30 aprile 2019

Tardo autunno (Yasujiro Ozu, 1960)

Tardo autunno (Akibiyori)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1960
con Yoko Tsukasa, Setsuko Hara
***1/2

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Mamiya (Shin Saburi), Taguchi (Nobuo Nakamura) e Hirayama (Ryuji Kita), tre uomini di mezza età, si mettono in testa di trovare un buon marito ad Ayako (Yoko Tsukasa), figlia ventiquattrenne del loro defunto amico Miwa, della cui vedova Akiko (Setsuko Hara) erano tutti – e lo sono ancora – innamorati. La scelta ricade su Goto (Keiji Sada), un giovane promettente che lavora nella stessa ditta di Mamiya. Ma la ragazza, pur chiaramente attratta da lui, fa capire di non essere interessata al matrimonio per non lasciare da sola la madre. Allora i tre, stavolta con la complicità di Yuriko (Mariko Okada), agguerrita amica di Ayako, decidono di trovare prima uno sposo anche per Akiko... Il terzultimo film di Ozu (sceneggiato con il fido Kogo Noda da un soggetto di Satomi Ton) è praticamente un remake a colori di "Tarda primavera", nel quale Setsuko Hara (qui la madre) interpretava la figlia. Molti dei suoi temi saranno poi riproposti due anni più tardi nell'ultimo film del regista, "Il gusto del sakè". Rispetto al lungometraggio originale, i toni sono assai più distesi e a tratti quasi da commedia, soprattutto quando sono in scena i tre anziani amici con le loro dinamiche, gli scherzi e i battibecchi (fra di loro e anche con le rispettive mogli). Ma dietro l'apparenza leggera e le schermaglie, la pellicola affronta questioni ben profonde e in particolare ironizza sulle nuove generazioni e il loro modo più "diretto" di gestire l'amore e i sentimenti: significativi anche i pur brevi momenti in cui i tre uomini interagiscono con i rispettivi figli, e naturalmente la scena dell'incontro con Yuriko. L'ostinazione di Ayako a non sposarsi, oltre che richiamare quella di Noriko in "Tarda primavera", si può leggere come una paura dell'età adulta (Yuriko la accusa infatti di essere "infantile") e del cambiamento di vita simboleggiato dal treno che passa davanti al palazzo in cui lavora e che porta via la collega che si è appena sposata. Certo, c'è poco o nulla di nuovo rispetto ai lavori precedenti (dei quali può essere considerato un compendio), ma la regia e la messa in scena hanno ormai raggiunto livelli di assoluta perfezione, nel loro apparente immobilismo, nelle alternanze di campo e controcampo, nel montaggio con le brevi inquadrature degli ambienti (curiosità: sia la casa di Akiko e Ayako, sia l'ufficio di Mamiya – ovvero i due luoghi cardine della storia, assieme ai vari localini e ristorantini serali – si presentano con gli stessi colori azzurro/acquamarina nelle porte, negli infissi e nei corridoi esterni). Ed è molto bello rivedere tutto l'ensemble degli attori caratteristici di Ozu (anche Chishu Ryu, che in "Tarda primavera" era il padre, compare brevemente nel ruolo dello zio di campagna).

29 aprile 2019

Promised land (Gus Van Sant, 2012)

Promised Land (id.)
di Gus Van Sant – USA 2012
con Matt Damon, John Krasinski
**

Visto in TV.

Steve (Matt Damon), dirigente di una compagnia che effettua trivellazioni per estrarre gas naturale, giunge in una cittadina rurale con l'obiettivo di convincere gli abitanti a acconsentire allo sfruttamento dei loro terreni. Inizialmente sembra avere vita facile, dato lo stato di crisi economica in cui si trovano gli agricoltori: ma poi dovrà vedersela con Dustin (John Krasinski), un giovane e agguerrito rappresentante di un'organizzazione ambientalista, che inizia a mettere in guardia gli abitanti dai pericoli connessi. Il tema è quello della fratturazione idraulica, tecnica estrattiva con forti rischi ambientali, e il film cerca di mostrare il conflitto fra gli interessi delle multinazionali e quelli delle comunità che su quei terreni ci vivono (magari da molte generazioni), attraverso lo scontro fra due tipi di retorica, impersonati dai due contendenti. Ma nonostante la regia competente di Van Sant e il buon cast (ci sono anche Frances McDormand, Hal Holbrook e Rosemarie DeWitt), la pellicola non riesce davvero a "respirare", e la sceneggiatura si basa solo sul colpo di scena finale, con l'inevitabile (ma anche implausibile) scambio di ruolo dei due protagonisti. Un altro tema affrontato è quello della manipolazione e del controllo della coscienza ambientalista di una comunità (in effetti gli agricoltori e gli abitanti della cittadina, tranne pochissime eccezioni, sono presentati praticamente senza una voce propria o delle idee in merito, e seguono di volta in volta come banderuole le direzioni di Steve o di Dustin, che cercano di portarli dalla propria parte mostrandosi amichevoli, affabili e comprensivi). Damon e Krasinski sono anche sceneggiatori (il soggetto è di Dave Eggers). Curiosità: il film è stato co-finanziato da una casa di produzione legata al governo di Abu Dhabi, accusato di aver voluto in questo modo "sabotare" l'industria estrattiva americana (sua concorrente).

28 aprile 2019

My heart is that eternal rose (P. Tam, 1989)

My heart is that eternal rose (Sha shou hu die meng)
di Patrick Tam – Hong Kong 1989
con Kenny Bee, Joey Wong, Tony Leung Chiu-wai
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Per aver fatto uno sgarbo a un potente gangster cinese, il giovane Rick (Kenny Bee) è costretto a lasciare Hong Kong e rifugiarsi nelle Filippine. Sei anni dopo, diventato un killer, tornerà per portare a termine un contratto. E scoprirà che la donna che ha sempre amato, Lap (Joey Wong), non l'aveva tradito come gli aveva fatto credere, ma era stata costretta a diventare l'amante del boss Shen (Chan Wai-man) pur di salvare la vita al proprio padre. I due progettano di fuggire insieme, ma ci rinunceranno per salvare l'amico Cheung (Tony Leung Chiu-wai), che li ha aiutati, dalla vendetta di Shen. Il capolavoro di Tam, mentore di Wong Kar-wai, è uno struggente melodramma a sfondo gangsteristico caratterizzato da lenti movimenti di macchina, dalla fotografia colorata e avvolgente di Christopher Doyle (che ricorda il cinema di Fassbinder) e da una bella colonna sonora (con il tema cantato dalla Wong): forse gli mancano situazioni o personaggi iconici come i contemporanei film di John Woo o dello stesso Wong Kar-wai, ma va considerato a pieno diritto come uno dei film più interessanti della new wave del cinema hongkonghese di fine anni '80 e inizio anni '90 e del filone dell'heroic bloodshed (si pensi alla violenta sparatoria nel finale, con un montaggio alla Peckinpah, in cui Rick che rimane in piedi e continua a sparare anche se già trafitto di colpi). In effetti, ha molti temi in comune con il più celebre (in occidente) "A better tomorrow": l'amicizia, il sacrificio, l'impossibilità di ricostruirsi una vita ("I tempi passati non possono più tornare", dice Lap a Rick); e in più ci aggiunge l'amore, rendendo il personaggio femminile l'autentico protagonista della vicenda (mentre i due maschili si danno quasi il cambio sotto i riflettori: all'inizio c'è Kenny Bee, ma alla distanza – anche per la maggior espressività come interprete – esce Tony Leung). Il titolo internazionale (quello originale significa "L'illusione di un killer") è una frase di Antonin Artaud. Nel cast anche Gordon Liu (lo sgherro "cattivo" di Shen) e Ng Man-tat (il poliziotto corrotto).

27 aprile 2019

Brutti e cattivi (Cosimo Gomez, 2017)

Brutti e cattivi
di Cosimo Gomez – Italia 2017
con Claudio Santamaria, Sara Serraiocco
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Il "Papero" (Santamaria), mendicante senza gambe, organizza una rapina in banca insieme a un gruppo di altri freaks: la moglie priva di braccia, detta la "Ballerina" (Sara Serraiocco), un nano scassinatore (Simoncino Martucci), e un tossicodipendente (Marco D'Amore). Ma una volta fatto il colpo, fra i membri del gruppo scattano tradimenti incrociati per tenersi il bottino, che fa gola anche a un falso prete nigeriano (Narcisse Mame), a una prostituta (Aline Belibi) e alla mafia cinese. Ambientato fra Roma e Ostia, un bizzarro mix fra commedia politicamente scorretta (all'insegna di un cattivo gusto soltanto però di facciata) e action gangsteristico, forse ispirato ai primi film di Guy Ritchie: ma i troppi colpi di scena, molti dei quali nemmeno giustificati dalle premesse, rovinano l'impasto, e il mood scivola spesso nell'innocua parodia o nella farsa fine a sé stessa, impedendo che personaggi e situazioni comunichino davvero qualcosa allo spettatore. Il regista, all'esordio, è uno scenografo che lavora da vent'anni in tv e al cinema.

26 aprile 2019

Sole rosso (Terence Young, 1971)

Sole rosso (Soleil rouge)
di Terence Young – Italia/Francia/Spagna 1971
con Charles Bronson, Toshiro Mifune
**

Rivisto in TV.

Per recuperare una preziosa spada, dono dell'imperatore del Giappone al presidente degli Stati Uniti, il samurai Kuroda (Mifune) si allea con il bandito Link (Bronson), tradito dai suoi stessi complici e in cerca di vendetta. Un samurai nel Far West? È questa la caratteristica più insolita di questo western di produzione internazionale e con un cast davvero sui generis, che mette insieme il protagonista di tanti film di Akira Kurosawa con uno degli attori de "I magnifici sette", che era un remake proprio di un film dell'Imperatore, "I sette samurai". Aggiungiamoci poi Alain Delon nei panni del "cattivo" Gauche, e Ursula Andress in quelli della sua donna, e il piatto è servito. Interessante la collocazione storica: il film si svolge nel 1870, soltanto pochi anni dopo la restaurazione imperiale e la riapertura del Giappone al mondo, e proprio quando la casta dei samurai volgeva ormai al declino (cosa di cui Kuroda, rimasto fedele al codice del Bushido, è perfettamente consapevole). Peccato che da tutta questa commistione nasca una trama non particolarmente originale e senza troppe pretese, e che, nonostante il tono scanzonato (vedi i battibecchi fra i due protagonisti, così diversi per carattere e personalità, che pure con il tempo diventano amici e imparano a conoscersi e a rispettarsi, come nel più tipico dei buddy movie), si viaggi sul filo degli stereotipi (basti pensare al personaggio interpretato dalla Andress, o ai Comanche che attaccano nel finale). Non aiuta la regia piuttosto scolastica di Young. Musica di Maurice Jarre. Nel cast anche Capucine (una prostituta) e Luc Merenda (uno dei banditi).

25 aprile 2019

Nelly e Mr. Arnaud (C. Sautet, 1995)

Nelly e Mr. Arnaud (Nelly et Monsieur Arnaud)
di Claude Sautet – Francia 1995
con Emmanuelle Béart, Michel Serrault
***

Visto in TV.

La giovane Nelly (una splendida Béart) ha lasciato il marito indolente e cerca lavoro. L'anziano e facoltoso Pierre Arnaud (un compassato Serrault), giudice in pensione, sta per traslocare e vorrebbe scrivere un libro di memorie. L'incontro e l'amicizia fra i due, con l'uomo che assume la ragazza per ribattere al computer il suo manoscritto, li aiuterà a rimettere in moto le rispettive vite. Un film delicato ed esistenziale, uno scavo psicologico nella rete di dubbi, fragilità, emozioni e sentimenti in cui sono intrappolati i personaggi, prigionieri della solitudine e di sentimenti inespressi. Nelly e Monsieur Arnaud sono, all'apparenza, antitetici: giovane lei e vecchio lui, la prima è proiettata verso un futuro incerto e pieno di dubbi (del suo passato, cognome compreso, non veniamo invece a sapere nulla), mentre il secondo vive soltanto di ciò che si è messo alle spalle (un matrimonio fallito, figli con cui non va d'accordo, le "avventurose" esperienze da magistrato nelle colonie francesi d'oltremare su cui vuole scrivere il suo libro). Eppure si comprendono alla perfezione, lui con la sua capacità di osservatore e il suo ruolo di confidente, lei con i suoi silenzi (sintomo di profonda irrequietezza) e la sua sensibilità. Ne nasce una relazione di amicizia che nasconde in fondo "una storia d'amore incompiuta, dove il sentimento e il rispetto reciproco prevalgono su tutto", e che Sautet racconta a sua volta con realismo: anziché spiattellare in scena tutto e subito, si rifugia nel non detto, nelle ellissi, negli accenni, e nei tempi lenti. Jean-Hugues Anglade è il giovane editore che deve pubblicare il libro di Arnaud e che si innamora di Nelly. Michael Lonsdale è il misterioso amico di Pierre. È l'ultimo film di Sautet: la Béart aveva già recitato per lui nel precedente "Un cuore in inverno".

24 aprile 2019

Tempo di viaggio (T. Guerra, A. Tarkovskij, 1982)

Tempo di viaggio
di Tonino Guerra, Andrej Tarkovskij – Italia 1982
con Tonino Guerra, Andrej Tarkovskij
**1/2

Visto su YouTube.

In cerca di location e di ispirazione per girare "Nostalghia" (il suo primo film fuori dall'Unione Sovietica), il regista Andrej Tarkovskij viene condotto dallo sceneggiatore Tonino Guerra in giro per l'Italia. I due ammirano le bellezze architettoniche, parlano di cinema e di poesia, mettono a confronto le rispettive filosofie. Documentario assai interessante, non solo per la sua natura di "dietro le quinte" o per come mostra la genesi di "Nostalghia", appunto (si vedono Bagno Vignoni e la "Madonna del parto" di Monterchi, che affascinano subito il regista russo, poco convinto invece dall'eccessiva bellezza, "troppo turistica", della costiera amalfitana o del barocco leccese), ma anche perché ci mostra Tarkovskij in un momento particolare della sua vita: reduce da problemi di salute, aveva ottenuto dal governo sovietico l'autorizzazione a recarsi in Italia ma senza la sua famiglia, rimasta a Mosca. E in effetti sembra sempre un po' pensieroso e vulnerabile, un pesce fuor d'acqua, quasi "trascinato" controvoglia dall'affabile Guerra a vedere le meraviglie dell'Italia. "Mi sento in vacanza, non ci sono abituato", dice. Interessanti sono comunque i momenti in cui racconta il suo rapporto con il cinema, la sua idiosincrasia verso i film di genere (che trova limitanti: anche quando ha girato pellicole di fantascienza, ha sempre cercato di trascendere il genere), alcuni soggetti e progetti mai realizzati, e la sua ammirazione per registi come Dovženko, Bresson, Antonioni, Fellini, Mizoguchi, Vigo, Paradžanov e Bergman. Quanto a Tonino Guerra, oltre a fare da guida e anfitrione e ad ospitare l'amico a casa sua (ma ognuno parla la propria lingua), legge alcune sue poesie in dialetto romagnolo.

22 aprile 2019

Forza maggiore (Ruben Östlund, 2014)

Forza maggiore (Turist, aka Force majeure)
di Ruben Östlund – Svezia/Francia/Norvegia 2014
con Johannes Bah Kuhnke, Lisa Loven Kongsli
***

Visto in TV.

In vacanza per una settimana bianca in un comprensorio sciistico sulle Alpi, una famiglia svedese vede incrinarsi la fiducia e l'armonia al proprio interno quando il primo impulso del capofamiglia Tomas, di fronte a una valanga che sembra stare per abbattersi sulla terrazza del ristorante dove si trovano, è quello di fuggire precipitosamente, abbandonando la moglie e i figli. Una volta scampato il pericolo, l'uomo si ritroverà a dover fare i conti con sé stesso. Ambientato durante quella che avrebbe dovuta essere una settimana bianca idilliaca (il resort è modernissimo, le piste sono vuote e pulite, la famiglia appare all'inizio sin troppo perfetta), il film scava con ficcante lucidità e una punta di cinismo nella psicologia dei suoi personaggi: da Tomas, che inizialmente nega l'accaduto o cerca di rimuoverlo, perché incapace di accettare la parte di sé più debole o di cui si vergogna; a Ebba che non riesce a dimenticare quel che è successo e andare oltre (al punto da fare un "processo" al marito davanti agli amici). E si discute sul come reagire alla paura e alle situazioni di pericolo, sull'importanza degli affetti e dei legami familiari, sui dubbi e le paranoie. Östlund, che aveva iniziato la propria carriera dirigendo proprio alcuni filmati e documentari a tema sciistico, ha affermato di essersi ispirato al caso del capitano Schettino e ad alcuni video su YouTube (come questo per la scena finale). Notevole l'utilizzo della musica di Vivaldi (l'estate dalle "Quattro stagioni"), abbinata alle immagini notturne delle piste vuote, scosse dalle esplosioni o battute dai gatti delle nevi, in un'atmosfera quasi irreale. Il film è stato girato in Francia (a Montchavin-La Plagne) e Italia (al Passo dello Stelvio).

21 aprile 2019

Ant-Man and the Wasp (P. Reed, 2018)

Ant-Man and the Wasp (id.)
di Peyton Reed – USA 2018
con Paul Rudd, Evangeline Lilly
**

Visto in divx.

Agli arresti domiciliari dopo gli eventi di "Captain America: Civil War", Scott Lang (Rudd) viene contattato nuovamente dallo scienziato Hank Pym (Michael Douglas) e dalla figlia Hope van Dyne (Evangeline Lilly), che chiedono il suo aiuto per recuperare la rispettiva moglie e madre Janet (Michelle Pfeiffer), prigioniera da trent'anni nel "mondo quantico" dopo essersi rimpicciolita a livello subatomico. Scott è così costretto a rivestire i (minuscoli) panni di Ant-Man, coadiuvato da Hope in quelli dell'eroina alata Wasp, per vedersela con il misterioso Fantasma, ovvero Ava Starr (Hannah John-Kamen), figlia di un ex collega di Pym, che vuole mettere le mani sulla sua tecnologia per stabilizzare il proprio corpo "fuori fase". Il secondo lungometraggio dedicato al meno popolare degli eroi Marvel creati da Stan Lee (che fa il suo consueto cameo, nel ruolo dell'uomo cui viene rimpicciolita la macchina) è sulla falsariga del precedente: leggero, infantile e incentrato sui temi del rapporto fra padri e figli (o meglio, figlie: quello fra Scott e la sua piccola Cassie, quello fra Pym e Hope, quello fra Ava e il padre Elihas Starr/Testa d'Uovo). Ma a parte qualche battuta divertente nei dialoghi ("Hai avuto una correlazione con lei!" - "Non lo farei mai, ti rispetto troppo!" - "Correlazione quantistica, Scott!"), l'umorismo slapstick è piuttosto blando, la sceneggiatura è colma di technobabble e le scene d'azione per le strade di San Francisco mai veramente innovative (basate soltanto sul continuo rimpicciolimento e ingrandimento di persone od oggetti). Manca persino un vero cattivo (se non consideriamo la banda di malviventi pasticcioni, guidata da Sonny Burch, che vogliono mettere le mani sul sofisticato laboratorio di Pym). E nonostante il titolo, Wasp resta una comprimaria. Ne risulta probabilmente il più insignificante di tutti i film dei Marvel Studios, per quanto sicuramente più divertente di alcuni film degli Avengers. Più che supereroi, le tute dei due protagonisti ricordano alcuni eroi giapponesi come Kamen Rider o Ultraman. Laurence Fishburne è Bill Foster (l'ex Golia), Randall Park è l'agente dell'FBI Jimmy Woo. Dal primo film tornano anche le spalle comiche, in particolare Michael Peña nel ruolo dell'amico Luis. Oltre ai tanti riferimenti nei dialoghi a "Civil War", il controfinale si collega ad "Avengers: Infinity War".

20 aprile 2019

Orbita 9 (Hatem Khraiche, 2017)

Orbita 9 (Órbita 9)
di Hatem Khraiche – Spagna/Colombia 2017
con Clara Lago, Álex González
**

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Helena (Clara Lago) è nata e ha trascorso tutta la vita su un'astronave, in viaggio da vent'anni verso un nuovo pianeta da colonizzare. Rimasta sola a bordo dopo la morte dei suoi genitori, incontra per la prima volta un altro essere umano quando il giovane ingegnere Alex (Álex González) attracca con una navetta per effettuare alcune riparazioni. O almeno questo è quello che lei crede... In realtà, Helena si trova in un simulatore, ancora sulla Terra: è una dei dieci individui che vengono monitorati per studiare le reazioni dell'organismo umano a un viaggio spaziale di lunga durata, nell'attesa di abbandonare davvero un pianeta ormai irrimediabilmente inquinato. Un piccolo film di science fiction spagnolo, basato su un buono spunto di partenza (il colpo di scena viene rivelato dopo una ventina di minuti), che anche dopo aver abbandonato il setting spaziale in favore di quello urbano non è privo di alcune intuizioni interessanti (le psicoterapeute "virtuali" che vengono incontrate in una sorta di peep show), anche di natura etica: peccato però che si sfilacci progressivamente, con qualche forzatura di troppo nella trama (perché introdurre i cloni?) e che proceda verso un finale un po' così, non aiutato da una regia anonima e da interpreti poco espressivi.

19 aprile 2019

Puccini (Carmine Gallone, 1953)

Puccini
di Carmine Gallone – Italia/Francia 1953
con Gabriele Ferzetti, Märta Torén
*1/2

Visto in TV.

Una "libera e poetica interpretazione" – come recitano i titoli di testa – della vita del grande compositore lucchese, con particolare enfasi sui suoi rapporti con le donne, che sono il vero filo conduttore della pellicola, prima ancora che la sua musica. Anche se la colonna sonora accosta infatti molti brani celebri (e vengono ricostruite scene di opere come "Manon Lescaut", "La Bohème", "Madama Butterfly" e "Turandot", con la partecipazione di cantanti lirici quali Beniamino Gigli, Nelly Corradi e Gino Sinimberghi), né l'arte di Puccini né in generale la sua creatività vengono approfondite più di tanto. E persino gli elementi biografici sono accatastati senza particolare cura, prendendosi alcune libertà (anche se Puccini ebbe in effetti diverse amanti, il personaggio della soprano Cristina, per la quale quasi lascia la moglie Elvira, è del tutto inventato) e addirittura saltando ben vent'anni (dalla "Butterfly" si passa direttamente alla "Turandot", con il maestro già gravemente malato). Poco equilibrata anche la caratterizzazione dei personaggi, tutta sbilanciata sul versante femminile, mentre Puccini stesso è raramente il motore degli eventi. Ne risulta un polpettone melodrammatico, colorato (la fotografia è di Claude Renoir) e un po' superficiale. Bravi comunque gli attori, dal protagonista Gabriele Ferzetti a Märta Torén nei panni di Elvira, da Nadia Gray in quelli di Cristina (per la quale scrive le parti di Manon e di Mimì) a Paolo Stoppa che interpreta l'amico Giocondo. Sergio Tofano è Giulio Ricordi. Unico sprazzo di qualità ariosa nella regia è la scena del funerale in mare della servetta Delia (Myriam Bru), accompagnata dal coro a bocca chiusa. L'anno seguente Gallone realizzerà con lo stesso cast una versione alternativa della biografia di Puccini in un segmento di "Casa Ricordi".

17 aprile 2019

Buffalo Bill e gli indiani (R. Altman, 1976)

Buffalo Bill e gli indiani, ovvero: La lezione di storia di Toro Seduto (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull's History Lesson)
di Robert Altman – USA 1976
con Paul Newman, Geraldine Chaplin
***

Visto in TV.

Buffalo Bill, al secolo William F. Cody (Paul Newman), il cui mito di eroe della frontiera americana è dovuto ai romanzi d'avventura dello scrittore Ned Buntline (Burt Lancaster), ingaggia come guest star per gli spettacoli del suo circo itinerante nientemeno che il feroce capo indiano Toro Seduto (Frank Kaquitts), da poco sconfitto. Questi accetta di prestarsi a tali pagliacciate – che ricostruiscono le guerre indiane, fra comparse acrobatiche e bande musicali, a beneficio di un pubblico pagante – soltanto per raccontare i massacri perpetrati dai bianchi e per guadagnare migliori condizioni di vita per il suo popolo rinchiuso nelle riserve. L'incontro con la silenziosa dignità del pellerossa porterà Cody a confrontarsi con sé stesso, con la propria immagine di eroe fasulla e creata a beneficio dello show business (come la falsa capigliatura che sfoggia in testa: significativa la frase di Buntline al momento di accomiatarsi da lui: "Buffalo Bill, lieto di averti inventato") e con i propri fantasmi. Ispirandosi alla commedia teatrale "Indians" di Arthur Kopit (riscritta dal regista insieme ad Alan Rudolph), Altman demistifica e smaschera il mito dell'eroismo e del selvaggio west attraverso la figura della "stella" vanitosa di uno spettacolo fatto soltanto di finzione e pantomime. Non contento, il regista destruttura la narrazione (come aveva già fatto con "MASH") per dare vita a un film corale dalla struttura episodica e caotica, dove le tante figure storiche (tutte realmente esistite) appaiono nella loro completa e umana fragilità, rendendo ancora più netto il contrasto con l'orgoglio e la dirittura morale dei pellerossa sconfitti ma non piegati (ben diversi dai selvaggi sanguinosi raccontati dalla mitologia del tempo). Geraldine Chaplin è una Annie Oakley nevrotica, John Considine un pavido Frank Butler, Harvey Keitel è il nipote di Buffalo Bill che vive nel mito dello zio, Will Sampson il gigantesco interprete di Toro Seduto. Nel cast anche Joel Grey, Kevin McCarthy, Pat McCormick e Shelley Duvall. Il film vinse l'Orso d'Oro a Berlino ma fu male accolto dal pubblico americano in un anno in cui gli Stati Uniti festeggiavano il loro bicentenario e non erano pronti a mettere in discussione alcuni dei loro miti fondanti. I titoli di testa non presentano i nomi dei personaggi, ma il loro ruolo nella storia ("L'impresario", "La stella", ecc.). L'edizione italiana dura quasi mezz'ora in meno rispetto a quella originale.

16 aprile 2019

Il ragazzo dai capelli verdi (J. Losey, 1948)

Il ragazzo dai capelli verdi (The Boy with Green Hair)
di Joseph Losey – USA 1948
con Dean Stockwell, Pat O'Brien
**1/2

Rivisto in TV.

Il dodicenne Peter ("Piero" nella versione italiana), orfano di guerra che abita con il nonno, si sveglia un giorno scoprendo che i capelli gli sono diventati completamente verdi. Dapprima a disagio per questa sua condizione di "diverso", li sfoggerà poi con orgoglio quando capirà che è l'occasione per lanciare un forte messaggio antibellico: il verde, "colore della speranza e della primavera", consente infatti di attrarre l'attenzione sugli orfani di tutte le guerre. Deriso dai compagni di scuola e visto con sospetto dagli adulti, però, sarà costretto a raderli. Originale e delicata allegoria pacifista (di un Losey all'esordio nel lungometraggio, che anche per questo tipo di film un paio d'anni più tardi fu inserito nella black list e costretto a lasciare Hollywood) ma anche riflessione sul tema dell'omologazione forzata e dell'intolleranza ("Lasceresti che tua sorella sposi uno con i capelli verdi?"). Da notare la sottigliezza con cui viene trattato l'elemento "fantastico" della pellicola: tutta la storia è infatti raccontata in flashback da Peter, con la testa rasata, a uno psicologo della polizia (Robert Ryan), e dunque non sappiamo con certezza se è vera oppure – in un tipico caso di "narratore inaffidabile" – se è soltanto il frutto della fantasia del ragazzo (il che non ne diminuisce il messaggio, sia chiaro). Forse il più celebre dei film interpretati da bambino da Dean Stockwell (che avrà poi una lunga carriera anche da adulto, sia al cinema che in televisione). Il veterano Pat O'Brien è il nonno, ex attore comico e di varietà (che canta "Gip gip bel cavallin"). Sui titoli di testa si sente la canzone "Nature boy" di Nat King Cole.

15 aprile 2019

Il gatto a nove code (D. Argento, 1971)

Il gatto a nove code
di Dario Argento – Italia 1971
con James Franciscus, Karl Malden
**

Visto in TV.

Con l'aiuto dell'enigmista cieco Franco Arnò (Malden), il giornalista Carlo Giordani (Franciscus) indaga su una serie di delitti incentrati attorno all'istituto di ricerce genetiche del professor Terzi (Tino Carraro). Gli scienziati del laboratorio hanno infatti scoperto un'alterazione cromosomica che porta a una predisposizione alla delinquenza, e l'assassino (che potrebbe anche essere uno di loro) intende impedire che la propria natura antisociale venga alla luce. Il secondo lungometraggio di Dario Argento (nonché secondo tassello della "trilogia degli animali") è ancora un giallo prima che un horror. Rispetto al precedente "L'uccello dalle piume di cristallo", però, l'atmosfera è più convenzionale e lo svolgimento meccanico, con sospetti su vari personaggi prima di una risoluzione in fondo abbastanza banale. Se la tensione non sempre è ai massimi livelli (tranne forse nella scena del cimitero), sono però da apprezzare alcune scelte stilistiche (le soggettive dell'assassino, l'inquadratura ravvicinata della sua iride colorata di rosso), mentre certi personaggi di contorno sembrano uscire da una commedia (il barbiere, lo scassinatore "Gigi Scalogna"). Il titolo è abbastanza pretestuoso (le "nove code" del gatto simboleggiano le tante piste da seguire durante l'indagine). La vicenda è ambientata a Torino. Musica di Ennio Morricone. Catherine Spaak è Anna, la bella figlia del professor Terzi, mentre Cinzia De Carolis è la piccola Lori, la nipotina di Arnò. Nel cast anche Horst Frank (il tedesco gay), Aldo Reggiani e Rada Rassimov. Gli attori protagonisti furono imposti ad Argento dai finanziatori americani giunti sulla scia del suo precedente film (che in effetti aveva riscosso più successo negli USA che in Italia).

13 aprile 2019

Tutte le ore feriscono... l'ultima uccide! (J.P. Melville, 1966)

Tutte le ore feriscono... l'ultima uccide! (Le deuxième souffle)
di Jean-Pierre Melville – Francia 1966
con Lino Ventura, Paul Meurisse
***1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Evaso di prigione dopo dieci anni, l'esperto rapinatore Gustave "Gu" Minda (Lino Ventura) accetta di partecipare a un ultimo colpo per procurarsi il denaro necessario ad espatriare in Italia. Braccato dallo scaltro commissario Blot (Paul Meurisse), tradirà senza volerlo i propri complici e cercherà disperatamente di porvi rimedio... Da un romanzo di José Giovanni (co-sceneggiatore insieme al regista), uno dei più avvincenti polar di Melville (che lo considerava il suo film più personale), quello che segna il suo definitivo distacco dalle forme cinematografiche classiche, in favore di uno stile più asciutto e originale. Ambientato in un sottobosco criminale dove la reputazione e la lealtà contano quasi più della propria vita, è girato in un avvolgente bianco e nero che dona un'aura di universalità alle vicende (collocate fra Parigi e Marsiglia). I temi dell'onore, del tradimento e del riscatto dominano l'intera pellicola, assai lunga ma scorrevole, incalzante e ricca di sequenze memorabili: dall'evasione iniziale, quasi muta (che ricorda "Un condannato a morte è fuggito" di Robert Bresson), alle scene ad alta tensione della sanguinosa rapina al furgone portavalori sulle strade di montagna dell'entroterra, dalle dinamiche fra i vari gangster (amici e nemici, alleati e rivali, vecchi affidabili e giovani rampanti), al gioco di trappole e trabocchetti incrociati fra il poliziotto e il bandito, animati comunque da un rispetto reciproco. E proprio la costruzione dei molti personaggi (tutti hanno evidentemente un passato che ci è lasciato soltanto immaginare) è uno dei punti di forza della sceneggiatura, insieme alla stilizzazione e alla naturalezza con cui si dipana l'intricata vicenda. Pare che per molti di loro, Giovanni si sia ispirato a persone realmente conosciute durante l'occupazione tedesca o subito dopo la guerra. Ventura giganteggia (anche travestito con baffi e occhiali scuri), Meurisse è un avversario simpatetico, arguto e gigione, mentre nel cast ci sono anche Christine Fabréga (Manouche, l'ex amante – o "sorella", come viene detto ambiguamente in gergo – di Gu), Michel Constantin (il fido Alban), Pierre Zimmer (l'imperturbabile Orloff), Paul Frankeur e Raymond Pellegrin. L'elaborato titolo italiano (sulla scia di molte pellicole di genere – western o poliziotteschi – dell'epoca) tradisce un po' la sobrietà di quello originale, che significa "Il secondo respiro" (ovvero "La seconda possibilità"). Nel 2007 è uscito un remake di Alain Corneau con Daniel Auteuil, Michel Blanc e Monica Bellucci.

12 aprile 2019

Little Cheung (Fruit Chan, 1999)

Little Cheung (Xilu xiang)
di Fruit Chan – Hong Kong 1999
con Yiu Yuet-Ming, Mak Wai-Fan
***

Rivisto in divx alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Il Piccolo Cheung – battezzato così in onore di un vecchio attore e cantante dell'opera cantonese, che tutti nel quartiere chiamano colloquialmente "Fratello Cheung" – trascorre le giornate della piovosa estate del 1997 correndo con la sua bici per i vicoli della città vecchia ed effettuando consegne per conto del ristorante di famiglia. Mentre il padre gestisce il locale e la madre gioca a mahjong, la nonna resta a casa, accudita da una badante filippina, immersa nei suoi ricordi e nei vecchi film che passano in televisione. Il terzo film di Fruit Chan sul passaggio di Hong Kong dalla Gran Bretagna alla Cina (dopo "Made in Hong Kong" e "The longest summer") racconta gli eventi e l'atmosfera di quei giorni attraverso gli occhi (e il microcosmo) di un bambino di nove anni. La vecchia colonia britannica, con il suo passato e la sua cultura (simboleggiata dalla nonna, che in gioventù fu cantante e attrice proprio al fianco di Fratello Cheung), è destinata a sparire con l'imminente handover, mentre alle nuove generazioni viene insegnato il mandarino e a fare l'alzabandiera salutando in maniera corretta il vessillo della Repubblica Popolare Cinese. Priva di una vera trama, la pellicola accosta con sensibilità molte situazioni ed episodi: le scorribande inarrestabili del piccolo protagonista per le strade del quartiere di Mongkok; il suo curioso approccio alle dinamiche e al sistema di valori dei "grandi" (dominato dalla ricerca del denaro); i giochi e gli scherzi (come fare la pipì nel thé che deve consegnare al delinquente locale); il desiderio di racimolare la mance necessarie per comprarsi un “tamagochi”; le severe punizioni del padre; la ricerca di un fratello maggiore che non sapeva di avere e che il padre ha ripudiato perché ha scelto di diventare un gangster; l'affetto per Armi, la domestica filippina, indice di un'apertura verso le culture diverse; e soprattutto l'amicizia con la coetanea Fan, immigrata clandestina dalla Cina continentale, da cui si fa aiutare nel lavoro (dividendo con lei le mance) e la cui deportazione da parte della polizia – proprio a poche ore dal fatidico cambio di bandiera – segnerà ufficialmente la fine dell'infanzia (del bambino come dell'intera Hong Kong). Come capita spesso nei film di questo regista, quasi tutti gli interpreti sono attori non professionisti. Il titolo originale è lo stesso di un film del 1950 che vedeva Bruce Lee (a soli 10 anni) in uno dei suoi primi ruoli da protagonista.

10 aprile 2019

Mr. Nobody (Jaco Van Dormael, 2009)

Mr. Nobody (id.)
di Jaco Van Dormael – Belgio/Canada/Fra/Ger 2009
con Jared Leto, Diane Kruger
**

Visto in TV.

Nel 2092, all'età di 118 anni, Nemo Nobody (Jared Leto) è l'ultimo mortale rimasto in un mondo in cui la scienza (attraverso il rinnovo infinito delle cellule) ha donato a tutti l'immortalità. Ma non ricorda nulla del proprio passato: e una seduta di ipnosi rivelerà una serie di fatti contraddittori e alternativi fra loro. A partire da quando aveva nove anni e fu costretto a scegliere se rimanere con il padre o con la madre che stavano divorziando, la vita di Nemo ha infatti seguito tutte le possibili biforcazioni, come se le diverse linee temporali coesistessero. E così, saltando da una possibilità all'altra (o anche avanti e indietro nel tempo), assistiamo alle tante possibili evoluzioni della sua esistenza, a seconda che abbia scelto (e/o sposato) una delle tre donne della sua vita, Anna (Diane Kruger), Elise (Sarah Polley) o Jeanne (Linh Dan Pham), che sia diventato ricco o rimasto povero, che sia morto da giovane oppure no... Pellicola ambiziosa, surreale e filosofico-esistenziale, che si sviluppa in mille rivoli e direzioni differenti. Ma proprio in questo sta il suo punto debole, visto che le tante varianti si succedono senza che alcuna di essa acquisti un valore o un significato particolare ai nostri occhi: una cosa vale l'altra e tutto vale tutto. Troppo denso e lungo, il film – che procede per accumulo con uno stile a metà fra "Il meraviglioso mondo di Amelie", il Gondry di "Se mi lasci ti cancello" e Wes Anderson – stufa ben presto anche lo spettatore che si chiede dove il regista (anche sceneggiatore) voglia andare a parare, saltando di palo in frasca: dal coming-of-age al film romantico, dal fantascientifico (il viaggio su Marte) all'onirico-surreale (il mondo esterno "costruito" come in "The Truman Show"), dall'esplorazione di teorie scientifiche o presunte tali (l'effetto farfalla, l'entropia e la freccia del tempo) ai sentimenti e alle paure innate (l'amore, la perdita, la depressione), dal potere dell'immaginazione (ovviamente di un bambino) alle riflessioni sul caso e la scelta (a un certo punto Nemo si affida a una moneta, come il Due Facce di Batman). E alla fine si rimane con ben poco di concreto in mano, visto che la relativizzazione impera: non a caso si cita una (per me brutta) frase di Tennessee Williams, "Ogni cosa avrebbe potuto essere un'altra e avrebbe avuto lo stesso profondo significato". Un concetto che detesto, perché in realtà ogni significato lo elimina, giustificando invece quasiasi cosa! Anche Resnais affrontava temi simili (si pensi a "Smoking"/"No smoking"), ma puramente come gioco intellettuale, senza rivestirli di tanta zavorra metafisica. Persino la colonna sonora è un guazzabuglio che mescola "Casta diva" e "Mr. Sandman", Satie e la "Pavane" di Fauré, Bach e Britten. In ogni caso il film è molto bello visivamente (la fotografia è di Christophe Beaucarne), e quello di Leto come attore è un autentico tour de force. Toby Regbo e Juno Temple sono Nemo e Anna a quindici anni.

9 aprile 2019

Il grande gioco (Robert Siodmak, 1954)

Il grande giuoco (Le grand jeu)
di Robert Siodmak – Francia/Italia 1954
con Jean-Claude Pascal, Gina Lollobrigida
**

Visto in TV.

Disposto a tutto pur di compiacere Silvia (Lollobrigida), la donna che ama, il ricco avvocato Pierre Martel (Pascal) dilapida per lei i propri averi. Finito in disgrazia, è costretto a fuggire da Parigi e a rifugiarsi in Algeria, dove attende inutilmente che Silvia lo raggiunga. Deluso, si arruola nella legione straniera. Ma quattro anni più tardi gli sembra di riconoscere le sembianze della donna in Elena, una prostituta incontrata per le strade di una città nel deserto... Remake di uno dei più celebri film di Jacques Feyder ("La donna dai due volti", 1934), fra i capostipiti del realismo poetico, con la Lollo in una doppia parte nel ruolo che nell'originale fu di Marie Bell. Ma vent'anni non sono trascorsi invano: e se i temi della pellicola tutto sommato valgono ancora la visione (l'amour fou, con Pierre innamorato più di un ideale che di una donna vera; anime perdute che si ritrovano in capo al mondo, ovvero in mezzo al deserto; il senso di fatalità, che porta i personaggi a lasciarsi trasportare dal destino, esemplificato dal gioco con le carte – il "grande gioco" del titolo, appunto – con cui Blanche (Arletty), la proprietaria del locale dove si radunano i soldati, prevede loro il futuro), tutto ora è più blando e sembra avere meno spessore e significato. Siodmak, dopo una serie di ottimi film noir, aveva lasciato Hollywood per tornare in Europa nel 1952: girò questo film in Francia, prima di ristabilirsi definitivamente in Germania.

8 aprile 2019

La donna dai due volti (J. Feyder, 1934)

La donna dai due volti (Le grand jeu)
di Jacques Feyder – Francia 1934
con Pierre Richard-Willm, Marie Bell
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Scapestrato rampollo di una ricca famiglia parigina, Pierre Martel (Richard) deve lasciare il paese per via dei debiti contratti per mantenere nel lusso la viziata amante Florence (Bell). Abbandonato dalla donna, l'uomo si arruola nella legione straniera. Anni dopo, crede di riconoscerla in Irma (sempre Bell), ballerina in un locale in Marocco: in effetti le due ragazze sono identiche, a parte i capelli e la voce... Fra i film più apprezzati e importanti di Feyder, considerato il capostipite del "realismo poetico" (Marcel Carné, qui aiuto regista, ne prese ispirazione e ne subì l'influenza per i suoi film successivi), un melodramma permeato di romanticismo e fatalismo (il "grande gioco" del titolo originale è quello con le carte con cui Madame Blanche, la padrona del locale, prevede il futuro a Pierre). Se il titolo italiano sembra anticipare l'Hitchcock de "La donna che visse due volte", anche il tema è quello delle seconde possibilità, di cui il concetto stesso di legione straniera (che consentiva a chiunque di tirare una riga sugli errori del passato e di rifarsi una vita) è uno dei simboli più significativi. A pochi anni dall'invenzione del sonoro, la scelta di differenziare le due donne interpretate da Marie Bell attraverso la voce (Irma è "doppiata" da Claude Marcy: più volte Pierre le chiede di non parlare, per non rompere l'incantesimo che lo fa pensare a Florence) riscosse consensi e stupore. Françoise Rosay è Madame Blanche, Georges Pitoëff è l'amico russo Nicolas. Rifatto nel 1954 da Robert Siodmak ("Il grande gioco") con Gina Lollobrigida.

7 aprile 2019

Orgasmo (Umberto Lenzi, 1969)

Orgasmo (aka Paranoia)
di Umberto Lenzi – Italia 1969
con Carroll Baker, Lou Castel
*1/2

Visto in TV.

Katrine West (Carroll Baker, al primo di quattro film con Lenzi), ricca americana divenuta vedova da poco, giunge in Italia per trascorrere alcuni giorni in una villa isolata in campagna. Qui conosce il giovane e sfacciato musicista Peter Donovan (Lou Castel), che si trasferirà a vivere da lei, portando con sé anche la "sorella" minore Eva (Colette Descombes). Ne nascerà un ménage à trois a tinte sempre più forti: i due fratelli (che tali non sono) renderanno Katrine progressivamente succube, anche grazie all'uso di droghe e pillole varie, sequestrandola di fatto nella sua stessa villa e tormentandola (con sesso, whisky e rock'n'roll!) con l'intenzione di spingerla verso la follia e il suicidio. Una buona regia e una discreta atmosfera (che ricorda in parte "Angoscia" e "La piscina") non salvano il film da una sceneggiatura dozzinale, anche perché il montaggio e l'organizzazione della storia lasciano alquanto a desiderare, e tutto è pensato solo in funzione del doppio (o triplo?) colpo di scena nel finale. Tino Carraro è Brian, l'avvocato di Kate. La doppiatrice Tina Lattanzi è una delle due zie zitelle. Musiche di Piero Umiliani. Anche se è indicato nei titoli come assistente alla regia, non è chiaro se Bertrand Tavernier abbia davvero lavorato alla pellicola. Il film venne distribuito all'estero con il titolo "Paranoia", il che provocherà qualche confusione quando l'anno dopo Lenzi girerà con la Baker un altro film intitolato proprio "Paranoia".

6 aprile 2019

Dallas buyers club (J. M. Vallée, 2013)

Dallas Buyers Club (id.)
di Jean-Marc Vallée – USA 2013
con Matthew McConaughey, Jared Leto
***

Visto in TV.

Nel 1985, il rude texano Ron Woodroof (uno straordinario Matthew McConaughey), elettricista e cowboy dalla vita sregolata, scopre di essere positivo all'HIV. Siamo in un epoca in cui la malattia è ancora associata esclusivamente all'omosessualità (tanto che Woodroof, pur non essendo gay, viene subito etichettato come tale dai suoi amici omofobi), e in cui la ricerca di una cura è appena allo stadio embrionale. Disperato, con una prognosi di soli 30 giorni di vita, Woodroof comincia a procurarsi farmaci illegali o non ancora approvati, molti dei quali (ottenuti dal Messico o da altri paesi stranieri) sembrano funzionare meglio di quelli che vengono sperimentati negli Stati Uniti. Insieme al travestito Rayon (Jared Leto), che diventa suo socio, organizza così un "club di compratori" per acquistare i medicinali e distribuirli fra i vari membri, nonostante le pressioni e le intimidazioni della comunità scientifica e delle autorità federali... Da una storia vera (Craig Borten, autore della sceneggiatura insieme a Melisa Wallack, aveva intervistato il vero Ron Woodroof nel 1992, un mese prima della sua morte), un'eccellente pellicola ambientata negli anni in cui l'AIDS cominciava a diventare una malattia globale e in cui ancora era circondato da ignoranza e pregiudizi. L'ottima sceneggiatura, spigliata e vivace, ha forse il solo difetto di appoggiarsi alle teorie di complotto sulle case farmaceutiche (che per i propri interessi promuoverebbero farmaci dannosi, mettendo i bastoni fra le ruote al diritto di curarsi come ciascuno crede), ma sa costruire mirabilmente il contesto e i personaggi, grazie anche ad attori capaci di un vero tour de force (McConaughey e Leto hanno perso parecchi chili fino ad acquisire un aspetto quasi scheletrico). Avvincente e appassionante, il film racconta senza retorica e in modo naturale la sofferenza della malattia e il percorso del protagonista verso il superamento dei propri limiti. Sei nomination e tre premi Oscar (ai due attori e al trucco). Nel cast anche Jennifer Garner (la dottoressa), Steve Zahn e Griffin Dunne.

5 aprile 2019

Mute (Duncan Jones, 2018)

Mute (id.)
di Duncan Jones – GB/Germania 2018
con Alexander Skarsgård, Paul Rudd
*1/2

Visto in TV.

In una Berlino futuristica (con un'estetica da "Blade Runner"), il barman Leo (Alexander Skarsgård), muto sin dall'adolescenza a causa di una lesione che la fede amish della sua famiglia ha impedito di curare con un'operazione, cerca di rintracciare la sua compagna Naadirah (Seyneb Saleh). Nella sua misteriosa scomparsa è forse implicato Cactus Bill (Paul Rudd), medico chirurgo dell'esercito americano, da cui ha disertato per mettersi al servizio del gangster russo Maksim, proprietario del locale notturno (con annesso bordello) dove lavorano sia Leo che la ragazza... Sono molte le cose che non funzionano e non convincono in questo ambizioso thriller neo-noir dallo sviluppo deludente, contorto e farraginoso. A partire dai suoi stessi elementi fondanti, dei quali si fatica a capire la ragion d'essere: per quale motivo il film è ambientato in Germania? Perché siamo nel futuro (la storia in sé non ha nulla di fantascientifico)? Perché il protagonista è muto (nel finale, per di più, riacquista la parola senza che questo incrini la sua fede o le sue certezze: accade e basta)? La caratterizzazione stessa dei personaggi non appare finalizzata a nulla di particolare, e anzi lascia perplesso il fatto che il "cattivo" sia approfondito molto meglio rispetto al buono. Anche le svolte nella vicenda gialla, come la rivelazione del motivo della scomparsa di Naadirah, non sconvolgono più di tanto, mentre i molti dettagli di contorno (l'abilità di Leo nel disegnare, il suo rifiuto della tecnologia, il rapporto di Cactus con la figlia, le dinamiche del sottobosco criminale, il tema della pedofilia) restano, appunto, dettagli. E lo stesso vale per i tanti riferimenti del regista al mondo del "papà" David Bowie. Tanta carne al fuoco non sembra portare a nulla: peccato, dov'è finito il minimalismo di "Moon"? La colonna sonora di Clint Mansell evoca il "Lacrimosa" dal Requiem di Mozart. La cosa più curiosa sono forse i rimandi al classico di Robert Altman "MASH": Cactus Bill e il suo amico e collega Duck (Justin Theroux) sembrano fare il verso (nell'aspetto, nell'atteggiamento, nel vestiario) alla coppia di chirurghi militari di quel film, interpretati da Elliott Gould e Donald Sutherland.

4 aprile 2019

L'uccello dalle piume di cristallo (D. Argento, 1970)

L'uccello dalle piume di cristallo
di Dario Argento – Italia 1970
con Tony Musante, Suzy Kendall
**1/2

Visto in TV.

Lo scrittore americano Sam Dalmas (Tony Musante), a Roma ancora per pochi giorni prima di tornarsene in patria, assiste per caso al tentato omicidio di una donna (Eva Renzi) in una galleria d'arte, riuscendo a mettere in fuga l'omicida. È solo l'ultimo di una serie di delitti commessi da un misterioso serial killer con le mani guantate. E Sam, convinto di aver colto un dettaglio rivelatore (che non riesce però a ricordare), accetta di aiutare nelle indagini il commissario Morosini (Enrico Maria Salerno), mettendo però a repentaglio in questo modo la vita della propria compagna Giulia (Suzy Kendall). Il primo film diretto da Dario Argento (fino ad allora critico cinematografico e sceneggiatore), "erede" del thriller all'italiana di Mario Bava, è forse più un giallo che un horror, ma ha già molti degli ingredienti che faranno la fortuna del regista negli anni a venire (e che ritroveremo anche negli epigoni, per non parlare di serie a fumetti come "Dylan Dog"): una forte componente espressionista, soprattutto a livello visivo e cromatico (il rosso del sangue, il giallo del giubbotto indossato dal killer), una continua tensione, un'elevata dose di violenza (con molti stilemi provenienti dal poliziottesco o dal western all'italiana), un'atmosfera ambigua e calata nella quotidianità, personaggi eccentrici, psicotici o sopra le righe (cui fa da contraltare un protagonista invece piuttosto ingenuo e dalla caratterizzazione semplice), un vasto gioco di rimandi e di dettagli (con tanti indizi a carico un po' di tutti i personaggi di contorno). Il titolo (il primo di tre "animali" nei primi tre lungometraggi del regista: seguiranno gatti e mosche) si riferisce a un uccello rarissimo (che in realtà non esiste: quella che si vede è una comune gru coronata) il cui verso aiuterà a svelare l'identità dell'assassino. Renato Romano è l'amico Carlo, Umberto Raho è il marito della vittima, Mario Adorf è Berto Consalvi, il pittore pazzo che mangia i gatti, uno dei cui quadri naïf nasconde il segreto alla base degli omicidi. La sceneggiatura era originariamente ispirata al romanzo "La statua che urla" di Fredric Brown. Buona la confezione: la fotografia è di Vittorio Storaro, la colonna sonora di Ennio Morricone.

2 aprile 2019

FESCAAAL 2019 - conclusioni

Il festival mi è piaciuto, ma meno dell'anno scorso, o forse ho provato una maggiore stanchezza che mi ha fatto trovare parecchi film troppo lenti e noiosi (e di solito a me la lentezza non dà per nulla fastidio, anzi!). Due sono le pellicole che ho gradito sopra tutte: il colombiano "Los silencios" della regista brasiliana Beatriz Seigner, toccante riflessione sul rapporto fra vivi e morti; e il documentario in animazione rotoscope "Ancora un giorno", tratto dal libro di Kapuściński sulla guerra civile in Angola. Interessanti anche i cinesi "Baby" (che ha vinto il primo premio, mentre a "Los silencios" è andato il premio del pubblico) e "Youth", il siriano "The day I lost my shadow" e, pur con qualche difetto, l'indiano "Bulbul can sing" e il coreano "Burning". Tutto il resto si può facilmente dimenticare, a partire dal film italiano d'apertura. A molte pellicole erano abbinati dei cortometraggi (per lo più africani), che non ho recensito (fra i migliori: "Brotherhood" di Meryam Joobeur e "Tangente" di Julie Jauve e Rida Belghiat). Curiosamente, dei tredici film che ho visto, ben sette erano firmati da registe donne: non so se la cosa sia dovuta al sempre maggior spazio e attenzione ai temi femminili all'interno delle cinematografie in via di sviluppo, o semplicemente al fatto che a dirigere il festival (e dunque a supervisionare il processo di selezione) ci fossero due donne.

1 aprile 2019

Burning (Lee Chang-dong, 2018)

Burning - L'amore brucia (Beoning)
di Lee Chang-dong – Corea del Sud 2018
con Yoo Ah-in, Jeon Jong-seo, Steven Yeun
**1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Jong-soo (Yoo), giovane aspirante scrittore, ritrova dopo alcuni anni Hae-mi (Jeon), sua ex compagna delle elementari, e se ne innamora. Fra i due si inserisce però il ricco e affascinante Ben (Yuen). E quando la ragazza sparisce nel nulla, Jong-soo inizia a convincersi che Ben sia in realtà un serial killer... Da un racconto di Haruki Murakami ("Granai incendiati"), un thriller psicologico low tone e basato tutto sull'ambiguità: quella dei tre personaggi e quella del rapporto fra immaginazione e realtà. Jong-soo è timido e ha problemi di socializzazione, ha un difficile background familiare, ma è anche in cerca di storie: possibile che quanto gli accada ("Il mondo per me è un mistero", dice) sia soltanto frutto della sua fantasia? Hae-mi è più spigliata, ma anche lei gioca con la finzione: prende lezioni di mimo, "inventa" oggetti che non esistono, racconta storie che potrebbero essere vere o meno (ha davvero un gatto, che nessuno ha mai visto? da piccola è davvero caduta in un pozzo, evento che nessuno ricorda?). E Ben, con la sua natura affascinante e misteriosa è il più ambiguo di tutti: la sua confessione a Jong-soo, quella di avere lo strano hobby (o impulso) di "bruciare una serra" ogni due mesi, viene dapprima presa sul serio dal ragazzo e poi trasfigurata nella prova che il rivale è un assassino seriale: ma nessuna conferma giungerà mai a noi spettatori, lasciati sospesi in un limbo dove tutto è possibile. E questo, che avrebbe potuto esserne il pregio, è probabilmente anche uno dei difetti del film, con cui si fatica a connettersi e a partecipare fino in fondo alla confusione emotiva del suo protagonista, nonostante non manchino scene e momenti interessanti, punteggiati dalle tante piccole "bizzarrie del quotidiano" così care a Murakami. Ottima la regia.