5 maggio 2019

The gift (Sam Raimi, 2000)

The Gift (id.)
di Sam Raimi – USA 2000
con Cate Blanchett, Keanu Reeves
**1/2

Rivisto in TV.

Annie Wilson (Cate Blanchett), giovane vedova che abita con i suoi tre bambini in una cittadina rurale nel profondo sud degli Stati Uniti, ha il "dono" di essere una sensitiva, e si guadagna da vivere leggendo le carte e facendo previsioni agli abitanti del villaggio. Quando una ragazza, figlia di un ricco imprenditore, svanisce misteriosamente, è proprio una sua visione a dirigere la polizia sulla giusta traccia: il corpo viene infatti ritrovato in uno stagno, nella proprietà di Donnie (Keanu Reeves), marito violento e razzista che in precedenza aveva minacciato di morte la stessa Annie. Donnie è incriminato e condannato, ma proprio Annie comincia a dubitare della sua colpevolezza, quando nuove visioni le suggeriscono di chiedere di riaprire il caso... Scritto da Billy Bob Thornton e Tom Epperson, un thriller soprannaturale che può vantare una discreta atmosfera e un cast davvero interessante: oltre all'ottima Blanchett e ad un Reeves sopra le righe, ci sono Giovanni Ribisi (Buddy, il meccanico vittima di abusi e con problemi psichiatrici), Katie Holmes (Jessica, la ragazza uccisa), Greg Kinnear (Wayne, il preside della scuola, fidanzato di Jessica), Hilary Swank (Valerie, la moglie di Donnie), Gary Cole (il procuratore) e J.K. Simmons (lo sceriffo scettico). Certo, qualche personaggio è un po' stereotipato o tagliato con l'accetta, e la risoluzione finale non sorprende più di tanto, ma la tensione non manca e la regia di Raimi riesce a costruire una bella ambientazione di provincia ricca di tensioni e inquietudini.

4 maggio 2019

4 mosche di velluto grigio (D. Argento, 1971)

4 mosche di velluto grigio
di Dario Argento – Italia/Francia 1971
con Michael Brandon, Mimsy Farmer
**

Visto in divx.

Il musicista rock Roberto Tobias (Brandon) uccide un uomo senza volerlo – o almeno così crede – e inizia ad essere preso di mira e ricattato da qualcuno che ha fotografato tutto. Terzo capitolo, cupo e claustrofobico, della cosiddetta "trilogia degli animali" di Dario Argento, costruito su un canovaccio simile ai due lavori precedenti: un misterioso assassino seriale e psicopatico (la cui identità viene svelata solo nel finale), un'ambientazione urbana e quotidiana, la ricerca del gimmick, un protagonista senza particolari qualità, comprimari eccentrici e dalla caratterizzazione macchiettistica. Ma il cinema del regista comincia a tingersi di horror, e a farsi sempre più espressionistico: significativo l'omaggio a Fritz Lang, che dà il nome alla strada (fittizia) dove abita Roberto con la moglie Nina (Farmer), mentre la "Città" in cui risiede è un misto di Torino, Roma, Milano (la metropolitana), Spoleto (il teatro) e Tivoli (il parco). Compaiono anche i primi elementi soprannaturali, sotto forma dell'incubo ricorrente con la decapitazione in una piazza araba. Straniante vedere Bud Spencer in un ruolo "serio", quello di Dio(mede), il barbone consigliere. Jean-Pierre Marielle è Arrosio, l'investigatore gay. Francine Racette è Dalia, cugina di Nina e amante di Roberto, nella cui retina rimane impressa l'ultima immagine vista prima di essere uccisa, ovvero le quattro mosche del titolo, che porteranno all'identificazione dell'assassino. Nel cast anche Stefano Satta Flores, Marisa Fabbri, Oreste Lionello e Calisto Calisti. È rimasta celebre la sequenza finale, girata a 18.000 frame per secondo. Musica di Ennio Morricone, già autore di quella dei due film precedenti, ma che litigò con Argento e non lavorò più con lui fino al 1996 ("La sindrome di Stendhal"). Inizialmente il regista avrebbe voluto scritturare i Deep Purple, ma dovette rinunciarvi per questioni legate ai finanziamenti pubblici.

2 maggio 2019

Avengers: Endgame (A. e J. Russo, 2019)

Avengers: Endgame (id.)
di Anthony e Joe Russo – USA 2019
con Robert Downey Jr., Chris Evans
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Visto al cinema Colosseo.

Nel precedente "Avengers: Infinity War" (di cui questo film è il seguito diretto), il folle extraterrestre Thanos aveva usato il potere delle sei gemme dell'infinito per spazzare via (con uno schiocco di dita!) metà degli esseri viventi di tutto l'universo. Fra questi, anche tantissimi supereroi (in particolare Spider-Man, il Dottor Strange, Black Panther, Falcon, Bucky, Scarlet, Wasp, Nick Fury e tutti i Guardiani della Galassia tranne Rocket), nonché molti loro amici e familiari. I Vendicatori rimasti (Iron Man, "recuperato" nello spazio da Captain Marvel, oltre a Thor, Cap, Hulk e War Machine, con l'aggiunta di Nebula e Rocket) partono al contrattacco, ma la loro è una vittoria di Pirro: Thanos, ormai raggiunto il proprio scopo e ritiratosi "in pensione" su un lontano pianeta, si lascia uccidere senza opporre resistenza, consapevole che ciò che ha fatto non potrà più essere cancellato (l'ultimo suo atto con le sei gemme è stato quello di distruggerle). Tutto finito? No: cinque anni più tardi, Scott Lang fa ritorno dal regno quantico in cui lo avevamo lasciato alla fine di "Ant-Man and the Wasp" con una sconvolgente intuizione: le particelle Pym, le stesse che gli permettono di mutare le proprie dimensioni, potrebbero potenzialmente consentire di viaggiare nel tempo, e dunque di tornare nel passato per impadronirsi delle sei gemme. Non per cambiare il corso degli eventi (che – ci viene spiegato – non possono essere alterati) ma per riportare in vita tutti coloro che sono scomparsi. Ma nel frattempo gli eroi superstiti sono molto cambiati: se alcuni (Captain America, Vedova Nera, War Machine, Rocket, Nebula e un'ormai distante Captain Marvel) continuano la propria missione come sempre, altri si sono ritirati a vita privata. Tony Stark/Iron Man si è sposato con Pepper Potts ed è padre di una figlia); Bruce Banner/Hulk ha imparato a "fondere" le sue due personalità, dominando con il proprio cervello la parte più selvaggia (come nelle storie a fumetti scritte da Peter David); Thor si è lasciato andare alla depressione, e trascorre le giornate a bere birra e a guardare la tv (con tanto di panza!); e Clint Barton/Hawkeye è diventato un sanguinario vendicatore. Ma la possibilità di rimettere le cose a posto fa riunire il gruppo, che, suddiviso poi in vari team, torna indietro nel tempo a recuperare le diverse gemme, rivisitando luoghi e scenari visti nelle precedenti pellicole (la New York del 2012, durante "The Avengers"; l'Asgard del 2013, durante "Thor: The Dark World"; e il pianeta Morag del 2014, durante "Guardians of the Galaxy"). Come in "Ritorno al futuro", citato esplicitamente, i nostri eroi agiranno "dietro le quinte" degli eventi già narrati, e qualcuno dovrà affrontare sé stesso. C'è anche spazio per una capatina nel 1970, che dà a Tony l'opportunità di incontrare suo padre Howard. La missione ha successo, ma con un indesiderato effetto collaterale: anche il Thanos del 2014 giunge nel presente, deciso a sottrarre le gemme agli eroi, questa volta per distruggere l'universo del tutto (e poi ricostruirlo da zero). Ne consegue una battaglia finale cui partecipano davvero tutti, anche i personaggi scomparsi ed ora redivivi: uno scontro campale che si conclude vittoriosamente soltanto grazie ad un estremo sacrificio...

"Questa è la battaglia della nostra vita", dice Steve Rogers/Cap ai compagni. E infatti il quarto film degli Avengers nonché il ventiduesimo film dell'Universo Cinematico Marvel (MCU) è il punto d'arrivo cui tendevano tutti i precedenti, gran finale di una "saga" (quella delle gemme dell'infinito, appunto) durata oltre dieci anni e iniziata con il primo "Iron Man" nel 2008. Non a caso nel finale – insieme a tantissimi personaggi e comprimari apparsi nelle altre pellicole – rivediamo proprio il regista di quel film, Jon Favreau, nei panni dell'autista e amico di Tony Stark, Happy Hogan. Kolossal epico, monumento all'immaginario fantastico dell'ultimo decennio, campione d'incassi in tutto il mondo (ha superato persino "Avatar"!), atteso dai fan con trepidazione da un anno esatto (ovvero dal cliffhanger del precedente capitolo), il lungometraggio non delude di certo: le sue tre ore di durata (record per un film Marvel, giustificate anche dalla moltitudine di personaggi da giostrare e degli eventi di cui tirare le fila) sono assolutamente ben spese, senza mai provare la sensazione che gli sceneggiatori vogliano allungare il brodo. La prima parte, anzi, quella con i supereroi che devono affrontare le rispettive perdite, è a tratti toccante e coinvolgente, superando tutti i limiti dei film anteriori, a volte troppo fracassoni o di puro entertainment. Questo, a parte appunto la battaglia finale (comunque epica e spettacolare, entusiasmante soprattutto per chi ha visto tutti i capitoli precedenti), è invece più character-driven, e scava nelle psicologie dei vari eroi (con particolare attenzione per quelli che sono sempre stati le colonne portanti del MCU, ovvero Tony Stark e Steve Rogers), mostrandone le debolezze e sottolineandone le differenze (come la cialtroneria e i lati comici dei vari Thor, Ant-Man e Star-Lord). Spazio ridotto, invece, per il cattivo Thanos, più monodimensionale e stereotipato rispetto a "Infinity War". Grazie ai viaggi nel tempo, rivediamo anche molti personaggi e volti del passato, come Frigga, Loki, l'Antico. E ritornano, fra gli altri, la Valchiria, Okoye e Wong. Non tutti sono propriamente o formalmente reintrodotti, e dunque uno spettatore che si avvicinasse a questo film senza aver visto gran parte delle pellicole precedenti (o senza ricordarne ogni particolare) rischia di trovarsi spesso spiazzato, anche perché gli stessi protagonisti usano talvolta il nome proprio e talvolta quello di battaglia. Il lungometraggio, tuttavia, è decisamente ben equilibrato fra esigenze di trama, di approfondimento, di spettacolo e le immancabili strizzatine d'occhio per i fan dei comics (Cap che dice "Hail Hydra" o che solleva il martello di Thor, la figlia di Tony che si chiama Morgan, Clint armato di spada nei panni del Ronin: tutti riferimenti più o meno occulti a celebri storie a fumetti) o degli stessi film del MCU ("Io sono Iron Man"). E ci offre quella che è probabilmente l'ultima apparizione sullo schermo di Stan Lee, il creatore di quasi tutti questi personaggi (scomparso pochi mesi fa), in un cameo (insieme alla moglie) nei panni di un contestatore che sfreccia in auto davanti alla base militare negli anni '70).

Un punto d'arrivo, dicevamo: con "Endgame" (titolo traducibile con "finale di partita", dal gergo degli scacchi e di alcuni sport) si chiude un ciclo di ventidue film, e diamo l'addio ad alcuni personaggi (o meglio, a questa particolare incarnazione). Nell'Universo Marvel (fumettistico o cinematografico, non importa), lo sappiamo bene, la morte non è mai definitiva. L'impressione è che si sia voluto sfruttare l'occasione per mettere la parola fine alla collaborazione con alcuni attori che da un lato stanno invecchiando e dall'altro sono diventati ormai troppo costosi per una franchise che ha scoperto di poter riscuotere incassi record al box office anche con interpreti meno noti o alle prime armi (il nuovo Spider-Man docet). Addio, dunque, a Robert Downey Jr., a Chris Evans e (forse) a Scarlett Johansson: se mai rivedremo sul grande schermo Iron Man, Cap e la Vedova Nera (e non ci sono molti dubbi a proposito!), si tratterà di nuove versioni, magari più giovani e "aggiornate". D'altronde il tintinnio sul finire dei titoli di coda (niente scena post-credit, per la prima volta!) suggerisce che un nuovo Iron Man sia già in costruzione da qualche parte. Cap ha già individuato in Sam Wilson il proprio successore, e forse tornerà anche la Visione (in fondo Gamora è già tornata, col trucco: la sua versione del 2014 ha preso il posto nei Guardiani della Galassia di quella defunta). E presto, nelle successive "fasi" del MCU, all'ensemble dovrebbero unirsi anche tutti quei personaggi (come gli X-Men e i Fantastici Quattro) i cui diritti erano della 20th Century Fox, acquisita recentemente dalla Disney. Forse il futuro del Marvel Universe sarà meno Avengers-centrico e più basato su pellicole stand-alone (come consiglierebbe il successo di "Black Panther"), e la cosa non mi dispiacerebbe (la sensazione di assistere ad episodi di un telefilm è sempre stato l'aspetto che ho gradito meno di questi film), ma dubito che si rinuncerà del tutto a fidelizzare i fan con la continuity, croce e delizia nonché caratteristica fondante anche dei comics. Salutano il MCU (almeno temporaneamente) anche i fratelli Anthony e Joe Russo, registi mestieranti senza infamia e senza lode (comunque meglio loro di Joss Whedon): i meriti del film stanno tutti nella sceneggiatura (qualche buco logico a parte), nella recitazione e negli effetti speciali, ingredienti dosati a livello superiore rispetto ai precedenti capitoli. Ma il valore maggiore sta proprio nel costituire un degno finale di una saga lunghissima, nel portare a termine estese sottotrame e percorsi individuali senza tradire le aspettative (a vari livelli) e, cosa non da poco, senza annoiare, anzi coinvolgendo e a tratti divertendo parecchio. Meritato "l'onore della firma" per i principali interpreti sui titoli finali. Ah, un ultimo appunto semi-ironico (ma non troppo): mezzo punto in più per aver menzionato, in mezzo a tanti celebri film sui viaggi nel tempo, il semisconosciuto – e inedito in Italia – ma mio personal cult "Bill & Ted's Excellent Adventure" (di cui proprio la Marvel pubblicò un adattamento a fumetti).