31 dicembre 2019

La grande rapina al treno (Edwin S. Porter, 1903)

La grande rapina al treno, aka Assalto al treno (The great train robbery)
di Edwin S. Porter – USA 1903
con Justus D. Barnes, Broncho Billy Anderson
***1/2

Visto su YouTube.

Quattro fuorilegge armati assaltano un treno e rapinano i suoi passeggeri, fuggendo poi a cavallo. Inseguiti dallo sceriffo e dalla sua “posse”, vengono raggiunti fra i boschi e infine uccisi in uno scontro a fuoco. Girato nel novembre 1903 negli studi Edison di New York ma anche in esterni (in New Jersey e presso la ferrovia di Lackawanna), “La grande rapina al treno” è uno dei film muti del primissimo periodo della storia del cinema divenuti oggi più iconici (secondo, forse, soltanto al “Viaggio nella Luna” di Georges Méliès), e come tale è stato ricoperto da una patina di mito che ne ha esaltato oltre misura i pregi e le innovazioni. È stato etichettato di volta in volta come il primo western della storia del cinema (in realtà già nel 1894 William K. L. Dickson aveva filmato un rodeo e delle sequenze con la leggendaria Annie Oakley), il primo film d'azione o addirittura il primo “film narrativo” (qualunque cosa questo voglia dire). Ma anche se l'originalità di Porter deve essere un po' ridimensionata (l'ispirazione, evidente, è data dai film di "inseguimento" britannici come “Stop thief!” di James Williamson e “A daring daylight burglary” di Frank Mottershaw), resta comunque una pellicola assai sofisticata per l'epoca, con l'utilizzo dell'azione parallela, di molteplici posizioni della camera, del montaggio di diverse sequenze in funzione narrativa (in totale ci sono ben 14 scene, che in alcuni casi mostrano eventi che accadono simultaneamente: per esempio lo sceriffo e i suoi uomini vengono avvertiti e partono all'inseguimento mentre i rapinatori sono in fuga), e con un'inquadratura finale (o, in certe copie, iniziale: per Porter la scelta di collocarla all'inizio o alla fine era indifferente, visto che non sembra far parte della storia ed era stata pensata solo per stupire il pubblico) entrata nella leggenda – quella del capo dei banditi (Justus D. Barnes), mostrato in piano medio, che spara sei colpi con la sua pistola verso la macchina da presa, e dunque verso gli spettatori – e che ha contribuito a portare sullo schermo (o a rendere popolare anche presso le platee non americane) l'epica del vecchio west. Il soggetto, oltre che da un dramma teatrale di Scott Marble del 1896, potrebbe essere stato ispirato alle recenti rapine al treno da parte di Butch Cassidy e della sua banda.

Girato con un budget stimato in soli 150 dollari e con una durata di circa 12 minuti, il film riscosse un enorme successo, diventando un vero e proprio blockbuster. Stimolò inoltre rifacimenti (già l'anno successivo Sigemund Lubin ne realizzò una copia identica, con lo stesso titolo: allora le leggi sul copyright non esistevano o erano molto permissive), imitazioni e parodie (come “The little train robbery”, diretto nel 1905 dallo stesso Porter con un cast di soli bambini), e rimase popolarissimo presso il pubblico per almeno un decennio, per poi passare nei libri di storia del cinema e in generale nella cultura popolare. Fra i numerosi omaggi, si potrebbe citare la cosiddetta gun barrel sequence ideata da Maurice Binder per i film di James Bond, nel quale l'agente segreto punta la sua pistola contro lo spettatore, che sarebbe ispirata proprio allo sparo di Barnes. La stessa scena è omaggiata, fra gli altri, nel finale di “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese e in un episodio di “Breaking Bad” (ed è riprodotta pari pari nell'incipit del “Tombstone” di George Pan Cosmatos). Da notare che il titolo “The great train robbery” verrà riutilizzato per un film del 1941, uno del 1978 (in italiano “1855 – La prima grande rapina al treno”, di Michael Crichton) e una serie tv britannica del 2013. Tornando al film, nonostante la semplicità della trama (non sappiamo nulla dei banditi, dei passeggeri e degli inseguitori, a parte il ruolo che rivestono nella vicenda) sono numerosi gli elementi che le danno "colore" e caratterizzazione: la “soggettiva” del treno in movimento mentre i rapinatori cercano di fermare la locomotiva; l'uccisione del passeggero che prova a fuggire, che giunge inattesa e spiazzante; la ragazza che accorre a liberare il telegrafista che i banditi hanno legato, che è probabilmente sua figlia; la sequenza del ballo nel saloon, comica, vivace e prolungata anche al di là della sua importanza nella trama.

Ma dove nasce l'idea di montare insieme più scene con un legame causa-effetto a scopi narrativi (e non solo dunque per passare da un tableau all'altro come avveniva nelle pellicole di Méliès?). Durante i suoi viaggi come proiezionista a scopi dimostrativi (1896-1898), e anche nel breve periodo (1898-1899) in cui lavorò come capo della programmazione in un piccolo museo/teatro (l'Eden Musée a New York), Porter presentava ai suoi spettatori una selezione di cortometraggi che “montava” insieme in un particolare ordine per suscitare l'effetto desiderato (per esempio una serie di riprese panoramiche potevano precedere – fornendogli il contesto – un film a soggetto con attori). Spesso questo montaggio era effettuato direttamente in macchina o attraverso tecniche di vario genere (come la dissolvenza): Porter, e altri cineasti contemporanei (come gli inglesi della scuola di Brighton), si resero così conto che il montaggio stesso poteva diventare uno strumento artistico nelle mani del regista per creare qualcosa di nuovo, ovvero una narrazione più lunga e complessa (e anche per aiutare a rompere la monotonia di riprese in campo lungo sempre uguali). È proprio in questo periodo, dunque, che si passa dai film formati da un'unica inquadratura (come quelli dei fratelli Lumière e i primi lavori di Méliès), che spesso mostravano una danza, uno sketch, un panorama o un “trucco” di magia, a pellicole più sofisticate, composte da numerose sequenze legate cronologicamente l'una all'altra (e il cui particolare accostamento può anche influenzare l'esperienza dello spettatore). Si può dire che siamo di fronte alla nascita del cinema “classico”, caratterizzato dalla narrativa e della continuity, che con lo sviluppo del suo linguaggio consentirà ai registi successivi (a partire da Griffith) di creare dramma, emozioni e spettacolo su scala sempre più ampia.

30 dicembre 2019

Life of an american fireman (Edwin S. Porter, 1903)

La vita di un pompiere americano (Life of an american fireman)
di Edwin S. Porter – USA 1903
con Arthur White, Vivian Vaughan
**

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Prima ancora di David W. Griffith (che inizierà a fare film soltanto nel 1908), Edwin S. Porter è stato uno dei registi americani più importanti nei primissimi anni della settima arte. Ma andiamo con ordine: rimasto spiazzato dalla novità e dalla praticità del cinématographe dei fratelli Lumière, nel 1896 Thomas Edison aveva rapidamente mandato in soffitta il proprio kinetoscopio (che consentiva, ricordiamo, la visione a un solo spettatore per volta) per gettarsi su un progetto molto simile a quello dei francesi, il Vitascope, di cui aveva acquistato il brevetto (ne ho parlato qui). Avendo bisogno di nuovo personale, in particolare di tecnici, operatori e proiezionisti, James H. White (che aveva sostituito William Heise come capo della produzione di Edison) decise di assumere Porter, un elettrotecnico che fino ad allora aveva lavorato per la “concorrenza” (come proiezionista itinerante per il Projectorscope, una sorta di kinetoscopio con proiettore, che per un paio d'anni aveva portato in giro per il mondo – le Americhe e i Caraibi – a scopo dimostrativo, talvolta presentandosi con il falso nome di Thomas Edison Junior!). Edison affidò presto a Porter l'incarico di girare e produrre nuovi film insieme a White. Come già con Ferdinand Zecca e Segundo de Chomón in Francia, dunque, siamo di fronte a un nuovo tipo di cineasta, che lavora inserito in un team e all'interno di una vera e propria industria (a differenza degli “artigiani” indipendenti come Georges Méliès), ovvero alla nascita del moderno sistema di produzione cinematografica collaborativa. Si tratta di registi, fra l'altro, che non devono inventare tutto da zero, ma che possono rifarsi ai trucchi, alle idee e alle tecniche già messe a punto da chi li ha preceduti (Porter, in particolare, sarà molto debitore agli autori inglesi come James Williamson e Frank Mottershaw). Ciò non toglie che, a loro volta, saranno in grado di sviluppare interessanti soluzioni.

Nel caso di Porter si tratta soprattutto dell'uso della continuity e del montaggio in funzione narrativa (come sarà evidente nel suo film più famoso, “La grande rapina al treno”). Un primo esempio è fornito da questo “Vita di un pompiere americano”, girato a fine 1902 ma distribuito da Edison all'inizio del 1903. Evidentemente ispirato al “Fire!” di James Williamson (1901), di cui è un vero e proprio remake, mostra un gruppo di vigili del fuoco che accorrono sul luogo di un incendio, entrando nell'edificio e portando in salvo una donna e il suo bambino (personaggi che appaiono già nella scena iniziale, in un curioso sogno/visione attraverso un mascherino circolare che ricorda quelli usati da George Albert Smith in “Santa Claus” e da Ferdinand Zecca in “Histoire d'un crime”). Per diversi anni, a dire il vero, è circolata una copia del film che nella scena finale fa ampio uso del montaggio alternato, mostrando cioè alternativamente l'interno e l'esterno dell'edificio: per esempio vediamo il pompiere arrampicarsi sulla scala a pioli, entrare nella stanza a prendere il bambino, e poi portarlo fuori scendendo lungo la parete. Questa è in realtà una versione rieditata successivamente (forse addirittura negli anni trenta): l'originale era assai meno innovativo, e mostrava dapprima tutta l'azione all'interno della stanza, per poi ripeterla da capo vista dall'esterno, una tecnica allora necessaria per far comprendere meglio agli spettatori, non ancora avvezzi alla sofisticazione del linguaggio cinematografico, ciò che stavano guardando.

29 dicembre 2019

A daring daylight burglary (F. Mottershaw, 1903)

A daring daylight burglary
(aka A daring daylight robbery)
di Frank Mottershaw – GB 1903
**1/2

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Dopo aver scavalcato un muro, un ladro penetra in una casa dal giardino. Ma viene visto da un ragazzino, che corre ad avvertire la polizia. All'arrivo delle forze dell'ordine, il malvivente prova a fuggire e, nel corso di una colluttazione con un poliziotto, lo fa precipitare dal tetto. Mentre lo sfortunato agente è portato via in ambulanza, gli altri poliziotti inseguono il ladro per strade, campi e attraverso un ruscello, fino a una stazione ferroviaria dove il rapinatore riesce a prendere un treno al volo: sarà però arrestato alla stazione successiva. Realizzato a Sheffield nell'aprile del 1903 con la partecipazione di membri del corpo locale dei vigili del fuoco (oltre che con attori reclutati nei music hall della città), questo pioneristico film d'azione e d'inseguimento si rifà al precedente “Stop thief!” di James Williamson (1901) ma si dimostra molto più complesso, per esempio presentando diverse linee narrative (il ladro in azione, il bambino che lo scopre, i poliziotti che accorrono), alcune delle quali si svolgono contemporaneamente (i soccorsi all'agente ferito avvengono mentre intanto l'inseguimento prosegue), anche con esempi di montaggio alternato (le due inquadrature nel giardino della casa sono inframezzate da quella del bambino che corre alla stazione di polizia). Sequenze ambientate in luoghi differenti (per le strade, sul tetto, in campagna, alla stazione ferroviaria) sono "cucite" insieme con naturalezza, anche perché fanno parte della stessa azione, offrendo al contempo qualche divagazione che pure serve a far appello alle emozioni del pubblico (la scena, insolitamente lunga, in cui il poliziotto ferito è caricato sulla barella e poi in carrozza). Da apprezzare anche il gusto per l'inquadratura, mai banale, con la macchina da presa spesso collocata in posizione sopraelevata rispetto ai personaggi, la profondità di campo e il realismo della messa in scena. L'americano Edwin S. Porter vedrà il film e ne prenderà spunto per il suo celebrato “La grande rapina al treno”, uscito nello stesso anno.

28 dicembre 2019

I viaggi di Gulliver (Georges Méliès, 1902)

I viaggi di Gulliver
(Le voyage de Gulliver à Lilliput et chez les Géants)
di Georges Méliès – Francia 1902
con Georges Méliès

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Con i cospicui incassi dei suoi successi recenti (il “Viaggio nella Luna” ma anche “L'incoronazione di Edoardo VII”), Méliès potè finanziare altre pellicole ambiziose, come gli adattamenti del “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe (circa 15 minuti, di cui purtroppo sopravvivono soltanto alcuni frammenti) e dei “Viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift (di "soli" 4 minuti): di questo romanzo, infatti, sceglie di filmare soltanto alcune scene che vedono il protagonista (interpretato dallo stesso regista) alle prese con i minuscoli Lillipuziani e con i colossali Giganti, sfruttando la tecnica dell'esposizione multipla per mettere in scena le differenze di dimensioni. Assistiamo così all'arrivo di Gulliver di notte nel paese di Lilliput, dove cammina al di sopra delle case degli abitanti; al suo incontro con i Lillipuziani, che lo legano e lo attaccano mentre dorme; a una scena in cui, dopo aver fatto amicizia con loro, viene nutrito, ne incontra la regina, e poi li aiuta a spegnere un incendio (usando la bottiglia del selz!); e infine al faccia a faccia con i Giganti, seduti attorno a un tavolo a giocare a carte (in una scena che ricorda il primissimo film del regista francese, “Una partita a carte”, appunto), dopodiché cerca inutilmente di parlare con la principessa che non riesce a udirlo perché è troppo piccolo. Oltre all'esposizione multipla, il film fa uso di modellini e di maschere per fondere insieme in maniera accurata i vari elementi dell'immagine. Per poter allontanare la macchina da presa a sufficienza, in modo da far apparire piccoli i Lillipuziani (o lo stesso Gulliver nella scena con i Giganti), il film venne girato parzialmente in esterni, nel giardino della casa di Méliès a Montreuil. Come altri suoi lavori, anche questo venne rapidamente "piratato" negli Stati Uniti. Da notare come la copia esistente sia colorata a mano usando mascherini (stencil), un metodo diverso da quello a mano libera usato solitamente per i film del regista francese.

27 dicembre 2019

The coronation of Edward VII (G. Méliès, 1902)

L'incoronazione di Edoardo VII
(The coronation of Edward VII, aka Le sacre d'Edouard VII)
di Georges Méliès – GB/Francia 1902

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Questo cortometraggio (uno dei pochissimi lavori di Méliès realizzati su commissione e non distribuiti attraverso la sua Star Film) mostra l'incoronazione del sovrano britannico Edoardo VII e della regina Alessandra, avvenuta nell'abbazia di Westminster il 9 agosto 1902. Non si tratta però della ripresa dell'evento reale, ma di una ricostruzione realistica (e condensata) con attori e un fondale dipinto, girata in anticipo in modo da poterla proiettare nelle sale il giorno stesso della vera cerimonia. Più che il film stesso, è interessante la storia dietro la sua realizzazione. Il progetto nasce dall'americano Charles Urban, che si era trasferito in Inghilterra per conto di Edison, diventando poi dal 1897 un produttore e distributore indipendente di pellicole cinematografiche. In previsione dell'incoronazione reale, un evento che attirava su di sé curiosità e interesse da ogni parte d'Europa (era la prima nel suo genere da quella della regina Vittoria, oltre sessant'anni prima, e prometteva di essere assai spettacolare per riflettere lo stato di potenza imperiale della nazione), Urban aveva chiesto il permesso di poter filmare la cerimonia, permesso che però gli venne negato. Commissionò allora a Méliès, a quei tempi uno dei cineasti più acclamati al mondo (i cui lavori venivano distribuiti in Gran Bretagna dallo stesso Urban), la realizzazione di una versione simulata, nello spirito delle tante “actualités reconstituées” che il regista francese aveva prodotto negli anni precedenti (come “L'affaire Dreyfus”), con l'unica differenza che in questo caso bisognava “ricostruire” qualcosa che non era ancora avvenuto! L'operazione fu favorita dal fatto che l'incoronazione si sarebbe basata su un rituale prestabilito, progettato dal Visconte di Esher, i cui dettagli vennero forniti da Urban a Méliès. Il film fu girato in Francia, con attori scelti per la loro somiglianza con i vari politici, dignitari e teste coronate presenti alla cerimonia. Quando la pellicola era ormai completata e già pronta per la proiezione, giunse la notizia che l'incoronazione – inizialmente prevista per il 26 giugno – era stata rimandata di sei settimane perché il futuro sovrano doveva essere operato di appendicite acuta. Questo consentì a Urban e Méliès di aggiungere all'ultimo momento alcune riprese reali della processione di carrozze per le strade di Londra (purtroppo gran parte di queste scene sono andate perdute). Pur essendo chiaro che non si trattava dell'autentica cerimonia (conteneva persino alcuni passaggi che nella realtà, a causa dello stato di salute del re, furono omessi), alla sua uscita il film riscosse un notevole successo commerciale: lo stesso Edoardo lo vide pochi giorni più tardi e si disse molto soddisfatto. Lo stile, come detto, è realistico, privo della teatralità e della fantasia che caratterizzavano gli altri lavori di Méliès: inizialmente il regista aveva immaginato di far apparire la regina Vittoria, madre del nuovo sovrano, al suo fianco come una visione, ma Urban fu categorico nel richiedere una simulazione del rituale il più fedele possibile (con un'unica eccezione: in una lettera il produttore raccomandò a Méliès: “In realtà il re è parecchio più basso della regina, ma questo non si deve vedere sullo schermo. Il re è molto sensibile sull'argomento, e desidera sempre apparire leggermente più alto della regina”). Una curiosità: pur girato “in casa” del regista francese, a Montreuil, e sotto la sua direzione, il film venne realizzato con una cinecamera fornita da Urban e anche l'operatore era inglese, nientemeno che il pioniere del cinema britannico George Albert Smith.

26 dicembre 2019

La fée printemps (Segundo de Chomón, 1902)

La fata della primavera (La fée printemps)
di Segundo de Chomón [e Ferdinand Zecca] – Francia 1902

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Segundo de Chomón può essere considerato il “Méliès spagnolo”, viste le similitudini fra i suoi lavori e quelli del regista parigino, ai quali fra l'altro si ispirava direttamente (al punto da girarne dei veri e propri remake, non sempre autorizzati). Nato nel 1871, cominciò a interessarsi di cinema perché aveva sposato un'attrice francese, Julienne Mathieu, che lavorava per la casa di produzione Pathé Frères. Il cinema in Spagna era stato ovviamente portato dai fratelli Lumière (uno dei loro operatori, Alexandre Promio, aveva girato alcune pellicole a Madrid nel 1896), ma a parte pochi pionieri (come Eduardo Jimeno) non aveva avuto lo sviluppo che si era visto in altri paesi (quali la Gran Bretagna, gli USA o l'Italia). Per questo motivo Segundo de Chomón si ritrovò a lavorare direttamente per le case francesi, inizialmente come distributore in Spagna dei loro film e poi come colorista (a mano), lavorando sulle pellicole della Pathé ma anche della Star Film di Georges Méliès (come il “Barbablù” del 1901). I suoi primi passi come regista ne mostrano la capacità di “copiare” – ma anche di migliorare – lo stile degli autori che lo avevano preceduto, in particolare quello di Méliès, di cui riutilizza i trucchi ottici e cinematografici. Dal 1903, per conto della Pathé, realizzerà così numerosi film che intendevano rivaleggiare con quelli del regista francese (famigerato è rimasto “Excursion dans la Lune" del 1908, una vera e propria copia del celebre “Viaggio nella Luna”). Dal 1905 si stabilirà direttamente a Parigi, dove lavorerà insieme a Ferdinand Zecca e altri registi. Dopo un breve ritorno in patria (e il tentativo fallito di dare vita a una propria casa di produzione indipendente), nel 1912 si trasferirà in Italia dove collaborerà, fra le altre cose, agli effetti speciali di “Cabiria” e a “La guerra ed il sogno di Momi”. L'ultima fase della sua carriera lo vedrà abbandonare del tutto la regia e specializzarsi nella direzione della fotografia e negli effetti visivi, continuando a lavorare (per esempio al “Napoléon” di Abel Gance) fino alla morte nel 1929.

Detto questo, è errato considerare Chomón come un semplice “imitatore” di Méliès. Pur ricorrendo ai suoi stessi trucchi, il cineasta spagnolo può vantare alcune caratteristiche che rendono uniche e riconoscibili le proprie pellicole: innanzitutto il gusto per il colore (aveva iniziato come colorista, dopo tutto!) e per l'animazione a passo uno, alla quale Méliès (che pure ci aveva fatto ricorso) era sorprendentemente poco interessato. Inoltre, appartenendo alla “seconda generazione” di cineasti (ovvero a quelli che non devono più inventare il linguaggio del cinema, ma possono permettersi di sfruttare ciò che i loro predecessori hanno già ideato, magari evolvendolo e perfezionandolo), ha un approccio più moderno alla regia e alla messa in scena, e sfrutta con maggior disinvoltura i raccordi di montaggio e l'espressività delle immagini (oltre che tecniche come l'effetto reverse, al quale ricorre con frequenza). Infine, è da considerare che Chomón non si vedeva come un cineasta indipendente (come Méliès) ma è fra i primi autori a essere “integrati” in un sistema di produzione che gli permette di collaborare da vicino, e fianco a fianco, con altri registi e tecnici (come diventerà standard nell'industria del cinema nei decenni successivi). Ne è già un esempio questo “La fata della primavera”, girato sotto la supervisione di Zecca, che racconta di una coppia di contadini che accoglie nella propria casa, sotto una fitta nevicata, una vecchia mendicante. Questa si rivela essere una fata che trasforma magicamente l'inverno in primavera (e il film da bianco e nero a colori!). Da notare il tema della natura “fantastica”, in linea con l'estetica delle “fantasmagorie” che caratterizzeranno non solo i lavori successivi del cineasta spagnolo (spesso ricolmi di fiori, insetti ed elementi naturali) ma anche il nascente movimento artistico del Liberty (ovvero l'Art Nouveau).

25 dicembre 2019

The little match seller (James Williamson, 1902)

La piccola fiammiferaia
(The little match seller)
di James Williamson – GB 1902

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Un fedele adattamento del racconto breve di Hans Christian Andersen “La piccola fiammiferaia”, nel quale una bambina muore di freddo in un angolo della strada, dopo aver acceso uno a uno i fiammiferi che cercava inutilmente di vendere. A ogni fiammifero, le appare una visione (mostrata sullo schermo attraverso una sovrimpressione mediante un mascherino circolare, la stessa tecnica che George Albert Smith, compatriota di Williamson, aveva già usato qualche anno prima nel suo “Santa Claus”): una stufa calda, una tavola imbandita, un albero di Natale, e infine l'amata nonna, che dopo la morte della bambina compare nuovamente sotto forma di fata e la porta via con sé. Il film si conclude con un poliziotto che scorge il cadavere della bimba, illuminandolo con il fascio della sua torcia. Asciutto, realistico e toccante, il cortometraggio ha poco della teatralità fantastica dei contemporanei lavori di Méliès ed è invece un buon esempio di come lavoravano i primi pionieri del cinema britannici, più interessati a usare i “trucchi” ottici in chiave narrativa. Qui la successione delle visioni aiuta anche a rompere la monotonia dell'inquadratura fissa, che rimane la stessa durante tutta la storia (vivacizzata, però, anche dalla nevicata e dall'entrata e uscita in scena di altri personaggi: oltre al poliziotto nel finale, peraltro già visto prima quando accende i lampioni, c'è anche il monello di strada che ruba alla povera bambina la sua unica scarpa). Il nome degli interpreti, e in particolare quello della protagonista, è sconosciuto. Vista la brevità del racconto originale di Andersen, alcuni critici hanno immaginato che potesse essere letto ad alta voce come accompagnamento alla proiezione del film.

24 dicembre 2019

Scrooge, or, Marley's ghost (W. Booth, 1901)

Scrooge, or, Marley's ghost
di Walter R. Booth – GB 1901
con Daniel Smith

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La vigilia di Natale, l'anziano e tirchio banchiere Ebenezer Scrooge – che rifiuta di celebrare la festività – riceve la visita del fantasma del suo defunto socio Marley, che gli mostra i Natali del passato (ovvero i momenti felici della sua giovinezza), quelli del presente (l'impiegato Bob Cratchit e il nipote Fred che festeggiano in famiglia e brindano alla sua salute) e quelli del futuro (la sua tomba, la morte per malattia del piccolo Tim, figlio di Bob). Di fronte a queste visioni, Scrooge rinnega il proprio egoismo e giura di cambiare vita (quest'ultima scena è andata perduta). La prima versione filmata in assoluto del “Canto di Natale” di Dickens è una pellicola notevole anche (e soprattutto) per un aspetto secondario: si tratterebbe del primo utilizzo degli intertitoli (i “cartelli” con scritte che separano una scena dall'altra) nella storia del cinema. A dire il vero, già l'anno precedente c'era stato l'inserimento di parole scritte a mano in “How it feels to be run over” di Cecil M. Hepworth, un altro regista inglese, ma in quel caso sembrava trattarsi del baloon di un fumetto, una frase espressa da uno dei personaggi o forse dal cineasta stesso a commento della vicenda. Qui, invece, i cartelli introducono le varie scene del film come per dividerlo in capitoli e preavvisano lo spettatore di quello che sta per accadere (oltre a far pronunciare alcune frasi ai personaggi, come il brindisi “To Mister Scrooge!”), e inoltre le scritte sono composte con caratteri tipografici come sarà lo standard per quasi tutta l'epoca del muto. Per il resto, la pellicola ricorre a molti elementi tecnici già in voga al momento della sua realizzazione, come il montaggio di più sequenze con stacchi e dissolvenze, e l'utilizzo della sovrimpressione per realizzare gli effetti speciali del fantasma (nell'ultima scena, curiosamente, questo è invece interpretato direttamente da un attore al fianco del protagonista, perdendo l'aura “sovrannaturale”) e delle visioni delle scene del passato di Scrooge (da notare i teli neri che consentono di renderle meglio visibili). La vicenda è assai compressa e i personaggi non sono propriamente introdotti: di fatto si dà per scontato che lo spettatore conosca già la storia per aver letto il racconto (o averne vista una riduzione teatrale, come il popolare “Scrooge” di J.C. Buckstone, allestito a Londra proprio nel 1901). E tuttavia la pellicola si prende qualche libertà: per semplificare, è sempre il fantasma di Marley a guidare Scrooge alla scoperta dei suoi Natali passati, presenti e futuri, mentre nel testo di Dickens erano tre spiriti differenti. Prodotto da Robert W. Paul, il film fu distribuito nel novembre 1901 riscuotendo un grande successo. Il regista Walter Booth era (come Méliès!) un illusionista prestato al cinema.

22 dicembre 2019

Pinocchio (Matteo Garrone, 2019)

Pinocchio
di Matteo Garrone – Italia 2019
con Federico Ielapi, Roberto Benigni
***

Visto al cinema Colosseo.

I registi italiani sembrano avere una predilezione, se non una vera e propria ossessione, per il personaggio di Collodi, protagonista della favola italiana più nota nel mondo. E dopo le versioni, fra le altre, di Luigi Comencini e Roberto Benigni, ecco arrivare quella di Matteo Garrone, che già nel 2015 aveva compiuto un'incursione nel campo delle fiabe con "Il racconto dei racconti". Il rischio, giungendo dopo così tanti predecessori (non dimentichiamo il film animato della Disney, forse la versione più popolare di tutte, del quale fra l'altro sarebbe in cantiere un remake in live action), era quello di risultare datato o già visto: ma questo "Pinocchio" ha il merito di bilanciarsi perfettamente fra la fedeltà al testo originale, di cui riprende tutti gli episodi, e un'impronta visiva affascinante e pittorica, eccellente per atmosfera, costumi e scenografie, dove anche i personaggi più fantastici (come il burattino stesso o gli animali antropomorfi) assumono una palpabile concretezza grazie al make up, ad effetti digitali (e artigianali!) e a una fotografia (di Nicolaj Brüel) che fonde mirabilmente il mondo magico con quello del quotidiano. In fondo, spogliata dal linguaggio della fiaba (e dal moralismo ottocentesco), quella che Pinocchio visita è la realtà del mondo degli adulti, che ha le sue regole e le sue punizioni: una realtà trasfigurata dalle fantasie e dall'immaginazione di un bambino con tutte le sue tentazioni, le paure e i desideri, un bambino che vuole fare le marachelle ma ha paura delle conseguenze. La natura affabulatoria della novella è conservata, affascinando anche uno spettatore che conosca già a menadito le vicende del burattino di legno e le sue disavventure mentre va all'esplorazione di un mondo vasto, sconosciuto e ricco di pericoli e tranelli. E la naturalezza con cui sullo schermo convivono personaggi quasi neorealisti (falegnami, pastori, osti, contadini) e ambientazioni veriste (le campagne o le colline della Toscana, ritratte in diverse stagioni) con creature fiabesche (fate, marionette viventi, animali in parte o del tutto antropomorfi) è il punto di forza di un film superbo per le interpretazioni e per la qualità dell'immagine, che pur non perdendo mai di vista il rispetto per la fonte originale (è forse uno degli adattamenti più fedeli di sempre) si premura di limitarne in qualche modo gli elementi più datati (come gli intenti pedagogici, eliminando per esempio la paternalistica voce del narratore) senza peraltro edulcorare quelli più cupi (l'onnipresente tema della morte). L'abilità di Garrone sta anche nel sottolineare aspetti che erano presenti in Collodi ma quasi dimenticati rispetto ad altri divenuti più popolari (come il naso che si allunga, qui presente in una sola scena): basti pensare, per esempio, ad alcuni passaggi satirici, grotteschi o non-sense che non stonerebbero in "Alice nel paese delle meraviglie" (come il processo in cui Pinocchio viene assolto perché "colpevole"). Se l'interpretazione del piccolo Ielapi nel ruolo del burattino di legno è filtrata dal trucco e dagli effetti digitali, il resto del cast brilla per l'azzeccata scelta dei volti e la totale immersione nel mondo di Collodi. Roberto Benigni, che nel fallimentare film del 2002 da lui diretto aveva interpretato il burattino (e forse proprio quello era stato il motivo del suo fallimento), veste qui i panni, assai più adatti a lui, del falegname Geppetto. Massimo Ceccherini, forse il migliore del cast (nonché co-sceneggiatore insieme a Garrone) è la Volpe. Rocco Papaleo è il Gatto, Gigi Proietti è Mangiafuoco, Marine Vacth è la Fata Turchina da adulta (già, perché appare anche da bambina, intepretata da Alida Baldari Calabria). Davide Marotta è un inquietante Grillo Parlante, il cui ruolo è ridotto rispetto ad altre versioni. Da ricordare anche Alessio Di Domenicantonio (Lucignolo), Enzo Vetrano (il maestro), Maria Pia Timo (la Lumaca), Paolo Graziosi (Mastro Ciliegia), Nino Scardina (l'Omino di burro che porta i bambini nel Paese dei Balocchi). Musiche di Dario Marianelli.

20 dicembre 2019

Star Wars: L'ascesa di Skywalker (J.J. Abrams, 2019)

Star Wars: L'ascesa di Skywalker
(Star Wars: The Rise of Skywalker)
di J.J. Abrams – USA 2019
con Daisy Ridley, Adam Driver
*1/2

Visto al cinema Colosseo.

L'imperatore Palpatine non è morto alla fine de "Il ritorno dello Jedi" e offre a Kylo Ren una flotta di Star Destroyer, ciascuno munito di un cannone in grado di disintegrare un intero pianeta, per conquistare l'universo e fondare un nuovo impero, l'Ordine Finale. Il figlio di Han Solo accetta, ma in cuor suo vorrebbe eliminare l'imperatore e allearsi con Rey, che però è ancora incerta sul proprio futuro. Continuando l'addestramento da Jedi e collaborando con la Resistenza, la ragazza si lancia con gli amici Finn e Poe alla ricerca di Exegol, il misterioso pianeta su cui si nasconde Palpatine, con l'intenzione di distruggerne la flotta. Lungo la strada, scoprirà finalmente la verità su sé stessa. Diretto, come il primo, da J.J. Abrams (che diventa il secondo regista dopo George Lucas a firmare due episodi diversi della saga), in sostituzione di Colin Trevorrow, inizialmente designato e poi licenziato per divergenze creative (è la seconda volta di fila che accade, dopo lo spin-off "Solo"), il terzo capitolo della cosiddetta "trilogia sequel" di "Star Wars" (nonché il nono episodio in totale se seguissimo la numerazione tradizionale) regala la consueta dose di intrattenimento ma è anche uno dei più piatti e derivativi, nonché quello con meno creatività e fantasia di tutta la saga: difficile individuare una sequenza, un'ambientazione o un nuovo personaggio che rimarrà nella memoria collettiva. Quando la Disney aveva acquistato i diritti da Lucas e aveva messo in cantiere le nuove pellicole, la scelta di ripartire con un "remake" a tutti gli effetti del prototipo era sembrata in fondo corretta, perché è naturale che una saga che dura da 42 anni guardi indietro alla propria mitologia per rilanciarsi, purché da quelle basi si costruisca poi qualcosa di nuovo. E invece in questo film si procede con il pilota automatico e il freno a mano tirato, ma soprattutto con una devozione al passato che tarpa continuamente le ali alla sceneggiatura, che peraltro si dipana in maniera meccanica (i personaggi vanno dal punto A al punto B, e poi al C, come in un videogioco) o accatasta eventi random e inconsequenziali (vedi la perdita di memoria di C-3PO, quasi subito ripristinata). In ruoli che non sono altro che camei più o meno prolungati, ricompaiono quasi tutti i personaggi "classici", da Luke ad Han (entrambi sotto forma di fantasmi/visioni), da Leia (che muore: Carrie Fisher era scomparsa nel 2016, qui vengono riutilizzate scene girate durante la lavorazione dei film precedenti) a Lando Calrissian, da Chewbacca ai droidi, fino all'improbabile ritorno dell'imperatore (Abrams non sa nemmeno inventarsi un nuovo cattivo). Riesumata anche la Morte Nera, i cui rottami ospitano una breve sequenza, e persino la rivalità fra Sith e Jedi, ma solo a parole, con una tensione inferiore persino a quella dei vituperati prequel di Lucas, che (chi l'avrebbe mai detto?) dal confronto con questi sequel escono addirittura rivalutati.

E i nuovi personaggi, che in teoria qui concludono un percorso di crescita durato ben tre film e oltre sette ore? Come nel precedente "Gli ultimi Jedi", di fatto gli unici di rilievo e con un certo spessore sono Rey (Daisy Ridley) e Kylo Ren (Adam Driver): tutti gli altri – Finn (John Boyega) e Poe Dameron (Oscar Isaac) in testa – rimangono accessori di contorno o macchiette che servono soltanto a fare numero, a elargire battutine e a riciclare dinamiche e situazioni del passato. Mentre il Generale Hux (Domhnall Gleeson) si rivela una spia, come new entry abbiamo il "cattivo" ufficiale Pryde (Richard E. Grant), l'ennesimo robottino (D-O) e due possibili "interessi romantici" per Finn e Poe (rispettivamente l'amazzone Jannah (Naomi Ackie) e la guerriera in armatura Zorri Bliss), i quali possono così rimanere comprimari anche sul piano sentimentale e non ostacolare la relazione, prevista a tavolino sin dall'inizio, fra Rey e Kylo Ren. Quest'ultimo viene sacrificato nel finale, quando ormai aveva comunque perso gran parte della sua ragion d'essere. La protagonista prosegue invece la sua crescita, acquisendo poteri e capacità sempre maggiori (con tanto di lotta con sé stessa che fa il verso a quella di Luke ne "L'impero colpisce ancora"): la rivelazione che si tratta della nipote di Palpatine rovina un po' una delle migliori trovate de "Gli ultimi Jedi" (un'origine "normale", una volta tanto) ma contribuisce a portare avanti il tema fondante della saga, ovvero le sfumature che si celano nello scontro fra il bene e il male. Il controfinale in cui la ragazza si dichiara orgogliosamente una Skywalker, infine, cerca di giustificare un titolo ancora una volta ambiguo e poco azzeccato. In teoria potremmo rivedere Rey nei prossimi film, chissà se da protagonista o per accompagnare il cammino di altri personaggi: ma probabilmente si andrà in direzioni opposte, tornando a rivisitare il passato (glorioso) della franchise. Da sottolineare nuovamente l'insistenza sul "girl power" che caratterizza questa trilogia, frutto del clima culturale che si respira in questi anni negli Stati Uniti: a parte la protagonista e alcuni dei succitati comprimari, per la prima volta si odono (ripetutamente!) voci femminili provenire dagli assaltatori, per non parlare delle tante donne presenti fra i membri della Resistenza (compresa un'evidente coppia lesbica). Ah, fra i piloti ribelli si riconosce anche Kevin Smith. Il film è stato girato, fra le altre location, nella Valle della Luna (Wadi Rum) in Giordania. La sceneggiatura è di Abrams e Chris Terrio (inizialmente avrebbe dovuto scriverla Rian Johnson, il regista dell'episodio precedente), la musica – per l'ultima volta, pare – di John Williams.

18 dicembre 2019

Quei bravi ragazzi (Martin Scorsese, 1990)

Quei bravi ragazzi (Goodfellas)
di Martin Scorsese – USA 1990
con Ray Liotta, Robert De Niro, Joe Pesci
***1/2

Rivisto in TV.

Cresciuto a Little Italy nel "mito" della malavita italo-americana, il gangster Henry (Ray Liotta) racconta la sua carriera criminale fra il 1955 e il 1980, dai primi lavoretti da adolescente per conto dei boss del quartiere – fra cui Paul Cicero (Paul Sorvino) – all'amicizia con lo spietato Jimmy (Robert De Niro) e l'imprevedibile Tommy (Joe Pesci), dal matrimonio con Karen (Lorraine Bracco) alla scelta di mettersi in proprio nel mercato della droga, fino all'arresto da parte della Narcotici e alla decisione di "vuotare il sacco", accusando i propri complici pur di salvarsi la vita. Tratto da un romanzo di Nicholas Pileggi ("Il delitto paga bene", ispirato alla vera storia di Henry Hill, gangster e poi collaboratore di giustizia), il film è uno dei capolavori di Scorsese, un tuffo a pieni polmoni nel colorato mondo della mafia italo-americana, raccontato con passione e ironia. Dopotutto il punto di vista, nonché la voce narrante, è quella di Henry, che esordisce con la frase "Che io mi ricordi ho sempre voluto fare il gangster" e prosegue esaltando a più riprese lo stile di vita di chi può prendersi (con la forza) tutto quello che desidera. Furti, omicidi e ricatti sono solo il contorno di una vita sopra le righe, con poche (ma severe) regole da seguire (il rispetto per i boss, per esempio) e tanti vantaggi, al prezzo però di guardarsi sempre le spalle, perché la propria condanna a morte potrebbe giungere quando meno la si aspetta, magari per mano di un amico (o meglio, di un "bravo ragazzo", come Henry definisce i mafiosi). Quella dei gangster è come una grande famiglia, dove tutti si conoscono e si frequentano (anche le mogli o le fidanzate), dove si vive da nababbi e si commettono crimini con estrema leggerezza, in un continuo stato di trance o di incoscienza (tanto "nessuno va in galera, se non ci vuole andare", spiega il protagonista). Attorno a Henry si muovono figure indimenticabili, rese tali dalla sceneggiatura e da una regia praticamente perfetta, certo, ma anche dagli interpreti. De Niro, per una volta figura periferica, dà vita con pochi tratti a un criminale imperscrutabile, che dietro l'aria affabile e il sorriso è sempre pronto a pugnalare alle spalle ("Jimmy era uno di quelli che al cinema fanno il tifo per i cattivi"), mentre Pesci ruba la scena nel ruolo del siciliano permaloso e problematico, pronto a uccidere per un insulto o uno scherzo. Nella struttura episodica, sorretta dal montaggio di Thelma Schoonmaker, spicca l'ultima giornata di Henry prima dell'arresto, scandita dai riferimenti temporali e dalla mescolanza di atti criminali (il traffico di droga) e domestici (la preparazione della cena in famiglia), a dimostrazione che per questi personaggi il crimine è uno stile di vita indissolubilmente legato alla quotidianità. L'ironia, i dialoghi, la mescolanza di stili, col senno di poi, anticipano e prefigurano il cinema post-moderno di Quentin Tarantino ("Pulp Fiction", in molti aspetti, gli è debitore). Trent'anni più tardi, con "The irishman" (ancora De Niro e Pesci nel cast), Scorsese ne realizzerà quasi una versione aggiornata, più realistica e meno glamour nei confronti del crimine organizzato. Da elogiare anche la fotografia di Michael Ballhaus e la colonna sonora d'epoca (con brani come l'exit di "Layla" di Derek and the Dominos e "Rags to Riches" di Tony Bennett). Nel cast anche i genitori di Scorsese (sua mamma Catherine, in particolare, intepreta la madre di Tommy), Samuel L. Jackson, Chuck Low e Gina Mastrogiacomo. Sei nomination agli Oscar: Pesci vinse la statuetta come miglior attore non protagonista. L'inquadratura finale in cui Tommy spara verso lo spettatore è un omaggio al film muto del 1903 "La grande rapina al treno".

17 dicembre 2019

Lifeline (Johnnie To, 1997)

Lifeline (Shi wan huo ji)
di Johnnie To – Hong Kong 1997
con Lau Ching Wan, Alex Fong
**1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

L'ultimo film di To prima di fondare la Milkyway, la propria casa di produzione, segue le vicende di un gruppo di vigili del fuoco di Hong Kong, la cui caserma ha la nomea (anche presso i colleghi) di portare sfortuna. E in effetti non si contano i casi di incidenti sul lavoro o di salvataggi che, anche se condotti a termine con successo, hanno conseguenze negative. Ma il gruppo saprà riscattarsi quando sarà impiegato durante un colossale incendio in una fabbrica che contiene pericolosi prodotti chimici. Di impostazione corale, la pellicola è essenzialmente divisa in due parti: nella prima vengono presentati i vari personaggi – l'eroico caposquadra Yau (Lau Ching Wan), il giovane e severo direttore della stazione Raymond (Alex Fong), la vigilessa Lo (Ruby Wong) e la recluta Ho-yin (Raymond Wong) – i cui problemi e le traversie personali si intrecciano con il lavoro e le varie missioni di soccorso che li vedono impegnati. In particolare Yau, la cui tendenza a correre ogni rischio pur di salvare vite gli è costata una promozione, si innamora di una dottoressa (Carman Lee) dalle tendenze suicide, mentre Raymond, che fatica a farsi benvolere dai suoi stessi sottoposti, si vede improvvisamente costretto ad accudire una figlia cresciuta all'estero. L'intera seconda metà del film, la più spettacolare, è riservata all'incendio doloso nella fabbrica, con i nostri eroi che rimangono bloccati al suo interno e che tenteranno di uscire (portando in salvo gli operai intrappolati) fra esplosioni e crolli. Nel complesso un bel disaster movie, a tratti melodrammatico (vedi la sottotrama di Lo che rimane incinta) e pieno di enfasi e di retorica, ma ben recitato, ricco di tensione, diretto con mano ferma e con un finale sinceramente emozionante. Nel cast anche Damian Lau (il capo dei pompieri) e Lam Suet (il piromane).

16 dicembre 2019

Masquerade (J. L. Mankiewicz, 1967)

Masquerade (The honey pot)
di Joseph L. Mankiewicz – USA 1967
con Rex Harrison, Cliff Robertson
**1/2

Visto in DVD.

Realizzato da Mankiewicz dopo il gigantesco flop di "Cleopatra", ne segna il ritorno al cinema con un film più personale, un giallo con venature da commedia che purtroppo fu un insuccesso a sua volta: dopo le prime critiche, il regista fu costretto ad accorciare la pellicola di quasi mezz'ora rispetto alla prima versione, che durava 150 minuti. Attraversato da temi che da sempre – e anche in seguito: vedi il bellissimo "Gli insospettabili" – attiravano l'attenzione del regista/sceneggiatore (l'inganno e la manipolazione, la ricerca della ricchezza e dell'elevazione sociale, l'amore per il teatro e la teatralità), è un film barocco e interessante, girato a Venezia e con un cast tecnico in gran parte italiano, compreso il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo che morì durante le riprese.
Ispirato da una celebre commedia elisabettiana, il "Volpone" di Ben Jonson, l'eccentrico miliardario Cecil Fox (nomen omen) decide di mettere in scena fra le mura del suo palazzo veneziano un elaborato scherzo riservato alle tre donne che più ha amato in passato. Con l'aiuto di un attore che recita la parte del suo maggiordomo personale, finge così di trovarsi in punto di morte per osservare le reazioni delle tre amanti, che accorrono al suo capezzale nella speranza di essere nominate sue eredi universali. Quando però una delle tre donne viene assassinata, la commedia si muta in dramma. Le indagini di un poliziotto (Adolfo Celi) e la curiosità dell'infermiera personale della defunta (una glaciale e splendida Maggie Smith) porteranno a un finale ricco di colpi di scena, alcuni dei quali – a dire il vero – possono sembrare un po' telefonati. Il personaggio interpretato da Rex Harrison, ballerino mancato, istrionico gaudente e ossessionato dal tempo (non a caso le tre amanti gli regalano ciascuna un orologio), trova il suo contraltare nell'impassibile e calcolatore cameriere McFly (che corrisponde al personaggio di Mosca nella commedia di Ben Jonson), un Cliff Robertson in stile James Mason. Beffardo il finale, con le voci off dei due personaggi defunti che commentano indispettiti dal cielo gli ultimi sviluppi della storia.

14 dicembre 2019

Magnifica ossessione (Douglas Sirk, 1954)

Magnifica ossessione (Magnificent Obsession)
di Douglas Sirk – USA 1954
con Rock Hudson, Jane Wyman
***

Visto in divx.

Bob Merrick (Rock Hudson, in uno dei suoi primi ruoli importanti da protagonista), giovane milionario viziato e scapestrato, è vittima di un incidente in motoscafo: e per salvarlo perde la vita il dottor Phillips, brillante medico e filantropo amato da tutti, che lascia una moglie e una figlia. Scosso dai sensi di colpa, Bob prova ad avvicinarsi alla vedova dell'uomo, Helen (Jane Wyman), causandone senza volerlo la cecità. Per rimediare, completerà gli studi di medicina che aveva abbandonato, e sarà proprio lui ad operarla e a restituirle la vista. "Una volta presa quella strada non si torna indietro. Sarà un'ossessione, una magnifica ossessione", spiega al protagonista l'anziano pittore Randolph (Otto Kruger), illustrando la filosofia del dottor Phillips di fare del bene al prossimo senza pretendere nulla in cambio. Il primo dei celebrati melodrammoni hollywoodiani di Douglas Sirk è un remake del precedente "Al di là delle tenebre" del 1935 di John M. Stahl (o meglio, entrambe le pellicole sono adattamenti dal romanzo "Magnificent Obsession" di Lloyd C. Douglas), irreale ed esagerato sotto ogni suo aspetto, e intriso di un idealismo e un romanticismo esasperati, ma proprio per questo sublime e struggente. Come tutto il cinema anni '50 di Sirk, il film ha influenzato profondamente cineasti come Rainer Werner Fassbinder, Martin Scorsese e Pedro Almodóvar, contribuendo a rivalutare un regista che durante la sua carriera era sempre stato snobbato dalla critica. Nel cast anche Barbara Rush (Joyce, la figliastra di Helen) e Agnes Moorehead (Nancy, l'infermiera e amica). Notevole e caratterizzante la fotografia in Technicolor di Russell Metty, abituale collaboratore di Sirk in tutti i suoi film più famosi. La colonna sonora ingloba temi di Chopin e Beethoven. La pellicola è stata girata in parte sul lago Tahoe.

13 dicembre 2019

Downsizing (Alexander Payne, 2017)

Downsizing - Vivere alla grande (Downsizing)
di Alexander Payne – USA 2017
con Matt Damon, Hong Chau
**

Visto in TV, con Sabrina.

Alcuni scienziati norvegesi inventano un metodo per miniaturizzare gli esseri viventi fino all'altezza di pochi centimetri: l'ideale per risolvere il problema della sovrappopolazione del pianeta e per risparmiare risorse e materie prime. Il ridimensionamento avviene su base volontaria, eppure solo una parte della popolazione accetta di sottoporsi al trattamento. Una volta ridotte, le persone – fra cui il terapista occupazionale Paul Safranek (Matt Damon) – si trasferiscono a vivere in apposite comunità "su misura", dove possono godersi quella che sembra a tutti gli effetti una pensione dorata (pur smettendo di lavorare, e con pochi soldi a disposizione, possono concedersi "enormi" abitazioni e tutto ciò che desiderano). Ma dietro le apparenze, anche nel mondo in miniatura esistono disuguaglianze e povertà... Un intrigante spunto fantascientifico (benché non certo originale, visto che romanzi, film e fumetti sul tema della miniaturizzazione non mancano: da "Tre millimetri al giorno" di Richard Matheson alla classica storia dei Fantastici 4 "Terrore in una piccola città" di John Byrne, dai primi esperimenti di Georges Méliès a "Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi", per citare solo qualche titolo) per un film che – come il suo protagonista – dimostra ben presto di non sapere quale strada prendere. E che dunque continua a spostare il proprio focus, cambiando ripetutamente tono e direzione, affontando un argomento, giocandoci un po', per poi passare ad altro nel giro di un istante. All'inizio sembra voler esplorare le conseguenze realistiche di una simile scoperta scientifica (e pazienza se la premessa richiede una certa sospensione dell'incredulità: dove va a finire la massa che scompare? e come possono restare inalterate tutte le funzioni biologiche?), come gli aspetti sociali legati alla convivenza fra persone mini e maxi, o quelli economici o produttivi. Poi si focalizza sul lato esistenzialista, con il protagonista che rimane da solo perché la moglie Audrey (Kristen Wiig), che avrebbe dovuto farsi miniaturizzare insieme a lui, si tira indietro all'ultimo momento. In seguito irrompe la denuncia sociale, con la separazione fra le classi privilegiate e i lavoratori/immigrati clandestini (che vivono in un ghetto, con echi addirittura di "Metropolis"). A questo punto c'è persino una sottotrama romantica interclassista, fra Paul e la dissidente vietnamita Ngoc Lan (Hong Chau). E infine si giunge alla SF apocalittica ed ecologista, con l'annuncio di un'imminente fine del mondo e la tentazione, per il protagonista , di unirsi a coloro che intendono rifugiarsi sotto terra per sopravvivere. Ogni porzione di film dimentica i temi e i dilemmi della precedente, mutando radicalmente anche la caratterizzazione dei personaggi: il risultato è un ambizioso insieme di idee pure interessanti ma mai sviluppate fino in fondo. Quasi inevitabile il flop di pubblico e di critica. Nel cast anche Christoph Waltz (il "gaudente" Dusan Mirkovic), Udo Kier (il suo compagno Konrad) e Rolf Lassgård (lo scienziato norvegese).

12 dicembre 2019

Il figlio (Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2002)

Il figlio (Le fils)
di Jean-Pierre e Luc Dardenne – Belgio/Francia 2002
con Olivier Gourmet, Morgan Marinne
***

Visto in divx.

Il solitario Olivier (Gourmet) lavora come insegnante nel laboratorio di falegnameria di un centro di formazione e recupero per adolescenti. Quando gli viene affidato un nuovo apprendista, il sedicenne Francis (Marinne), appena uscito dal carcere minorile, si rende conto che si tratta del ragazzo che cinque anni prima aveva ucciso suo figlio... Un film asciutto e minimalista sui dilemmi morali e la redenzione (simile, in questo, al precedente "La promesse"), dove le stesse azioni dei personaggi sono portate sullo schermo senza fronzoli o abbellimenti, lasciando lo spettatore ad assistervi in totale immersione contemplativa ma senza alcun didascalismo o esplicitazione. Perché Olivier accetta il ragazzo nel suo laboratorio, se lo prende a cuore, gli insegna un mestiere (senza dirgli di essere il padre della sua vittima)? Vuole vendetta o pacificazione? Nemmeno lui lo sa, come confessa all'ex moglie stupefatta ("Nessuno farebbe quello che stai facendo"). Da un lato cerca di non mostrargli gentilezza, dall'altro è però quasi ossessionato da lui, da come vive o dai motivi che lo avevano spinto a uccidere a soli undici anni, e rimane colto alla sprovvista quando il ragazzo gli chiede di fargli da tutore. La camera a spalla, sempre attaccata al protagonista (tanto che gli ambienti e tutto ciè che gli è attorno risultano quasi sfumati, mentre degli altri personaggi udiamo spesso solo le voci fuori campo), e i long take donano realismo e intensità alla vicenda. E mentre Olivier introduce Francis al lavoro in falegnameria, ci rendiamo conto che il film stesso è come un'asse di legno grezzo, che una volta rifinita potrà mostrare tutta la propria bellezza interiore. Isabella Soupart è l'ex moglie di Olivier. Il bravo Gourmet ha ricevuto a Cannes (da dove i Dardenne escono raramente a mani vuote) il premio come miglior attore.

10 dicembre 2019

Lo zoo di Venere (Peter Greenaway, 1985)

Lo zoo di Venere (A Zed & Two Noughts)
di Peter Greenaway – GB/Olanda 1985
con Andréa Ferréol, Brian Deacon, Eric Deacon
**1/2

Rivisto in DVD.

Quando le proprie mogli scompaiono in un incidente automobilistico causato da un cigno (!), i fratelli gemelli Oliver e Oswald Deuce (Brian ed Eric Deacon), etologi presso lo zoo di Rotterdam, rimangono ossessionati dalla morte e dalla putrefazione. Iniziano così una serie di esperimenti, filmando le carcasse di animali in decomposizione, e nel contempo danno vita a una relazione a tre con Alba (Andréa Ferréol), la donna che era alla guida dell'auto dove sono morte le mogli, che ha avuto una gamba amputata dal misterioso e ambiguo chirurgo Van Meegeren (Gerard Thoolen), a sua volta ossessionato dall'arte del pittore fiammingo Vermeer e dal desiderio di replicarne i dipinti. Pellicola surreale e caledoiscopica, nella quale Greenaway (al secondo lungometraggio di finzione dopo "I misteri del giardino di Compton House") inietta, come suo solito, i tanti temi che lo affascinano da sempre, dal sesso alla morte, dagli alfabeti alle catalogazioni, senza preoccuparsi del realismo o di un filo logico e rinunciando al tipo di narrazione tradizionale, col rischio di disorientare lo spettatore o, più probabilmente, di alienarlo o disgustarlo. Anche grazie alla splendida fotografia di Sacha Vierny (con il quale il regista inaugura una collaborazione destinata a durare), ogni inquadratura è ricchissima di dettagli e di allegorie, di citazioni mitologiche o artistiche, all'insegna della geometria o, più esattamente, di una simmetria che permea l'intera pellicola, a iniziare dal titolo (la parola ZOO si riferisce ai tre protagonisti) e dai personaggi stessi. Inizialmente ben diversi, al punto da litigare fra loro, Oliver e Oswald (interpretati da una vera coppia di fratelli) finiscono per assomigliarsi sempre più, fino a essere indistinguibili e a desiderare addirittura di diventare una cosa sola (facendosi "ricucire" insieme come alla nascita, quando erano siamesi, oppure considerandosi un unico individuo, per esempio quando si definiscono "il padre" dei due bambini, anch'essi gemelli, che partorisce Alba). La ricerca della simmetria o quella della complementarietà, a livello sociale ma anche biologico (vita-morte), guida tutte le loro azioni e ne condiziona l'ambiente: si ritrova nelle scenografie, nei discorsi, nei racconti che li circondano (spesso il tema sono gli animali, alcuni dei quali – come la zebra – si prestano perfettamente a questo tema). Di questo gioco di rimandi concettuali, metatestuali e artistici fanno parte i diversi personaggi di contorno: Beta, la figlioletta di Alba, che recita l'alfabeto con i nomi di animali; Venere di Milo (Frances Barber), la prostituta/sarta/aspirante scrittrice che racconta aneddoti sulla fauna e sul sesso; Van Hoyten (Joss Ackland), il misterioso direttore dello zoo, figura ricorrente nell'immaginario greenawayano (è il principale antagonista dell'ornitologo Tulse Luper); Caterina Bolnes (Guusje Van Tilborg), la moglie/assistente di Van Meegeren. Fra filmati di frutti o di animali in decomposizione, mutilazioni e amputazioni varie, passaggi surreali o grotteschi e l'impressione che molto di ciò che si vede sia estemporaneo o fine a sé stesso, il film non è certo per tutti i gusti: ma cresce ad ogni successiva visione, specie se accompagnata da quella degli altri lavori del regista, con cui forma un corpus autonomo e coerente (molti gli elementi, per esempio, che anticipano il successivo "Giochi nell'acqua"). Per certi versi il film ricorda anche "Inseparabili" di Cronenberg. Fondamentale la colonna sonora di Michel Nyman, integrata da due canzoni d'antan, "The Teddy Bear's Picnic" e "An Elephant Never Forgets" (su musica di Schumann).

9 dicembre 2019

Anno 2000 - La corsa della morte (P. Bartel, 1975)

Anno 2000 - La corsa della morte (Death Race 2000)
di Paul Bartel – USA 1975
con David Carradine, Sylvester Stallone
***

Visto in divx.

In un futuro in cui gli Stati Uniti sono diventati una dittatura, l'annuale corsa automobilistica da una costa all'altra del paese – cui prendono parte pochi selezionati piloti, ciascuno affiancato da un navigatore di sesso opposto – è l'unico svago concesso alle masse oppresse: una gara ricca di violenza, anzi pensata apposta per permettere di darle sfogo, i cui concorrenti "segnano punti" se falciano i passanti che trovano sulla loro strada, con i punteggi massimi riservati all'uccisione di bambini e di anziani. Fra i favoriti della corsa c'è il veterano Frankenstein (David Carradine), misterioso pilota mascherato che ha subito così tanti incidenti da essere stato "ricucito" insieme più volte (o almeno così si dice). A sua insaputa, la sua nuova navigatrice Annie Smith (Simone Griffeth) fa parte di un gruppo di ribelli, guidato dall'anziana Abramina Lincoln, che intende sabotare la corsa. B-movie prodotto da Roger Corman che, nonostante l'evidente budget al risparmio, è diventato di culto: con pieno merito, visto che pur essendo girato con estrema semplicità, è assai divertente e pieno di idee tanto buffe quanto efficaci. Stupidamente (e volutamente) ironico, il film è violento ma anche cartoonistico, colorato e campy, con i diversi piloti con i loro variopinti veicoli che ricordano i concorrenti delle "Wacky Races": abbiamo il gangster italo-americano Mitraglia Joe (Sylvester Stallone), principale rivale di Frankenstein; e poi la cowgirl Calamity Jane (Mary Woronov), la nazista Grimilde e l'antico romano Cesare (rispettivamente Matilda e Nerone nell'originale). Ci sono persino scene alla Wile Coyote (il finto tunnel), così come numerose sequenze splatter (le vittime travolte sulla strada) e di nudo, la satira dei mass media e quella socio-politica, che svelano a tratti un'insolita profondità dietro l'ingenua superficie. Fra le tante gag: la "bomba a mano" di Frankenstein e la propaganda dei presidente che nega l'esistenza dei ribelli e attribuisce ai "francesi" tutte le azioni della resistenza, e persino la colpa del dissesto finanziario del paese (nel finale c'è una frase che, estrapolata dal suo contesto, è davvero surreale: "Neanche i francesi, con tutto il loro bieco potere, sono stati capaci di distruggere Frankenstein, che è la personificazione di tutte le nostre virtù nazionali!"). Il regista Bartel ebbe qualche contrasto con Corman (che preferiva che il film fosse più violento e meno ironico, e che lo aveva messo in cantiere per bruciare sul tempo l'uscita nelle sale di "Rollerball", pellicola con uno spunto molto simile). Diversi i sequel/remake, fra cui "Death Race" (2008) di Paul W.S. Anderson con Jason Statham e "Death Race 2050" (2017), sempre prodotti da Corman.

7 dicembre 2019

Memorie di un assassino (Bong Joon-ho, 2003)

Memorie di un assassino - Memories of murder (Sarinui chueok)
di Bong Joon-ho – Corea del Sud 2003
con Song Kang-ho, Kim Sang-kyung
***1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

In una cittadina di provincia, ai margini della campagna coreana, un gruppo di poliziotti indaga su un misterioso serial killer che violenta e uccide giovani donne. In assenza di prove o di testimoni, le indagini procedono in molte direzioni, fra false piste e individui sospetti che vengono poi immancabilmente scagionati. Il secondo titolo della filmografia di Bong Joon-ho (e uno dei suoi lavori migliori) è un avvincente thriller ispirato a un celebre caso di cronaca nera che scosse l'opinione pubblica alla fine degli anni ottanta e che all'epoca della realizzazione del film era ancora insoluto: il colpevole sarebbe stato identificato soltanto di recente, a trent'anni di distanza. Alternando momenti drammatici e realistici con altri più leggeri e quasi divertenti, la pellicola non perde mai di vista i detective e i loro tentativi di risalire alla verità, tra metodi ortodossi o meno, mettendo in luce le differenze fra i vari componenti del gruppo ma anche la frustrazione nel non riuscire a incastrare il killer. Pian piano, però, cominciano ad emergere alcuni elementi che collegano i delitti (l'assassino uccide sempre nelle sere di pioggia, dopo aver richiesto alla radio locale di trasmettere una particolare canzone): ma quando la rete sembra finalmente stringersi intorno a un sospetto (Park Hae-il), mancherà la prova decisiva. I protagonisti sono Park (Song Kang-ho), detective di provincia dai modi buffi e ingenui, che punta sull'intuito senza troppa fortuna; Seo (Kim Sang-kyung), proveniente da Seul, più giovane ma anche più esperto; Cho (Kim Roi-ha), il partner di Park, specializzato in interrogatori brutali; e Shin (Song Jae-ho), l'anziano capo della squadra. Fra i primi sospettati spicca invece Kwang-ho (Park No-shik), un ragazzo ritardato che potrebbe aver assistito a uno degli omicidi. Coadiuvata dalla bella fotografia di Kim Hyung-koo e dalla colonna sonora di Taro Iwashiro, la regia rende al meglio l'angoscia della situazione, la crescente ossessione dei personaggi, l'ambiente e le dinamiche dell'indagine. Bong Joon-ho (insieme a Shim Sung-bo) firma anche la sceneggiatura, che si ispira a uno testo teatrale di Kim Kwang-rim. Il caso dei delitti di Hwaseong è stato paragonato a quello del "killer dello Zodiaco", e in effetti il film di Bong sembra anticipare in molte cose "Zodiac" di David Fincher.

5 dicembre 2019

Hard boiled (John Woo, 1992)

Hard boiled (Lashou shentan)
di John Woo – Hong Kong 1992
con Chow Yun-fat, Tony Leung Chiu-wai
***

Rivisto in DVD.

L'agente speciale Yuen (Chow), detto "Tequila", e il poliziotto infiltrato Alan (Leung) collaborano per sgominare una banda di trafficanti d'armi capeggiata dall'ambizioso Johnny Wong (Anthony Wong), il cui arsenale segreto è nascosto nei sotterranei di un grande ospedale. L'ultimo film di John Woo a Hong Kong prima del grande salto verso Hollywood è quasi la summa di tutti i suoi action movie, fra personaggi che combattono sul confine fra il bene e il male (Alan, come infiltrato nella triade, lamenta: "Quando sono un gangster, mi sparano i poliziotti; quando sono un poliziotto, mi sparano tutti") e scontri a fuoco talmente complessi, lunghi ed esagerati – con centinaia di proiettili che volano da tutte le parti, esplosioni, acrobazie, riprese al ralenti di oggetti che volano e corpi che saltano – da oltrepassare il senso del ridicolo, fare un giro a 360 gradi e raggiungere il sublime. Esemplare la "battaglia" finale, se così possiamo definire qualcosa che occupa praticamente tutta la seconda ora del film, vale a dire lo scontro con i gangster all'interno dell'ospedale dove i "cattivi" hanno preso pazienti e infermieri in ostaggio, senza farsi scrupolo a sparare su di loro, e persino mettendo in pericolo i neonati della nursery. Proprio l'immagine di Tequila che salta dalla finestra tenendo in braccio l'ultimo neonato da portare in salvo, dopo aver schivato esplosioni e pallottole di ogni tipo, sintetizza l'adrenalina che scorre in una pellicola per certi versi ingenua e manieristica ma decisamente ad effetto, un picco dopo il quale Woo non aveva altra scelta che cambiare strada, trasferendosi negli Stati Uniti per mettersi alla prova in un ambiente completamente diverso e senza i suoi attori feticcio. A proposito dei quali, Chow Yun-Fat interpreta qui un personaggio che per i modi e le fattezze ricorda i protagonisti delle precedenti pellicole, in particolare nella prima sequenza (quella nella casa da tè) quando lo vediamo con lo stecchino in bocca e due pistole in pugno come il Mark Gor di "A better tomorrow". Certo, stavolta si tratta di un poliziotto e non di un gangster (l'intento della pellicola era proprio celebrare l'eroismo della polizia, dopo aver romanticizzato le figure dei criminali nei lavori precedenti). Tony Leung recita in maniera più sottile e ambigua, costruendo alla perfezione un personaggio solitario e a disagio nel proprio ruolo di infiltrato, tanto da affezionarsi sinceramente allo "zio Hoi" (Kwan Hoi-shan), il gangster "all'antica" che è poi costretto a tradire. Memorabile anche Philip Kwok nei panni di Mad Dog, il braccio destro del cattivo, killer spietato e infallibile con la benda sull'occhio ma anche con un senso dell'onore che invece è del tutto assente nel suo boss. Completano il cast Teresa Mo (la fidanzata di Yuen), Tung Wei (l'informatore Foxy) e Philip Chan (il capo della polizia), mentre Woo stesso si ritaglia il ruolo del proprietario del jazz club dove Yuen si rifugia a chiedere consiglio nei rari momenti di quiete: un riparo che ha il suo equivalente per Alan nella barca a vela ormeggiata al porto dove realizza una gru di carta per ogni uomo che ha ucciso.

3 dicembre 2019

The irishman (Martin Scorsese, 2019)

The Irishman (id.)
di Martin Scorsese – USA 2019
con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci
***

Visto in TV (Netflix).

La (vera) storia di Frank Sheeran (Robert De Niro), gangster di origini irlandesi che dopo la seconda guerra mondiale divenne un sicario per la mafia italo-americana. Ispirato alle memorie dello stesso Sheeran (raccolte in un libro di Charles Brandt, "I heard you paint houses": la frase "imbiancare case" in gergo significa eliminare qualcuno per conto della malavita), il film – attraverso una serie di flashback concatenati – mostra Frank, autotrasportatore di Filadelfia, fare la conoscenza del boss Russell Bufalino (Joe Pesci) e diventarne un protetto, e poi il suo lavoro come guardia del corpo del potente e controverso sindacalista Jimmy Hoffa (Al Pacino), con cui stringerà una forte amicizia, facendo anche da tramite fra lui e la mafia. Ma quando Hoffa comincerà a essere troppo scomodo, sarà proprio Frank a doverlo uccidere. Prodotto da Netflix, con una distribuzione limitata in sala prima di essere reso disponibile in esclusiva sulla piattaforma televisiva on demand, il film è un lungo affresco – dura tre ore e mezza – che mescola finzione ed eventi reali, incrociando di sfuggita e a più riprese la storia americana degli anni '60 e '70 (l'incidente della Baia dei Porci, l'elezione e l'attentato di Kennedy, il Watergate). E proprio questo sguardo ad ampio raggio, con una vicenda che si estende su più decenni e che incrocia numerose figure vissute realmente, dona spessore ed epicità alla vita di un personaggio brutalmente impenetrabile, che procede a testa bassa e non mette mai in discussione il proprio stile di vita. Frank è talmente fedele ai suoi superiori da uccidere per loro conto persino i propri amici (d'altronde aveva imparato a eseguire ogni ordine, anche quelli di questo tipo, quando era nell'esercito) e da sacrificare il rapporto con la figlia maggiore. Mafioso fino al midollo, non parla mai in maniera diretta di sé o del proprio lavoro, ma sempre con allusioni, eufemismi, mezze frasi o discorsi obliqui, rendendo talvolta difficile empatizzare con lui. Più appariscente è invece l'istrionico Hoffa di Al Pacino, nevrotico, ostinato e a tratti davvero spassoso, che litiga con tutti e non si tira mai indietro. L'amicizia fra Frank e Jimmy, che lo fa anche entrare nel sindacato mettendolo a capo di una delle sue sezioni, è il vero cuore della pellicola. Ucciso Hoffa, a Frank non resta che tirare a campare, attendendo da solo e in silenzio la propria fine (e nel frattempo scegliendosi la cassa da morto).

Da notare, come detto, la struttura a doppio flashback: l'intera vicenda è narrata da Frank in una sorta di confessione finale (non si sa a chi: a un prete? agli agenti federali? o forse direttamente a noi spettatori?) quando, ormai anziano, si trova in un ospizio: ma gran parte di essa (quella che precede l'omicidio di Hoffa) è racchiusa all'interno di un altro flashback, mentre Frank e Russell sono in viaggio per recarsi al matrimonio di una nipote di quest'ultimo. L'aver dovuto mostrare eventi che si dipanano per più decenni ha costretto gli interpreti (in particolare De Niro e Pesci) a farsi ringiovanire o invecchiare in numerose scene grazie alla computer grafica (e proprio l'ingente costo di questi effetti speciali ha fatto sì che il progetto, inizialmente della Paramount, passasse a Netflix). Non sempre però il risultato è eccellente: il De Niro "giovane" sembra già pieno di rughe, mentre Pesci finisce col diventare davvero decrepito (in alcune scene ricorda Andreotti!). Nulla da dire invece sulla regia: in questo tipo di film Scorsese sembra trovarsi talmente a proprio agio da sfornare scene e inquadrature memorabili senza il minimo sforzo, come se dirigesse con il pilota automatico. E rivedere questo regista e questi attori (sia pure ormai invecchiati) all'opera su questi temi, in cui hanno già sguazzato molte volte in passato (basti pensare a "Quei bravi ragazzi", di cui il film è quasi una versione aggiornata, più realistica e meno glamour), è sempre un piacere. Tanto che la pellicola potrebbe essere considerata un degno canto del cigno per il grande cineasta (sarebbe stato un peccato se la sua carriera si fosse conclusa con il precedente, e poco riuscito, "Silence"). Da notare che è soltanto la terza volta che De Niro e Pacino recitano insieme, dopo "Heat" e "Sfida senza regole" (ne "Il padrino - Parte II", infatti, non condividevano mai lo schermo). L'agile sceneggiatura si concede piccoli vezzi, come le scritte in sovrimpressione che anticipano il destino dei personaggi di contorno, quasi tutte morti violente (e non prive di ironia, come quando di uno dei mafiosi, "benvoluto da tutti", si dice che morirà di vecchiaia nel proprio letto). Nel vasto cast si riconoscono Harvey Keitel (un altro habituè di Scorsese, di cui ha intepretato i primissimi film) e Anna Paquin (Peggy, la figlia di Frank). La colonna sonora è a base di canzoni d'epoca.

2 dicembre 2019

Sydney (Paul Thomas Anderson, 1996)

Sydney (Hard Eight)
di Paul Thomas Anderson – USA 1996
con Philip Baker Hall, John C. Reilly
**

Visto in divx.

Il misterioso Sydney (Philip Baker Hall), anziano gentiluomo dai modi affabili che bazzica i casinò del Nevada, prende sotto la propria ala protettiva il giovane e sprovveduto John (John C. Reilly), insegnandogli a barcamenarsi ai tavoli da gioco e tirandolo fuori dai guai quando si ficcherà in un brutto pasticcio per aver aiutato Clementine (Gwyneth Paltrow), la cameriera di un locale di cui si è innamorato. Ma qual è il vero motivo della sua gentilezza? All'esordio nel lungometraggio, Paul Thomas Anderson costruisce un noir già valido per atmosfera e regia, ma con una storia irrisolta e che perde progressivamente interesse: se l'enigmatica prima parte cattura lo spettatore lasciandogli immaginare chissà che cosa, nella seconda la vicenda cambia direzione e si rivela piuttosto banale. Tarantiniano nei dialoghi e nella costruzione episodica della vicenda (nonché per la presenza di Samuel L. Jackson in un ruolo minore, quello del delinquente ricattatore), il film solletica a lungo l'immaginazione dello spettatore, smarrendo poi il focus sui personaggi e trasformandosi essenzialmente in un esercizio di stile, difetto che sarà congenito a tutto il cinema di un regista che manterrà sempre meno di quel che promette. Breve parte anche per Philip Seymour Hoffman, che come Hall e Reilly si rivedrà spesso nei lavori di Anderson. Il titolo originale si riferisce al punteggio del gioco dei dadi in cui escono due quattro (chiamato "otto reale" nei dialoghi).

1 dicembre 2019

Lo stagista inaspettato (Nancy Meyers, 2015)

Lo stagista inaspettato (The Intern)
di Nancy Meyers – USA 2015
con Robert De Niro, Anne Hathaway
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Ben (De Niro), vedovo e in pensione, decide di rimettersi in gioco sul mercato del lavoro all'età di 70 anni, accettando un posto come stagista presso un'azienda di e-commerce di moda. La sua esperienza e il suo buon senso faranno breccia in Jules (Anne Hathaway), la giovane fondatrice della startup, sempre troppo indaffarata, che riuscirà a mettere ordine non solo negli affari ma anche nella propria vita privata. Un film simpatico e con due bravi attori, ma impalpabile e senza guizzi, incapace di sfruttare i suoi spunti (l'impatto di Ben con la tecnologia, per esempio) per dar vita a qualcosa di interessante, se non una velata riflessione sul confronto fra mondi diversi. Troppo preoccupato a strizzare l'occhio ai suoi due pubblici di riferimento e ai loro sogni di rivalsa (le donne che non vogliono rinunciare alla carriera, gli anziani che non accettano di farsi tagliare fuori), il film risulta "piacione" e dimentica di costruire personaggi davvero memorabili, per non parlare della stereotipata ambientazione newyorkese. Da notare però un messaggio raro in questo tipo di film: il lavoro, o in generale la gratificazione professionale, può essere più importante di ogni altra cosa, persino del matrimonio, del tempo libero o della vita privata.

30 novembre 2019

Bande à part (Jean-Luc Godard, 1964)

Separato magnetico (Bande à part)
di Jean-Luc Godard – Francia 1964
con Anna Karina, Sami Frey, Claude Brasseur
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Due giovani delinquenti, Frantz (Sami Frey) e Arthur (Claude Brasseur), progettano di svaligiare la villa fuori Parigi dove Odile (Anna Karina), compagna di Frantz in un corso di inglese, risiede come ragazza alla pari. L'ingenua Odile ha infatti rivelato a Frantz che un altro ospite della casa, il signor Stolz, nasconde una grande somma di denaro nel proprio armadio. In attesa del colpo, i tre vagabondano per Parigi, amoreggiano e filosofeggiano. Dopo la produzione internazionale de "Il disprezzo", Godard voleva dirigere un film "povero" e quasi improvvisato, volutamente in bianco e nero e a basso costo, e l'occasione gliela fornì un romanzo noir di Dolores Hitchens suggeritogli dall'amico François Truffaut. Girato in maniera libera e sbarazzina per le strade di Parigi, i suoi locali e le periferie, ricco di momenti estemporanei eppure memorabili (il "minuto di silenzio" in cui si arresta anche la banda sonora; Anna Karina che canta in metropolitana; il ballo a tre – la "Madison dance" – in un caffé, scena che richiedette molti giorni di prove perché i due attori maschili avevano difficoltà a muoversi a tempo; la scena in cui i tre ragazzi decidono di battere il record della visita più rapida al Louvre, correndo per le stanze del museo e completando il percorso in meno di 9 minuti e 45 secondi, scena che sarà omaggiata da Bernardo Bertolucci in "The dreamers"), molti dei quali inseriti nella pellicola soltanto perché altrimenti sarebbe risultata troppo breve, il film è diventato uno dei più poetici e iconici di Godard, capace di influenzare numerosi cineasti anche a distanza di anni. Quentin Tarantino, per dirne uno, ha addirittura chiamato A Band Apart la propria casa di produzione. In Italia, d'altro canto, ha sempre avuto poca visibilità, tanto da aver ricevuto soltanto una distribuzione limitata in sala (con l'insolito titolo "Separato magnetico"). Molti riferimenti ai B-movie e alle pellicole di genere americane (che Godard e i suoi colleghi della Nouvelle Vague amavano molto), sia dal punto di vista stilistico che sotto forma di citazioni esplicite da parte dei personaggi. A un certo punto Anna Karina guarda in macchina, come aveva già fatto in "Questa è la mia vita". In una scena, un'insegna luminosa recita "Nouvelle Vague". Frasi celebri: "Tutto ciò che è nuovo è per questo automaticamente tradizionale" (attribuita a Eliot) e "Meglio essere ricchi e felici che poveri e infelici". Le musiche (compreso il brano R&B della scena della danza) sono di Michel Legrand, di cui curiosamente i titoli di testa affermano che potrebbe essere l'ultimo suo lavoro per il cinema (non è vero, naturalmente). Qualche similitudine con "Jules e Jim" di Truffaut, per il terzetto di protagonisti ma anche per la voce "letteraria" (e, in questo caso, metacinematografica) fuori campo, fornita dallo stesso Godard, che nel finale preannuncia un sequel che non sarà mai girato, con "le avventure di Odile e Frantz nei paesi caldi", questa volta in Cinemascope e Technicolor.

29 novembre 2019

Cry me a river (Jia Zhangke, 2008)

Cry me a river (Heshang de aiqing)
di Jia Zhangke – Cina 2008
con Zhao Tao, Wang Hongwei
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Quattro amici, un tempo amanti ed ex compagni di studi (Zhao Tao, Wang Hongwei, Hao Lei, Guo Xiaodong), si ricontrano nella città di provincia dove dieci anni prima si erano laureati, e dove sono tornati per festeggiare il compleanno di un loro professore. Il ritrovo è l'occasione per un tuffo nei ricordi, nei rimpanti e nelle confessioni d'amore. Breve cortometraggio (dura una ventina di minuti), intimo e nostalgico, realistico ed intenso, che Jia ha realizzato ispirandosi al classico cinese "Spring in a small town" per ritrarre sullo schermo frammenti di vite ed esistenze che tornano a incrociarsi dopo tanto tempo. I protagonisti, un tempo giovani poeti e sognatori, hanno preso strade diverse, forse ormai inconciliabili, e vivono ora immersi nei ritmi frenetici e commerciali della Cina moderna: ma i ricordi e le esperienze comuni (anche amorose) li legano ancora al loro passato. E aggirarsi nei luoghi della loro giovinezza li spinge forse a riattivare i sentimenti perduti. Splendida la fotografia. Il film è stato girato a Suzhou, città antichissima e tranquilla, considerata la "Venezia d'oriente" per i suoi numerosi canali, che fa da sfondo ideale alla breve vicenda (è quasi un peccato che lo spunto non abbia dato origine a un lungometraggio).

28 novembre 2019

Ti do i miei occhi (Icíar Bollaín, 2003)

Ti do i miei occhi (Te doy mis ojos)
di Icíar Bollaín – Spagna 2003
con Laia Marull, Luis Tosar
*1/2

Visto in divx.

Scappata via da un marito violento e irascibile, Pilar (Laia Marull) si rifugia dalla sorella Ana con il figlioletto e cerca di rifarsi una vita, lavorando come guida museale. Ma il marito Antonio (Luis Tosar) si rifà vivo, affermando di essere cambiato anche grazie al consulto con uno psicologo per imparare a controllarsi. Sarà vero? Ambientato a Toledo, una fiction melodrammatica e retorica, che affronta il tema delle violenze domestiche in modo diretto e senza sottigliezze. Se è apprezzabile il realismo psicologico (veicolato però più dalle buone interpretazioni che da una sceneggiatura fin troppo costruita), dal punto di vista cinematografico è una visione patetica e sgradevole, con personaggi talmente esagerati e chiusi nei loro ruoli da risultare quasi caricaturali (in particolare Antonio, irrazionalmente geloso e irascibile). E che non imparano mai dai propri errori: che marito e moglie non abbiano nulla in comune (lei sensibile e interessata all'arte, lui un buzzurro senza empatia e sempre arrabbiato) era evidente sin dall'inizio. Trascurabili i personaggi di contorno (compreso il bambino, del tutto inutile ai fini della storia). Più che un film, sembra un documentario educativo da proiettare nei centri sociali o di assistenza. Pluripremiato ai Goya.

26 novembre 2019

Elvis il re del rock (John Carpenter, 1979)

Elvis il re del rock (Elvis)
di John Carpenter – USA 1979
con Kurt Russell, Shelley Winters
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Film per la tv che ripercorre la vita e la carriera di Elvis Presley, dall'infanzia al college, dai primi concerti al successo globale. Il tutto è raccontato attraverso un lunghissimo flashback, mentre il cantante si prepara a tornare in scena a Las Vegas, nel 1969, nove anni dopo la sua ultima apparizione in pubblico (e pertanto la pellicola non prende in considerazione gli ultimi controversi anni di vita). Girato su commissione da un Carpenter che, reduce dal successo di "Halloween", stava cercando di non rimanere imprigionato nel genere horror, si tratta di un biopic piuttosto convenzionale ma comunque decisamente godibile e ben fatto, che a soli due anni dalla sua scomparsa (Elvis era morto nel 1977) riesce a realizzare un buon ritratto di una vera e propria icona del rock e dello spettacolo americano, senza limitarsi ai soli dati biografici ma indagando anche nella sua personalità, nei legami famigliari (in particolare il forte amore verso la madre, ma anche i "dialoghi" con il fratello gemello Jesse Garon, nato morto), nei difetti caratteriali (la timidezza, l'insicurezza), nel difficile rapporto con il successo, nell'infelicità e nel progressivo isolamento. E come bonus offre tantissime canzoni, fra cui tutte le più celebri dell'artista (da "Heartbreak Hotel" a "Blue Suede Shoes", da "Can't Help Falling In Love" a "Suspicious Mind", per citarne solo alcune). Assai lungo (quasi tre ore: ma esiste una versione "accorciata"), alla sua uscita nel nostro paese è stato distribuito anche in sala: il doppiaggio italiano d'epoca è però andato perduto (come ci rivela Evit nel suo bel blog "Doppiaggi italioti"). Dopo una carriera da attore bambino per la Disney e diverse comparsate in televisione, con questo film Kurt Russell comincia un fortunato sodalizio con Carpenter, per il quale interpreterà tanti titoli di culto negli anni '80. Nel cast anche Shelley Winters (la madre Gladys), Robert Gray (l'amico Red West), Season Hubley (la moglie Priscilla), Pat Hingle (il "colonnello" Tom Parker, suo manager). Il padre Vernon è interpretato da Bing Russell, padre di Kurt. Una curiosità: nell'ultimo film in cui ha recitato, "Change of habit" del 1969, il personaggio interpretato da Elvis Presley si chiamava... John Carpenter!

24 novembre 2019

L'ufficiale e la spia (Roman Polanski, 2019)

L'ufficiale e la spia (J'accuse)
di Roman Polanski – Francia/Italia 2019
con Jean Dujardin, Louis Garrel
***

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina.

Il cosiddetto "affare Dreyfus" è stato uno degli scandali politici, sociali e giudiziari più celebri d'Europa, a cavallo fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, tanto da scuotere la Francia e dividere l'opinione pubblica in due acerrime fazioni (innocentisti e colpevolisti). Il film sceglie di raccontare l'intricata vicenda non dal punto di vista di Alfred Dreyfus (Louis Garrel), il soldato alsaziano di origine ebrea che nel 1894 fu accusato di spionaggio e alto tradimento e condannato alla deportazione, ma da quello di Marie-Georges Picquart (Jean Dujardin), l'ufficiale dei servizi segreti che contribuì a riaprire l'indagine su di lui, e in quanto tale si dipana come una spy story, fra thriller storico e giallo processuale, in grado di catturare l'attenzione dello spettatore e tenerlo attaccato allo schermo con tutto il mestiere di un regista "classico" che non ha bisogno di strizzatine d'occhio post-moderne (per fortuna!). Inizialmente convinto come tutti della colpevolezza di Dreyfus, anche a causa dell'antisemitismo diffuso nell'esercito e in ampi strati della popolazione francese, una volta nominato capo del dipartimento di statistica dello Stato Maggiore (ovvero l'unità di spionaggio) Picquart individua casualmente l'identità del vero colpevole e si rende conto che l'alsaziano è stato condannato ingiustamente e senza vere prove. La sua ostinata battaglia per la verità e la giustizia – anche grazie all'aiuto dello scrittore Émile Zola, autore della famosa lettera "J'accuse" – gli costerà a sua volta l'ostracizzazione dall'esercito e l'incriminazione... La sceneggiatura (di Polanski e Robert Harris) è tratta da un romanzo che lo stesso Harris aveva già scritto con l'intenzione di farne un film insieme all'amico regista (con il quale aveva già collaborato in passato): e non c'è dubbio che l'interesse di Polanski per l'argomento possa dipendere anche dalle persecuzioni e dalle accuse cui lui stesso è stato sottoposto in diversi momenti della sua vita (come bambino di famiglia ebrea durante la Seconda Guerra Mondiale; come artista e intellettuale nella Polonia comunista; e recentemente con le accuse di violenza sessuale negli Stati Uniti). Di impostazione classica e tradizionale, come dicevamo, il film non è però una semplice "illustrazione" asettica degli eventi passati, ma dà prova di profondità quando indaga nell'animo del protagonista, ben collocandolo nel contesto storico e nel clima sociale con cui interagisce e che fa da sfondo alla vicenda. Anzi, proprio questo clima è il vero centro nevralgico della pellicola, suggerendo peraltro un parallelo con la realtà odierna e mettendoci in guardia su come fake news e campagne d'odio possano ostacolare la giustizia e nascondere la verità: per venirne a capo serve l'integrità di uomini come Picquart, che seguono l'etica e la coscienza, capaci di andare anche contro i propri pregiudizi o quelli dell'ambiente in cui vive. Ottimo il contributo del cast: oltre a Dujardin e Garrel, entrambi incredibilmente in parte (grazie anche a un ottimo make up), ci sono Emmanuelle Seigner nei panni dell'amante di Picquart, e ancora Grégory Gadebois (il maggiore Henry), Mathieu Amalric (il grafologo Bertillon), Melvil Poupaud (l'avvocato Labori), Denis Podalydès (l'avvocato Demange), François Damiens (Émile Zola). La versione italiana, anziché il più iconico "J'accuse", dà al film il titolo del romanzo di Harris, che mi sembra un po' generico e anche fuorviante: Picquart e Dreyfus sono entrambi ufficiali, e nessuno dei due è una spia! Gran premio della giuria alla Mostra di Venezia. Fra i produttori c'è Luca Barbareschi, che recita anche un piccolo ruolo. Naturalmente l'affare Dreyfus era già stato portato sullo schermo innumerevoli volte: la prima addirittura "in tempo reale", nel 1899, da Georges Méliès (che ritagliò per sé stesso la parte dell'avvocato Labori). Altra versione celebre è quella di William Dieterle ("Emilio Zola", 1937), che vinse l'Oscar come miglior film dell'anno.

23 novembre 2019

Spirito allegro (David Lean, 1945)

Spirito allegro (Blithe spirit)
di David Lean – GB 1945
con Rex Harrison, Margaret Rutherford
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Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Per documentarsi sul tema del soprannaturale in preparazione di un libro che intende scrivere, il romanziere Charles Condomine (Rex Harrison) invita a cena nella sua casa di campagna una sedicente medium, l'anziana ed eccentrica Madame Arcati (Margaret Rutherford), e le chiede di condurre una seduta spiritica. Come risultato viene evocato il fantasma della prima moglie di Charles, l'estroversa e dispettosa Elvira (Kay Hammond), che solo lui riesce a vedere e a sentire. Il fantasma di Elvira si insedia in pianta stabile nella dimora, mettendo a repentaglio il matrimonio di Charles con la seconda moglie Ruth (Constance Cummings), costretta a un'insolita e scomoda convivenza a tre... Dall'omonima commedia teatrale di Noël Coward (che non apprezzò l'aggiunta di una scena finale), una ghost story comica e pungente, che mescola i temi fantastici tipici di Henry James con uno stile brillante e satirico alla Oscar Wilde: straborda infatti di sofisticato black humour inglese, dialoghi rapidissimi e scoppiettanti, indovinati effetti visivi (ottenuti soprattutto attraverso le tinte cromatiche del Technicolor) e interpretazioni di qualità: sia la Rutherford, irresistibile nei panni della scalcinata medium di campagna, che la Hammond avevano recitato i rispettivi ruoli anche a teatro, quando la commedia era andata in scena per la prima volta nel 1942. Il titolo proviene da un verso del poema "Ad un'allodola" di Percy Bysshe Shelley.

21 novembre 2019

Sesso, bugie e videotape (S. Soderbergh, 1989)

Sesso, bugie e videotape (Sex, Lies, and Videotape)
di Steven Soderbergh – USA 1989
con Andie MacDowell, James Spader
**1/2

Rivisto in TV.

Il matrimonio fra la casalinga Ann (Andie MacDowell), repressa e sessuofoba, e l'avvocato John (Peter Gallagher), rampante e donnaiolo, è in crisi, tanto che l'uomo si consola con la sorella di lei, l'estroversa barista Cynthia (Laura San Giacomo). L'inatteso arrivo in città di un vecchio amico di John, il misterioso Graham (James Spader), che a sua volta ha qualche problema con il sesso e ha l'abitudine di intervistare (registrando il tutto su videocassette) giovani donne a proposito delle loro prime esperienze e abitudini sessuali, farà precipitare gli eventi. Il primo lungometraggio di Soderbergh, un thriller intellettuale e psicologico un po' pretenzioso ma baciato dalla fortuna critica (vinse a sorpresa la Palma d'Oro a Cannes, rendendo il regista all'epoca il più giovane mai premiato, e fu nominato all'Oscar per la miglior sceneggiatura), è un oggetto insolito e quantomeno bizzarro, a cominciare dalla struttura, quasi teatrale. I personaggi sono quattro, ma sullo schermo si confrontano quasi sempre soltanto a coppie (sono rarissime le scene in cui ne compaiono più di due). L'iconico titolo (a proposito: chissà perché alla sua uscita non si volle tradurre "videotape" con "videocassette", termine già ampiamente in uso) contiene già al suo interno tutti i temi trattati dalla pellicola: l'approccio con il sesso (così differente per ciascuno dei personaggi coinvolti), le bugie (il tema della verità e della menzogna è ricorrente: segreti, omissioni, tradimenti – a livello di coniugi, di sorelle, di amici – e confessioni) e appunto le videocassette con le interviste in cui le donne si aprono completamente, confidando i propri segreti più intimi a uno sconosciuto (è proprio in cerca di questa "verità" che Graham ammette di andare, in contrasto alle menzogne legate al lavoro di John: gli avvocati sono definiti come "bugiardi patologici"). In fondo anche non ammettere di avere un problema equivale a mentire: quando lo riconosceranno, sia Ann che Graham sapranno aprire un nuovo capitolo della propria vita, più sincero e felice. Ottimi gli interpreti: Spader, in particolare, si specializzerà in personaggi ambigui e coinvolti in storie torbide – ma decisamente originali – a sfondo sessuale (vedi anche "Crash" e "Secretary"). Da sottolineare la colonna sonora di Cliff Martinez, fredda ed astratta come le barriere fra i personaggi.

20 novembre 2019

Musica nel buio (Ingmar Bergman, 1948)

Musica nel buio (Musik i mörker)
di Ingmar Bergman – Svezia 1948
con Birger Malmsten, Mai Zetterling
**

Visto in divx.

Bengt Vyldeke (Malmsten) è un giovane pianista di famiglia benestante che, diventato cieco per un incidente al poligono mentre era sotto le armi, si ritrova costretto a rinunciare alla carriera di concertista che aveva sognato e si riduce a suonare per ristoranti di basso ordine. Ingrid (Mai Zetterling) è una ragazza orfana che lavora come domestica nella casa di campagna degli zii di Bengt, si prende cura di lui e se ne innamora, mentre al contempo aspira ad istruirsi e a conquistarsi un posto nella società. Da un racconto di Dagmar Edqvist, una pellicola dai toni romantici e melodrammatici ma anche attenta alla psicologia dei personaggi e al contesto sociale, visto come segue le due parabole contrapposte dei protagonisti, con le continue umiliazioni cui è sottoposto Bengt e la parallela crescita (anche come consapevolezza) dell'ingenua e campagnola Ingrid. Interessante la sequenza di apertura, con un montaggio di immagini surreali che mostrano le percezioni di Bengt nel momento in cui diventa cieco. Ma il romanticismo e lo sviluppo della storia sono alquanto convenzionali, e la buona regia e le interpretazioni non possono far molto per sollevare più di tanto il soggetto. In ogni caso, fu il primo successo di pubblico – per quanto modesto – per il giovane Bergman: gli valse la fiducia della casa di produzione Svensk Filmindustri che gli commissionò ulteriori sceneggiature e regie.