30 novembre 2017

A hero never dies (Johnnie To, 1998)

A hero never dies (Chan sam ying hung)
di Johnnie To – Hong Kong 1998
con Leon Lai, Lau Ching Wan
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

I gangster Jack (Leon Lai) e Martin (Lau Ching Wan) sono al servizio di due boss della triade in guerra fra loro, impegnati da mesi in una sanguinosa faida per il controllo di Hong Kong. Pur combattendo su fronti opposti, i due uomini sono però assai simili, tanto nella fedeltà e dedizione al dovere quando nel rispetto dei valori dell'amicizia e del cameratismo. Al punto da essere considerati "scomodi", e dunque scaricati senza troppa riconoscenza, quando i due boss stringeranno un'alleanza interessata per spartirsi il territorio, di fatto tradendo tutti coloro che hanno combattuto o sono morti per la loro causa. Abbandonati in Thailandia e sopravvissuti ai tentativi di eliminarli (grazie anche al sacrificio delle loro donne, Fiona Leung e Yoyo Mung), Jack e Martin – quest'ultimo rimasto mutilato – mediteranno vendetta. Al primo film diretto per la casa di produzione Milkyway da lui stesso fondata (anche se pare che il precedente "The odd one dies", accreditato a Patrick Yau, fosse stato girato in gran parte da lui), Johnnie To realizza il suo personale "A better tomorrow". Molti sono infatti gli elementi in comune con il capolavoro di John Woo: il mix fra gangster movie, noir e melodramma, un senso dell'onore e della fratellanza quasi anacronistico in un mondo dove domina il vile opportunismo, un soffuso strato di malinconia, violente sparatorie che l'apparentano al filone dell'heroic bloodshed, e naturalmente i temi del tradimento e della vendetta, peraltro ubiqui nel cinema di Hong Kong. To confeziona il tutto con il suo stile e la sua regia avvolgente, i lenti movimenti di macchina, la fotografia cupa e d'atmosfera, il ritmo rilassato ma sempre pronto a esplodere al momento dell'azione, e caratterizza i suoi personaggi con poche ma efficaci pennellate (vedi l'arroganza e il cappello da cowboy di Lau). Ne risulta uno dei suoi migliori film. Memorabile la scena all'interno del locale dove i due protagonisti si ritrovano per dirimere le loro controversie, con il "gioco" della moneta per distruggersi a vicenda i bicchieri, che anziché esacerbarne la rivalità cementa di fatto la loro potenziale amicizia (una scena che ricorda quella altrettanto celebre della pallina di carta in "The mission"). Il gestore del suddetto locale metterà da parte una bottiglia di vino per i due amici/nemici, e proprio questa bottiglia diventa uno dei fili conduttori della pellicola, simbolo della loro leggenda (viene mostrata nell'inquadratura iniziale e in quella conclusiva). Nella colonna sonora di Raymond Wong spicca una classica canzone pop giapponese, "Sukiyaki", reinterpretata in cantonese e poi in versione strumentale.

29 novembre 2017

Planet of the apes (Tim Burton, 2001)

Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie
(Planet of the Apes)
di Tim Burton – USA 2001
con Mark Wahlberg, Tim Roth
*1/2

Rivisto in DVD.

A causa di una tempesta magnetica, l'astronauta americano Leo Davidson (Mark Wahlberg) si ritrova nel futuro e su un pianeta sconosciuto, popolato da scimmie senzienti che schiavizzano gli esseri umani. Con l'aiuto della simpatetica scimpanzé Ari (Helena Bonham Carter), guiderà una rivolta contro il guerrafondaio generale Thade (Tim Roth). Remake del leggendario film del 1968 con Charlton Heston (che qui fa una breve apparizione nei panni di una scimmia, il padre morente di Thade: ma se non lo si sa in anticipo, non ci se ne accorge, visto che è praticamente irriconoscibile sotto il make up), purtroppo inferiore ad esso in tutto e per tutto. Anzi, il minimo di appeal che presenta è dovuto, oltre che ai buoni costumi, alle scenografie e al trucco (di Rick Baker), quasi solo ai ricordi di chi ha visto la versione originale. Lo sceneggiatore William Broyles Jr. compie tutte le mosse sbagliate, a partire dal fatto che il protagonista non è l'unico essere umano in grado di parlare o di mostrare intelligenza, e quindi non si capisce perché gli uomini siano trattati come animali dalle scimmie: diventa una questione di razzismo o, al limite, di politica, e non c'è più il capovolgimento dei punti di vista che era la chiave anche del romanzo originale di Pierre Boulle. Non solo: spariscono pure il conflitto fra scienza e religione (Ari è la figlia ribelle di un senatore, anziché una curiosa ricercatrice) e soprattutto il messaggio contro la proliferazione degli armamenti, ovvero tutti i temi che rendevano memorabile il materiale di partenza. Al loro posto abbiamo generiche scene di fuga e di azione, nonchè una battaglia conclusiva che rende la pellicola un popcorn movie come mille altri (anche la mano di Burton, nel bene o nel male, è irriconoscibile). Quasi tutti i personaggi – protagonista compreso – sono privi di caratterizzazione o ce l'hanno a un livello basilare: i compagni umani di Leo, in particolare, sembrano messi lì soltanto per fare numero (anche per colpa degli attori: Kris Kristofferson è sprecato, Estella Warren sarà bella ma non sa recitare). Quanto alle scimmie, gli unici in parte riconoscibili sotto il make up sono Tim Roth e Paul Giamatti (nei panni dell'infido mercante Limbo). E visto che tutti conoscono il colpo di scena finale (proprio tutti, dai, anche chi non ha mai visto il lungometraggio originale!) e lo si aspetta per tutto il film, i cineasti mescolano le carte con una conclusione "diversa": Leo, cercando di tornare indietro, finisce in un universo parallelo: la cosa ha poco senso (non che i viaggi nel tempo ce l'abbiano), ma avrebbe potuto aprire le porte per un sequel. Che purtroppo (o per fortuna) non c'è stato: la saga ricomincerà da capo nel 2011.

28 novembre 2017

Assassinio sull'Orient Express (S. Lumet, 1974)

Assassinio sull'Orient Express (Murder on the Orient Express)
di Sidney Lumet – GB 1974
con Albert Finney, Lauren Bacall
**1/2

Rivisto in divx.

Sul celebre treno che da Istanbul conduce in Europa, proprio nella cuccetta a fianco di quella dove dorme l'investigatore Hercule Poirot, viene ucciso a coltellate mister Ratchett (Richard Widmark), ricco uomo d'affari americano dal passato torbido. I sospettati sono numerosi: praticamente tutti coloro che viaggiano nello stesso vagone. Mentre il convoglio è bloccato dalla neve in mezzo ai Balcani, il grande detective belga saprà barcamenarsi fra i tanti (troppi) indizi e ricostruire le insolite circostanze in cui è avvenuto l'omicidio. Da uno dei romanzi più famosi di Agatha Christie, forse il miglior adattamento cinematografico di un giallo classico della scrittrice inglese, visto che può contare sulla regia di un solido professionista come Lumet e su un cast all star che comprende, fra gli altri, Sean Connery, Ingrid Bergman, Anthony Perkins, Lauren Bacall, Jacqueline Bisset, Vanessa Redgrave e John Gielgud. Più che la risoluzione del delitto in sé (che da un certo punto in poi comincia a essere evidente anche chi non avesse letto il romanzo), quello che conta è l'atmosfera e il substrato psicologico della vicenda, con tutti i pezzi che vanno lentamente al proprio posto e il ruolo di ciascun personaggio che viene pian piano definito. Decisamente old style per ambientazione (metà anni trenta), impostazione (il classico whodunit con l'investigatore che interroga uno a uno i sospettati), regia, recitazione e colonna sonora, il film ha tutta la scorrevolezza delle migliori pagine della Christie, nonché un finale a suo modo memorabile. Il plot è ispirato al vero caso del rapimento del figlio di Charles Lindbergh, avvenuto nel 1932, solo due anni prima della pubblicazione del romanzo. Albert Finney dà vita a un Poirot impomatato, mentre nel cast corale svettano la Bacall (in un ruolo acido e autoironico) e la Bergman (per lei anche un Oscar come attrice non protagonista). Notevole la scelta di Perkins per la parte del giovane con un complesso edipico (reminiscenze di "Psyco"?). Rifatto per la tv nel 2001 e nuovamente per il cinema (diretto e interpretato da Kenneth Branagh) nel 2017.

26 novembre 2017

The Falls (Peter Greenaway, 1980)

The Falls (id.)
di Peter Greenaway – GB 1980
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Il primo lungometraggio di Greenaway, dopo numerosi corti, rappresenta l'inevitabile punto d'arrivo del percorso intrapreso fino ad allora, all'insegna di mappe immaginarie, insolite catalogazioni, formali compilazioni di materiale bizzarro e apparentemente senza senso, legato solo da fili conduttori al tempo stesso pretestuosi e fortemente focalizzati. Si tratta di un (falso) documentario che raccoglie le biografie di 92 personaggi fittizi (il numero 92 è da sempre ricorrente nell'opera del regista inglese, una delle sue tante ossessioni: si tratta, ovviamente, del numero atomico dell'uranio, l'elemento più pesante che si possa trovare in natura), tutti con nomi improbabili e con cognomi che cominciano con "Fall". Alcuni di essi sono particolarmente significativi, come il numero 88, Erhaus Bewler Falluper, ricercatore e sondaggista che aveva intervistato alcuni degli altri soggetti; oppure intere famiglie, come i Fallbutus (40-45) e i Fallcaster (48-54). Ci sono anche due italiani, il 30, Coppice Fallbatteo, e il 56, il "mitico" Appropinquo Fallcatti. Qui l'elenco completo. In comune, i personaggi hanno il fatto di essere fra le 19 milioni di vittime del VME, il Violento e Misterioso Evento (Violent Unknown Event, o VUE, in inglese) che ha colpito l'intero pianeta e ha provocato in loro strane malattie e misteriose mutazioni, per lo più associate al volo e agli uccelli. Inoltre, parlano tutti nuove e strane lingue (come regesto, curdino, agreeto, karnash, allow, capistano, abcadefgano, hartileas B, le cui caratteristiche vengono accuratamente descritte da esperti linguisti) e hanno sviluppato una vera ossessione per l'ornitologia (non che in precedenza non avessero strani hobby o interessi, o non conducessero esistenze insolite). Fra gli aspetti più controversi del VME c'è inoltre il dono dell'immortalità ("congelando" le vittime all'età che avevano al momento di esserne colpite) e lo sviluppo di una sorta di "quadrimorfismo sessuale" (alcune di loro vengono descritte come "uomo di sesso femminile", "donna di sesso femminile", ecc.). Ciascuna delle 92 biografie dura dai 2 ai 4 minuti, per un totale che supera le tre ore (alcune delle biografie mancano o sono state secretate per vari motivi), e i personaggi sono presentati in rigoroso ordine alfabetico (si tratta della catalogazione di un registro, pubblicato ogni tre anni da un fantomatico comitato che indaga sulle vittime del Violento e Misterioso Evento).

Il lavoro di montaggio (opera dello stesso Greenaway, che ha realizzato la pellicola nell'arco di cinque anni) è incredibile: interviste, brevi filmati, fotografie, disegni e immagini di repertorio si succedono in modo sempre diverso, raccontando le bizzarre esistenze di figure davvero improbabili. E quella che all'inizio pare soltanto una stravaganza nonsense, si fa man mano misteriosamente ipnotizzante e stranamente coinvolgente, con il suo corpus massiccio ed enciclopedico di informazioni random o surreali. Pian piano, anche allo spettatore sembra di cominciare a trovare un ordine nel caos e nella folle complessità del mondo, notando correlazioni (nomi, luoghi e oggetti ricorrenti: fra questi la Torre Eiffel, teatro dei tentativi di volo dei primi pionieri) e riconoscendo schemi di fondo o semplicemente risonanze da una biografia all'altra. Greenaway riutilizza parte del materiale già visto nei suoi corti precedenti (e anticipa anche lavori che devono ancora venire): ricompaiono così i nomi dei personaggi che fanno parte del suo corpus immaginario, come l'ubiquo Tulse Luper (di cui si leggono alcuni racconti, naturalmente a tema ornitologico), il suo "rivale" Van Hoyten, e ancora Cissie Colpitts, Gang Lion, il cineasta H.E. Carter, J.J. Audubon... I dettagli sul VME vengono centellinati, ma tutto questo non fa che rendere ancora più affascinante il suo mistero (legato a una data, il 12 giugno, e ad alcuni particolari luoghi: il "frutteto delle rocce", la clinica di Goldhawk Road a Londra, la penisola di Lleyn in Galles). Della mitologia fanno parte anche le strane malattie (fra cui il petagium fellitis), le nuove lingue (anch'esse in numero di 92), strane organizzazioni (buone e cattive, come l'enigmatica FOX, o VOLPE, "società per lo sterminio ornitologico"), e diverse teorie accademiche (una delle più controverse è quella della "Responsabilità degli Uccelli"). Tutto questo può non avere senso, naturalmente, oppure trovarlo proprio nella sua natura di catalogo o di enciclopedia di un mondo immaginario, parallelo ma immerso nella nostra realtà. Fra le tante suggestioni e fonti di ispirazione, vengono citati il film "Gli uccelli" di Alfred Hitchcock e il romanzo "Il ponte di San Luis Rey" di Thornton Wilder. Il titolo, oltre a richiamare la radice comune del cognome dei personaggi, può essere tradotto come "I casi" o, affine al tema del volo, "Le cadute". La musica è di Michael Nyman, e comprende anche una sorta di "inno del VME" (cantato da Pollie Fallory, numero 74 della lista), il cui testo comprende esclusivamente nomi di uccelli: "Capercaillie, lammergeyer, cassowary...".

25 novembre 2017

Casa Ricordi (Carmine Gallone, 1954)

Casa Ricordi
di Carmine Gallone – Italia/Francia 1954
con Paolo Stoppa, Andrea Checchi
**

Visto su YouTube.

Un secolo di storia del melodramma italiano, raccontato attraverso le vicende della famiglia Ricordi, editori di musica che hanno accompagnato le carriere dei più grandi compositori d'opera dell'ottocento. Si comincia nel 1807, quando Giovanni Ricordi (Paolo Stoppa) acquista a Milano un "torchio da stampa calcografico" e ottiene un primo incarico dal Teatro alla Scala; si prosegue narrando come i Ricordi – Giovanni sarà seguito dal figlio Tito (Renzo Giovampietro) e dal nipote Giulio (Andrea Checchi) – diventino i più importante editori musicali del paese, nonché paladini dei diritti d'autore dei musicisti, talent scout, mecenati e amici personali di molti di essi; e si termina nel 1896, alla prima della "Bohème". Nonostante gli eventi biografici siano romanzati per esigenze di copione e le imprecisioni storiche siano parecchie, quel che ne fuoriesce – anche grazie al notevole cast (che comprende molti grandi nomi del cinema italiano, compreso un Mastroianni non ancora affermato) e a una colonna sonora ricca di melodie immortali (fra i cantanti figurano Renata Tebaldi, Mario Del Monaco, Tito Gobbi e Italo Tajo!) – è un ritratto amorevole, ancorché un po' ingenuo e parecchio agiografico, di un mondo antico e ricolmo d'arte, di passioni e vicissitudini di ogni genere. Carmine Gallone, specializzato in film storico-musicali, mette proprio gli amori dei compositori più celebri (Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi e Puccini, che si succedono in cinque episodi come anelli di una catena, dandosi il cambio di testimone l'uno con l'altro) al centro della narrazione, di cui i Ricordi sono testimoni quasi al pari del pubblico, pur intervenendo qua e là per aiutare tali geni nei momenti più difficili della loro carriera. Sullo sfondo, non mancano accenni agli eventi storici, politici e sociali (il dominio napoleonico, quello austriaco, i moti risorgimentali). Vediamo così Gioacchino Rossini (Roland Alexandre) "tradire" l'amico impresario Domenico Barbaja (Roldano Lupi) per amore della soprano Isabella Colbran (Marta Toren): al fiasco della prima del "Barbiere di Siviglia", dovuto a una platea di fischiatori, seguirà però il successo. Gaetano Donizetti (Marcello Mastroianni) deve invece vedersela con le bizze della bisbetica Virginia Marchi (Micheline Presle), che pure porterà al trionfo "L'elisir d'amore". Vincenzo Bellini (Maurice Ronet), a Parigi, ha lasciato il soprano Giulia Grisi (Nadia Gray) per la nuova amante Luisa Lewis (Myriam Bru), che lo "segrega" gelosamente nella sua casa: morirà subito dopo la prima de "I puritani". Giuseppe Verdi (Fosco Giachetti), contestato da loggionisti che preferiscono la "modernità" di Wagner, medita di lasciare la musica per dedicarsi solo all'agricoltura, nonostante la moglie Giuseppina Strepponi (Elisa Cegani) e l'amico Arrigo Boito (Fausto Tozzi) cerchino di convincerlo a ripensarci. Quando una folla di contadini in rivolta (la regia cita il "Quarto stato"!) canterà per la strada il "Va' pensiero", cambierà idea: e la sua opera seguente, "Otello", sarà un trionfo. Infine Giacomo Puccini (Gabriele Ferzetti), in cerca di un'idea per una nuova opera, conosce a Parigi una bohémienne, Maria (Danièle Delorme), che gli ispirerà il personaggio di Mimì, e che come lei morirà di tisi pochi mesi più tardi. In piccole parti ci sono anche Sergio Tofano, Renato Malavasi, Manlio Busoni, Aldo Ronconi, Memmo Carotenuto, Aldo Silvani e molti altri ancora. Anche nella troupe tecnica ci sono nomi destinati a fare carriera, come l'operatore Giuseppe Rotunno e l'aiuto regista Nanni Loy. La pellicola termina con un epigrafe che Giulio Ricordi rivolge al proprio figlio Tito, rappresentante della prossima generazione: "Ci vuole il cuore forte a vivere con i musicisti. Si finisce con l'avere le loro stesse gioie e i loro stessi dolori. È una vita meravigliosa".

23 novembre 2017

La musica di Gion (K. Mizoguchi, 1953)

La musica di Gion (Gion bayashi)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1953
con Michiyo Kogure, Ayako Wakao
***

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Intermezzati ai grandi drammi storici da lui girati nella prima metà degli anni cinquanta, Mizoguchi realizzò anche due film di ambientazione contemporanea sul mondo delle geishe e ambientati a Kyoto (Gion è uno dei più celebri "quartiere del piacere" della città, dove già si svolgeva "Le sorelle di Gion" del 1936, di cui questo è quasi una rilettura). La storia ha come protagonista Miyoharu (Kogure), geisha dallo spirito libero e indipendente, che rifiuta ogni "protettore" e non intende sottostare alle regole non scritte che identificano di fatto le geishe – artiste raffinate – con le prostitute. Miyoharu prende sotto la propria ala protettiva la giovane Eiko (Wakao), facendone la sua apprendista (una "maiko") con il nome di Miyoen. Ma per conservare la purezza della ragazza, dovrà sacrificare sé stessa e cedere agli intrighi di un uomo d'affari che intende usare il suo corpo per amorbidire un cliente difficile. I tempi cambiano, il Giappone del dopoguerra si dota di una costituzione che prevede nuovi diritti anche per le donne (tanto che le geishe vengono ora percepite come una "istituzione culturale" del passato), ma alcune cose non sembrano destinate a mutare. Paradossalmente Miyoharu, con il suo desiderio di rimanere libera e indipendente, a costo di rifiutare le logiche che la vogliono obbligata a diventare l'amante di un uomo anche se lei non lo vuole, è accusata all'inizio dall'ingenua Eiko di essere "vecchio stile": scopriranno entrambe che i nuovi diritti di cui godono sono tali solo sulla carta, e che ancora è necessario inchinarsi agli interessi dei potenti (che si tratti della padrona della casa da tè, che le ostracizza e impedisce loro di lavorare anche come semplici intrattenitrici alle feste, se rifiuteranno le "proposte" dei clienti, o dei familiari, come il padre di Eiko, in difficoltà finanziarie, che non esita a chiedere denaro alla figlia nel momento del bisogno). L'unico conforto che Miyoharu ed Eiko possono trovare è nella reciproca solidarietà, come dimostrano le scene conclusive con il loro abbraccio. E il rapporto fra maestra e apprendista diventa simile a quello fra sorelle o addirittura fra madre e figlia. Pur se meno complesso e stratificato – anche stilisticamente – dei jidai-geki coevi che gli hanno dato grande fama in occidente, il film è comunque un tassello intenso e raffinato della filmografia di Mizoguchi, in linea con i temi (il sacrificio femminile in primis) a lui cari sin dagli anni trenta.

21 novembre 2017

Preferisco l'ascensore (Newmeyer, Taylor, 1923)

Preferisco l'ascensore (Safety last!)
di Fred C. Newmeyer, Sam Taylor – USA 1923
con Harold Lloyd, Mildred Davis
***1/2

Visto su YouTube.

Una delle immagini più iconiche nella storia del cinema, in particolare del cinema muto, è quella che mostra Harold Lloyd aggrappato alle lancette di un orologio e sospeso nel vuoto. È stata ripresa e omaggiata più volte, per esempio in "Ritorno al futuro" (con un altro Lloyd, Christopher, nella stessa situazione), in "Hugo Cabret", e da Jackie Chan in "Project A" (il funambolo cinese ha sempre indicato in Lloyd uno dei suoi modelli di riferimento). L'attore americano, noto per il suo "personaggio con gli occhiali" (chiamato semplicemente "The boy" nei titoli dei suoi film) è da considerare il terzo grande comico dell'epoca del muto insieme a Charlie Chaplin e Buster Keaton, con i quali negli anni venti rivaleggiava in popolarità, anche se oggi è assai meno conosciuto di loro. Questo film, per via della scena dell'orologio (e in generale di tutta la sequenza conclusiva) ma non solo, è senza dubbio il suo lavoro più famoso. La trama vede il protagonista lasciare il suo paesino di provincia per andare in cerca di fortuna a New York, dove non troverà che un modesto impiego da commesso nel reparto tessuti di un grande magazzino. Quando sente che il proprietario intende elargire una lauta ricompensa a chi troverà il modo di attirare più clienti, decide di organizzare un grande evento pubblicitario: il suo coinquilino, un agile operaio edile abituato a lavorare a grandi altezze (interpretato dallo stuntman Bill Strother, celebre all'epoca come "mosca umana"), dovrà scalare a mani nude la facciata del palazzo di fronte al negozio. Per una serie di sfortunati eventi, però, al posto dell'amico sarà proprio lui a dover eseguire l'arrampicata! L'impresa, già difficile di suo, sarà resa ancora più ardua da (comicissime) disavventure che si succederanno piano dopo piano. L'eccezionale sequenza, girata in maniera magistrale, è davvero da brividi, e combina l'umorismo con la suspense e le vertigini, grazie anche agli "effetti ottici" che sfruttano la profondità di campo nelle varie inquadrature, mostrando le strade, i passanti e il traffico sotto lo sventurato ragazzo. Ma il resto del film non è da meno, zeppo di gag slapstick in cui il protagonista – ambizioso e intraprendente – si mette nei guai e cerca ingegnosamente di uscirne, realizzate con un perfetto uso dei tempi e gestione degli spazi. Mildred Davis è la fidanzata alla quale Harold fa credere di essere il direttore del negozio. Prodotto da Hal Roach (co-autore anche del soggetto).

20 novembre 2017

Commando (Mark L. Lester, 1985)

Commando (id.)
di Mark L. Lester – USA 1985
con Arnold Schwarzenegger, Vernon Wells
***

Rivisto in DVD, con Giovanni e Sabrina.

L'ex colonnello delle forze armate John Matrix (Schwarzenegger) vive con la figlioletta Jenny (Alyssa Milano) in uno chalet di montagna. Quando i cattivi gli rapiscono la bambina per convincerlo a deporre il presidente di una nazione sudamericana, lui si incazza e fa fuori tutti. La trama è tutta qui: il resto lo fanno i muscoli di Schwarzy, le esplosioni e le sparatorie, un body count di proporzioni epiche, e tanta, tanta ironia (con battute del tipo: "Ricordi quando ti ho detto che ti avrei ammazzato per ultimo?" - "Sì, l'hai detto, l'hai detto!" - "Ti ho mentito"). Quasi una risposta al "Rambo" di Sylvester Stallone, ma con un pregio: non si prende affatto sul serio. Le esagerazioni, i buchi logici e la caratterizzazione inesistente dei personaggi (buoni e cattivi sono tagliati con l'accetta) in questo caso non sono difetti, ma caratteristiche strutturali della pellicola, che concorrono al divertimento di uno spettatore disposto, con una buona dose di ingenuità, ad accettarne le regole. Piccolo cult, che ha contribuito a cementare la popolarità di Schwarzy (già reduce da "Conan il barbaro" e dal primo "Terminator"), mettendone in luce per la prima volta quel lato comico che lo contraddistinguerà dal "rivale" Stallone e che tornerà spesso in futuro (si pensi in particolare a "Last Action Hero", una parodia delle pellicole d'azione di cui questo "Commando" sembra quasi un antipasto: manca soltanto l'esplicitazione del fatto che si tratta di una satira). La sceneggiatura (lo so, in questo caso è una parola grossa) è di Steven E. de Souza, ma fra i soggettisti figura anche il futuro fumettista Jeph Loeb, a inizio carriera. Al momento di imbarcarsi sull'aereo, Schwarzy cita per la prima volta sé stesso con la frase "I'll be back" (già detta in "Terminator"), che il doppiaggio italiano rende con "Ti ripagherò molto bene". Rae Dawn Chong è l'hostess Cindy, che aiuta suo malgrado il protagonista, mentre Dan Hedaya (il boss sudamericano) e Vernon Wells (l'ex commilitone Bennett) sono i cattivi.

19 novembre 2017

Venere nera (A. Kechiche, 2010)

Venere nera (Vénus noire)
di Abdellatif Kechiche – Francia/Belgio 2010
con Yahima Torres, Andre Jacobs
**

Visto in divx.

Il film racconta la storia vera di Saartjie "Sarah" Baartman, la "Venere ottentotta", donna di etnia khoi (popolazione africana affine ai boscimani) vissuta all'inizio dell'Ottocento, che fu esibita in Europa (prima a Londra e poi a Parigi) come "fenomeno da baraccone" per via delle sue fattezze insolite per il pubblico europeo, segnatamente il grande sedere sporgente e il cosiddetto "grembiule delle ottentotte", un abnorme sviluppo delle labbra vaginali. Via via sempre più degradata e umiliata dalle esibizioni in pubblico cui era sottoposta, Saartjie attirò anche l'interesse di scienziati e naturalisti, che la ritrassero in una serie di bozzetti e che dopo la sua morte ne acquistarono il corpo per farne un calco in gesso e conservarne i genitali in formalina. Soltanto quasi due secoli dopo, alla fine del Novecento, i suoi resti furono restituiti al Sudafrica affinché le fosse data sepoltura (come mostrano le immagini durante i titoli di cosa). Una storia vera ma poco conosciuta, indicativa del grado di razzismo di stampo coloniale che permeava la società europea anche in un'epoca in cui la scienza cominciava a interessarsi delle popolazioni aborigene. Ma se l'argomento è senza dubbio intenso e interessante, i difetti congeniti al pretenzioso regista Abdellatif Kechiche – dalla tendenza ad allungare a dismisura ogni scena all'assoluta mancanza di sottigliezza – rendono il film lento, didascalico, ripetitivo e appunto troppo lungo. Per non parlare di una certa retorica, evidente soprattutto nella costruzione dei personaggi minori. La protagonista, che per molti versi può ricordare "Elephant Man" (anche se non si tratta di un caso altrettanto estremo), rimane tuttavia nella memoria. Nel cast anche Olivier Gourmet ed Elina Löwensohn. François Marthouret è il naturalista Georges Cuvier.

18 novembre 2017

Il boss (Fernando Di Leo, 1973)

Il boss
di Fernando Di Leo – Italia 1973
con Henry Silva, Richard Conte
**1/2

Visto in divx, per ricordare Luis Bacalov.

Nick Lanzetta (Henry Silva, doppiato da Sergio Rossi) è un sicario della mafia, al servizio del potente boss palermitano Don Corrasco (Richard Conte), la cui "famiglia" è minacciata dalla ambizioni del "calabrese" Cocchi (Pier Paolo Capponi). Questi rapisce Rina (Antonia Santilli), figlia del braccio destro di Carrasco, Don Giuseppe Daniello (Claudio Nicastro). E Lanzetta è incaricato non solo di salvarla, ma anche di eliminare lo stesso Daniello. In effetti, nonostante i molti discorsi sull'onore e sul rispetto, all'interno delle famiglie mafiose ci sono continui tradimenti, doppi giochi e cambi di campo. E la corruzione coinvolge anche la polizia, con il commissario Torri (Gianni Garko) che passa informazioni a Don Carrasco perché convinto che sia l'unico in grado di "mantenere l'ordine" in Sicilia, e soprattutto la politica, con i boss che vengono di fatto manovrati a distanza dai parlamentari di Roma attraverso l'infido avvocato Rizzo (Corrado Gaipa). Non a caso regista e produttore subirono una querela per diffamazione da parte dell'allora ministro Giovanni Gioia, palermitano, che si sentì chiamato in causa. Al termine dei tanti ribaltoni, tradimenti incrociati e regolamenti di conti, anziché con la parola "Fine" il film si conclude con un inquietante "Continua". Nel cast anche Marino Masé, Hoard Ross, Gianni Musy, Mario Pisu e Vittorio Caprioli (il questore). Molte le scene memorabili: dalla sparatoria iniziale nella piccola saletta cinematografica, a quelle che mostrano il rapporto fra Lanzetta e Nina (ninfomane e drogata, che dopo essere stata liberata da Nick se ne innamora). Tratto dal romanzo "Il mafioso" di Peter McCurtin (che però era ambientato a New York), il film è particolarmente violento, cinico e nichilista, anche se confrontato ad altri titoli del genere noir-poliziottesco cui appartiene. La regia di Di Leo è solida e intensa, uno dei suoi lavori migliori, aiutato dalla fotografia cupa e notturna e dalla colonna sonora di Luis Bacalov. È considerato il terzo capitolo della "trilogia del milieu" (dopo "Milano calibro 9" e "La mala ordina"), ma a parte i temi del tradimento, della vendetta e della violenza, ha poco a vedere con gli altri due, che si svolgevano a Milano ed erano tratti da racconti di Scerbanenco.

16 novembre 2017

The square (Ruben Östlund, 2017)

The square (id.)
di Ruben Östlund – Svezia 2017
con Claes Bang, Elisabeth Moss
***

Visto al cinema Arlecchino.

Christian è il curatore di un museo d'arte contemporanea, la cui nuova installazione ("The square", appunto) dovrebbe invitare i visitatori a mettere in mostra il proprio lato più altruista. Ma lui stesso scoprirà com'è difficile dare fiducia al prossimo e rimanere fedele a quelli che, in fondo, sono soltanto ideali un po' ipocriti e superficiali. In una pellicola surreale e provocatoria, che gli è valsa la Palma d'Oro al Festival di Cannes, Östlund porta sullo schermo una Stoccolma invasa da mendicanti cui nessuno presta attenzione, dove dare aiuto al prossimo non passa nemmeno per la testa (e quando viene fatto, ci sono spiacevoli conseguenze), dove arte e realtà si confondono (le installazioni e le "performance" organizzate dal museo sono bizzarre e fuori controllo tanto quanto le conferenze stampa di presentazione delle stesse), dove la pubblicità e le PR superano la soglia del buon gusto, suscitando reazioni se possibile ancor più fasulle e ipocrite, dove non si pensa alle conseguenze delle proprie azioni (anche se a fin di bene), dove si possono sfruttare i bambini o gli immigrati per un'aggressiva campagna di comunicazione ma gli si sbatte la porta in faccia quando questi si presentano a chiedere aiuto. I temi sono affrontati con un tono leggero e velatamente ironico (con gli scandinavi, a dire il vero, è sempre difficile capire se si deve ridere o meno), episodico e surreale (la scimmia nell'appartamento), con una regia geometrica che ripropone in numerose inquadrature la forma del quadrato (ma "the square" può tradursi anche con "la piazza": una cornice che separa l'interno dall'esterno, il chiuso dall'aperto), dalla palestra dove si esibiscono le figlie del protagonista alla tromba delle scale del palazzo dove vive chi gli ha rubato il cellulare. Fra contraddizioni, individualismi, paure, pregiudizi, provocazioni artistiche o intellettuali che si parlano addosso (e che vengono giustamente insultati o messi alla berlina), la vita sembra arte (moderna) e viceversa, dunque fasulla anche nei suoi momenti più preziosi (come il sesso o la solidarietà). Lo dimostra anche il fatto che numerosi episodi (la messinscena per rubare il cellulare, l'uomo con la sindrome di Tourette, la performance dell'uomo-bestia interpretato dallo stuntman Terry Notary), per quanto strani, sono capitati davvero a Östlund o ne è stato testimone. Il risultato, a tratti divertente, a tratti artificioso, inquietante o persino sgradevole, colpisce nel segno quando mette in luce la "cattiva coscienza" delle elite culturali e un po' di tutti noi, o – come l'ha definita Pedro Almodóvar, presidente di giuria a Cannes – la "dittatura del politicamente corretto", prima ancora che la decadenza dell'arte o della comunicazione (come faceva invece "La grande bellezza"). Il sospetto è che dietro gli ideali, le apparenze e gli atteggiamenti di Christian e di tutti quelli come lui, non ci sia nulla ("You have nothing", recita la scritta al neon in una delle sale del museo). Nella colonna sonora impazza l'Ave Maria di Gounod nella versione di Yo-Yo Ma e Bobby McFerrin.

15 novembre 2017

Le forze del destino (T. Vinterberg, 2003)

Le forze del destino (It's All About Love)
di Thomas Vinterberg – Danimarca/USA 2003
con Joaquin Phoenix, Claire Danes
*1/2

Visto in divx.

Siamo nel 2021, e il pianeta Terra è soggetto a un "disordine cosmico" che provoca strani fenomeni: a New York la gente muore per le strade nell'indifferenza generale, vittima di una malattia che colpisce chi è solo e depresso; in Uganda, per qualche mistero gravitazionale, le persone "volano"; e ovunque incombe una nuova glaciazione (con l'abbassamento improvviso delle temperature e la caduta della neve a luglio). L'insegnante universitario John (Joaquin Phoenix), diretto in Canada, si ferma a New York per far firmare alla moglie Helena (da cui è separato da oltre un anno) la domanda di divorzio. Ma la donna (Claire Danes), campionessa di pattinaggio di origine polacca, gli chiede aiuto, perché si sente vittima di un inquietante complotto: il suo entourage, guidato dal manager-patriarca (Alun Armstrong) e di cui fa parte anche l'ambiguo fratello Michael (Douglas Henshall), progetta di sostituirla con tre cloni, copie senza memoria che vengono addestrate per prenderne il posto quando lei si ritirerà dalle scene. E mentre John ed Helena vanno alla riscoperta del proprio amore mai sopito, scoprono che è stato anche assoldato un killer, il signor Morrison (Geoffrey Hutchings), per sbarazzarsi di lei. Realizzato in cinque anni di lavorazione, dopo il successo di "Festen", un film ambizioso e bizzarro, che ricorda qualcosa di Wenders ("Fino alla fine del mondo") e sembra anticipare il surrealismo di Lanthimos (e pure, se vogliamo, "La quinta stagione"), ma che risulta anche fumoso e pasticciato (come nelle sequenze che vedono in scena il fratello di John, interpretato da Sean Penn, che sorvola dal suo aereo un pianeta sempre più ricoperto da ghiacci e neve, impegnato a redigere un rapporto sullo "stato del mondo") ed enigmatico in modo quasi indisponente. "Il caos nel mondo si riflette nell'animo di tutti gli esseri umani", spiega Morrison: o forse è il contrario? Che il disordine esterno dipenda dall'angoscia è in fondo tutta una metafora sull'amore (e o la sua mancanza) e la solitudine, come già rivelava il titolo originale. Un po' banale. Cast sprecato.

13 novembre 2017

Addio fottuti musi verdi (F. Ebbasta, 2017)

AFMV - Addio fottuti musi verdi
di Francesco Ebbasta – Italia 2017
con Ciro Priello, Fabio Balsamo
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Monica, Roberto ed Elena.

Il napoletano Ciro (Priello), grafico pubblicitario e laureato in comunicazione, fatica a trovare un lavoro fisso e si barcamena come può fra incarichi saltuari e malpagati per committenti arroganti, lavoretti in friggitoria per sbarcare il lunario, e l'inevitabile dipendenza dalla madre. Ciò nonostante non intende seguire il consiglio di Matilda (Beatrice Arnera), quello di lasciare il paese per andare a lavorare all'estero. Per assecondare l'amico Fabio (Balsamo), nerd e grande appassionato della serie fantascientifica "Addio fottuti musi verdi", Ciro partecipa a un concorso e invia il suo curriculum "nello spazio": con sua grande sorpresa verrà contattato da un'astronave aliena, che orbita intorno alla Terra, e assunto dagli extraterrestri per rinnovare il loro logo... Il primo film cinematografico del collettivo di youtubers The Jackal è al tempo stesso una pellicola di fantascienza comica e una satira sulla "fuga dei cervelli". Il divertimento non manca di certo, con gag demenziali e situazioni ricolme di italianità che non si limitano a scimmiottare quelle dei prodotti anglosassoni equivalenti ma le reinventano con ironia e attenzione al vissuto sociale (soprattutto sul mondo del lavoro, ma anche sui tanti cliché dell'ambientazione napoletana, dalla pizza al caffé, dai parcheggiatori abusivi ai video sui matrimoni): un'operazione simile, se vogliamo, al romano "Lo chiamavano Jeeg Robot" di Gabriele Mainetti, anche se questo è più grezzo ma fa decisamente più ridere. Al di là della satira sociale, gli appassionati di SF troveranno di che divertirsi, con scene d'azione e strizzatine d'occhio a opere come "La guida galattica per autostoppisti" di Douglas Adams (gli alieni intendono distruggere la Terra se i suoi abitanti non pagheranno le bollette arretrate per l'uso di energia solare) e non solo. Cameo a sorpresa per Gigi D'Alessio, che rivela di essere sempre stato un alieno. Roberto Zibetti è Brandon, il capo degli extraterrestri. Il regista all'anagrafe si chiama Francesco Capaldo.

12 novembre 2017

Vizi privati, pubbliche virtù (M. Jancsó, 1976)

Vizi privati, pubbliche virtù (Magánbűnök, közerkölcsök)
di Miklós Jancsó – Italia/Jugoslavia 1976
con Lajos Balázsovits, Teresa Ann Savoy
**

Visto in divx.

Rodolfo (Lajos Balázsovits), principe ereditario dell'impero austro-ungarico, trascorre le giornate nella sua tenuta da caccia a Mayerling banchettando con gli amici, rotolandosi nudo nella paglia, amoreggiando con la nutrice Teresa (Laura Betti) e le cameriere, e soprattutto complottando con i suoi due fratellastri/amanti, Sofia (Pamela Villoresi) e il duca (Franco Branciaroli), figli del primo ministro. Tanta dissolutezza e licenziosità, con la sua vena folle e infantile (giochi e canzoncine, il mostrarsi sempre nudo anche di fronte ai messi imperiali per "scandalizzarli"), è in realtà una forma di ribellione nei confronti del padre, l'imperatore Francesco Giuseppe, contro il quale trama anche politicamente. Dopo una festa orgiastica alla quale partecipano i figli dei più importanti aristocratici dell'impero (nei cui bicchieri Rodolfo e compagni hanno versato un potente afrodisiaco), lo scandalo rischia di diventare pubblico: l'autorità metterà tutto a tacere, facendo uccidere Rodolfo e i suoi amici e simulando un suo suicidio per amore. Girato in Croazia e sceneggiato dalla sua compagna Giovanna Gagliardo, è il più celebre (anche internazionalmente) dei film "italiani" di Jancsó, che rilegge gli eventi di Mayerling in un'atmosfera sospesa fra sogno e fantasia (vedi anche la fotografia e il tono alla Resnais) e senza troppa fedeltà storica (nella realtà, la morte del principe avvenne in pieno inverno). Il tema del sesso come forma di ribellione al potere arriva un po' tardi (il decennio della controcultura hippie era quello precedente) e, nonostante le abbondanti nudità, il film è poco erotico e anzi un po' noioso. Ciò non ha impedito ai solerti magistrati dell'epoca di sequestrare la pellicola e di condannare regista e sceneggiatrice per oscenità (ma solo in primo grado). In un certo senso, siamo di fronte a un "Salò" più leggero e ideologicamente capovolto. In ogni caso, come detto, la nudità e il comportamento scandaloso e folle di Rodolfo non sono fini a sé stessi, ma hanno lo scopo di dileggiare l'autorità del "nostro santo imperatore", come chiama sempre il padre, e con lui la famiglia, il potere, la religione: nei giochi di gruppo, fra fanciulle nude, veli bianchi, piume e bolle di sapone, compaiono anche maschere con le fattezze del Kaiser. E tutti sputano su un ritratto di quest'ultimo, mentre un'orchestrina suona ripetutamente musica istituzionale (compreso l'inno austriaco). Altri momenti di scherno sono quelli in cui il gruppo si accanisce contro un generale, rappresentante dell'autorità imperiale. Alla festa sono invitati anche gli artisti di un circo: e fra questi c'è Mary (Teresa Ann Savoy), sedicente baronessa del Galles (nonché ermafrodita, un altro fattore di scandalo), che il principe nominerà per scherzo sua sposa (all'interno di una pantomima sulla nascita di un nuovo regime), e che sarà poi fatta passare per l'amante per la quale si è suicidato (ovvero Maria Vetsera). Fra le molte comparse, nel ruolo di una delle ragazze alla festa, c'è una giovanissima Ilona Staller.

11 novembre 2017

Mayerling (Terence Young, 1968)

Mayerling (id.)
di Terence Young – Francia/GB 1968
con Omar Sharif, Catherine Deneuve
*1/2

Visto in divx.

L'arciduca Rodolfo d'Asburgo, erede al trono dell'impero austriaco, si innamora della giovane baronessa Maria Vetsera. L'amore è per lui l'unica via di fuga dai contrasti con il padre e da un matrimonio infelice: ma quando l'imperatore gli imporrà di troncare la relazione con Maria, sceglierà di suicidarsi insieme a lei nella tenuta da caccia di Mayerling. Praticamente un remake a colori del film del 1936 di Anatole Litvak (anche perché basato, proprio come quello, sul romanzo di Claude Anet che rilegge l'enigmatica vicenda in chiave prettamente romantica), con numerose scene quasi identiche, ma senza la stessa concisione o la stessa finezza nei dialoghi. Quello che nella versione di Litvak era un empatico ritratto dell'infelicità di un principe diventa qui un drammone storico-sentimentale molto meno accattivante. La confezione è più patinata (ottimi i costumi e le scenografie: il film fu girato in gran parte nei luoghi reali, ossia a Vienna e a Mayerling), la storia d'amore si fa più convenzionale e a poco serve dare maggior spazio al contesto storico e politico (con Rodolfo, di idee liberali, tentato di appoggiare le spinte autonomiste dell'Ungheria, anche a costo di andare contro il padre: benché, a dire il vero, lo faccia soprattutto per ritagliarsi uno spazio di libertà per sé stesso e per Maria). Nel calderone si accenna anche a un sottotesto edipico (il rapporto con la madre Elisabetta) e alla pazzia che scorre nella famiglia reale (con riferimenti al "cugino Luigi", ovvero Ludwig di Baviera). Sontuoso il cast: a Sharif e alla Deneuve (con gli occhiali) si affiancano James Mason (l'imperatore Francesco Giuseppe), Ava Gardner (l'imperatrice Elisabetta), Geneviève Page (la contessa Larisch), Ivan Desny (il conte Hoyos) e James Robertson Justice (il principe di Galles).

10 novembre 2017

Mayerling (Anatole Litvak, 1936)

Mayerling (id.)
di Anatole Litvak – Francia 1936
con Charles Boyer, Danielle Darrieux
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Nell'impero austriaco di fine Ottocento, l'arciduca Rodolfo d'Asburgo, infelice ed irrequieto erede al trono, si innamora della diciassettenne baronessina Maria Vetsera. In lei vede l'occasione per fuggire dalle pressioni e dagli obblighi di stato che lo tormentano (e che, fra le altre cose, gli avevano imposto il matrimonio con la principessa Stefania). Ma quando il padre, l'imperatore Francesco Giuseppe, si dichiara contrario alla relazione, ordinando loro di separarsi, Rodolfo e Maria preferiranno morire insieme, uccidendosi nella tenuta da caccia di Mayerling. Da un celebre fatto di cronaca che colpì profondamente la fantasia e l'opinione pubblica (anche perché le vere circostanze della fine dei due amanti non furono mai chiarite del tutto), un film elegante e romantico che, nonostante una certa ingenuità, coinvolge lo spettatore grazie alla caratterizzazione dei suoi protagonisti, spersi nell'ambiente della corte asburgica. Rodolfo, in particolare, è ritratto come sincero e sensibile, alla disperata ricerca di un'ancora di salvezza in un mondo che lo schiaccia con le pressioni sociali legate al suo ruolo (anche perché in contrapposizione al padre su più punti). Suzy Prim è la contessa Larisch, che facilita gli incontri clandestini dei due amanti. Gabrielle Dorziat è l'imperatrice Elisabetta, che dimostra un'anima affine a quella del figlio. Conoscendo già l'epilogo della vicenda, si può notare come parecchi dialoghi prefigurino la morte dei due protagonisti. Notevole anche la premonizione al matrimonio (quando Rodolfo dice alla madre: "Pregate che non incontri mai la donna della mia vita"). I fatti di Mayerling sono stati oggetto di numerosi film, di cui questo – tratto da un romanzo di Claude Anet – è soltanto uno dei primi. Lo stesso Litvak (qui al suo ultimo lavoro in Europa, prima di trasferirsi a Hollywood) ritornerà sull'argomento nel 1957 con un tv movie interpretato da Mel Ferrer e Audrey Hepburn. Da segnalare anche le versioni di Terence Young ("Mayerling" del 1968, praticamente un remake, con Omar Sharif e Catherine Deneuve) e quella "scandalosa" di Miklós Jancsó ("Vizi privati, pubbliche virtù" del 1976).

8 novembre 2017

Black rain (Ridley Scott, 1989)

Black rain - Pioggia sporca (Black Rain)
di Ridley Scott – USA 1989
con Michael Douglas, Ken Takakura
**1/2

Rivisto in DVD.

Nick Conklin (Michael Douglas), detective della polizia di New York con un passato da eroe ma sotto inchiesta perché accusato di essersi appropriato di denaro proveniente da una refurtiva, viene inviato in Giappone insieme al giovane collega Charlie (Andy Garcia) per consegnare alle autorità nipponiche un pericoloso ricercato, Sato (Yusaku Matsuda), un membro della yakuza. Costui, una volta atterrati in Giappone, riesce però a fuggire. E Nick, che vorrebbe riacciuffarlo, si troverà a lavorare in un ambiente pieno di diffidenza e incomprensioni. Ma grazie all'aiuto della bella escort Joyce (Kate Capshaw) e soprattutto alla collaborazione del suo collega nipponico Matsumoto (Ken Takakura), che di fatto prende il posto di Charlie come sua spalla dopo che questi è stato ucciso dagli uomini di Sato, riuscirà a rintracciare il gangster, impegnato in una guerra fra bande e in un'audace ascesa fra i ranghi della yakuza. Da una sceneggiatura di Craig Bolotin, un solidissimo thriller poliziesco altamente atmosferico (come tutti i primi film di Ridley Scott). La qualità visiva è esaltata dalla fotografia iperfiltrata di Jan De Bont, che dà vita a una Osaka luminosa e oscura, labirintica e futuristica, rappresentata quasi sempre di notte o in interni, e che fra insegne e luci al neon, i fumi per le strade, le scintille nella fonderia, e naturalmente la pioggia, ricorda spessissimo la città di "Blade Runner". Il vero tema centrale del film è però lo scontro fra culture. La collaborazione fra Nick e Matsumoto porta in luce tante differenze: l'individualità contro il lavoro di gruppo, l'agire fuori dagli schemi contro lo stare dentro le regole. E il mondo giapponese, per l'agente newyorkese, si rivela impenetrabile non soltanto per via di codici millenari, ma anche per il risentimento che tutti (buoni e cattivi) provano verso gli americani, a causa della politica e della guerra (la "pioggia sporca" del titolo è un riferimento al fallout radioattivo) o anche per l'imposizione del valori occidentali. Bella colonna sonora di Hans Zimmer (con la canzone "I'll be holding on"), alla prima di numerose e fortunate collaborazioni con Ridley Scott. Il ruolo di Sato era stato inizialmente proposto a Jackie Chan, che rifiutò perché non voleva interpretare la parte di un cattivo. Curiosità: nello stesso anno (1989) uscì anche un film giapponese con lo stesso titolo ("Kuroi ame", ovvero "Pioggia nera", di Shohei Imamura), sul tema del bombardamento atomico.

6 novembre 2017

Pranzo alle otto (George Cukor, 1933)

Pranzo alle otto (Dinner at Eight)
di George Cukor – USA 1933
con Lionel Barrymore, Jean Harlow
***1/2

Visto in divx.

In occasione della visita a New York di Lord e Lady Ferncliffe, una coppia di ricchi nobili britannici, i coniugi Jordan decidono di dare una cena in loro onore, invitando un ristretto gruppo di amici e conoscenti strettamente selezionati. Ma problemi di varia natura (economici, professionali, sentimentali e morali) si intrecceranno in maniera inaspettata...
I riti della mondanità al tempo della crisi finanziaria (gli effetti della Grande Depressione si facevano ancora sentire e restano palpapili sullo sfondo di tutto il film, nonostante l'ambientazione altolocata): da una commedia teatrale di George S. Kaufman ed Edna Ferber, uno dei capolavori di Cukor e del cinema hollywoodiano pre-codice Hays, ricco di stile e di incredibili finezze nella scrittura e non solo. Più che la cena (non certo un pranzo come dicono il titolo e i dialoghi italiani!), la pellicola – di impostazione corale – racconta i preparativi e tutti gli eventi che la precedono (il film si conclude proprio al momento di sedersi a tavola). E più che una commedia, a dire il vero sembra quasi un dramma, con una sceneggiatura che porta in primo piano senza remore temi come l'adulterio, il suicidio e l'alcolismo, e che nell'incastrare magistralmente le storie dei vari personaggi ne mette in luce le virtù ma soprattutto i vizi e i difetti (le ipocrisie, la cura delle apparenze, i tradimenti, la leggerezza). Tutti sono ottimamente caratterizzati (con un riuscito mix di umorismo, cinismo, empatia e pathos), anche grazie a un cast di interpreti in gran forma, fra i quali alcuni dei migliori attori e caratteristi dell'epoca: si va dal mite Oliver Jordan (Lionel Barrymore), armatore in crisi finanziaria e con problemi di salute (che tiene nascosti alla moglie), alla sua vacua consorte Millicent (Billie Burke), preoccupata soltanto della buona riuscita del suo pranzo (tanto da non accorgersi dei problemi delle persone attorno a lei). C'è poi la figlia ribelle Paula (Madge Evans), prossima al matrimonio ma che ha segretamente un amante; questi è il quarantacinquenne Larry Renault (John Barrymore), attore alcolizzato e ormai in declino, che cerca inutilmente di risollevare la propria carriera. Alla cena sono invitati anche i coniugi Packard: lui (Wallace Beery) è un grezzo uomo d'affari del Montana, volgare e arrivista, che complotta alle spalle di Jordan per togliergli il controllo della sua stessa società; lei (Jean Harlow) è la sua giovane moglie frivola, annoiata e capricciosa. Ci sono poi il dottor Talbot (Edmund Lowe), aitante e donnaiolo, che fra le sue numerose amanti conta proprio la signora Packard; e sua moglie, la rassegnata Lucy (Karen Morley), al corrente delle scappatelle del marito. Infine, l'ultima invitata è Carlotta Vance (Marie Dressler), anziana attrice di teatro, primo amore del signor Jordan e grande gaffeur, anche lei in perenni difficoltà economiche.

Naturalmente, dopo tanta attesa e tanti preparativi, la cena rischia di essere un disastro: a parte i problemi personali degli invitati e quelli della servitù, la sua stessa ragion d'essere viene a mancare quando Lord e Lady Ferncliffe fanno sapere all'ultimo momento che non si presenteranno (e simbolicamente, prima di loro sparisce il piatto forte, quel grottesco leone di gelatina che avrebbe dovuto essere la "nota di classe" del pranzo). Tutta la fragile impalcatura che regge la società sembra crollare (la salute e il lavoro di Oliver, il fidanzamento di Paula, le finanze di Carlotta, il matrimonio dei Packard e quello dei Talbot, l'autostima di Larry), le verità rimosse vengono a galla, e lo script non si arresta nemmeno per un attimo nel distruggere con cinismo le certezze dei personaggi. Ma in tutto questo, un pizzico di ottimismo all'insegna dell'ironia è sempre dietro l'angolo: a Oliver che confida alla moglie "Siamo rovinati", Millicent risponde candidamente "Ma tutti sono rovinati, caro!". La cura e l'attenzione allo studio dei personaggi è evidente anche in quelli minori: dalla cugina di Millicent, Hattie (Louise Closser Hale), invitata all'ultimo minuto alla festa al posto dei Ferncliffe, a suo marito Ed (Grant Mitchell), cinefilo recalcitrante; dal manager di Larry, Max Kane (Lee Tracy), che si dà inutilmente da fare per trovargli una nuova scrittura, ai vari domestici fra cui Tina (Hilda Vaughn), svagata e insofferente cameriera di Kitty. Ma fra i tanti interpreti (con note di merito per il tragico John Barrymore e la multiforme Marie Dressler), la più memorabile è proprio Jean Harlow, bionda platino luminosissima e deliziosa nel ruolo della superficiale Kitty Packard, vestita capricciosamente di bianco (e qui merita di essere citato il grande Adrian, costumista e fashion designer per tanti capolavori della MGM: suoi anche gli abiti di "Scandalo a Filadelfia", per esempio) o con la schiena scoperta alla festa ("La mia pelle è estremamente delicata e ho tanta paura di esporla", commenta senza rendersi conto dell'ironia), indimenticabile nella sua camera da letto decadente e arredata in stile Art Deco (gli scenografi Hobe Erwin e Frederic Hope dichiararono di aver utilizzato undici diverse "sfumature di bianco"). Celebre la battuta finale (a Kitty che afferma di aver letto un libro che sostiene che "le macchine prenderanno il posto di tutte le professioni", Carlotta replica, dopo averla squadrata: "Mia cara, di questo pericolo lei non deve spaventarsi"). Della regia di un giovane Cukor, raffinata e brillante oltre che perfetta nei tempi e nella direzione degli attori, è persino inutile parlare. Il film è stato rifatto per la tv nel 1989, diretto da Ron Lagomarsino con Lauren Bacall, Marsha Mason e Charles Durning.

5 novembre 2017

Uomini e cobra (J. L. Mankiewicz, 1970)

Uomini e cobra (There was a crooked man...)
di Joseph L. Mankiewicz – USA 1970
con Kirk Douglas, Henry Fonda
***

Visto in TV.

Autore di un colpo che gli ha fruttato mezzo milione di dollari, il rapinatore Paris Pitman Jr. (Kirk Douglas) viene arrestato e rinchiuso in una prigione nel deserto dell'Arizona: non prima, però, di aver nascosto il bottino in un anfratto pieno di serpenti velenosi, di cui è l'unico a conoscere l'ubicazione. In carcere, Paris non perde tempo a escogitare un modo di evadere. E grazie al suo carisma, coinvolge nel piano i suoi compagni di cella, anche se deve vedersela con l'occhio vigile dello sceriffo Woodward W. Lopeman (Henry Fonda), inflessibile tutore della legge, che si è fatto nominare direttore della prigione anche nella speranza di migliorare le condizioni di vita dei detenuti... L'unico western mai girato da Mankiewicz, su una sceneggiatura di David Newman e Robert Benton (reduci dal successo di "Gangster story"), è naturalmente un western atipico, cinico e divertente, ambientato quasi tutto in una prigione a cielo aperto, della quale mostra le dinamiche e i rapporti fra i prigionieri, le guardie e la direzione (prima quella inflessibile e corrotta del primo direttore, poi quella "illuminata", più rilassata e dialogante di Lopeman). Al centro di tutto questo domina l'ambigua figura del protagonista, memorabile anche visivamente con i capelli rossi e gli occhialini rotondi: carismatico, pieno di iniziativa, leader naturale, ma in realtà un "serpente" pronto a tradire e a ingannare chiunque pur di raggiungere i propri obiettivi. Lo vediamo sin dalla scena iniziale, quella della rapina, in cui non esita a sacrificare i propri compagni per tenersi il bottino tutto per sé, e poi naturalmente nel resto del film, dove piega ai propri piani ogni altro valore (l'amicizia, la solidarietà, la redenzione). I serpenti a sonagli che affollano la grotta dove ha nascosto il denaro (e che il titolo italiano, pur trasformandoli in cobra, mette in primo piano) ne sono un'ovvia metafora (e faranno giustizia poetica). A lui si contrappone un personaggio altrettanto complesso come lo sceriffo, intransigente quando si parla di sesso o di alcol, ma sinceramente disposto a dare una seconda possibilità anche ai più gaglioffi (e la cosa rischia di costargli più volte la pelle). In mezzo, tanti personaggi come in ogni prison movie che si rispetti (a tratti la pellicola ricorda "La grande fuga"): il giovane Coy Cavendish (Michael Blodgett), testa calda finito in carcere per un incidente; la coppia formata dal truffatore Cyrus (John Randolph) e dal pittore Whinner (Hume Cronyn), verso i quali gli impliciti sottotesti gay si sprecano; il violento ladruncolo Floyd (Warren Oates); il gigantesco cinese Ah-Ping (C.K. Yang); e l'anziano rapinatore di treni Missouri Kid (Burgess Meredith), veterano della prigione, che sopravvive "sognando" una fattoria e che gli intrighi di Paris finiranno per corrompere (come tutto e come tutti). Mankiewicz gestisce il cast corale con mano ferma e ottimo ritmo, senza rinunciare a un acido sense of humour: la pellicola, grazie anche alla colonna sonora di Charles Strouse, è spigliata e ha a tratti un tono sbarazzino e leggero, sin dai titoli di testa con illustrazioni in stile fiabesco (il titolo originale è l'incipit di una celebre filastrocca per bambini).

4 novembre 2017

Quartet (Dustin Hoffman, 2012)

Quartet (id.)
di Dustin Hoffman – GB 2012
con Maggie Smith, Tom Courtenay
**

Visto in divx.

Esordio (a 75 anni!) per Dustin Hoffman alla regia, con l'adattamento di una pièce teatrale di Ronald Harwood (anche sceneggiatore). Gli ospiti di una casa di riposo per musicisti in Gran Bretagna (ispirata a quella istituita a Milano da Giuseppe Verdi) stanno preparandosi per il galà annuale, un concerto aperto al pubblico i cui proventi devono finanziare la casa stessa, perennemente sull'orlo della chiusura. Fra i degenti si trovano l'eccentrico baritono Wilf (Billy Connolly), la svampita mezzosoprano Cissy (Pauline Collins) e l'orgoglioso tenore Reginald (Tom Courtenay), protagonisti anni prima di un "Rigoletto" il cui successo ancora non è stato dimenticato. Quando nell'istituto giunge, a sorpresa, anche l'altezzoso soprano Jean (Maggie Smith), ex moglie di Reginald e interprete a sua volta di quell'opera, i quattro decidono di tornare a esibirsi, proponendo al galà una nuova versione del loro pezzo forte, il quartetto "Bella figlia dell'amore" dal "Rigoletto", appunto. Occorrerà superare però incertezze, vecchi rancori, paure e ritrosie, soprattutto per convincere la recalcitrante Jean: nel farlo, lei e Reginald ammetteranno anche a sé stessi di amarsi ancora. Una commedia leggera e garbata, benché semplice e prevedibile: un omaggio al mondo della musica attraverso l'affettuosa lente della vecchiaia, e al suo potere che consente di superare antichi rancori e di riallacciare i rapporti anche ad anni di distanza. A parte i quattro attori principali e il dispotico organizzatore del concerto, Cedric (Michael Gambon), tutti gli ospiti dell'istituto sono veri musicisti britannici in pensione. La scena in cui i quattro cantanti si esibivano nel quartetto del "Rigoletto" è stata girata ma poi tagliata in sede di montaggio: il brano si ode solo sui titoli di coda, anche se la melodia si intreccia nella colonna sonora a numerosi altri brani di musica classica e operistica (Verdi, Rossini, Puccini, Bach).

3 novembre 2017

Salam cinema (Mohsen Makhmalbaf, 1995)

Salam cinema (Salaam cinema)
di Mohsen Makhmalbaf – Iran 1995
con Mohsen Makhmalbaf, Shaghayeh Djodat
***

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario"), in originale con sottotitoli.

Per realizzare un film che celebri i cent'anni di storia del cinema (nel 1995 ricorreva infatti il centenario della prima proiezione in pubblico dei fratelli Lumière), il regista Mohsen Makhmalbaf pubblica un annuncio sul giornale in cerca di attori esordienti che ne saranno i protagonisti. Ai provini si presentano in migliaia, spinti dalla passione per la settima arte (assai popolare in Iran e per la quale molti sono disposti a fare follie, come avevamo già visto in "Close Up" di Kiarostami) e dai sogni di fama e di ricchezza (come in "Bellissima" di Visconti o nell'episodio iniziale di "Siamo donne"). Makhmalbaf e i suoi assistenti (fra i quali si riconosce Moharram Zaynalzadeh, che era stato il protagonista del suo film "Il ciclista") ne intervistano parecchi, uomini e donne, prima di rivelare loro che proprio i provini che hanno sostenuto faranno parte del film, e che il loro ruolo consisteva nel recitare la parte di sé stessi. In un insolito mix fra documentario e cinema verità, Makhmalbaf interroga i suoi aspiranti attori ("Cos'è il cinema?", "Perché lo amiamo?", "Qual è la differenza fra verità e finzione?"), li stuzzica e li stimola per tirare fuori qualcosa, vero o falso che sia. Ne nascono storie interessanti (il falso cieco, la ragazza che vorrebbe recitare solo per essere invitata a Cannes – dove i lavori di Makhmalbaf e Kiarostami erano regolarmente presentati – e ottenere così un visto per uscire dal paese e riunirsi con il fidanzato), buffe (i candidati che sostengono di assomigliare ad Alain Delon, Arnold Schwarzenegger, Marilyn Monroe o Paul Newman...) e intense. Il regista ordina ai candidati di piangere a comando, di ridere, di morire; li mette alla prova psicologicamente ("Cosa siete disposti a fare per diventare attori? Rinuncereste alla vostra umanità?"), anche con crudeltà ("Nel cinema non c'è posto per tutti"), ondeggiando fra le promozioni e le bocciature, prima di rivelare che, in fondo, tutti loro fanno già parte del film. "Insomma, siamo attrici o no?", si chiedono le due ragazze (Maryam Keyhan e Shaghayeh Djodat) protagoniste della sezione più lunga della pellicola, quella conclusiva. Sì, perché fra i pregi del film – oltre a mostrare senza filtri quanto sia davvero grande il potere e il fascino del cinema – c'è anche quello di dare la parola alle donne, elementi spesso "invisibili" e inascoltati nell'ambito della socità iraniana, lasciando che raccontino a viso aperto i propri sogni, le aspirazioni e i desideri.

2 novembre 2017

R100 (Hitoshi Matsumoto, 2013)

R100 (id.)
di Hitoshi Matsumoto – Giappone 2013
con Nao Omori, Shinobu Terajima
*1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Takafumi Katayama (Nao Omori), commesso in un negozio di arredamento, firma un contratto con un'agenzia sadomaso che gli invierà, per un anno intero, "dominatrici" in abiti succinti che faranno irruzione nella sua vita quotidiana nei momenti più inaspettati, infliggendogli dolore o umiliazione. E così l'uomo viene di volta in volta picchiato, preso a calci in strada o buttato giù per le scale, messo in imbarazzo al ristorante (con la dominatrix che gli schiaccia il sushi) o sul posto di lavoro: un particolare effetto visivo sullo schermo mostra che tutto ciò gli procura "ondate" di piacere. Quando però le visite cominciano a farsi sempre più eccessive, invadenti e sgradite, anche perché rischiano di coinvolgere i suoi familiari (il figlioletto in primis), Takafumi cercherà di tirarsi indietro. Non ci riuscirà, e scatenerà l'ira del potente CEO dell'organizzazione (la wrestler Lindsay Kay Hayward). Il cinema di Hitoshi Matsumoto è sempre stato folle e spiazzante, e di solito questo è un fattore positivo. Qui, però, il tentativo di partire da un contesto "serio" (la solitudine e la disperazione di Takafumi, la cui moglie è in coma da tre anni; uno spunto che ricorda quello di "The game"; le riflessioni sociali sull'umiliazione e il piacere; i riferimenti all'Inno alla Gioia di Beethoven come tema portante) e di renderlo via via più surreale e grottesco, funziona a corrente alternata. E quando la storia parte completamente per la tangente (l'agenzia sadomaso diventa una pittoresca organizzazione criminale da film di spionaggio, con tanto di esercito di pseudo-ninja), cessa anche di divertire: anzi, si perde interesse nella vicenda e si rimane soltanto ad attendere che il film finisca. Il bello è che la stessa pellicola, a un certo punto, riconosce di aver abbandonato ogni parvenza di qualità o di buon gusto, e cerca di "rimediare" attraverso alcuni inserti metacinematografici in cui rivela che quello cui stiamo assistendo è un film girato da un regista centenario, pensato per un pubblico che abbia anch'esso almeno cento anni. Il misterioso titolo "R100", dunque, si riferisce al rating: significa che il film è sconsigliato (o addirittura vietato) ai minori di 100 anni. Mah!

1 novembre 2017

Rapsodia satanica (Nino Oxilia, 1917)

Rapsodia satanica
di Nino Oxilia – Italia 1917
con Lyda Borelli, Ugo Bazzini
**1/2

Visto su YouTube.

La ricca e anziana Alba d'Oltrevita (Lyda Borelli) stringe un patto con il diavolo (Ugo Bazzini) per riacquistare la giovinezza, promettendo in cambio di rinunciare per sempre alle lusinghe dell'amore. Naturalmente il destino vorrà diversamente. Ispirato – anche esplicitamente – al "Faust" di Goethe, di cui è una rilettura al femminile, questo fondamentale film muto è opera di Nino Oxilia, scrittore e poeta crepuscolare, nonché uno dei pionieri del cinema italiano, che morì quello stesso anno durante la prima guerra mondiale. Sceneggiato da Alberto Fassini ("Alfa"), che era il direttore generale della casa di produzione Cines, a partire da un poema di Fausto Maria Martini, il film è colorato a mano sulla pellicola ed è diviso in un prologo di un rullo (che mostra il patto con Mefisto) e due parti di due rulli ciascuna: la prima mette in scena la spensierata inebriatezza di Alba, fra feste, giochi e danze, in cui fa innamorare di sé i due fratelli Sergio e Tristano (Giovanni Cini e Andrea Habay), con il primo, vedendosi non ricambiato, che sceglierà di uccidersi; la seconda, il punto più alto del film, la vede vagare triste e disperata da sola per le stanze e i giardini del suo "castello dell'Illusione", struggendosi d'amore per Tristano. Nel frattempo Mefisto fa capolino ogni tanto per ridacchiare alle sue spalle. L'ispirazione tardo-romantica è evidente, così come gli influssi dannunziani, che si esplicitano nella descrizione della nobiltà decadente e nello stile liberty, oltre che nelle didascalie dai toni poetici e aulici. La regia è dinamica e moderna, e mette in risalto gli attori (e il loro stato d'animo) senza sacrificare le scenografie e le atmosfere: una vera sorpresa. La Borelli è stata una delle prime "star" del cinema muto italiano. Di notevole interesse anche la colonna sonora originale, composta nientemeno che da Pietro Mascagni, l'autore della "Cavalleria rusticana": si tratta di uno dei primi casi in cui un compositore già noto si dedicò a "musicare" appositamente una pellicola cinematografica, sincronizzando la partitura con le scene già girate, con tanto di leitmotiv associati ai vari personaggi (un lavoro che lo stesso Mascagni definì "lungo, improbo e difficilissimo"). Il film era stato in effetti girato nel 1914 e completato nel 1915, ma venne distribuito soltanto nel 1917, non solo per via della guerra ma anche per dare a Mascagni il tempo di realizzare la colonna sonora. Pare addirittura che la parte finale della pellicola fu modificata (e alcune scene rigirate) proprio per venire incontro alle richieste del compositore, che riteneva il finale originale poco coerente con la sua visione musicale.