29 giugno 2018

Andrej Rublev (Andrej Tarkovskij, 1966)

Andrej Rublev (id.)
di Andrej Tarkovskij – URSS 1966
con Anatolij Solonitsyn, Ivan Lapikov
***1/2

Rivisto in divx.

Il secondo lungometraggio di Tarkovskij, nonché il suo primo progetto completamente personale (nel caso de "L'infanzia di Ivan", infatti, era subentrato come regista a lavorazione già avviata), racconta alcuni episodi della vita del monaco Andrej Rublev, celebrato pittore di icone sacre dell'inizio del quattrocento, seguendone le vicissitudini dal 1400 al 1423 e mostrando in particolare la profonda crisi artistica, spirituale ed esistenziale che attraversa, ma intrecciando le sue vicende anche con quella di altri personaggi, realmente esistiti o meno, e con alcuni eventi storici (come l'invasione dei tartari). Della vera biografia di Rublev, in realtà, si sa ben poco: ma la sceneggiatura (scritta dallo stesso Tarkovskij insieme al fido Andrei Konchalovsky, il fratello di Nikita Michalkov, con cui aveva già collaborato in precedenza), la utilizza solo come spunto e filo conduttore per parlare più in generale della creatività e del rapporto degli artisti (o degli artigiani) con il mondo che li circonda. Lo fa attraverso una serie ricchissima di suggestioni e riferimenti, anche se l'episodio più significativo è forse l'ultimo, quello della fusione della campana, attraverso il quale Andrej supera la propria crisi e acquisisce una nuova consapevolezza. La fusione fra la spiritualità (e l'umanesimo) del personaggio e l'universalità dei concetti (che, a prescindere dalla precisa collocazione storica delle vicende, donano al film un senso di atemporalità), ma anche l'audacia del progetto cinematografico (il film dura tre ore) e la libertà artistica ed espressiva (evidente nei tempi della narrazione, nella struttura, nel montaggio, nelle immagini), spaventarono i burocrati sovietici, che temevano una lettura politica del film come metafora della Russia moderna (una lettura alquanto limitante, a onor del vero), e che per questo motivo ne ritardarono a lungo l'uscita: terminato nel 1966, fu proiettato una sola volta prima di essere ritirato dalla censura con la richiesta di diversi tagli. Venne poi presentato fuori concorso al Festival di Cannes nel 1969 e infine distribuito in URSS soltanto nel 1971. Dal punto di vista tecnico, il lungometraggio è esemplare per la grande qualità poetica e pittorica delle immagini (da quelle che mostrano semplici specchi d'acqua, alla potenza dei cavalli al galoppo) che pure sa porsi al servizio di momenti di contemplazione e di introspezione. Il protagonista Anatolij Solonitsyn, fino ad allora attore teatrale, reciterà per Tarkovskij anche nei successivi "Solaris", "Lo specchio" e "Stalker".

In un prologo, assistiamo al tentativo di un uomo di spiccare il volo con una rudimentale mongolfiera, una scena apparentemente scollegata dal resto del film: in realtà, anticipa il tema del coraggio di mettere in pratica la propria visione nonostante gli ostacoli – qui rappresentati dalla folla che cerca di impedirgli di decollare – anche a costo di schiantarsi per terra: l'uomo è di fatto un novello Icaro (o se vogliamo, vista la collocazione temporale, un visionario alla Leonardo Da Vinci). Vediamo poi Rublev e altri due monaci pittori – Daniil (Nikolai Grinko) e Kirill (Ivan Lapikov) – in viaggio verso Mosca: in una capanna di contadini assistono allo spettacolo di un buffone (Roland Bykov) che si prende gioco di un boiardo (un aristocratico locale), salvo poi essere arrestato. Andrej sarà scelto come assistente da Teofane il Greco (Nikolaj Sergeev), anziano e già affermato pittore bizantino, scatenando la gelosia di Kirill (ambizioso ma mediocre, come Salieri nei confronti di Mozart) che abbandona irato il monastero. Assistiamo poi alle diatribe teologiche fra Teofane, che disprezza l'umanità, e Andrej, che invece ha grande fiducia negli uomini (e che si immagina una passione di Cristo con il popolo russo come protagonista). In seguito, Andrej assiste a una festa pagana e ne rimane incuriosito e turbato. Incaricato di dipingere un giudizio universale sulle pareti di una chiesa, piomba in una profonda crisi artistica e rifiuta di immortalare le sofferenze dei peccatori. Il fratello del Granduca locale, per usurparne il trono, si allea con una tribù di tartari che saccheggiano la regione, assaltando e bruciando anche la chiesa dove Andrej lavora. Questi, per salvare Durochka (Irma Tarkovskaja), una ragazza muta, uccide un uomo: e per espiare la sua colpa, fa voto di silenzio e decide che non dipingerà più. In seguito Durochka lo abbandonerà proprio per seguire un principe tartaro. Anni più tardi, Andrej osserverà il giovane Boris (Nikolaj Burljaev), figlio di un artigiano morto da poco, organizzare e dirigere con grande tenacia e determinazione le operazioni per la fusione di un'enorme campana di metallo. Quando il ragazzo gli confesserà piangendo che suo padre non gli aveva insegnato nulla, e che è riuscito nell'impresa soltanto grazie alle proprie capacità, Andrej capirà quanto importante è l'atto creativo (per il popolo, ma anche per l'artista stesso), e che è un peccato non usare il talento che Dio gli ha dato (come lo stesso Kirill, redivivo dopo anni, gli spiega). Tornerà dunque alla pittura, e l'epilogo del film (una decina di minuti a colori, mentre il resto della pellicola è in bianco e nero) ci mostra i dettagli di alcune delle sue opere (icone e affreschi custoditi nella Trinità di San Sergio, il più importante monastero della chiesa ortodossa russa), prima di sfumare su una suggestiva immagine di quattro cavalli sotto la pioggia.

28 giugno 2018

La leggenda degli uomini straordinari (S. Norrington, 2003)

La leggenda degli uomini straordinari
(The League of Extraordinary Gentlemen)
di Stephen Norrington – USA/GB 2003
con Sean Connery, Shane West
*1/2

Rivisto in TV.

Un pallido adattamento del fumetto di Alan Moore "La lega degli straordinari gentlemen" (da notare le alterazioni nel titolo italiano: "leggenda" al posto di "lega", immagino per motivi politici, e "uomini" al posto di "gentlemen", tanto per banalizzare il tutto e perdere quella connotazione da Inghilterra vittoriana), di cui praticamente mantiene soltanto l'idea di base, ovvero far convivere nello stesso universo, e far collaborare fra di loro, svariati personaggi della letteratura fantastica e avventurosa di fine ottocento. L'esploratore Allan Quatermain (Sean Connery, alla sua ultima apparizione sullo schermo), il Capitano Nemo (Naseeruddin Shah), una Mina Harker "vampirizzata" (Peta Wilson), l'Uomo Invisibile (Tony Curran), Dorian Gray (Stuart Townsend) e il dottor Jekyll (Jason Flemyng), ai quali si unisce anche l'agente americano Tom Sawyer (Shane West), vengono incaricati da "M" (Richard Roxburgh), capo dei servizi segreti britannici, di sventare la minaccia del Fantasma (dell'Opera?), che sta per scatenare una guerra mondiale per arricchirsi con la corsa agli armamenti. Ma non tutto è come sembra, e diversi tradimenti sono in agguato... L'entusiasmo nel vedere tanti personaggi classici interagire tutti insieme scompare rapidamente, quando ci rendiamo conto che di loro c'è solo il nome, che la caratterizzazione è snaturata o superficiale, e che sono stati trasformati tutti in supereroi (Mister Hyde è una sorta di Hulk, Dorian Gray rigenera le proprie ferite, Mina è una Dracula al femminile, ecc.). E manca anche un vero feeling storico-ottocentesco, anche perché tutte le ambientazioni (Venezia compresa) sono ricostruite interamente in computer grafica. Rimangono solo scene d'azione confuse e una trama banalotta e piena di buchi logici. Rispetto al fumetto i toni e i riferimenti culturali sono stati abbassati e il roster dei personaggi è leggermente modificato (in particolare è stato introdotto Tom Sawyer per compiacere il pubblico americano). Il progetto di dare vita a una franchise cinematografica è fallito quasi subito. Curiosità: Nigel, l'amico di Quatermain che si spaccia per lui all'inizio, è interpretato dal David Hemmings di "Blow up".

27 giugno 2018

Vanilla sky (Cameron Crowe, 2001)

Vanilla Sky (id.)
di Cameron Crowe – USA 2001
con Tom Cruise, Penélope Cruz
**1/2

Visto in divx.

Rinchiuso in prigione con l'accusa di omicidio, David Aames (Cruise), giovane editore ricco e gaudente, racconta allo psichiatra McCabe (Kurt Russell) come la sua vita da sogno si sia trasformata all'improvviso e senza spiegazione in un incubo. Rimasto sfigurato al volto in un incidente stradale causato da Julie (Cameron Diaz), una sua ex gelosa, era riuscito a farsi ricostruire la faccia da un'equipe medica e anche a conquistare l'amore della bella Sofia (Penélope Cruz). Ma a un certo punto non solo il suo volto era tornato a mostrare le fattezze sfigurate, ma anche Sofia si era trasformata di colpo e misteriosamente in Julie... Remake americano di "Apri gli occhi" di Alejandro Amenábar, risalente a quattro anni prima e in cui la Cruz interpretava lo stesso ruolo. Anche se la storia, salvo alcuni piccoli dettagli, è essenzialmente identica al film spagnolo, per qualche motivo qui sembra più campata per aria e meno convincente nei suoi colpi di scena (soprattutto nella seconda parte, quando da thriller psicologico si trasforma in fantascienza astratta e metafisica), ma resta comunque interessante nella sua esplorazione di temi come il desiderio e l'immortalità, oltre che più originale della media per una produzione hollywoodiana. Crowe e Cruise avevano già lavorato insieme in "Jerry Maguire". Nel cast anche Jason Lee, Timothy Spall, Tilda Swinton e Noah Taylor. In alcune inquadrature si vedono le Torri Gemelle del World Trade Center: anche se il film è uscito dopo l'11 settembre, il regista non ha voluto eliminarle come sorta di tributo. Il titolo fa riferimento al particolare colore del cielo in alcuni dipinti di Claude Monet (come quello che fa mostra di sé nella casa di David), lo stesso colore che si vede dal momento in cui inizia il "sogno lucido" (che infatti ingloba in sé frammenti dei ricordi del protagonista, come i film della Nouvelle Vague francese di cui ha i poster in camera).

26 giugno 2018

Apri gli occhi (Alejandro Amenábar, 1997)

Apri gli occhi (Abre los ojos)
di Alejandro Amenábar – Spagna 1997
con Eduardo Noriega, Penélope Cruz
***

Rivisto in divx.

César (Noriega) è giovane, ricco, bello e spensierato, e ne approfitta trascorrendo ogni notte con una ragazza diversa. Quando incontra Sofia (Penélope Cruz), una conoscente del suo amico Pelayo (Fele Martínez), se ne innamora all'istante e medita di mettere la testa a posto. Ma un incidente stradale, provocato da una sua ex gelosa con tendenze suicide, Nuria (Najwa Nimri), lo lascia con il volto sfigurato... Il secondo lungometraggio di Amenábar è un sofisticato thriller psicologico che, man mano che procede, si colora di elementi onirici, fantascientifici e metafisici, giocando con la confusione fra sogno e realtà e con i temi del volto e della maschera (come quella che César usa per nascondere le cicatrici, o quella che accusa simbolicamente Sofia di indossare, in quanto attrice che recita e nasconde i suoi veri sentimenti). Quando sembra che le cose si possano miracolosamente aggiustare (un'operazione rivoluzionaria riporta il volto di César alla normalità, Sofia ricambia il suo amore), ecco che il mondo pare impazzire: l'uomo si vede negli specchi con la faccia ancora deturpata, e il viso di Sofia e quello di Nuria si confondono fra loro. Gran parte della vicenda è narrata dal protagonista a uno psichiatra (Chete Lera) in carcere, dove è imprigionato per omicidio (scopriremo poi perché). Ma nei suoi ricordi ci sono strane omissioni, che forse riguardano un misterioso scienziato (Gérard Barray), esperto di criogenia... Una pellicola intrigante, che svela lentamente le sue carte e che, pur dando tutte le risposte, lascia lo spettatore a domandarsi quanto di quello cui ha assistito sia reale o meno. Gli americani ne hanno fatto un remake tutto sommato fedele, "Vanilla Sky", con Tom Cruise e la stessa Cruz, firmato da Cameron Crowe (ma forse per questo tipo di storia sarebbe stato più indicato un Nolan o un Lynch).

25 giugno 2018

Mica scema la ragazza! (F. Truffaut, 1972)

Mica scema la ragazza! (Une belle fille comme moi)
di François Truffaut – Francia 1972
con Bernadette Lafont, André Dussollier
**

Rivisto in DVD.

Per scrivere un saggio sulla "criminalità femminile", il giovane professore di sociologia Stanislao Prévine (Dussollier, al primo ruolo importante della sua carriera) si reca in prigione per intervistare una detenuta, la procace, sboccata e apparentemente ingenua Camille Bliss (Bernadette Lafont), che gli racconta le traversie della propria vita. Responsabile della morte del padre, che la maltrattava, è poi fuggita dal riformatorio e ha sposato Clovis (Philippe Léotard), un garagista. Ma la vita coniugale, anche per colpa della suocera (Gilberte Géniat), le andava stretta. E allora ha deciso di "emanciparsi", anche sfruttando l'attrazione che sa esercitare sugli uomini, fino ad averne quattro da gestire contemporaneamente: il marito, un cantante country (Guy Marchand), un viscido avvocato (Claude Brasseur) e un derattizzatore religioso (Charles Denner). Sarà il suicidio di quest'ultimo a farla finire in prigione con l'accusa di omicidio, dopo che aveva tentato inutilmente di eliminare sia il marito che l'avvocato. Stanislao, a sua volta infatuato di lei, riuscirà a scagionarla, ma si scoprirà nient'altro che l'ennesimo strumento nelle sue mani... Tratto da un romanzo di Henry Farrell, è forse il film più leggero e "volgare" di Truffaut (nonché, diciamolo pure, il meno bello), una tragicommedia con personaggi da fumetto (in particolare la protagonista sembra uscire da strisce come "Lil' Abner"). Camille, a prima vista una campagnola grossolana e sempliciotta (ma, come suggerisce il titolo italiano, è molto meno stupida e più manipolatrice di quanto sembri), sfrutta il proprio charme e la propria incontenibile sensualità per cavarsela in ogni circostanza e rigirarsi gli uomini come vuole (lasciando credere a loro di essere in controllo), spinta dal desiderio di diventare una star e dalla mancanza di scrupoli quando si tratta di "scommettere con il destino". I personaggi maschili, Stanislao in primis (lui sì che si rivela veramente ingenuo), si fanno abbindolare e ne sono vittime più o meno inconsapevoli, mentre solo quelli femminili (negativi, come la suocera, o positivi, come la fedele segretaria di Stanislao, interpretata da Anne Kreis) riescono a vedere oltre le apparenze. Se non fosse narrata con toni comici e non avesse come protagonisti delle vere e proprie macchiette, la vicenda sarebbe anche a suo modo tragica (a partire dall'infanzia infelice della protagonista). E comunque la pellicola non è una semplice farsa dai toni beffardi, ma sfiora temi da sempre cari al regista, quali il rapporto fra l'individuo e l'ambiente circostante (come il professore de "Il ragazzo selvaggio", Stanislao studia Camille e giustifica il suo comportamento in quanto "vittima della società") e la molteplicità delle relazioni sentimentali, frutto di un'irrequietezza inesprimibile (Camille che si destreggia fra quattro amanti è quasi il contraltare de "L'uomo che amava le donne", anche se lei è più mantide che ninfomane). Frecciatina di Truffaut verso sé stesso e i cineasti in generale nel personaggio del bambino cineamatore, che non vuole mostrare i propri filmini perché "il montaggio non è completato". La Lafont aveva recitato nel primo cortometraggio del regista francese, "L'età difficile" nel 1957.

23 giugno 2018

Anteprime dal festival di Cannes 2018 - conclusioni

Pochi film, ma buoni: questa rassegna in formato ridotto aveva senza dubbio la sua ragion d'essere. Anche perché si trattava di film di autori "importanti". Due, in particolare, mi sono piaciuti su tutti: "Tre volti" di Panahi (un regista che non delude mai) e "Cold war" di Pawlikowski (di cui dovrò approfondire la filmografia). Qualche riserva, invece, sui lavori di Labaki, Koreeda e Farhadi che, pur con i loro pregi, mi sono sembrati inferiori alle loro pellicole precedenti. Il tema chiave di quasi tutti i lungometraggi è stato quello della famiglia (e, di conseguenza, quello dei figli e delle responsabilità).

22 giugno 2018

Tutti lo sanno (Asghar Farhadi, 2018)

Tutti lo sanno (Todos lo saben)
di Asghar Farhadi – Spagna/Fra/Ita 2018
con Penélope Cruz, Javier Bardem
**1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Laura (Penélope Cruz), trasferitasi da anni in Argentina, fa ritorno con i figli in Spagna, nel suo villaggio natale, in occasione del matrimonio della sorella minore. Qui ritrova i suoi familiari e gli amici di un tempo, compreso il viticoltore Paco (Javier Bardem), che fu la sua prima fiamma. Durante la festa di nozze, però, la sua primogenita Irene scompare misteriosamente. Si tratta di un rapimento: i sequestratori chiedono un ingente riscatto, contando sul fatto che il marito di Laura è ricco, o almeno così si dice. Decisa a non rivelare niente alla polizia, nel timore che venga fatto del male alla figlia, Laura si rivolge proprio a Paco, che ha un motivo molto serio per aiutarla e sentirsi coinvolto in prima persona... Dopo la trasferta in Francia (con "Il passato"), Farhadi gira ora un film in Spagna (benché la sceneggiatura avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi parte del mondo, Iran compreso). Ma non tutto funziona: se la prima parte della pellicola è intensa e intrigante, fra vecchi rancori mai sopiti che tornano alla luce al momento meno opportuno, e segreti del passato tenuti profondamente nascosti che si rivelano però essere di Pulcinella ("Tutti lo sanno", recita non a caso il titolo), da un certo punto in poi il film si fa schematico e prevedibile. E il fatto che alla fine tutto venga spiegato, francamente, delude un po': viene a mancare proprio quell'ambiguità e quel mistero psicologico che caratterizzava i precedenti lavori di Farhadi (per un po' sembrava che la scomparsa di Irene potesse riecheggiare quella di "About Elly", ma poi diventa chiaro che il focus del film risiede nelle intricate dinamiche familiari che debordano verso il thriller o il giallo). Nulla da dire invece sulla confezione, dalla regia alle prove degli attori. E resta la bella atmosfera, con l'affascinante setting nella campagna iberica, fra vigneti e casolari. Nel cast anche Ricardo Darin (Alejandro, il marito di Laura), Bárbara Lennie (Bea, la compagna di Paco), Eduard Fernández, Inma Cuesta, Elvira Mínguez.

21 giugno 2018

Cold war (Paweł Pawlikowski, 2018)

Cold war (Zimna wojna)
di Paweł Pawlikowski – Polonia/F/GB 2018
con Tomasz Kot, Agata Kulesza
***1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Nella Polonia del dopoguerra, il musicista Wiktor (Tomasz Kot), fondatore di una compagnia di canto e ballo che recupera e porta in scena i motivi e le danze popolari del paese, si innamora – ricambiato – di Zula (Joanna Kulig), una delle ragazze della compagnia. Quando lui, di fronte alla sempre più ingombrante invadenza del regime comunista (che ne condiziona anche le scelte artistiche), sceglierà di fuggire in Occidente, comincerà un periodo di separazioni e di ricomposizioni, di allontanamenti e riavvicinamenti, prima che entrambi scoprano che la loro anima risiede in patria e che a Parigi, nonostante la maggiore libertà, la loro relazione è a rischio... Girando (come il precedente "Ida") in 4:3 e in un purissimo bianco e nero, e ispirandosi liberamente alla vita dei propri genitori (alla cui memoria dedica il film), Pawlikowski racconta una sentitissima e travagliata storia d'amore che si dipana dal 1949 al 1964 dai due lati della cortina di ferro. Ma il tema non è quello dell'ideologia o della politica. La pellicola parla soprattutto di identità: quella profonda delle radici contadine del paese, che si riflette nei canti e nei balli raccolti da Wiktor e Irena nelle campagne della Polonia, che i burocrati del partito vogliono alterare e "sporcare" con la propaganda di regime; e quella dei singoli individui, che la smarriscono quando si trovano all'estero. Per questo motivo prima Zula e poi Wiktor (che sarà arrestato come dissidente) sceglieranno di far ritorno volontariamente in Polonia. La perdita dell'anima e dell'identità può avvenire sotto diversi aspetti: da quello artistico (i canti spontanei lasciano il posto a canzonette farlocche e costruite a tavolino, il folk si contamina con il jazz e il kitsch, con il culmine che si raggiunge nell'esibizione "messicana" di Zula con tanto di parrucca) a quello spirituale (la ragazza sposa un commerciante italiano per poter espatriare, e poi un burocrate del partito per aiutare Wiktor a uscire di prigione: tutti matrimoni che per lei non hanno comunque valore, visto che non sono stati celebrati in una chiesa, a differenza di quello che i due protagonisti inscenano da soli in una cattedrale diroccata nel finale). Premiato a Cannes per la miglior regia, il film è diretto in modo magistrale ed elegante, segue i suoi personaggi lungo gli anni (attraverso occasionali dissolvenze in nero) senza sbavature o forzature, e anzi rievocando alla perfezione l'epoca in cui si svolgono le vicende e rendendo vive sia le scene ambientate in Polonia che quelle, quasi da Nouvelle Vague, in una Parigi multiculturale e sbarazzina. Magnifiche, fra le tante, la sequenze che mostrano la chiesa diroccata sotto la neve (quasi tarkovskiana) o quella che, all'improvviso, spunta dalla penombra durante un giro in battello sulla Senna; ma anche la danza forsennata e da ubriaca di Zula in un night club parigino, che contrasta con quelle, pulite e coreografate, sui palcoscenici dei festival del regime. Nel cast anche Agata Kulesza (la collega di Wiktor), Borys Szyc (il rappresentante del partito), Cédric Kahn (il discografico Michel) e Jeanne Balibar (la poetessa Juliette).

20 giugno 2018

Tre volti (Jafar Panahi, 2018)

Tre volti (Se rokh)
di Jafar Panahi – Iran 2018
con Jafar Panahi, Behnaz Jafari, Marziyeh Rezaei
***1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il regista Panahi e la diva della televisione Behnaz Jafari ricevono un video, girato con il telefonino, che mostra l'apparente suicidio di Marziyeh, una ragazza di un remoto villaggio nel nord dell'Iran che aspirava a diventare attrice nonostante l'opposizione della famiglia. Scossa dai sensi di colpa, anche perché nel video la ragazza le rivolgeva un accorato appello, Jafari si fa accompagnare da Panahi sul posto per scoprire se Marziyeh è morta davvero o se si tratta solo di una messinscena. Un viaggio nella periferia del paese, un'esplorazione del rapporto di amore e odio verso il mondo del cinema e dello spettacolo (da un lato dispensatore di sogni – gli abitanti del villaggio riconoscono Jafari e le chiedono informazioni sullo sviluppo del telefilm in cui recita, un uomo spera che il figlio cresca virile come un celebre attore – ma dall'altro visto come una professione inutile o persino indecorosa, se confrontata per esempio a quelle di contadino o di medico) in uno del film più kiarostamiani di Panahi. I temi, l'atmosfera e lo stile – con i lunghi piani sequenza, i viaggi in automobile, i paesaggi rurali delle zone più remote del paese (dove si parla più turco che persiano), l'attenzione alla gente comune, al loro ambiente e alle piccole storie (qui, per esempio, la strada sterrata con le sue regole per il passaggio, le peripezie del toro da monta, le superstizioni sul prepuzio dei bambini circoncisi), il contrasto fra il rispetto delle regole e delle tradizioni e il desiderio di libertà, ricordano pellicole come "E la vita continua" o "Il vento ci porterà via" (e l'inquadratura finale fa tornare alla mente quella di "Sotto gli ulivi"). Ma anche se gli ingredienti sono appunto quelli che abbiamo visto in molte pellicole di Kiarostami e in generale iraniane, riescono a colpirci e ad affascinarci come la prima volta, grazie al tocco delicato della regia, all'introspezione psicologica, alla poetica antropologica e umanistica, alla grande naturalezza dell'esposizione, senza voler pontificare e lasciandoci liberi di riflettere e trarre le nostre conclusioni. I tre volti citati nel titolo sono quelli delle tre generazioni di attrici ed artiste (o "intrattenitrici", come le chiamano con disprezzo gli abitanti del villaggio): la giovane Marziyeh, per la quale il cinema è un sogno e un'aspirazione da realizzare a ogni costo; la matura e realizzata Jafari, che vive la professione all'apice del suo fulgore; e l'anziana Shahzrad (Sheherazade...), ex attrice e danzatrice "di prima della rivoluzione", ritiratasi a vita privata in una casetta fuori dal villaggio, dove si diletta nella poesia e nella pittura. Anima libera, anche lei ostracizzata dagli abitanti, ospita nella sua casa Marziyeh e accoglie anche Jafari (Panahi, in quanto maschio, è escluso da questa sorta di sorellanza). Come sempre (almeno di recente) il regista inserisce sé stesso dentro il proprio film, anche se stavolta è soltanto un osservatore (da notare i velati accenni alla sua situazione legale: Jafari spiega che l'uomo non può espatriare, la madre gli chiede se ha iniziato a girare un nuovo film di nascosto, Jafari stessa sospetta che ci sia lui dietro al video del suicidio). Premiato a Cannes per la miglior sceneggiatura.

19 giugno 2018

Un affare di famiglia (H. Koreeda, 2018)

Un affare di famiglia (Manbiki kazoku, aka Shoplifters)
di Hirokazu Koreeda – Giappone 2018
con Lily Franky, Sakura Ando
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina, Daniela e Marisa,
in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

La famiglia Shibata, che vive di espedienti ed è dedita a piccoli furti nei negozi e nei supermercati, è decisamente sui generis: i rapporti di parentela fra i suoi membri sono in gran parte fittizi e tutti, apparentemente, abitano insieme soltanto per interesse. Eppure l'affetto che sviluppano l'uno per l'altro è genuino, pur in assenza di un effettivo legame di sangue. Ospiti nella casa della nonna Hatsue (Kirin Kiki), che riscuote la pensione da vedova, il capofamiglia Osamu (Lily Franky) insegna al figlio Shota (Jyo Kairi) l'arte del taccheggio, anche per integrare il poco denaro che proviene dai lavori della moglie Nobuyo (Sakura Ando), impiegata in un'impresa di pulizie, e della sorella di questa Aki (Mayu Matsuoka), che si esibisce in un peep show. Quando si imbatteranno in Juri (Miyu Sasaki), una bambina maltrattata dai propri genitori, sarà per loro del tutto naturale "rapirla" per accoglierla nella propria famiglia, dove troverà finalmente la felicità. Al centro del film c'è dunque il concetto relativo di famiglia, anche in rapporto alla moderna società capitalistica: al di là del benessere economico o della legalità, il legame assume valore e significato soltanto quando c'è dietro affetto e cura reciproca ("Dare alla luce un figlio non basta per essere madre", dirà Nobuyo parlando dei genitori di Juri). Un argomento già affrontato più volte da Koreeda – e forse con maggiore incisività – nei suoi precedenti lavori, da "Nobody knows" a "Father and son". In ogni caso, è da apprezzare la naturalezza e la leggerezza con cui si toccano temi sociali così delicati, con tanto di dilemmi morali (il furto e il rapimento, in certe occasioni, possono essere la cosa giusta da fare?). La struttura episodica rende l'insieme assai gradevole, mentre il finale (in cui si tirano le fila) è una chiosa che scalda il cuore. Da confrontare con il più crudo realismo di un film già visto in questa stessa rassegna e che sfiorava temi simili, "Cafarnao" di Nadine Labaki. Palma d'oro (la prima per Koreeda) al Festival di Cannes.

18 giugno 2018

Cafarnao (Nadine Labaki, 2018)

Cafarnao - Caos e miracoli (Capharnaüm)
di Nadine Labaki – Libano 2018
con Zain Al Rafeea, Yordanos Shiferaw
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

L'incipit è potente. Il dodicenne Zain, rinchiuso in un carcere minorile per aver accoltellato un uomo (scopriremo poi il perché), fa convocare i propri genitori in tribunale perché intende fare loro causa per averlo fatto nascere. "Chi non vuole prendersi cura dei figli non dovrebbe fare dei bambini", è la sua tesi. Da qui la pellicola racconta in flashback le vicissitudini del piccolo protagonista, cresciuto in una famiglia povera e in un ambiente degradato, privato persino dell'identità (ignora la sua data di nascita e non ha documenti, perché mai registrato all'anagrafe, come peraltro tutti i suoi numerosi fratellini e sorelline), costretto a lavorare anziché andare a scuola e a diventare adulto troppo in fretta. La goccia che fa traboccare il vaso è quando la sorellina Sahar, di un anno più piccola di lui, viene data in sposa, ancora bambina, a un negoziante del quartiere. Dopo aver cercato inutilmente di impedirlo, Zain fugge di casa. Sarà accolto e ospitato da Rahil, immgrata clandestina etiope, e si prenderà cura del suo figlioletto Yonas, di solo un anno, quando la ragazza verrà arrestata... I primi due lungometraggi di Nadine Labaki ("Caramel" ed "E ora dove andiamo?"), pur affrontando temi di notevole peso, li presentavano con la leggerezza della commedia e del musical. Il terzo, invece, nella sua denuncia è serio in tutto e per tutto, col rischio di sfociare nel melodrammatico e, a tratti, nella retorica, non solo per le condizioni estreme che mostra ma anche e soprattutto perché i protagonisti sono bambini (peraltro interpretati da attori eccezionali, tanto Zain quanto il piccolo Yonas). Ma per fortuna la barriera del buonismo non viene mai oltrepassata del tutto, e manca ogni traccia di gratuità o di accondiscendenza: e il film, nel raccontare un'intensa storia di peripezie e di espedienti per sopravvivere in un mondo duro e cieco alle difficoltà dei più deboli, non intende assolvere o giustificare le peggiori nefandezze con la scusa della povertà o delle condizioni sociali. La sapiente tecnica cinematografica (regia, montaggio, fotografia) è al servizio della storia e dei personaggi senza sconfinare nel poetismo fine a sé stesso. E sapere dall'inizio che Zain è destinato a finire in prigione aumenta la tensione durante l'intera visione, visto che lo spettatore si aspetta in continuazione che le cose precipitino da un momento all'altro. Ma ci sono anche (pochi) piccoli tocchi surreali o di umorismo poetico (il vecchio che si veste da Uomo Ragno, anzi da "Uomo Scarafaggio"; in generale le scorribande di Zain insieme al piccolo Yonas). La regista interpreta l'avvocatessa Nadine. Premio della giuria a Cannes.

17 giugno 2018

Anteprime dal festival di Cannes 2018

Quest'anno la consueta rassegna milanese dei film provenienti dalla Croisette è parecchio ridimensionata (solo sei film, più un documentario), anche se per fortuna fra le proiezioni in programma non mancano i titoli interessanti, a cominciare dalla Palma d'Oro, "Shoplifters" di Hirokazu Koreeda. Nei prossimi giorni vedrò anche i lavori di Paweł Pawlikowski, Nadine Labaki, Jafar Panahi e Asghar Farhadi. Stay tuned!

16 giugno 2018

Tra le nuvole (Jason Reitman, 2009)

Tra le nuvole (Up in the air)
di Jason Reitman – USA 2009
con George Clooney, Anna Kendrick
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Ryan Bingham (un ottimo George Clooney) è un "tagliatore di teste", ovvero ha il compito di effettuare licenziamenti per conto di altre aziende, comunicando di persona – e con un certo tatto – la brutta notizia ai malcapitati. Per questo motivo si sposta di continuo da capo all'altro degli Stati Uniti, effettuando lunghi voli su aerei di linea e trascorrendo quasi tutto il suo tempo in aeroporti e stanze d'albergo. La cosa non gli dà fastidio, anzi gli piace, essendo in linea con la sua filosofia di vita che si traduce nella metafora dello "zaino vuoto": non attaccarsi mai a nulla e non portare niente di superfluo con sé, che siano oggetti materiali o relazioni interpersonali. Ma cambierà idea quando incontrerà Alex (Vera Farmiga), una donna con cui sarà tentato di instaurare un rapporto serio e duraturo. E nel frattempo la giovane manager Natalie (Anna Kendrick) cerca di convincere il suo capo ad ottimizzare il sistema dei licenziamenti, effettuandoli a distanza attraverso lo schermo di un computer, il che comporterebbe per Ryan dire addio ai voli (e al suo sogno di raggiungere 10 milioni di miglia, un obiettivo peraltro del tutto fine a sé stesso). Il regista di "Thank you for smoking" e "Juno" fa centro ancora una volta con una commedia originale e d'attualità, che ha il grande pregio di catturare una realtà sociale contemporanea senza sacrificare lo studio psicologico dei personaggi, anche se dopo una prima parte cinica e brillante rischia di sfilacciarsi e di sconfinare nel romanticismo (ma per fortuna si ferma appena prima di un mieloso lieto fine). Il tema dei licenziamenti, della crisi economica e dell'alienazione resta comunque sullo sfondo rispetto ai dilemmi esistenziali dei personaggi (non solo Ryan, ma anche Natalie) e al confronto fra i rispettivi stili di vita. Accusato di voler evitare ogni sorta di impegno, Ryan finirà per scornarsi proprio quando sembra voler scegliere per una volta la "vita vera"; e d'altro canto la sua stessa sorella, che sta per sposarsi, ha il proprio sogno d'evasione, quando chiede a parenti e amici di fotografare una sua sagoma di cartone in giro per la nazione (una citazione-omaggio a "Il favoloso mondo di Amélie"). Ottimo il riscontro critico in patria, e sei nomination agli Oscar (miglior film, regia, sceneggiatura e i tre interpreti principali). Fra i "licenziati" si riconoscono Zach Galifianakis e J.K. Simmons.

14 giugno 2018

Rebecca - La prima moglie (A. Hitchcock, 1940)

Rebecca - La prima moglie (Rebecca)
di Alfred Hitchcock – USA 1940
con Joan Fontaine, Laurence Olivier
***1/2

Visto in DVD.

Una giovane dama di compagnia (Joan Fontaine) conosce a Montecarlo l'aristocratico vedovo Maxim de Winter (Laurence Olivier), di cui si innamora a prima vista. Nonostante le differenze di carattere – lei è semplice e modesta, timida e sensibile; lui è elegante e misterioso, autoritario e tormentato – i due convolano a nozze e si trasferiscono a vivere nella sua dimora in Cornovaglia, il castello di Manderley, dove però la ragazza si trova a disagio sin da subito. E non solo perché non abituata al lusso e alla servitù, ma soprattutto perché ogni cosa nel castello reca con sé il ricordo della prima moglie dell'uomo, Rebecca, morta annegata l'anno prima. A quanto si dice, Rebecca era bella, intelligente, affascinante e perfetta: e al suo confronto la giovane sposina si sente in soggezione, non certo aiutata da una governante, la signora Danvers (Judith Anderson), che nutriva per lei un'adorazione talmente sconfinata da sfociare nell'ossessione... Il primo film americano di Hitchcock (giunto a Hollywood su insistenza del produttore David O. Selznick) è, come il suo ultimo lavoro britannico, un adattamento di un romanzo di Daphne du Maurier. Complesso e articolato, ha un'inquietante atmosfera da favola gotica (incrociando temi da "Cenerentola" e da "Barbablù"), ma passa poi dal melodramma al noir attraverso un paio di twist (la verità sulla morte di Rebecca, la rivelazione del medico nel finale), sfiorando en passant l'horror e il thriller. Eccellente la caratterizzazione dei personaggi, sorretta da due grandi interpreti (in particolare Joan Fontaine, quasi un prototipo della bionda hitchcockiana che vedremo in numerosi altri film), che a un certo punto superano i limiti che sembravano imprigionarli all'interno di stereotipi (la vittima spaurita e insicura, ma pure innamorata e tenace; l'uomo malinconico e tormentato, incapace di dimenticare il primo amore). La chiave di volta della vicenda, naturalmente, sta nella scena forse più magistrale della pellicola, quella della lunga "confessione" di Maxim alla giovane moglie, girata senza far uso di flashback e basata tutta sul racconto a voce di lui. Su richiesta di Selznick (che "battagliò" con Hitchcock per il controllo creativo e il montaggio finale, imponendogli diverse sequenze), la sceneggiatura è assai fedele al romanzo originale, tranne che per un piccolo particolare (l'effettiva responsabilità di Maxim) che è stato necessario modificare per permettere un relativo (e insperato) lieto fine in ossequio al codice Hays. Da notare che in tutta la storia non ci viene mai detto il nome della giovane protagonista, come a volerla completamente lasciare nell'ingombrante ombra di Rebecca (quest'ultima, pur morta, continua a essere chiamata da tutti "la signora de Winter", nonostante il titolo ormai spetterebbe alla nuova sposa). Di contro, l'immagine di Rebecca non ci viene mai mostrata, nemmeno in foto o in ritratto, ed è soltanto descritta a parole. Il lungometraggio ebbe un ottimo riscontro di critica, con undici nomination e due premi Oscar (per il miglior film, l'unico mai vinto da Hitchcock, e la migliore fotografia). Nel cast (quasi interamente britannico) anche George Sanders (l'infido "cugino" di Rebecca), Reginald Denny (Frank, l'amministratore), Gladys Cooper, Nigel Bruce, C. Aubrey Smith e Florence Bates. Il doppiaggio d'epoca "italianizza" il lungo nome del protagonista maschile in Giorgio Fortebraccio Massimiliano "Massimo" de Winter.

13 giugno 2018

Faustina (Luigi Magni, 1968)

Faustina
di Luigi Magni – Italia 1968
con Vonetta McGee, Renzo Montagnani, Enzo Cerusico
**

Visto in divx.

La mulatta Faustina, figlia di una popolana romana e di un militare americano, è sposata con il manesco Quirino, che si guadagna da vivere come tombarolo, trafficando in antichi reperti etruschi. Il loro matrimonio è infelice, e Faustina medita di lasciare l'uomo per fuggire con Elia, mite, spiantato e stralunato musicista di strada... Primo film da regista per Luigi Magni (fino ad allora sceneggiatore), che diventerà poi famoso per tante pellicole ambientate nella Roma ottocentesca e papalina. Qui la collocazione temporale è contemporanea, ma non si direbbe: i personaggi vivono in un mondo fiabesco, onirico e surreale, e si aggirano sullo sfondo di campi incolti e di antiche rovine romane (di cui Quirino in particolare è un cultore). Di conseguenza il film, nel suo vagare ondivago senza un vero focus, ha comunque una particolare identità fatta di filosofia quotidiana romanesca e popolare, continui riferimenti al passato della città, alcuni momenti da barzelletta e il contrasto fra la pragmaticità e l'illusione di poter migliorare la propria condizione (Enea progetta di chiedere aiuto a principi e papi). La McGee (doppiata da Vittoria Febbi), americana, era all'esordio come attrice. Il nome Faustina è quello di diverse mogli di imperatori romani (Quirino stesso si identifica con Scipione l'Africano).

11 giugno 2018

Chi ha incastrato Roger Rabbit (R. Zemeckis, 1988)

Chi ha incastrato Roger Rabbit (Who framed Roger Rabbit)
di Robert Zemeckis – USA 1988
con Bob Hoskins, Christopher Lloyd
***1/2

Rivisto in DVD.

In un mondo in cui i personaggi dei cartoni animati convivono fisicamente con gli esseri umani (e recitano, in qualità di attori, nei film o nei corti a loro dedicati), il detective privato Eddie Valiant viene incaricato di indagare su una possibile tresca di Jessica Rabbit, la formosa moglie del coniglio Roger, star di punta della Maroon Cartoon. Siamo nella Hollywood del 1947 (e dunque i cartoni che si vedono sullo schermo sono quelli americani classici: i Disney dell'epoca d'oro, i Looney Tunes e i personaggi degli esordi). E quando l'industriale Marvin Acme, con cui Eddie aveva sorpreso Jessica in "atteggiamenti intimi" (diciamo così), viene trovato assassinato, i sospetti ricadono naturalmente su Roger... Da un romanzo di Gary K. Wolf, una strepitosa pellicola a tecnica mista – co-prodotta dalla Amblin Entertainment di Steven Spielberg insieme alla Walt Disney (che scelse di distribuirla con l'etichetta Touchstone Pictures perché preoccupata dei contenuti adulti e delle allusioni sessuali nella prima parte del film: in ogni caso il successo fu enorme) – che mescola una trama hard boiled (senza varcare i confini della parodia) con un'infinità di omaggi all'epoca d'oro dell'animazione americana (contribuendo di fatto a riportarla in auge: ne conseguì il Rinascimento Disneyano, a partire dalla "Sirenetta" del 1989, ma anche serie televisive come gli "Animaniacs" e in generale una rinnovata attenzione per autori come Tex Avery o Chuck Jones e personaggi del passato che erano finiti nel dimenticatoio, come Betty Boop). Man mano che la vicenda prosegue, gli elementi noir e torbidi (con notevoli allusioni sessuali quando è in scena Jessica Rabbit) lasciano spazio alla comicità da cartoon: il culmine si raggiunge nel segmento in cui Eddie si reca a Cartoonia (Toontown), la città dei cartoni, e si scopre soggetto alle loro stesse leggi fisiche (occhi in fuori, corpi di gomma, buchi nelle pareti, capitomboli...). E verso il finale si cambia decisamente tono, anche perché lo stesso Eddie – in precedenza ritratto come alcolista e disilluso – si rende conto che per sconfiggere il cattivo è necessario recuperare quel senso dell'umorismo che aveva messo da parte, sostituendolo con la depressione da noir. A insegnargli la filosofia della comicità come arma per superare ogni ostacolo è proprio Roger. A Eddie, che gli dice "Ma allora ti saresti potuto sfilare la mano dalle manette in qualsiasi momento?", risponde "No, non in qualsiasi momento, solo quando faceva ridere". Da segnalare anche la gag del motivetto "Ammazza la vecchia... col flit" (in originale: "Shave and a haircut... two bits").

A livello tecnico (grazie all'animatore Richard Williams), la commistione fra animazione e live action è fenomenale, superiore a ogni altro esempio visto in precedenza, con particolare attenzione all'illuminazione, alle ombre e all'interazione con gli oggetti reali (il tutto in assenza di CGI o di motion capture!). Oltre ai personaggi animati inventati per l'occasione (Roger e Jessica Rabbit, Baby Herman, Benny il taxi, le faine), quelli del passato che appaiono sullo schermo sono innumerevoli: disneyani (Topolino, Minni, Pippo, Paperino, i tre porcellini, Dumbo, il cast di "Fantasia", e molti altri), della Warner Bros (Bugs Bunny, Daffy Duck, Yosemite Sam, Titti e Silvestro, Porky Pig che conclude il film con il classico "That's all, folks"), di Tex Avery (Droopy), di Walter Lantz (Picchiarello), ecc. Alcuni che Spielberg e Zemeckis avrebbero voluto, però, sono assenti per problemi di diritti (come Popeye o Tom & Jerry). Fra i crossover più interessanti: il "duello" al pianoforte fra Paperino e Daffy Duck, e la scena che mostra insieme Topolino e Bugs Bunny. Fra gli attori in carne e ossa, oltre al protagonista Bob Hoskins, spiccano Christopher Lloyd (il giudice Morton, Judge Doom in originale, inventore della "salamoia" con cui è possibile uccidere persino i personaggi animati: Lloyd aveva già lavorato con Zemeckis in "Ritorno al futuro") e Joanna Cassidy (la barista Dolores, vecchia fiamma di Eddie). Mel Blanc, per l'ultima volta nella sua carriera (morirà l'anno seguente), doppia molti characters Warner. Ma il personaggio più celebre della pellicola non è né Roger né Eddie, bensì la "femme fatale" Jessica Rabbit (che, nonostante il cognome, è del tutto umana): le forme esagerate alla Rita Hayworth, la capigliatura alla Veronica Lake, l'espressione alla Lauren Bacall, la voce suadente alla Marilyn Monroe (di Kathleen Turner in originale), l'abito rosso e il numero musicale con cui si presenta (sulle note di "Why Don't You Do Right?", cantata da Amy Irving, allora moglie di Spielberg) la rendono un autentico sex symbol, forse il personaggio animato mainstream più sexy di sempre. Memorabile la sua frase "Non sono cattiva, è che mi disegnano così". Molte anche le citazioni e i rimandi al cinema classico (non solo d'animazione: si pensi alla celebre battuta di Mae West, storpiata in "Hai un coniglio in tasca o sei contento di vedermi?", o al riferimento al coniglio immaginario Harvey). Il titolo del film si scrive senza il punto di domanda finale. Negli anni a seguire, oltre a parlare di un sequel che non sarà mai fatto, vennero realizzati altri corti "Maroon Cartoon" interpretati da Roger e Baby Herman (simili a quello che apre la pellicola).

10 giugno 2018

Bling ring (Sofia Coppola, 2013)

Bling Ring (The Bling Ring)
di Sofia Coppola – USA 2013
con Israel Broussard, Katie Chang, Emma Watson
**1/2

Visto in divx.

Ispirato a una storia vera, e in particolare a un articolo pubblicato su "Vanity Fair" con le interviste ai protagonisti (di cui comunque cambia i nomi), il film racconta la vicenda di un gruppo di adolescenti californiani che, fra il 2008 e il 2009, entravano nelle case delle celebrità dello spettacolo per svaligiarle, portando via abiti, scarpe, gioielli e altri "trofei". Guidati dalla "capobanda" Rebecca (Katie Chang), i ragazzi – Marc (Israel Broussard), Nicki (Emma Watson), Sam (Taissa Farmiga), Chloe (Claire Julien) e occasionalmente altri amici – pianificavano le incursioni verificando su internet che i vip fossero assenti e approfittavano del fatto che le case fossero lasciate incustodite o addirittura aperte. Naturalmente la motivazione non era la ricchezza (i ragazzi provenivano tutti da famiglie più o meno agiate) ma il desiderio di sentirsi parte del mondo dello spettacolo, dell'apparenza e dello sfarzo. Immersa in questa cultura di vanità e vacuità, con personaggi che passano le loro esistenze fra selfie, feste, alcol e droga, la pellicola si snoda in maniera alquanto monotona, ma è tremendamente efficace nel mostrare l'ossessione per la cultura pop e per i suoi idoli, dove quello che conta è più come si appare che non quello che si fa (si parla delle attrici e mai dei loro film). In questo senso, per una volta lo stile leggero e pop della Coppola è funzionale all'ambientazione e ai personaggi. La figura più interessante, comunque, è senza dubbio Marc, l'unico maschio della banda (ma appassionato di moda femminile al pari delle amiche), per il quale l'amicizia di Rebecca (senza alcun connotato sessuale, si badi bene) è l'occasione per conquistare quell'autostima, quella popolarità e quel senso di appartenenza a un gruppo che gli sono sempre mancati. Marc è anche l'unico che mostra una qualche consapevolezza di quello che sta facendo, e che cerca di mettere in guardia Rebecca dai rischi e dal pericolo di essere presi. In un contesto in cui i genitori risultano assenti, distratti o... sciroccati (vedi la madre "new age" di Nicki), gli adolescenti vivono senza progetti e in balia delle mode, del fascino dello star system e del mito di vip altrettanto vuoti (il simbolo per eccellenza ne è Paris Hilton, non a caso fra le più... derubate!).

9 giugno 2018

Solo: A Star Wars story (Ron Howard, 2018)

Solo: A Star Wars Story (id.)
di Ron Howard – USA 2018
con Alden Ehrenreich, Emilia Clarke
**

Visto al cinema Colosseo.

Il passato e le "origini" di Han Solo, il leggendario pilota interpretato da Harrison Ford nella prima trilogia di "Guerre stellari", di cui ci viene raccontata la giovinezza e ci vengono mostrati i primi passi nella carriera da ladro e contrabbandiere, l'incontro con il fedele compagno Chewbacca e il modo in cui è entrato in possesso della sua mitica nave spaziale, il Millennium Falcon (vinto al gioco, come già accennato ne "L'impero colpisce ancora", al collega pirata Lando Calrissian). Nel mezzo, anche il rapporto con Tobias Beckett (Woody Harrelson), capo di una piccola banda di criminali, che lo prende sotto la propria ala protettiva e gli insegna molti trucchi del mestiere (compresi il cinismo e l'arte del tradimento); e l'amore per Qi'ra (Emilia Clarke), compagna d'infanzia e vero motore di tutte le sue arditezze. Ma al di là delle buone sequenze d'azione (l'assalto al treno sul pianeta ghiacciato Vandor, la fuga dalla miniera) e di alcuni (piuttosto scontati, a dire il vero) colpi di scena, si tratta di un film di cui probabilmente non si sentiva il bisogno: il personaggio di Solo era già perfetto e autosufficiente così com'era, con il suo passato tutt'altro che misterioso, i cui brevi accenni nei film precedenti erano già quanto ci bastava per immaginarne le avventure prima del fatidico incontro con Luke Skywalker sul pianeta Tattoine. Un po' come le origini di Darth Vader, con il vantaggio che almeno stavolta non ci sono voluti tre film per rimarcare l'ovvio (ma alcuni fili rimasti in sospeso nel finale, relativi a Qi'ra, lasciano la porta aperta a nuovi sequel). La pellicola ha avuto anche diverse vicissitudini produttive, con i registi designati (Phil Lord e Christopher Miller) licenziati "per divergenze creative" dopo aver quasi terminato le riprese e sostituiti dal più esperto Ron Howard, che ha rigirato il 70% del film. Donald Glover è il giovane Lando Calrissian, Paul Bettany è il boss criminale Dryden Vos, Erin Kellyman la brigantessa ribelle Enfys Nest. La sceneggiatura è del veterano Lawrence Kasdan (già autore di quelle de "L'impero colpisce ancora" e "il ritorno dello Jedi") insieme al figlio Jonathan.

George Lucas sfornava un film di "Star Wars" ogni tre anni (e fra le due trilogie ci ha fatto aspettare anche tre lustri!). Da quando i diritti del franchise sono passati in mano alla Disney, nelle sale – per ovvi motivi commerciali – giunge un film della saga all'anno (e anzi, da "Gli ultimi Jedi" sono passati soltanto cinque mesi!), alternandosi fra capitoli ufficiali e spin-off (come "Rogue One" e come questo) ambientati nel passato. Forse anche per il senso di annacquamento, oltre che per i problemi produttivi di cui sopra, si spiega il primo insuccesso al botteghino di un film di "Guerre stellari" (insuccesso relativo, perché gli incassi sono stati comunque cospicui: ma non sufficienti stavolta a ricoprire i costi). Il vero problema è che il film appare stanco e derivativo, privo di quel feeling "speciale" che univa più o meno tutte le pellicole di Lucas, anche quelle meno riuscite. È il più lontano dai miti di "Star Wars", un'avventura che avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi scenario o universo fantascientifico. Non c'è il minimo riferimento ai Jedi, alla forza, alla magia del mondo lucasiano, nemmeno attraverso brevi accenni (con l'eccezione, nel finale, di un'apparizione a sorpresa di Darth Maul). Inoltre Ehrenreich non ha nulla del carisma naturale di Harrison Ford, e il suo Han Solo non può che sembrare un'imitazione dell'originale. Meglio, invece, altri personaggi: Lando Calrissian, sicuramente, e il suo droide L3-37, dotato di coscienza sociale e che si batte per i diritti dei robot (una buona intuizione poco sviluppata, purtroppo); ma soprattutto Beckett, figura multiforma di pirata, criminale, padre e mentore, a metà strada fra il Long John Silver de "L'isola del tesoro" e un ufficiale di un film sulla seconda guerra mondiale. Per il resto, la pellicola ci rivela che il cognome Solo è un soprannome affibbiato ad Han al momento di arruolarsi nelle truppe dell'Impero, che Chewbacca ha quasi 200 anni, e ci mostra finalmente come il Millennium Falcon abbia potuto percorrere la rotta di Kessel "in meno di 12 parsec" (risolvendo una questione in sospeso sin dal primo "Guerre stellari", visto che il parsec non è un'unità di tempo!).

8 giugno 2018

La caduta di Troia (Pastrone, Borgnetto, 1911)

La caduta di Troia
di Giovanni Pastrone [e Luigi Romano Borgnetto] – Italia 1911
con Giovanni Casaleggio, Jules Vina
**

Visto su YouTube.

Nata appena nel 1905 e inizialmente ispirata a quella francese, l'industria cinematografica italiana fece rapidamente passi da gigante e ben presto (a cominciare da "Gli ultimi giorni di Pompei" nel 1908) si affermò sulla scena internazionale per i suoi film di ambientazione storica ed epica. Questo ambizioso "La caduta di Troia" (in tre rulli, per un totale di circa 30 minuti, quasi tre volte rispetto alla durata media per l'epoca), prodotto dalla Itala Film di Torino, riscosse un enorme successo oltre i confini nazionali: fu accolto con entusiasmo particolare negli Stati Uniti, e consacrò la fama di Giovanni Pastrone, ex contabile che divenne uno dei più importanti registi di quel periodo (sua sarà la regia di "Cabiria" nel 1914, il più grande kolossal italiano dell'epoca del muto). Qui è affiancato alla regia da Luigi Borgnetto, pittore e scenografo. Introdotto da una breve scena in cui si vede Omero stesso, con la lira in mano, in procinto di narrare la vicenda, ci mostra il rapimento di Elena da parte di Paride (con l'aiuto di Venere, che fa fuggire i due amanti con il suo cocchio volante), la disperazione di Menelao, l'assedio dell'esercito greco alle mura di Troia, e soprattutto lo stratagemma del cavallo di legno e la distruzione della città. Se il linguaggio cinematografico è ancora primitivo (le inquadrature sono tutte a campo medio e con camera fissa), la recitazione è rudimentale e i personaggi non hanno caratterizzazione, a colpire sono invece le scenografie sontuose (il giardino di Elena a Sparta, il palazzo di Menelao, le mura di Troia, la flotta greca con le navi ormeggiate) e l'enorme numero di comparse in costume nelle scene di massa e di battaglia (si dice che furono coinvolti 800 attori). Dal punto di vista della produzione e della scenografia, dunque, il film mostra tutte le sue ambizioni. E nonostante qualche passaggio ridicolo (i troiani demoliscono le loro stesse mura per far entrare il cavallo, troppo grande per passare dalla porta: più tardi i guerrieri greci entrano dalla porta demolita, non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di nascondersi nel cavallo!), la storia si fa seguire con interesse e le scene d'azione nel finale, con le colonne di Troia che crollano mentre la città brucia, convincono appieno.

7 giugno 2018

Anita Garibaldi (Mario Caserini, 1910)

Anita Garibaldi
di Mario Caserini – Italia 1910
con Maria Gasperini [Maria Caserini]
**

Visto in divx.

Fra i numerosi film diretti da Caserini per la Cines negli anni 1907-1910, la maggior parte dei quali erano pellicole a sfondo storico o letterario, non mancano lavori di stampo patriottico e risorgimentale. È il caso di questa "Anita Garibaldi", che racconta le vicende congiunte dell'eroe dei due mondi e della moglie (che lo segue in tutte le battaglie) dal primo incontro in Brasile fino alla morte della donna nelle campagne di Ravenna. In mezzo, lo sbarco a Nizza, la difesa di Roma, la ritirata a San Marino e la fuga da Cesenatico a Comacchio. Proprio la varietà delle location (quasi tutto il film è girato in esterni) e l'interessante uso del paesaggio testimoniano il buon livello qualitativo che il cinema italiano aveva saputo raggiungere nell'arco di pochi anni. Ben girate, per esempio, le scene di combattimento, con profondità di campo e numerose comparse. Ottimi anche i costumi, così come in generale l'attenzione ai dettagli storici, il che permette di superare i limiti della pellicola agiografica e anzi dona un tono quasi documentaristico alle vicende. Il film, di una decina di minuti, è diviso in 11 quadri, ciascuno introdotto da una singola didascalia. Anita è interpretata da Maria Gasperini, ovvero Maria Caserini, moglie del regista, mentre non sono riuscito a identificare chi veste i panni di Garibaldi (all'epoca i nomi degli attori non figuravano sempre nei titoli di testa). Ottima la qualità del restauro della Cineteca di Bologna.

6 giugno 2018

Ben Hur (Sidney Olcott, et al., 1907)

Ben Hur (id.)
di Sidney Olcott, Frank Oakes Rose – USA 1907
con Herman Rottger, William S. Hart
*1/2

Visto su YouTube.

Gli abitanti di Gerusalemme si ribellano al dominio di Roma. Per aver ferito accidentalmente un console, il giovane Ben Hur viene arrestato e condannato a lavorare come schiavo ai remi di una galera romana. Ma saprà riconquistare la libertà e sfidare il rivale di sempre, Messala, nella corsa delle bighe... Questo primo adattamento cinematografico del romanzo best-seller di Lew Wallace (seguiranno, fra gli altri, quelli di Fred Niblo del 1925, di William Wyler del 1959 – senza dubbio il più famoso – e di Timur Bekmambetov del 2016) non è particolarmente innovativo dal punto di vista della tecnica o del linguaggio (anche con le didascalie, la storia è quasi incomprensibile se non si conoscono già le vicende; inoltre, la qualità dell'immagine della copia esistente lascia parecchio a desiderare), ed è passato alla storia essenzialmente per motivi extra-filmici. La pellicola, sceneggiata dell'attrice Gene Gauntier, venne infatti girata senza chiedere il permesso agli eredi di Wallace (che era morto due anni prima, nel 1905). All'epoca si trattava di una pratica comune, ma questa volta i detentori dei diritti fecero causa alla casa produttrice per infrazione del copyright. Il processo durò a lungo, ma nel 1911 la Corte Suprema degli Stati Uniti diede torto ai cineasti e segnò così un importante precedente: tutte le case di produzione avrebbero dovuto assicurarsi i diritti di un'opera prima di commissionare una sceneggiatura o di realizzarne una trasposizione cinematografica. Tornando al film in questione, la pellicola dura 15 minuti e vanta nel cast, nel ruolo di Messala, l'attore di film western William S. Hart (che aveva recitato la parte anche a Broadway nel 1899-1900). Vista la breve durata, molti eventi del romanzo sono stati necessariamente tagliati (manca persino l'incontro con Gesù Cristo). La scena clou, naturalmente, è la celebre corsa dei carri, che fu girata su una spiaggia nel New Jersey (con fondali ovviamente dipinti), coinvolgendo i locali vigili del fuoco e i loro cavalli. Olcott, canadese di origine irlandese, divenne uno dei più prolifici registi del cinema muto, realizzando numerosi film fino agli anni venti. La regia, oltre che a lui, è accreditata anche a Frank Oakes Rose (ma vi avrebbe partecipato anche Harry Temple Morey).

4 giugno 2018

Brisby e il segreto di NIMH (Don Bluth, 1982)

Brisby e il segreto di NIMH (The secret of NIMH)
di Don Bluth – USA 1982
animazione tradizionale
***

Rivisto in divx.

La signora Brisby, topolina di campagna rimasta vedova di recente, abita con i quattro figlioletti in una tana in mezzo al prato. Preoccupata perché a breve il contadino della vicina fattoria verrà ad arare la terra, ma impossibilitata a traslocare per via del figlio minore che soffre di polmonite, troverà aiuto in una banda di ratti che vive nei paraggi, debitori nei suoi confronti perché fu proprio suo marito Jonathan ad aiutarli a fuggire dal NIMH, l'istituto di igiene mentale (National Institute of Mental Health) dove sono stati sottoposti a crudeli esperimenti che hanno donato loro l'intelligenza e la capacità di leggere e comprendere il linguaggio umano. Dal romanzo "Mrs. Frisby and the Rats of NIMH" di Robert C. O'Brien, il primo lungometraggio diretto da Don Bluth dopo aver lasciato la Walt Disney per fondare una propria casa di produzione (divenuta famosa negli anni ottanta, oltre che per film come "Fievel sbarca in America", "Alla ricerca della Valle Incantata" e "Charlie - Anche i cani vanno in paradiso", anche per le animazioni per videogiochi come "Dragon's Lair" e "Space Ace"). Solo superficialmente simile a pellicole Disney di quel periodo (segnatamente "Le avventure di Bianca e Bernie" e "Red & Toby nemiciamici", alle quali proprio Bluth aveva collaborato), il film presenta in realtà parecchi spunti innovativi, a cominciare dalla trovata di spiegare – all'interno della storia stessa – il motivo per il quale i topi e i ratti hanno caratteristiche antropomorfe (cioè parlano, indossano abiti, vivono in tane arredate e danno vita a società simili a quella umana): sono stati trasformati dagli esperimenti cui sono stati soggetti in laboratorio. Per il resto, la storia fonde le preoccupazioni "quotidiane", materne e realistiche della signora Brisby (la salute del figlio malato, il rimpianto per la morte del marito) con le vicende, su più larga scala, della colonia dei ratti intelligenti del NIMH, caratterizzate da lotte di potere, atmosfere ed elementi fantasy (il ratto Nicodemus è un vero e proprio stregone: il ciondolo che dona alla signora Brisby le consentirà di usare la magia per salvare la propria casa). Nonostante gli animaletti parlanti, le spalle comiche (la zia bisbetica, il corvo Geremia), lo stile di disegno e di animazione tradizionale (ma di grande qualità artigianale e con discrete velleità artistiche), il film è decisamente più complesso e più cupo di una pellicola media Disney (Bluth volle recuperare l'aspetto gotico e horror presente nei film degli esordi, come "Biancaneve e i sette nani"), tanto che non edulcora e non banalizza temi come quello della morte. La colonna sonora (con la canzone "Flying Dreams") è di Jerry Goldsmith. Nel 1998 è uscito un sequel in home video, senza il coinvolgimento di Bluth, mentre da anni si parla di un remake in live action e computer grafica.

3 giugno 2018

Fantastic Mr. Fox (Wes Anderson, 2009)

Fantastic Mr. Fox (id.)
di Wes Anderson – USA 2009
animazione a passo uno
**

Visto in TV.

Non potendo sfuggire alla propria natura di animale selvatico, una volpe antropomorfa va a rubare nei pollai dei tre fattori che vivono di fronte alla collina dove ha la tana. I tre, furibondi, daranno la caccia a lui e alla sua famiglia, costringendoli a rifugiarsi sotto terra e a studiare un piano per rendere agli uomini pan per focaccia... Da un libro per bambini di Roald Dahl (pubblicato in Italia con il titolo "Furbo, il signor Volpe"), la prima incursione di Wes Anderson nel campo dell'animazione in stop motion (inizialmente avrebbe dovuto essere una collaborazione con Henry Selick) è una fiaba senza particolari livelli di lettura, fra lezioni di crescita stereotipate e cattivi a una sola dimensione. Gli animali (ai quali, nella versione originale, prestano la voce fior di doppiatori, da George Clooney a Bill Murray, da Meryl Streep a Willem Dafoe) sono simpatici con la loro caratterizzazione semi-umana (fanno tutti lavori "rispettabili", come giornalisti, avvocati, ecc.) e le dinamiche di gruppo, ma nonostante l'umorismo surreale (e alcune scene occasionalmente azzeccate, come l'incontro con il lupo), siamo lontani dalle vette esistenziali dei funny animals alla "Pogo". Nel complesso, un film sopravvalutato (come tutto il cinema di Anderson), che può risultare noioso per i bambini e superficiale (o stupido) per gli adulti. L'animazione è nervosa e rigida. Bella invece la colonna sonora di Alexandre Desplat.

2 giugno 2018

Florentina Hubaldo, CTE (Lav Diaz, 2012)

Florentina Hubaldo, CTE
di Lav Diaz – Filippine 2012
con Hazel Orencio, John Elbert Ferrer
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Florentina Hubaldo, che vive nella campagna filippina con il nonno e il padre (il film si svolge nella regione rurale di Bicol), è maltrattata da ques'ultimo, che la fa prostituire, la picchia e la incatena al letto. La sua storia è narrata in parallelo a quella di due giovani, Manoling e Juan, ritornati da poco in campagna, che scavano a lungo nei terreni di proprietà del primo alla ricerca di un fantomatico tesoro. Le due vicende sono collegate, ma scopriremo in che modo (e che sono temporalmente sfasate) soltanto dopo quattro delle sei ore del film: Hector, il fratello maggiore di Manoling, è colui che tempo prima ha accolto nella propria casa Florentina, quando la ragazza è finalmente riuscita a fuggire, e che ora si prende cura della figlia che lei portava in grembo, Loleng, gravemente malata ai polmoni. Curatissimo nella confezione (dall'immagine, con la luminosa fotografia in bianco e nero, al sonoro, con forte attenzione ai rumori ambientali), quello di Diaz è un cinema fatto di tempi dilatati e lentissimi, di long take di svariati minuti (anche oltre la decina) con la camera ferma, di dialoghi rarefatti e di silenzi (non mancano sequenze completamente mute, legate ai sogni o ai ricordi). Allo spettatore è richiesta non solo molta pazienza (anche se, grazie all'approccio naturalista, la lentezza non è snervante bensì quasi rilassante) ma anche la disponibilità ad immergersi completamente nel mondo ritratto, entrandone a far parte in tutti i sensi (al punto che, nelle scene in cui Florentina chiede aiuto, estendendo le braccia fuori dallo schermo, sembra quasi che si rivolga proprio al pubblico). L'esperienza è senza dubbio ripagante, anche se il film – per quanto potente – mi è parso meno ricco di temi rispetto alle altre pellicole del regista filippino che ho visto finora, non giustificando appieno la lunghissima durata (in alcune sequenze si attendono minuti prima che i personaggi compaiano sullo schermo). In mezzo a tanta crudezza non mancano però squarci esistenzialisti (Hector che si interroga sulla natura della violenza e della cattiveria dell'uomo, chiedendosi perché esistano la sofferenza e il dolore e quale sia il significato della vita di Florentina e di sua figlia), surreali (tutta la sottotrama del geco, animale sfuggente cui Juan dà la caccia anziché continuare a cercare il tesoro) o onirici (le figure dei "Giganti", mascheroni di cartapesta usati nelle sagre popolari che la protagonista, dopo aver visto da piccola, continua a incontrare nei propri sogni). La sigla CTE nel titolo sta per encefalopatia traumatica cronica, la malattia degenerativa di cui soffre Florentina (che infatti afferma di avere sempre dolore alla testa) per i ripetuti colpi ricevuti dal padre, e che le cancella progressivamente la memoria: al punto che, nel tentativo di non dimenticare il proprio nome e la propria storia, periodicamente recita a beneficio dello spettatore quel discorso che infine farà a Hector, proprio nell'ultima scena del film, una volta riuscita a scappare.