28 febbraio 2019

Thelma & Louise (Ridley Scott, 1991)

Thelma & Louise (id.)
di Ridley Scott – USA 1991
con Susan Sarandon, Geena Davis
***1/2

Rivisto in DVD.

Le amiche Louise Sawyer (Susan Sarandon), cameriera in un diner, e Thelma Dickinson (Geena Davis), casalinga e moglie trascurata, partono da sole in auto per un weekend di vacanza. Ma quella che doveva essere una semplice pausa dalle frustrazioni e dalla routine quotidiana si trasforma in un incubo quando la prima, per difendere la seconda da un tentativo di violenza, spara e uccide un uomo a sangue freddo. In fuga dalla polizia e dirette verso il Messico, in un crescendo inarrestabile, quello delle due amiche diventa un viaggio senza ritorno ("Non ce la farei più a tornare a vivere come prima") all'insegna della libertà e dell'emancipazione dai lacci e dalle costrizioni della società, ma soprattutto dalle prepotenze di uomini approfittatori. Iconico buddy movie "femminista" on the road, un inno all'amicizia e alla solidarietà, che può contare non soltanto su una storia potente e su personaggi ottimamente caratterizzati (e che evolvono nel corso della vicenda: in particolare Thelma, che da ingenua e repressa arriva a scoprire il lato più libero e selvaggio di sé: mitica la scena della rapina, con l'impagabile reazione del marito quando gli viene mostrato il filmato delle camere di sorveglianza), ma anche sui magnifici scenari del southwest americano (le due protagoniste attraversano Arkansas, Oklahoma, Nuovo Messico e Arizona, fino alla Monument Valley e a quel Grand Canyon che ha fatto da sfondo a tante celebri pellicole western), ritratti con grande mestiere dalla regia di Scott e dalla fotografia di Adrian Biddle, completamente a loro agio con le lunghe strade e i deserti polverosi e assolati. Molte le scene da ricordare (cito, per esempio, quella dell'esplosione dell'autocisterna nel deserto). Ma in particolare è rimasto celebre, anche per l'intensità emotiva (che lo rende uno dei più memorabili di sempre), il finale con il fermo immagine e la dissolvenza. La sceneggiatura di Callie Khouri vinse l'Oscar (la pellicola ebbe in tutto sei nomination). Notevole e suggestiva anche la colonna sonora acustica di Hans Zimmer. Buono pure il cast di contorno: Harvey Keitel è il detective comprensivo e simpatetico, Michael Madsen è Jimmy, l'amico di Louise, mentre un giovane Brad Pitt è l'autostoppista ladruncolo. Forse l'unico personaggio sopra le righe è il marito sessista di Thelma, interpretato da Christopher McDonald. Per i ruoli delle protagoniste erano state prese in considerazione prima Meryl Streep e Goldie Hawn, e poi Michelle Pfeiffer e Jodie Foster.

26 febbraio 2019

Green book (Peter Farrelly, 2018)

Green book (id.)
di Peter Farrelly – USA 2018
con Viggo Mortensen, Mahershala Ali
**1/2

Visto al cinema Colosseo.

New York, 1962: il buttafuori italoamericano Tony "Lip" Vallelonga (Mortensen) viene assunto come autista e guardia del corpo dal "Dottor" Don Shirley (Mahershala Ali), pianista di colore che sta per intraprendere una tournée di due mesi negli stati del profondo sud, dove la segregazione razziale è ancora un dato di fatto. Durante il viaggio non soltanto Tony riuscirà a tirare a più riprese Shirley fuori dai guai: diversissimi per estrazione, abitudini e carattere (buzzurro e impulsivo il primo, dotato di un enorme appetito e di maniere rozze e spontanee, ma pronto ad affrontare con buon senso e praticità ogni situazione pericolosa; raffinato e introverso il secondo, profondamente solo ma anche ostinato e deciso con orgoglio a mantenere la propria dignità di fronte alle umiliazioni), i due uomini sapranno vincere i pregiudizi e le rispettive diffidenze per stringere una forte amicizia, guadagnandosi il rispetto reciproco e affrontando a testa alta le ingiustizie sociali. Da una storia vera, una commedia on the road che affronta di petto il tema del razzismo e dell'integrazione nell'America in trasformazione degli anni sessanta, vincitrice a sorpresa del premio Oscar come miglior film (oltre che delle statuette per la sceneggiatura originale e per l'attore non protagonista ad Ali): un riconoscimento forse esagerato e dovuto in gran parte al tema antirazzista più che ad effettivi meriti cinematografici. In ogni caso, i due protagonisti sono eccellenti (Mortensen in particolare, parecchio ingrassato per la parte), il ritmo non manca e la ricostruzione storica è ottima. Peter Farrelly lavora per la prima volta senza il fratello Bobby, con il quale aveva realizzato per lo più pellicole di genere comico-demenziale. Il finale forse eccede nei buoni sentimenti (d'altronde è ambientato anche a Natale). Il titolo è quello di una "guida di viaggio" che elencava gli alberghi e i locali che accettavano i neri.

25 febbraio 2019

Sodoma e Gomorra (R. Aldrich, 1962)

Sodoma e Gomorra (id.)
di Robert Aldrich [e Sergio Leone] – Italia/Fra/USA 1962
con Stewart Granger, Stanley Baker
*1/2

Visto in TV.

Guidati da Lot (Stewart Granger), gli ebrei si stabiliscono nella valle del Giordano con il benestare della regina (Anouk Aimée) delle corrotte città di Sodoma e Gomorra, dove si pratica lo schiavismo e dove "niente è peccato, e tutto ciò che dà piacere è lecito". Attaccati dalle bellicose tribù nomadi del deserto – sobillate da Astaroth (Stanley Baker), il perfido fratello della regina – gli ebrei sono costretti a rifugiarsi fra le mura, dove entrano in contatto con i vizi e le crudeltà dei sodomiti, lasciandosene tentare. A quel punto Dio interverrà per distruggere le città, dopo aver intimato a Lot e alla sua gente di allontanarsi senza guardare indietro... Il racconto biblico trasformato in un peplum d'avventura, con una miriade di personaggi, intrighi, tradimenti, battaglie. Ma tutto è incredibilmente noioso e poco ispirato, diretto con stile antiquato da un Aldrich coinvolto a soli fini "alimentari", mentre Sergio Leone si fece le ossa occupandosi della seconda unità e delle scene di battaglia. È costato uno sproposito (6 miliardi di lire all'epoca) ma non si direbbe, vista la scarsa qualità di costumi, scenografie ed "effetti speciali" nel ridicolo finale della distruzione delle città (si faceva di meglio all'epoca del muto). Il tema religioso è praticamente assente, tranne che negli ultimi dieci minuti. Anna Maria Pierangeli è Ildith, la schiava sodomita che diventa moglie di Lot (ed è poi tramutata in una statua di sale). Rossana Podestà e Claudia Mori sono le figlie di Lot. Nel cast anche Rik Battaglia, Giacomo Rossi Stuart e Scilla Gabel.

24 febbraio 2019

Mr. Holmes (Bill Condon, 2015)

Mr. Holmes - Il mistero del caso irrisolto (Mr. Holmes)
di Bill Condon – GB/USA 2015
con Ian McKellen, Milo Parker
**

Visto in TV.

Nel 1947, uno Sherlock Holmes novantatreenne (Ian McKellen), che si è ritirato a vivere in campagna da quasi trent'anni, si diletta di apicoltura e soffre di amnesia senile, cerca di ricordare i dettagli dell'ultimo caso a cui aveva lavorato e che aveva coinvolto l'infelice Ann Kelmot (Hattie Morahan). Ad aiutarlo a rimettere insieme i pezzi del puzzle c'è Roger (Milo Parker), il figlio della sua domestica Mrs. Munro (Laura Linney). Il bravo McKellen torna a recitare per Bill Condon dopo "Demoni e dei", e la sua presenza è il principale pregio di un film delicato che cerca di mostrare uno Sherlock Holmes diverso da tutti quelli che abbiamo visto sullo schermo: non solo anziano (anzi, decrepito: anche gli eroi immortali e più classici invecchiano!) e con problemi di memoria, ma anche idiosincratico rispetto alle sue caratteristiche "mediatiche" (cappello, pipa, ecc.), che afferma essere invenzioni o "licenze poetiche" del dottor Watson per abbellire i suoi racconti. C'è persino una scena in cui si reca al cinema per assistere alla versione filmata del romanzo ispirato al caso cui sta lavorando (l'attore protagonista è Nicholas Rowe, che aveva interpretato il detective in "Piramide di paura"). La trama gialla, invece, è solo un pretesto: i veri temi sono appunto la memoria e la vecchiaia, capace di cancellare anche i sensi di colpa. Suggestivi i bei paesaggi della costa meridionale della Gran Bretagna (con le bianche scogliere di Dover), anche se la fotografia è patinata e convenzionale. La sottotrama dedicata alla trasferta in Giappone (nel cast c'è anche Hiroyuki Sanada), invece, sembra un riempitivo e lascia il tempo che trova.

23 febbraio 2019

The longest summer (Fruit Chan, 1998)

The longest summer (Hui nin yin fa dak bit doh)
di Fruit Chan – Hong Kong 1998
con Tony Ho, Sam Lee
*1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Tre mesi prima dell'handover, il passaggio di Hong Kong dalla Gran Bretagna alla Cina (previsto per il primo luglio 1997), un gruppo di soldati cinesi dell'esercito britannico vengono congedati per lo smantellamento della loro guarnigione, e rimangono senza lavoro e senza prospettive. Fra questi c'è Ga Yin (Tony Ho, all'esordio), che viene assunto come autista di un gangster (Chan Sang) grazie all'intercessione del fratello minore Ga Suen (Sam Lee), che già lavora per la malavita. I due fratelli, insieme ad altri amici reduci, progettano di rapinare una banca con armi finte: ma il giorno del colpo, scoprono di essere stati anticipati da un'altra banda di rapinatori, di cui fa parte Jane (Jo Kuk), la figlia ribelle del loro stesso boss... Dopo "Made in Hong Kong", Fruit Chan continua a scegliere il delicato momento del cambiamento di Hong Kong come sfondo delle sue storie, raccontando le esistenze in bilico di personaggi di fronte all'incertezza per il futuro (il proprio e quello della loro città) e al declino dello stile di vita, dell'economia e dei valori. Senza mai prendersi sul serio, nemmeno nei momenti più melodrammatici (memorabile e originale Wing, il boss della triade, low profile e umanissimo nella sua impotenza di fronte alle novità), il film ha alcuni pregi nella descrizione della società e dell'ambiente, una lunga estate piena di dubbi e di incertezze che culmina nelle celebrazioni a base di fuochi d'artificio e di discorsi delle autorità (compreso il principe Carlo) sotto la pioggia, ma risulta troppo confuso e frammentario, perdendo diversi colpi quando cerca di imbastire una vera trama. Attorno a Tony Ho e a Sam Lee recitano – come consuetudine nei film di Chan – una serie di attori non professionisti o alle prime armi.

22 febbraio 2019

Kurz und schmerzlos (Fatih Akin, 1998)

Kurz und schmerzlos (aka Short Sharp Shock)
di Fatih Akin – Germania 1998
con Mehmet Kurtuluş, Aleksandar Jovanović
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Il primo lungometraggio di Akin è una storia di amicizia, amore, tradimento e vendetta, ambientata nel sottobosco della piccola criminalità nella Germania multiculturale degli immigrati di seconda generazione (si svolge nel quartiere Altona di Amburgo, dove lo stesso Akin è nato e cresciuto). Il turco Gabriel (Mehmet Kurtuluş), appena uscito di prigione dopo aver scontato due anni per rissa aggravata, ritrova gli amici di un tempo – lo scalcinato ladruncolo greco Costa (Adam Bousdoukos) e l'ambizioso ricettatore serbo Bobby (Aleksandar Jovanović) – con i quali formava un trio inseparabile. Gabriel vorrebbe mettere la testa a posto, e sogna di tornare prima o poi in Turchia, ma rimane coinvolto insieme a Costa nei maneggi di Bobby, che lavora adesso per un pericoloso gangster albanese (Ralph Herforth). A complicare la vicenda, e a mettere a repentaglio la loro amicizia, ci sono anche le donne: Ceyda (Idil Üner), sorella di Gabriel e fidanzata di Costa, che lo lascia per un nuovo spasimante; e la bella Alice (Regula Grauwiller), la ragazza di Bobby, per la quale Gabriel prova una forte attrazione... Nonostante gli evidenti debiti ai primi film di Martin Scorsese ("Mean streets") e De Palma (Bobby sogna di essere come Al Pacino in "Scarface"), ma anche alle pellicole hongkonghesi di John Woo ("Bullet in the head", "A better tomorrow") e persino con qualche citazione di Sergio Leone ("Il buono, il brutto, il cattivo": vedi l'incipit con la presentazione dei personaggi), il film ha una sua identità precisa, fortemente dipendente dall'ambiente in cui si svolge la vicenda, quel melting pot di culture ed etnie caratteristico di molte metropoli europee al volgere del millennio. Bravi gli attori, che ben caratterizzano i personaggi. Il regista si ritaglia la parte dello spacciatore. Il titolo originale significa "Rapido e indolore". Non mi risulta che esista un'edizione italiana.

20 febbraio 2019

King Kong (Cooper, Schoedsack, 1933)

King Kong (id.)
di Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack – USA 1933
con Fay Wray, Robert Armstrong, Bruce Cabot
***1/2

Rivisto in divx.

"Then something went wrong
for Fay Wray and King Kong
they got caught in a celluloid jam..."

Carl Denham (Armstrong), eccentrico produttore cinematografico, guida una spedizione sulla misteriosa Isola del Teschio, lembo di terra non segnato sulle mappe, anche perché popolato da dinosauri e mostri giganti. Il re di tutti questi è Kong, colossale gorilla temuto e idolatrato dai locali indigeni, che gli dedicano sacrifici umani e pensano bene di donargli in sposa Ann Darrow (Wray), la bionda protagonista del film che Denham intendeva girare. La ragazza viene salvata dall'intrepido primo ufficiale Jack Driscoll (Cabot), e lo scimmione è catturato e condotto a New York per essere esibito nei teatri di Broadway come "ottava meraviglia del mondo". Ma riuscirà a liberarsi dalle catene che lo tenevano imprigionato (suscitando il panico fra la folla), a catturare Ann e ad arrampicarsi con lei in cima all'Empire State Building, dove sarà abbattuto dall'aviazione. Il padre di tutti i film di mostri, una pellicola seminale e influente che non solo ha generato innumerevoli imitazioni, sequel e remake (basti citare le versioni del 1976 di John Guillermin e del 2005 di Peter Jackson), ma ha creato una vera e propria icona massmediale (lo scimmione King Kong, appunto) e ha addirittura dato vita a un intero genere cinematografico di successo a livello globale (basti pensare al giapponese "Godzilla"). La sceneggiatura di James Ashmore Creelman e Ruth Rose (oltre che di Horace McCoy e Leon Gordon, non accreditati), da un soggetto del regista Cooper e di Edgar Wallace, insiste a più riprese sul tema de "La bella e la bestia": non solo Kong agisce perché invaghito della bella Ann, ma la frase finale di Denham sugella in questo modo il suo destino: "Oh, no, it wasn't the airplanes. It was Beauty killed the Beast". Il tutto rende Kong un personaggio tragico, quasi un antieroe, e non un semplice cattivo da film horror: e dunque gli spettatori arrivano a provare una certa empatia nei suoi confronti, creatura strappata al proprio mondo selvaggio per essere trasportata nella "civiltà" ed esibita come un fenomeno da baraccone (qui c'è anche una metafora dello schiavismo).

L'avvincente lungometraggio, che si dipana senza un attimo di tregua, ha tutte le stimmate dei film (o dei fumetti o romanzi) d'avventura ambientati nella giungla o in luoghi esotici, compreso qualche stereotipo coloniale. In particolare è fortemente debitore al classico racconto di Arthur Conan Doyle "Il mondo perduto", da cui provengono i dinosauri, e che pochi anni prima – nel 1925 – era stato portato sullo schermo con gli effetti speciali di Willis O'Brien, responsabile anche di quelli di "King Kong". E proprio l'eccezionale (per l'epoca) resa del gorilla gigante, modellato da Marcel Delgado e animato a passo uno, che interagisce lungamente con gli attori in carne e ossa (per non parlare degli altri mostri e dei dinosauri con i quali si batte: memorabile soprattutto lo scontro con il tirannosauro con cui si contende Ann, ma sullo schermo compaiono anche uno stegosauro, un brontosauro, uno pterodattilo, un'iguana e un serpente gigante), fu uno dei segreti dell'enorme successo del film. C'è poi la trovata di spostare, nel finale, il setting in un ambiente urbano, lasciando che lo scimmione si aggiri per le strade di New York, distruggendo treni e ferrovie e arrampicandosi sui palazzi, fino al catastrofico e celeberrimo finale sulla cima di quello che allora era il grattacielo più alto del mondo (a questo proposito, uno dei tanti lasciti del film nella cultura di massa è anche l'ispirazione per il videogioco "Donkey Kong", dal quale proviene il popolarissimo personaggio di Super Mario). Da notare che nel film non viene data nessuna spiegazione (scientifica o di altro tipo) per l'esistenza di Kong e dei dinosauri. Il fatto che lo scimmione compaia soltanto a film già inoltrato (dopo un'attesa di oltre 40 minuti) non fa altro che accrescere la suspense. Cooper e Schoedsack si divisero equamente i compiti di regia: il primo si occupò delle sequenze d'azione, il secondo di quelle di dialogo. Nel ruolo più celebre della sua carriera, Fay Wray (che aveva già lavorato con Cooper, Schoedsack e Armstrong l'anno prima ne "La pericolosa partita") divenne la prima scream queen del cinema horror. Già nove mesi più tardi, in quello stesso 1933, Schoedsack realizzava un seguito, "Il figlio di King Kong". Il film originale fu ridistribuito più volte nelle sale (fino al 1956), con varie censure, e nel 1989 venne colorizzato per la televisione.

19 febbraio 2019

Death race (Paul W.S. Anderson, 2008)

Death Race (id.)
di Paul W. S. Anderson – USA 2008
con Jason Statham, Tyrese Gibson
**

Visto in TV.

In un futuro in cui il sistema carcerario è in mano a corporazioni private che organizzano cruente ed estreme competizioni fra detenuti da trasmettere in diretta televisiva, l'ex pilota automobilistico Jensen Ames (Jason Statham) viene imprigionato ingiustamente con l'accusa di avere ucciso sua moglie, e convinto a partecipare alla Death Race, una corsa che mette in palio la libertà. Gareggiando con la falsa identità del pilota mascherato Frankenstein, dovrà vedersela con agguerriti avversari – fra cui Machine Gun Joe (Tyrese Gibson), Pachenko (Max Ryan) e il cinese 14K (Robin Shou) – in una gara caratterizzata, oltre che dalla velocità, anche da armi e trappole mortali di ogni genere... Ispirato a una pellicola di culto prodotta nel 1975 da Roger Corman ("Anno 2000: La corsa della morte"), da cui però elimina tutti gli elementi di satira e kitsch, un action movie che fonde scenari da B-movie carpenteriano (il setting ricorda "1997: Fuga da New York") e da sport distopico ("Rollerball", "L'implacabile") con il mix di adrenalina, donne e motori tipico di serie come "Fast and furious". Nulla di particolarmente originale o profondo (e il finale è un po' semplicistico e anticlimatico), ma l'azione e lo spettacolo non mancano. Il muscoloso Statham fa il suo come sempre (anche se Corman avrebbe voluto inizialmente Tom Cruise per questo remake). La "cattiva", ovvero la direttrice del carcere, è Joan Allen. Nel cast anche Ian McShane (Coach, il capo meccanico), Natalie Martinez (Case, la navigatrice) e Jason Clarke (il secondino). Sotto la maschera di Frankenstein, nelle sequenze introduttive, c'è David Carradine, protagonista del film originale. Visto il buon successo al botteghino, negli anni seguenti sono usciti (ma solo in home video) vari prequel, sequel e reboot.

18 febbraio 2019

Pane e tulipani (Silvio Soldini, 2000)

Pane e tulipani
di Silvio Soldini – Italia 2000
con Licia Maglietta, Bruno Ganz
***

Rivisto in DVD, per ricordare Bruno Ganz.

La casalinga pescarese Rosalba (Licia Maglietta) viene dimenticata dal pullman (e dalla famiglia, il marito e due figli adolescenti) all'Autogrill durante una gita turistica a Paestum. Ne approfitta per seguire per una volta l'impulso del momento, facendo l'autostop fino a Venezia, città dove non è mai stata, intenzionata a trascorrervi qualche giorno da sola. Qui incontrerà una serie di personaggi eccentrici, a cominciare da Fernando (Bruno Ganz), attempato cameriere di origini islandesi, dai modi gentili e dal linguaggio forbito (ha imparato a memoria l'"Orlando Furioso"), e imparerà a essere sé stessa. Il miglior film di Soldini, un gioiellino che quasi non sembra neanche un film italiano (ricorda semmai l'umorismo finlandese alla Kaurismäki o un certo surrealismo giapponese alla Murakami). Sotto l'aspetto di commedia leggera e simpatica, da cui è facile lasciarsi catturare, mette al centro della scena un personaggio di mezza età che trova un'opportunità di "rifiorire" quando ormai non ci pensava più (come i tulipani che infatti perderanno i petali quando lei partirà). La Maglietta è perfetta nel ruolo della casalinga "media" (un po' goffa, insicura, incompresa e non apprezzata da familiari che la trascurano: e infatti la dimenticano in autostrada), in cerca di una pausa e di qualche giorno di indipendenza, che riesce a reinventarsi e a riscoprire il proprio lato bohémienne in un contesto diverso e romantico (la Venezia dei canali e degli scorci non turistici), fra negozietti di fiori, vecchie canzoni e fisarmoniche. Non è da meno Ganz, con la sua recitazione attenuata, nel dare vita a una figura con un passato tragico (all'inizio Rosalba, senza saperlo, lo salva dalle incombenti idee di suicidio) e con un fascino particolare. Ma in generale tutti i personaggi, anche quelli minori – dalla vicina di casa Grazia Reginella (Marina Massironi), "massaggiatrice olistica", al vecchio e burbero anarchico Fermo (Felice Andreasi), proprietario del negozio di fiori dove Rosalba trova lavoro; dal grossolano marito Mimmo (Antonio Catania), all'idraulico (Giuseppe Battiston) che questi assume come investigatore per rintracciare la moglie – pur sfiorando spesso la macchietta, sono originali e vivi, entrano nella storia quasi casualmente (per poi rimanerci) e sono immersi in un'atmosfera romantica e realistica al tempo stesso, fra la favola (con Rosalba nei panni di Cenerentola: a un certo punto perde persino la scarpetta) e la ricostruzione di un Nord-Est d'altri tempi o forse fuori dal tempo, una strana commistione fra un passato ricco di fascino e di cultura e un presente kitsch o in decadenza. Molte i momenti divertenti (il bambino con il cartello "Cercasi nuovi genitori") o surreali (i "sogni lucidi" della protagonista) e le frasi cult ("Mi duole contraddirla, signora, ma i cinesi sono i piu grandi ristoratori del mondo", "Venezia è una città con grossissimi problemi idraulici"). Tatiana Lepore è Adele, la madre del piccolo Eliseo. Il cantante nella balera dove Rosalba e Fernando vanno a ballare è Don Backy (che canta "Frasi d'amore").

17 febbraio 2019

La pattuglia sperduta (John Ford, 1934)

La pattuglia sperduta (The Lost Patrol)
di John Ford – USA 1934
con Victor McLaglen, Boris Karloff
**1/2

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Durante la prima guerra mondiale, una pattuglia di soldati inglesi a cavallo, smarriti nel deserto della Mesopotamia, si rifugia presso un'oasi. Qui vengono presi di mira da cecchini arabi che li uccidono uno a uno. Da un romanzo di Philip MacDonald (già adattato in un film muto britannico del 1929: questo è tecnicamente un remake), una pellicola bellica del tutto particolare, visto che – tranne per una breve scena nel finale – i nemici non appaiono praticamente mai: sono delle presenze minacciose ma invisibili, incombenti forze del destino o della natura come gli indiani di "Ombre rosse": ogni tanto uno dei loro colpi di fucile abbatte uno dei soldati della pattuglia, nel frattempo resi progressivamente più ansiosi (se non addirittura pazzi) dall'assedio, dall'attesa, dal caldo e dai propri fantasmi. Nei tempi morti, il cameratismo, le chiacchiere, il confronto fra le diverse filosofie di vita ci aiutano a conoscere meglio i vari componenti del gruppo, fra cui (oltre al sergente interpretato da Victor McLaglen) spicca Sanders (Boris Karloff), ossessionato dalla religione. Fra gli altri interpreti ci sono Wallace Ford, Reginald Denny, J.M. Kerrigan, Billy Bevan e Alan Hale. Curiosità: il protagonista del film del 1929 era Cyril McLaglen, fratello di Victor. La stessa storia ispirerà il film sovietico "Sangue sulla sabbia", il bellico "Sahara" e il western "Nuvola nera". La colonna sonora di Max Steiner fu candidata all'Oscar.

16 febbraio 2019

More (Barbet Schroeder, 1969)

More - Di più, ancora di più (More)
di Barbet Schroeder – Francia 1969
con Klaus Grünberg, Mimsy Farmer
***

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Il giovane autostoppista tedesco Stefan (Grünberg) conosce a Parigi la bella e misteriosa Estelle (Farmer), se ne innamora e la segue fino all'isola di Ibiza. Qui scopre che la ragazza è una tossicomane, finendo per condividerne il destino... Opera prima di Schroeder, celebre per la colonna sonora realizzata appositamente dai Pink Floyd (fu il loro terzo album in studio) ma anche per la descrizione realistica e senza compromessi della dipendenza dalla droga. A quei tempi, Ibiza era un po' "sinonimo di psichedelia ed esperienze di vita al di fuori di qualsiasi controllo", e la permanenza di Stefan sull'isola in compagnia di Estelle lo illustra perfettamente. I due ragazzi dapprima si illudono di poter convivere insieme in totale libertà (quasi sempre nudi, a casa o in spiaggia), per poi dover fare i conti con i propri fantasmi. E come gli "adoratori del sole" che si accecano a furia di guardare l'astro nel cielo, il desiderio di volere sempre di più (e l'incapacità di fermarsi) li porta all'autodistruzione. Emblematica la scena della lotta contro i mulini a vento (come Don Chisciotte). Molto bella l'ambientazione e in generale l'atmosfera, con evidenti influssi della Nouvelle Vague: e gli scenari naturali, con il passaggio delle stagioni (dall'estate all'inverno), sono uno sfondo suggestivo. Il finale è brusco, ma efficace. Heinz Engelmann è l'ambiguo Dottor Wolf, ex nazista, proprietario di alberghi e ristoranti sull'isola, ma soprattutto amante di Estelle e suo spacciatore di eroina. Michel Chanderli è il ladruncolo Charlie, amico di Stefan che cerca inutilmente di allontanarlo dalla ragazza. Nel cast anche Henry Wolf (Henry) e Louise Wink (Cathy). Accolto in maniera controversa alla sua uscita, è poi diventato un film di culto.

15 febbraio 2019

Terminator Genisys (Alan Taylor, 2015)

Terminator Genisys (id.)
di Alan Taylor – USA 2015
con Arnold Schwarzenegger, Emilia Clarke
*1/2

Visto in TV.

Nel 2029, mentre sta per scattare l'ultima offensiva contro le macchine che hanno decimato l'umanità, il capo della resistenza John Connor (Jason Clarke) invia indietro nel tempo fino al 1984 uno dei suoi soldati, il fido Kyle Reese (Jai Courtney), affinché protegga la propria madre Sarah Connor (Emilia Clarke) dalla minaccia del Terminator che la vuole uccidere. Ma rispetto al film originale di James Cameron, qualcosa nella linea temporale è cambiato: Kyle trova ad attenderlo un T-1000 (il robot di metallo liquido visto in "Terminator 2"), mentre Sarah è già stata salvata – e addestrata a combattere sin da quando aveva 9 anni – da un vecchio modello T-800 (Arnold Schwarzenegger), denominato "Guardiano". Insieme, Kyle, Sarah e il Guardiano (che la ragazza chiama "Papà": e le dinamiche fra lui e Kyle sono proprio quelle di un padre e di un fidanzato), cercheranno di impedire il "giorno del giudizio", che in questa nuova realtà temporale non avverrà nel 1997 ma è previsto per il 2017, quando il sistema operativo Genisys, che renderà connessi tutti i dispositivi elettronici del mondo, sarà messo online. Ad ostacolarli, questa volta, c'è nientemeno che lo stesso John Connor, trasformato in un inarrestabile ibrido uomo/macchina (T-3000). Reboot della saga che tenta di ripartire dagli elementi iconici dei primi due film (quelli diretti da Cameron) e di ignorare i due successivi (ma almeno il terzo non era certo inferiore a questo), oltre che di spostare di vent'anni in avanti il setting della vicenda. L'operazione puzza di una certa arroganza, fra continue strizzatine d'occhio alle prime due pellicole, una sceneggiatura contorta e meccanica, scene d'azione più noiose che avvincenti e un astruso rant contro il moderno mondo connesso e l'Internet delle Cose. Ed è dunque ironico che, visto il flop al botteghino in patria, il film (che nelle intenzioni avrebbe dovuto dare origine a una trilogia) sarà a sua volta ignorato dall'ennesimo reboot in programma, prodotto dallo stesso Cameron. Del cast, manco a dirlo, Schwarzy è sempre la punta di diamante, anche con le rughe e i capelli grigi ("Sono vecchio, non obsoleto"). In ogni caso, grazie alla computer grafica, appare anche in versione "giovane" (molte scene del primo film sono state ottimamente ricostruite). A differenza dei loro personaggi, e nonostante il cognome uguale, Jason Clarke ed Emilia Clarke non sono imparentati. J.K. Simmons è il poliziotto veterano O'Brien, che aiuta i nostri eroi perché li aveva già incontrati nel 1984.

14 febbraio 2019

A star is born (Bradley Cooper, 2018)

A star is born (id.)
di Bradley Cooper – USA 2018
con Bradley Cooper, Lady Gaga
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

L'affermato cantante country Jackson Maine (Bradley Cooper) incontra in un drag bar di terz'ordine la cameriera e aspirante cantautrice Ally (Lady Gaga). Innamoratosene, e intravedendo il suo potenziale talento, la fa salire sul palco con sé e la trasforma in una celebrità. Ma l'irresistibile ascesa di lei verso il successo come cantante pop andrà di pari passo con la caduta nel baratro di lui, spinto dall'alcolismo e da problemi all'udito: una doppia parabola che prosegue anche dopo che i due si saranno sposati... Terzo remake di "È nata una stella" di William Wellman del 1937 (dopo quello di Cukor del 1954 con Judy Garland e quello di Pierson del 1976 con Barbra Streisand), il quarto se contiamo anche una versione di Bollywood, benché il canovaccio risalga almeno ad "A che prezzo Hollywood?" del 1932. I debiti più evidenti sono quelli alla versione del 1976 (con Kris Kristofferson nel ruolo maschile), che già aveva spostato definitivamente il setting dal mondo del cinema a quello della musica. L'atmosfera è accattivante, la colonna sonora è piacevole e i due protagonisti (un Cooper al debutto come regista e una Lady Gaga sorprendentemente spontanea) rubano la scena, ma tutto è forse un po' troppo perfettino (in particolare nella descrizione dell'ambiente circostante e nella scelta e caratterizzazione dei personaggi di contorno) e il finale (per chi non lo conoscesse) pare già scritto. Nel cast anche Sam Elliott (il fratello di Jackson), Rafi Gavron (il manager) e Andrew Dice Clay (il padre di Ally). Ottimo il riscontro di critica e di pubblico, con ben otto candidature agli Oscar (forse troppe per un remake che non stravolge l'originale), fra cui la miglior canzone originale ("Shallow").

12 febbraio 2019

La dolce vita (Federico Fellini, 1960)

La dolce vita
di Federico Fellini – Italia 1960
con Marcello Mastroianni, Anita Ekberg
****

Visto in divx.

Pochi film sono entrati nell'immaginario collettivo e nella storia del cinema globale come "La dolce vita", uno dei capolavori di Fellini, il cui titolo stesso (forse una citazione dal Paradiso di Dante) è diventato un'espressione idiomatica usata – anche all'estero – per indicare uno stile di vita mondano e spensierato come quello che caratterizzava via Veneto e la Roma del boom economico, cosmopolita e mediatica, alla fine degli anni cinquanta e agli inizi degli anni sessanta (molti episodi del film sono infatti ispirati ad eventi reali, di costume ma anche di cronaca nera). Per non parlare di termini come "paparazzi" per indicare i fotoreporter scandalistici, invadenti e senza scrupoli, dal nome del fotografo Paparazzo (Walter Santesso), amico del protagonista, modellato sul reporter romano Tazio Secchiaroli, divenuto celebre proprio per aver immortalato alcuni di questi eccessi. Siamo in effetti in un momento di passaggio e di profondi cambiamenti all'interno della società italiana ed europea in generale. Un Mastroianni iconico (con i suoi occhiali scuri) interpreta il suo omonimo Marcello Rubini, giornalista di rotocalchi, dongiovanni e inquieto viveur, sempre a caccia di scandali e di vip nella Roma "bene" del mondo dello spettacolo e dell'aristocrazia, mentre attraversa una crisi esistenziale per via delle sue ambizioni frustrate (il suo sogno era quello di diventare un romanziere) e di un rapporto difficile e insofferente con la compagna Emma (Yvonne Furneaux). La sceneggiatura (scritta da Fellini insieme ai fidi Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, con la collaborazione di Brunello Rondi) ce lo mostra al lavoro in un mosaico di situazioni e di episodi, spesso slegati l'uno dall'altro, di cui è sovente soltanto uno spettatore od osservatore passivo. Di questi, il più (giustamente) celebre è quello che lo vede interagire con Sylvia (Anita Ekberg), prorompente ed esuberante attrice hollywoodiana di origine svedese, che accompagnerà in una gita notturna per le strade di Roma, culminante in quel bagno nella fontana di Trevi che è forse la singola scena più celebre di tutto il nostro cinema (omaggiata poi in decine di altre pellicole, a cominciare da "C'eravamo tanto amati" di Ettore Scola). L'intero episodio sembra cominciare a mettere in crisi le certezze e l'esistenza stessa di Marcello, che di fronte alla semplicità e all'esuberanza della ragazza inizia a dubitare del proprio stile di vita ("Ma sì, ha ragione lei, sto sbagliando tutto!"), così imprigionato in schemi e ruoli borghesi.

In realtà, Marcello non pare far tesoro di questi insegnamenti, dato che l'intera pellicola alterna momenti di consapevolezza (spesso legati a episodi drammatici o nostalgici: l'inspiegabile suicidio dell'amico Steiner (Alain Cuny), la cui vita apparentemente "perfetta" Marcello aveva affermato di invidiare; oppure la serata trascorsa per locali notturni insieme al padre (Annibale Ninchi), giunto inaspettatamente a Roma dal paese, e con il quale comincia a recuperare un rapporto mai sviluppato) ad altri di assoluto svago, incoscienza e rilassatezza (i ricevimenti, come quello nel castello degli aristocratici fuori Roma, o il party/orgia a Fregene per festeggiare l'annullamento del matrimonio dell'amica Nadia (Nadia Grey: anche lei, come Mastroianni, conserva il proprio nome), all'insegna di spogliarelli e volgarità). Tutto il film, a ben vedere, corre lungo il tema del contrasto: c'è contrasto fra la ricchezza e la povertà, fra l'arretratezza e il benessere, fra la dignità e l'edonismo, fra l'ordine e la libertà, fra la vita e la noia, fra il classico e il moderno (si pensi ai balli e alla musica rock – a cantare è un giovane Adriano Celentano! – in mezzo alle rovine di Caracalla), fra il sacro e il profano, fra momenti di silenzio e di contemplazione e altri di caos tra la folla e il circo mediatico, fra scorci di una Roma arcaica o provinciale e quella invece moderna e cosmopolita (l'ambiente in cui bazzica Marcello è pieno di stranieri), fra un centro città fatto di edifici classici e una periferia di cantieri e palazzi in costruzione, fra emozioni contrastanti (ma spesso coesistenti) come la tristezza e l'allegria. I contrasti sono evidenti sin dall'inizio (si passa da un'immagine della statua di Gesù, portata in volo da moderni elicotteri, a danzatori esotici in un locale notturno orientale) e perdurano per tutta la pellicola. E nonostante ci si muova nel mondo moderno del jet set, in molte sequenze si respira un'atmosfera "circense", tipicamente felliniana (si pensi ai clown che si esibiscono al cabaret dove Marcello si reca con il padre), grazie anche alle musiche di Nino Rota. Fra gli altri episodi da ricordare, quello del presunto "miracolo" dei due bambini che affermano di aver visto la Madonna e che richiama una folla di credenti, curiosi e giornalisti (si tratta di una delle due scene – l'altra è quella del castello dei nobili – non presenti nella sceneggiatura originale e improvvisate sul set). Il finale, con il ritrovamento della mostruosa manta sulla spiaggia (forse un riferimento simbolico al caso di Wilma Montesi), si ricongiunge con l'incipit: in entrambe le scene, le parole di Marcello (con le ragazze che prendono il sole sul tetto, con la ragazzina sul lungomare) sono coperte dai rumori ambientali (le pale dell'elicottero, il suono delle onde), rendendo difficile la comunicazione. Siamo già di fronte al tema dell'incomunicabilità, così caro ad Antonioni...

Pur proveniente da un paese di provincia, Marcello è ben introdotto nell'ambiente romano dei Vip e dei divi, conosce tutto e tutti, o meglio tutte: sono le donne che gli ruotano intorno e che incontra, infatti, uno dei fili conduttori della storia. A partire da Maddalena (Anouk Aimée), ricca e infelice, che gioca a corteggiare a più riprese (vanno persino a fare l'amore nella stamberga allagata di una prostituta), salvo vederla sparire proprio quando lei, ubriaca, gli dichiara il proprio amore. Marcello e Maddalena sono complici e simili, perfetto specchio l'uno dell'altra (nonostante le differenze di classe e di risorse economiche). Del tutto diversa è invece Sylvia, donna perfetta venuta dal nulla che irrompe nella sua vita per donargli alcuni momenti magici e andarsene improvvisamente come era venuta. La più prosaica Emma resta invece per lo più a casa annoiata mentre lui è in giro a lavorare, e il suo rapporto con lei è altalenante: si passa da tentativi di suicidio a litigi furiosi, seguiti da immediate riappacificazioni (che dimostrano, se non altro, l'inconcludenza e l'incapacità di decidere della propria vita da parte del protagonista, perennemente in cerca di sé stesso). Nel ricchissimo cast anche Lex Barker (il fidanzato di Sylvia), Magali Noël (la ballerina francese Fanny), Jacques Sernas, Riccardo Garrone e la cantante Nico. La ragazzina sulla spiaggia è Valeria Ciangottini. Il film avrebbe dovuto essere prodotto da Dino De Laurentiis, che si tirò indietro perché la sceneggiatura era "troppo caotica" (e perché Fellini voleva a tutti i costi Mastroianni come protagonista, anziché un attore straniero come Paul Newman): gli subentrarono Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato. Altri attori presi in considerazione per ruoli minori furono Maurice Chevalier (per il padre di Marcello) ed Henry Fonda (per Steiner), mentre Luise Rainer avrebbe dovuto interpretare una scrittrice in una sequenza che fu poi eliminata dalla sceneggiatura. La pellicola, che nonostante alcune iniziali polemiche – o forse anche per la pubblicità da esse scaturita – riscuoterà un enorme successo di pubblico (persino inaspettato, vista la struttura insolita e le tre ore di durata), diventando istantaneamente un fenomeno di critica e di costume, si rivelerà nel corso degli anni una delle più influenti del cinema moderno, lanciando definitivamente la carriera di Fellini (è con questa e il successivo "8 1/2" che nasce il termine "felliniano"), e non cessando mai di ispirare altri registi e artisti (basti pensare a "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino, che ne è quasi un aggiornamento a cinquant'anni di distanza). Palma d'Oro al Festival di Cannes. Nominata a quattro Oscar, vinse quello per i migliori costumi.

11 febbraio 2019

Good time (Josh e Benny Safdie, 2017)

Good time (id.)
di Josh e Benny Safdie – USA 2017
con Robert Pattinson, Buddy Duress
**1/2

Visto in TV.

Constantine "Connie" Nikas (un sorprendente Pattinson), delinquente di mezza tacca, tenta di rapinare una banca insieme al fratello Nickolas (Ben Safdie), ritardato mentale, il quale durante la fuga viene catturato dalla polizia. Connie cerca allora di farlo evadere dall'ospedale dove è stato ricoverato, ma per errore libera l'uomo sbagliato, il malcapitato Ray (Buddy Duress). Dopo essersi rifugiati nella casa di un'ignara famiglia di colore (dove Connie, ormai ricercato, si tinge i capelli), i due decidono di collaborare per recuperare una sacca piena di denaro che un altro rapinatore ha nascosto in un vicino parco dei divertimenti... Un'odissea psicotica e notturna (la pellicola si svolge nell'arco di 24 ore, ma essenzialmente tutta in una notte) in un'America violenta, nevrotica e sospettosa, popolata da piccoli criminali o in generale da persone senza alcuna empatia verso il prossimo (c'è chi l'ha definita un "crime story nell'era di Trump"). Acclamata dalla critica, che ci ha rivisto l'energia di Scorsese e di Friedkin e ha apprezzato la metafora della città che marginalizza e imprigiona i suoi personaggi, ma forse un po' sopravvalutata. Il ritmo è serrato, la fotografia iperrealista e avvolgente, la regia elegante e non priva di idee: quello che manca è una vera sceneggiatura, visto che tutto gira a vuoto, il caso e le coincidenze abbondano (quasi come in "Detour" di Ulmer) e soprattutto il finale giunge random e inconcludente. Jennifer Jason Leigh è la compagna di Connie, Taliah Webster la ragazzina che ingenuamente lo aiuta, Peter Verby il terapista che ha in cura Nick. I due registi (uno anche attore), cineasti underground al quinto film (il primo con ambizioni mainstream, sia pure d'autore), sono a loro volta fratelli.

10 febbraio 2019

Sono innocente (Fritz Lang, 1937)

Sono innocente (You only live once)
di Fritz Lang – USA 1937
con Henry Fonda, Sylvia Sidney
**1/2

Rivisto in DVD.

L'ex galeotto Eddie Taylor (Henry Fonda) vorrebbe rifarsi una vita onesta insieme a Joan (Sylvia Sidney), segretaria di un celebre avvocato. Ma viene accusato di una sanguinosa rapina in banca, arrestato e condannato alla sedia elettrica. La sua innocenza verrà a galla troppo tardi, proprio mentre l'uomo, in procinto di essere giustiziato, evade uccidendo il prete della prigione. In fuga insieme alla moglie incinta, i due saranno braccati dalla legge... Il secondo film americano di Lang (dopo "Furia") è un proto-noir ispirato alle vicende (allora recenti) di Bonnie & Clyde, che insiste sul tema dell'uomo perseguitato dal destino, dai pregiudizi e dalla legge, quasi costretto a diventare un bandito (e accusato anche di colpe non sue). Forse è meno efficace del film precedente, ma restano comunque notevoli le scene nella prigione, con l'ombra delle barre della cella proiettate verso l'esterno, e alta la tensione durante tutta la sequenza della fuga. Rispetto al girato originale, la produzione tagliò una quindicina di minuti perché giudicati troppo violenti (in particolare nella scena della rapina alla banca). Forse anche per questo motivo, alcuni punti della trama rimangono irrisolti (chi aiuta Eddie ad evadere, e perché?). La versione italiana edulcora ulteriormente i dialoghi (per esempio dice che il prete è stato solo ferito da Eddie durante la fuga, anziché ucciso). Barton MacLane è l'avvocato, Jean Dixon la sorella di Joan, William Gargan il prete. Durante le riprese, Lang si fece la fama di regista "difficile" da trattare, il che compromise in parte il resto della sua carriera hollywoodiana. La Sidney, che aveva recitato anche in "Furia", tornerà nel terzo film americano del regista tedesco, "You and me".

9 febbraio 2019

Steve Jobs (Danny Boyle, 2015)

Steve Jobs (id.)
di Danny Boyle – USA 2015
con Michael Fassbender, Kate Winslet
**

Visto in TV, con Sabrina.

La vita di Steve Jobs, co-fondatore di Apple e figura chiave nel campo dell'innovazione tecnologica, raccontata attraverso i frenetici istanti che precedono tre celebri presentazioni di prodotto: quella del primo personal computer Macintosh nel 1984, quella del NeXT Computer nel 1988 (nel breve periodo in cui Jobs era uscito dall'azienda), e quella dell'iMac nel 1999 (che segnò il suo ritorno alla Apple). Prima di tutti e tre gli eventi, Jobs (Michael Fassbender, bravo come sempre, anche se non è particolarmente somigliante), coadiuvato dalla sua assistente e addetta al marketing Joanna Hoffman (Kate Winslet), incontra alcune persone, sempre le stesse (le tre sezioni del film portano avanti tante piccole sottotrame che si completano solo alla fine): l'ex amico e co-fondatore della Apple, Steve Wozniak (Seth Rogen), che cerca inutilmente di convincerlo a citare e ringraziare i colleghi che hanno lavorato allo sviluppo dell'Apple II, cosa che Jobs rifiuta perché non vuole agganciare il lancio di un nuovo prodotto a quelli del passato; l'amministratore delegato dell'azienda, John Sculley (Jeff Daniels), che farà licenziare Jobs dopo il flop del Macintosh, spingendolo a fondare una nuova società, la NeXT appunto, salvo poi tornare alla Apple come "salvatore" e riportarla in auge proprio con l'iMac (seguiranno successi planetari come l'iPod, preannunciato dalla scena finale, l'iPhone e l'iPad, nemmeno menzionati visto che il film termina nel 1999); Andy Hertzfeld (Michael Stuhlbarg), un membro del team del Macintosh originale; il giornalista Joel Pforzheimer (John Ortiz); Andrea "Andy" Cunningham (Sarah Snook), che gestisce gli eventi di lancio, e che viene continuamente confusa con Hertzfeld, visto che sono entrambi chiamati Andy; e infine Chrisann Brennan (Katherine Waterston), ex compagna di Jobs, e sua figlia Lisa (Perla Haney-Jardine), inizialmente non riconosciuta ma poi, lentamente, punto di riferimento per l'uomo (almeno nel film). Era difficile mettere in piedi una pellicola su un personaggio del genere, e tutto sommato la sceneggiatura di Aaron Sorkin fa un buon lavoro nel ritrarre le sue diverse facce: ambizioso, arrogante, testardo (e tirannico), più attento al design e al marketing dei suoi prodotti che non agli aspetti tecnici e creativi (le presentazioni devono essere degli spettacoli, anche a costo di "barare"), propugnatore dei "sistemi chiusi" ma comunque preveggente e visionario (come l'Arthur C. Clarke del quale è riportato uno spezzone di intervista nell'incipit). Peccato che il film, in questo modo, manchi di un vero focus: barcamenandosi fra il lato umano, quello imprenditoriale e quello pubblico di Jobs, non si sofferma fino in fondo su nessuno di essi, tanto che il personaggio viene mostrato soprattutto attraverso il modo in cui lo vedono gli altri (amici e collaboratori, più o meno traditi): e la sua vera natura, qual è?

8 febbraio 2019

Un giorno come tanti (J. Reitman, 2013)

Un giorno come tanti (Labor Day)
di Jason Reitman – USA 2013
con Kate Winslet, Josh Brolin
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Fine degli anni ottanta: il tredicenne Harry (Gattlin Griffith) abita da solo con la madre Adele (Kate Winslet), fragile e depressa, che dopo la separazione dal marito si è rinchiusa ancora di più in sé stessa. Quando l'evaso Frank (Josh Brolin), accusato di omicidio, si rifugia nella loro casa isolata e chiede di ospitarlo fin quando le acque non si saranno calmate, la loro vita sembra improvvisamente cambiare. Frank è affascinante e sensibile, e nel giro di pochi giorni (il "weekend lungo" del Labor Day) dimostra di poter essere un buon padre per Harry e un buon compagno per Adele, tanto che i due meditano di fuggire insieme a lui dalla città... Il quinto film di Reitman junior è il primo che non può essere definito una commedia (anche se i precedenti correvano tutti lungo un labile confine fra comico, satira e dramma), oltre che il suo primo insuccesso di critica: la storia pare uscita da un melenso romanzo rosa (Frank è troppo perfetto per essere vero: aitante, premuroso, cucina bene e pulisce pure... esistono realmente uomini così?), ma la scelta di mostrare quasi tutto dal punto di vista del bambino anziché da quello della madre si rivela indovinata, donando alla vicenda quell'aura avventurosa e da coming-of-age (siamo nel periodo in cui anche il ragazzino comincia ad avere le prime pulsioni sessuali) che la rende molto più accattivante. Ambientato in una cittadina di provincia americana dove tutti sono un po' impiccioni (i vicini, i poliziotti, i negozianti), il film si dipana come un thriller senza veri cattivi, con alcuni passaggi scontati o scelte improbabili, ma il (relativo) lieto fine commuove e soddisfa. E la metafora dell'evaso che a sua volta libera la donna e la famiglia dalla propria prigione è efficace. Ottimi gli attori. Clark Gregg è il padre, Brooke Smith la vicina di casa. Piccole parti per J.K. Simmons (il vicino), James Van Der Beek (il poliziotto) e Tobey Maguire (Harry da adulto).

7 febbraio 2019

Medea (Lars von Trier, 1988)

Medea (id.)
di Lars von Trier – Danimarca 1988
con Kirsten Olesen, Udo Kier
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Ripudiata da Giasone (Udo Kier), che intende sposare Glauce (Ludmilla Glinska), figlia del re di Corinto, Medea (Kirsten Olesen) si vendica donando alla giovane sposa una corona avvelenata e poi uccidendo i propri figli. Da una sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer (e Preben Thomsen) per una pellicola che non fu mai realizzata, Lars von Trier firma un film per la tv danese ispirato alla tragedia di Euripide. La messinscena è lenta e austera, con scenografie naturali e minimaliste (spiagge, grotte, paludi, torbiere: il film venne girato nello Jutland, sulle coste del Mare del Nord, scenario ben diverso dalla Grecia ma adatto alle tempestose emozioni e ai sentimenti che muovono i personaggi) che donano alla storia un'aura assai arcaica, favorita dalle immagini antiche, sgranate, come se viste attraverso un telo. Pur nella sua brevità (poco più di un'ora), la pellicola è molto intensa: LVT sfronda la sceneggiatura dalla parte del coro (che Dreyer aveva previsto, volendo recuperare la struttura originale della tragedia greca) e dà invece grande risalto alla scena finale, quella in cui Medea uccide i due figli, impiccandoli ai rami di un albero secco e isolato su una collina erbosa (immagine presente anche nel logo del film, che comprende anche il nome del regista). Nel testo di Euripide i bambini venivano uccisi con un pugnale, mentre Dreyer aveva pensato al veleno. La lunga sequenza dell'impiccagione, con l'esitazione straziante di Medea e la collaborazione del figlio più grande (che afferma di "sapere quello che deve accadere"), culmina con Giasone che va alla ricerca dei figli e li trova morti: ma già prima non mancano scene memorabili, come la folle corsa del cavallo (avvelenato anch'esso, come Glauce) sulla spiaggia. In un certo senso il film è il primo lavoro di von Trier ad avere una protagonista femminile, al tempo stesso forte e vittima, come saranno quasi tutti i successivi lavori del regista (se si eccettua la trilogia "europea" degli esordi). Kirsten Olesen aveva già interpretato Medea a teatro. Udo Kier sostituì all'ultimo momento Niels Arestrup nel ruolo di Giasone. Henning Jensen è Creonte, il re di Corinto.

6 febbraio 2019

Il gaucho (Dino Risi, 1964)

Il gaucho
di Dino Risi – Italia 1964
con Vittorio Gassman, Amedeo Nazzari
**

Visto in TV.

Marco Ravicchio (Vittorio Gassman), squattrinato addetto alle pubbliche relazioni di una piccola casa cinematografica, vola in Argentina per promuovere una pellicola neorealista ("La città morta") in occasione di un festival a Buenos Aires. Nella delegazione che lo accompagna ci sono l'attempata diva Luciana (Silvana Pampanini), due attricette oche (Maria Grazia Buccella e Annie Gorassini) e uno sceneggiatore comunista (Guido Gorgati). Troveranno una città popolata da esuli ed emigranti italiani, divisi fra chi ha fatto fortuna – come l'impetuoso Ingegner Maruchelli (Amedeo Nazzari), ricco esportatore di carne, che vive nel mito e nella nostalgia della patria abbandonata e che accoglie con il proprio entusiasmo i nuovi arrivati, ospitandoli per l'intera permanenza – e chi è rimasto uno spiantato – come Stefano (Nino Manfredi), amico ed ex commilitone di Marco, restato un pezzente nonostante le molte opportunità. Pellicola "turistica" ("Il Gaucho era un po' un pretesto per andare a fare una vacanza in Argentina", dirà lo stesso Risi), caciarona, improvvisata e senza una vera direzione, che dà il suo meglio soprattutto nel ritratto dei personaggi di Nazzari e di Manfredi (la scena migliore è proprio il malinconico incontro fra i due amici che fanno i conti con i propri fallimenti). Apprezzabile anche la demistificazione del "boom" economico (in Italia c'è ancora chi sta male e pensa di emigrare). Dal lato comico, invece, le gag sono ingenue e stereotipate, e il personaggio estroverso e un po' volgare di Gassman era già stato visto troppe volte (da notare la citazione da "Il sorpasso", quando Marco viene superato da un'auto, guidata da un romano, con lo stesso clacson della sua). Norberto Sanchez Calleja è Cecilio, lo spasimante di Luciana; Nora Carpena è la moglie di Maruchelli, che Marco prova a sedurre. Musiche di Armando Trovajoli. La sceneggiatura è firmata da Ruggero Maccari, Tullio Pinelli, Dino Risi ed Ettore Scola.

4 febbraio 2019

La ballata di Buster Scruggs (J. ed E. Coen, 2018)

La ballata di Buster Scruggs (The ballad of Buster Scruggs)
di Joel ed Ethan Coen – USA 2018
con Tim Blake Nelson, Zoe Kazan
*1/2

Visto in TV.

Sei episodi ambientati "al tempo della frontiera americana" (ma di storia del west non c'è nulla, siamo ai limiti della leggenda) per il secondo western dei fratelli Coen dopo "Il grinta", un'antologia altamente diseguale, con continui cambi di registro: si passa dalla parodia (o dalla farsa) al dramma, dall'apologo morale all'avventura, con strizzatine d'occhio un po' a tutti i generi (e ai periodi cinematografici) del western, dagli irrealistici cowboy canterini dei primordi ai più sporchi film revisionisti degli anni settanta. A prevalere però è il solito post-modernismo dei Coen, quel guazzabuglio "tarantiniano" e indistinto di cliché rimasticati e di scenari stereotipati, con personaggi dalla caratterizzazione debolissima (a volte assente, vedi il secondo segmento) e con il succedersi di eventi quasi random, che porta a conclusioni anticlimatiche. Ne risultano così episodi scarni, inconcludenti, stiracchiati, quando non decisamente noiosi (perché i tempi lunghi non riescono a costruire la necessaria tensione: non tutti nascono Sergio Leone!), che lasciano lo spettatore a domandarsi che cosa volessero dire gli autori (se mai volevano davvero dire qualcosa: diffido da sempre di quei critici che si sforzano in ogni modo di trovare per forza dei significati nelle opere dei due fratelli). Molto deludente la fotografia digitale. In ogni caso, l'unico episodio che si può dire valido è il quinto, gli altri lasciano più o meno tutti il tempo che trovano.

"La ballata di Buster Scruggs", con Tim Blake Nelson e Willie Watson (*)
Un pistolero canterino e damerino, che parla con gli spettatori e con il suo cavallo, giunge in una cittadina per giocare a poker, ma sarà ucciso da un rivale molto simile a lui (vestito di nero anziché di bianco) e volerà in cielo come un angioletto. Una scemenza assoluta.

"Vicino Algodones" (Near Algodones), con James Franco e Stephen Root (*)
Un rapinatore di banche viene condannato all'impiccagione, salvato dagli indiani, ricatturato e ri-condannato. L'episodio più esile e insignificante dei sei.

"La pagnotta" (Meal ticket), con Liam Neeson e Harry Melling (*1/2)
Un anziano saltimbanco vaga con il suo carro di paese in paese facendo esibire un giovane attore tetraplegico (che recita Shelley, Shakespeare, Lincoln e la Bibbia). Quando gli incassi cominciano a diminuire, lo sostituisce con una gallina intelligente. Mah.

"Il canyon tutto d'oro" (All gold canyon), con Tom Waits e Sam Dillon (*1/2)
Un vecchio cercatore d'oro trova un ricco filone in una valle disabitata e paradisiaca, ma deve vedersela con un giovane fuorilegge che vorrebbe sottrarglielo a tradimento. Da un racconto di Jack London. Trascinatissimo, ma bella l'ambientazione.

"La giovane che si spaventò" (The gal who got rattled), con Zoe Kazan e Bill Heck (**)
Una timida ragazza parte con una carovana di coloni diretta in Oregon. Durante il percorso riceve una proposta di matrimonio da una delle guide, ma un attacco degli indiani cambierà tutto. Pur con i suoi difetti, l'episodio migliore del lotto (nonché il più lungo).

"Le spoglie mortali" (The mortal remains), con Tyne Daly e Brendan Gleeson (**)
Una carrozza trasporta cinque passeggeri (fra cui due becchini) che durante il tragitto confrontano le proprie filosofie sulla vita, la morte, l'amore e gli esseri umani. Scarno, ma con un certo fascino per via delle vibrazioni soprannaturali.

3 febbraio 2019

Molta brigata vita beata (George Stevens, 1943)

Molta brigata vita beata (The more the merrier)
di George Stevens – USA 1943
con Charles Coburn, Jean Arthur, Joel McCrea
***

Visto in TV.

A causa della penuria di alloggi durante la guerra, Benjamin Dingle (Coburn), anziano ed eccentrico milionario in visita a Washington, convince la ritrosa contabile Connie Milligan (Arthur) ad affittargli una stanza del suo appartamento, di cui poi subaffitterà la metà – all'insaputa di lei – al giovane soldato Joe Carter (McCrea). E nonostante la difficile convivenza a tre, grazie ai maneggi di Dingle, fra i due ragazzi scatterà l'amore. Garbata e movimentata commedia "condominiale", in cui Stevens sfrutta a più riprese l'ambientazione in tempo di guerra, a fini comici (la ricerca della stanza, il soldato scambiato per una spia giapponese), romantici (si dice che a Washington, di quei tempi, ci fossero otto donne per ogni uomo) e drammatici (l'imminente partenza di Joe in missione, da cui potrebbe non tornare, aleggia come uno spettro sulla sua relazione con Connie). E la caratterizzazione dei tre personaggi, così diversi l'uno dall'altro (Dingle è intraprendente, senza freni, esuberante e pieno di idee; Connie è precisa, metodica, ma in fondo frustrata e in cerca d'amore; Joe è chiuso e riservato, ma anche sensibile e appassionato), porta avanti la trama quasi da sola. Richard Gaines è Charles J. Pendergast, il noioso e burocratico "fidanzato ufficiale" di Connie. Il motto pluricitato da Dingle è una frase dell'ammiraglio Farragut: "Al diavolo le torpedini [ossia le mine navali, ndr], e avanti tutta!". Da notare l'inquadratura in cui Connie e Joe sono nei propri letti, separati da un muro sottile (che Dingle farà poi demolire nel finale). In Italia il film è noto anche con il titolo originale. Sei nomination agli Oscar, fra cui miglior film, regia, attrice e sceneggiatura: Coburn vinse la statuetta per il miglior attore non protagonista. Rifatto nel 1966 ("Cammina, non correre") con Cary Grant.

2 febbraio 2019

Boy meets girl (Leos Carax, 1984)

Boy meets girl (id.)
di Leos Carax – Francia 1984
con Denis Lavant, Mireille Perrier
**

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Il giovane Alex (Lavant), artista indeciso sul proprio futuro, viene tradito dalla compagna Florence, che lo lascia per il suo miglior amico. Una sera conosce per caso Mireille (Perrier), modella con tendenze suicide che a sua volta sta attraversando una crisi con il fidanzato Bernard. Durante una festa, i due si parlano a lungo, seduti in una cucina, e si innamorano... Ma finirà in tragedia. Il lungometraggio d'esordio di Carax, soltanto ventiquattrenne, è una pellicola esistenzialista – e un po' pretenziosa – che omaggia a più riprese (per esempio attraverso l'uso delle sovrimpressioni) le atmosfere di un certo cinema muto sperimentale francese (penso a Jean Epstein, ma anche a Gance e Vigo). C'è persino un personaggio (un vecchio sordomuto!) che afferma che "i film muti erano migliori". Dall'incedere lento e notturno e dai dialoghi sofisticati, poetici e filosofici (non mancano monologhi "godardiani"), il lungometraggio ci mostra protagonisti che conducono esistenze depresse e tormentate, entrambi soli e disperati, impossibilitati a trovare la vera felicità. Disseminate nella pellicola, fra un'inquadratura e l'altra, spuntano talvolta interessanti trovate, come Alex che disegna una personale mappa di Parigi con tutte le sue "prime volte". La fotografia in bianco e nero è di Jean-Yves Escoffier. Denis Lavant (destinato a diventare l'attore feticcio del regista) interpreterà un personaggio chiamato Alex (forse sempre lo stesso) anche nei due successivi film di Carax: "Rosso sangue" e "Gli amanti del Pont-Neuf".