31 agosto 2017

I racconti della luna pallida d'agosto (K. Mizoguchi, 1953)

I racconti della luna pallida d'agosto (Ugetsu monogatari)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1953
con Masayuki Mori, Machiko Kyo
****

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Nel Giappone selvaggio e violento della fine del sedicesimo secolo, sconvolto dalle guerre civili, due abitanti di un povero villaggio sulle coste del lago Biwa sperano di fare fortuna approfittando degli scontri: il vasaio Genjuro (Masayuki Mori) intende arricchirsi a dismisura vendendo le sue terracotte nelle città assediate, mentre il contadino Tobei (Eitaro Ozawa) aspira a diventare un famoso samurai. Abbandonato il villaggio, i due si lasceranno distrarre dai rispettivi sogni. Genjuro, affascinato e sedotto dalla misteriosa Wakasa (Machiko Kyo), nobile dama che loda lui e il suo lavoro, si trasferirà a vivere nel lussuoso palazzo di lei, senza rendersi conto che si tratta di un fantasma. Tobei, approfittando vigliaccamente di un'opportunità favorevole, porta a un signore feudale la testa del suo nemico e sarà ricompensato con un cavallo, un'armatura e una piccola truppa di uomini. Ma nel frattempo, a fare le spese della loro prolungata assenza saranno le rispettive mogli, Miyagi (Kinuyo Tanaka) e Ohama (Mitsuko Mito). La prima, rimasta sola, viene uccisa da un soldato mentre cerca di proteggere il proprio figlioletto; la seconda, violentata, finirà col diventare una prostituta. Come in una fiaba, i due uomini impareranno a caro prezzo la lezione e torneranno alle loro umili occupazioni: Tobei a coltivare la terra in compagnia di Ohama, Tobei a realizzare i suoi vasi, aiutato stavolta da un altro fantasma: quello di Miyagi, la cui voce lo incita e risuona nella sua bottega di vasaio. Ispirato a una serie di racconti del diciottesimo secolo di Ueda Akinari (da cui prende il titolo), è il più famoso dei film di Mizoguchi, nonché uno dei capisaldi del cinema giapponese degli anni cinquanta, quello che insieme ad altri capolavori di quel periodo (come "Rashomon" e "I sette samurai" di Kurosawa, e "Viaggio a Tokyo" di Ozu) ha fatto conoscere anche in occidente la cinematografia dell'arcipelago. Vinse, fra le altre cose, il Leone d'Argento a Venezia per la miglior regia, un premio che Mizoguchi finì per conquistare per ben tre anni di fila.

Suggestivo nella sua ambientazione storico-fiabesca, nel suo mescolare crudo realismo (la povertà dei contadini, gli orrori di una guerra mai idealizzata: da sottolineare il contrasto fra l'immagine nobile che Tobei ha dei samurai e gli atti riprovevoli che questi compiono, quali saccheggi e stupri) con istanti di poetica bellezza, e nella sua struttura di apologo morale sull'avidità (i due uomini, obnubilati dalle loro ambizioni – i sogni di gloria sul campo di battaglia per Tobei, la ricerca di profitto e di benessere materiale per Genjuro – perdono completamente di vista la realtà e ignorano i consigli pragmatici delle mogli: in maniera tipicamente mizoguchiana – il regista ha sempre messo queste tematiche al centro dei suoi lavori, una sorta di omaggio alla sorella maggiore che, quando lui era ancora bambino, fu "venduta" dalla famiglia per necessità economiche, e che pure sostenne e incoraggiò il fratello in tutte le prime fasi della sua carriera – proprio le due donne, vittime di una società dominata dai desideri degli uomini, ne pagheranno il prezzo più alto, anche se il finale in un certo senso può essere considerato lieto), il film è anche graziato da interpreti di alto livello. In mezzo ad habitué del regista nipponico come Mori e Tanaka, spicca la bellezza eterea e particolare di Machiko Kyo (appena reduce da un altro capolavoro, "Rashomon") nel ruolo della nobildonna fantasma. I suoi abiti e il suo volto, fortemente truccato, ricordano le maschere del teatro No. A livello di contenuti, invece, la grande novità per Mizoguchi è l'elemento fantastico: una delle due vicende raccontate è una ghost story con tutti i crismi, e proprio questa pellicola è considerata il precursore di un fortunato filone cinematografico a base di spiriti e di fantasmi che sfocerà in seguito più esplicitamente nell'horror e nel fantasy. Stilisticamente il film è ricco come sempre di long take, piani sequenza e riprese con carrelli e gru. Mizoguchi spiegò all'operatore Kazuo Miyagawa che desiderava che gli spettatori si sentissero come di fronte a un dipinto d'epoca che si dipanava su un lungo rotolo, senza soluzione di continuità. Fu una delle rare volte in cui il regista si complimentò apertamente con i suoi collaboratori per la buona riuscita del lavoro.

29 agosto 2017

Lettera da una sconosciuta (Max Ophüls, 1948)

Lettera da una sconosciuta (Letter from an unknown woman)
di Max Ophüls – USA 1948
con Joan Fontaine, Louis Jourdan
***1/2

Rivisto in divx alla Fogona, con Sabrina e Marisa.

Vienna, inizio novecento. Alla vigilia di una sfida a duello che non intende onorare, l'ex pianista prodigio Stefan Brand – che nel corso degli anni ha sperperato il suo talento per condurre una vita dissoluta e svagata – riceve una lunga lettera, scritta da quella che per lui è una totale sconosciuta. Leggendola, scoprirà che Lisa Berndle lo ha amato intensamente e profondamente, da vicino o da lontano, praticamente per tutta la sua vita, sin da quando era una ragazzina, seguendone ogni sviluppo ma incrociando apertamente la sua strada soltanto in brevi e fugaci momenti: e dall'unica notte occasionale passata insieme, che lui a malapena ricorda, ha avuto anche un figlio che ha cresciuto da sola. La sua triste vicenda, conclusasi con la morte per tifo, colpirà Stefan a tal punto che l'uomo sceglierà di non sottrarsi più al duello che l'aspetta, e dunque alle sue responsabilità. Da un romanzo di Stefan Zweig, un racconto pervaso da un romanticismo struggente, con atmosfere tipiche di inizio secolo e personaggi che vivono e soffrono per amore, più o meno inconsapevolmente. L'intera storia è raccontata in flashback, attraverso la lettera di Lisa. E naturalmente l'interpretazione che se ne deve fare è simbolica: Lisa rappresenta l'anima di Stefan, il suo rapporto con l'arte e la musica, quella parte di sé stesso che l'uomo inconsapevolmente finisce col perdere di vista, col dimenticare o non riconoscere più. L'ambientazione nell'Austria di inizio secolo, un microcosmo culturale fiorente ma che correva verso la catastrofe (e che proprio Zweig ha vissuto e così ben descritto nei suoi libri, come l'autobiografia “Il mondo di ieri”), si sposa alla perfezione con il tono melò della storia. Superba la confezione, con un bianco e nero avvolgente che, oltre ad ammantare di un'aura particolare gli scenari mitteleuropei, lascia sempre i personaggi e le loro anime in primo piano. Un piccolo gioiellino, fra i capolavori di quello che – ricordiamolo sempre – era il regista preferito di Kubrick.

28 agosto 2017

Kansas City (Robert Altman, 1996)

Kansas City (id.)
di Robert Altman – USA 1996
con Jennifer Jason Leigh, Miranda Richardson
**

Visto in divx alla Fogona, con Sabrina e Marisa.

Alla vigilia delle elezioni congressuali del 1934, il ladruncolo Johnny O'Hara (Dermot Mulroney) tenta di rapinare un facoltoso scommettitore appena giunto in città per sperperare il proprio denaro allo Hey Hey Club, locale di musica e gioco d'azzardo gestito dal gangster Seldom Seen (Harry Belafonte). Scoperto, viene “prelevato” dagli uomini di questi, che intende punirlo per l'affronto. E per tirarlo fuori dai guai, la sua giovane moglie Blondie (Jennifer Jason Leigh) rapisce a sua volta Carolyn (Miranda Richardson), consorte – dipendente dal laudano – del politico Henry Stilton (Michael Murphy), consigliere del presidente F. D. Roosevelt, sperando di costringere le autorità a fare irruzione nel locale. Mentre dietro le quinte vengono fatte trattative e prese decisioni, le due donne trascorrono insieme tutta la notte in giro per la città, stringendo uno strano legame. Come al solito, Altman immerge i suoi personaggi in un ambiente che è quasi più importante della storia narrata: siamo negli anni del New Deal, un'epoca descritta attraverso gli abiti e le vetture, i riferimenti culturali (divi come Jean Harlow, di cui Blondie è una fan e imita la capigliatura, o Charles Lindberg, di cui si cita nei dialoghi il celebre caso del rapimento del figlioletto; il fumetto "Blondie" e il programma radiofonico "Amos 'n' Andy") e politici, e soprattutto la musica, con il jazz incessante nel locale di Seldom Seen, dove leggendari sassofonisti (come Coleman Hawkins, Lester Young e Ben Webster, interpretati da musicisti contemporanei) improvvisano l'uno di fronte all'altro in una sfida continua. Proprio il ritratto della vivace scena musicale della Kansas City di quegli anni è l'aspetto migliore della pellicola, mentre d'altro canto la struttura narrativa appare deboluccia, nonostante i diversi personaggi – Addie Parker e suo figlio Charlie, il futuro jazzista; la quattordicenne di colore Nettie (Jane Adams), giunta in città perché incinta; lo spregiudicato Johnny Flynn (Steve Buscemi), che manipola le elezioni portando carriolate di vagabondi e di disperati a votare ai seggi – che incrociano il cammino delle due protagoniste. A deludere è soprattutto il finale, che in qualche modo vanifica tutto quello che si era visto in precedenza (e rende persino inutili alcune sottotrame e diversi personaggi di contorno).

26 agosto 2017

Vita di O-Haru, donna galante (K. Mizoguchi, 1952)

Vita di O-Haru, donna galante (Saikaku ichidai onna)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1952
con Kinuyo Tanaka, Toshiro Mifune
***1/2

Rivisto in divx alla Fogona, con Sabrina e Marisa, in originale con sottotitoli.

Giappone, diciassettesimo secolo. Al calar della sera, un'anziana prostituta rimasta senza clienti si rifugia in un tempio buddista: qui, nel volto di una delle tante statuette sacre disposte sull'altare, crede di riconoscere le sembianze del suo primo amore. E parte un lungo flashback in cui veniamo a conoscenza delle numerose e sfortunate vicissitudini della sua vita. Giovane ragazza di origini nobili, in servizio presso un palazzo di Kyoto, O-Haru ne venne scacciata quando si innamorò del servo Katsunosuke (Toshiro Mifune): lui fu costretto al seppuku, lei fu esiliata insieme ai genitori. Le tappe successive della sua vita saranno tutte contraddistinte dal fallimento, dovuto di volta in volta ai casi della vita, agli egoismi degli uomini, alle ingiustizie della società. O-Haru passa dall'essere scelta come concubina da un signore feudale di Edo, Matsudaira (al quale partorirà un erede maschio, che non potrà vedere che da lontano), all'essere venduta come geisha nei quartieri a luce rossa di Shimabara, dall'impiego come cameriera per un mercante di tessuti (la cui moglie la caccerà per gelosia) al matrimonio con un umile venditore di ventagli (che sarà ucciso da un ladro), da aspirante monaca a mendicante per la strada, fino appunto a diventare prostituta. Il film, che ricevette il Leone d'Argento alla Mostra di Venezia l'anno successivo alla clamorosa vittoria a sorpresa di “Rashomon” di Kurosawa, e che dunque contribuì a rendere noto e popolare il cinema giapponese anche in occidente, inaugura la fase più fortunata della carriera di Mizoguchi, una stagione ricca di capolavori – per lo più pellicole di ambientazione storica e in costume – che lo resero per un breve periodo uno dei cineasti più famosi anche al di fuori del suo paese (sarà seguito in rapida successione da titoli come “I racconti della luna pallida d'agosto”, “L'intendente Sansho” e “Gli amanti crocifissi”, che parimenti faranno incetta di premi).

La storia è tratta da un romanzo di Ihara Saikaku, “Vita di una donna innamorata”, un classico della letteratura giapponese dell'epoca Edo (il titolo originale è traducibile in “Vita di una donna di Saikaku”). Nella successione di eventi sfortunati che fanno precipitare la povera O-Haru dalla nobiltà alla miseria, pare quasi di trovarsi di fronte a un capovolgimento del racconto di formazione. E in effetti, i libri di Saikaku – fra i primi a scegliere come protagonisti personaggi proletari o decaduti – si ponevano, già nel seicento, come irriverenti parodie di generi classici come quelli della tradizione aristocratica (il celebre “Storia di Genji”) o le confessioni buddiste. Alcuni aspetti ironici, incredibilmente, sopravvivono: si pensi alla scena del messo di Matsudaira in cerca di una concubina per il suo padrone, che esamina centinaia di ragazze senza trovare quella giusta (per via delle precisissime e assurde richieste fatte dal suo signore) e che sembra uscire da una fiaba. Mizoguchi, dal canto suo, si ritrova a suo agio nel raccontare le vicende di una donna vittima delle azioni degli uomini: sia quando si innamora (il servo Katsunosuke, il mercante di ventagli), sia quando è costretta a condividerne le sorti (il signore Matsudaira, il ladro Bunkichi), sia quando è una vera e propria vittima delle voglie altrui (il mercante Jisei, il cliente falsario), i suoi rapporti con l'altro sesso sono destinati a finire male e a portare sfortuna a lei e agli altri. Persino coloro con cui non ha rapporti romantici/sessuali, ma che hanno comunque potere su di lei, finiscono col tradirla (il padre; i nobili della corte di Matsudaira). Dalle donne, invece, le arriva spesso solidarietà (la madre, le prostitute), anche se alcune di queste – sentendosi tradite – le si rivolteranno contro (la monaca, la moglie di Jisei). Ma è sbagliato definire O-Haru come “vittima della società”, e in particolar modo di una società patriarcale, visto che la donna ci mette senza dubbio anche del suo. Semmai, è vittima del denaro (il padre che la vende) o della sua stessa bellezza. E a volte, al di là delle scelte sbagliate (che nel romanzo di Saikaku erano ancora più esplicite), è semplicemente sfortunata.

Kinuyo Tanaka, “musa” di Mizoguchi e protagonista di quasi tutti i film del regista degli anni quaranta e cinquanta, sfodera qui forse la sua piu grande prova attoriale, sofferta e intensissima, interpretando O-Haru dall'età di quindici anni fino alla vecchiaia, risultando sempre composta e credibile. Attorno a lei, come pianetini attorno a una stella, ruotano una serie di figure minori e a volte macchiettistiche. Estremamente calligrafico (soprattutto nelle scene che descrivono la vita a Kyoto) ma mai manierista, il film racconta la vicende di O-Haru con uno sguardo contemplativo e passa implacabilmente dalla descrizione di riti e momenti solenni ed eleganti agli abissi più profondi della natura umana, dal raffinatissimo cerimoniale di corte alla degradazione (e all'umiliazione) delle prostitute di strada, attraversando tutti gli stadi sociali (nobili, mercanti, monaci) e tutti i “tipi” umani. Notevoli, in particolare, i costumi, soprattutto i kimono che indossa la protagonista. E proprio i capi di vestiario, in più di un'occasione, sono parte integranti del suo destino (l'obi che il marito vuole regalarle è la causa della morte di questi; il kimono che le dona Bunkichi è la causa della sua cacciata da parte della monaca). In generale, anche il modo con cui O-Haru indossa i vestiti suggerisce il suo stato sociale e le tappe del suo degrado: dal raffinato vestiario degli inizi a quello sfacciato di quando lavora come geisha; dal velo che, da prostituta, le serve a mascherare il volto, ormai troppo vecchio per attrarre clienti, fino all'abito da monaca eremita. Due parole infine sullo stile del regista, ormai giunto alla matura perfezione: da ricordare fra i molti piani sequenza, spesso con inquadratura dall'alto e con straordinari movimenti di macchina, quello nel canneto in cui O-Haru vorrebbe suicidarsi con il coltello dopo aver appreso della morte di Katsunosuke e quello in cui cerca inutilmente di avvicinarsi al giovane figlio diventato signore del feudo.

24 agosto 2017

Quinto potere (Sidney Lumet, 1976)

Quinto potere (Network)
di Sidney Lumet – USA 1976
con William Holden, Faye Dunaway
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

L'anziano giornalista televisivo Howard Beale (Peter Finch), in crisi esistenziale anche perché, dopo anni di onorato servizio, sta per essere licenziato a causa dei bassi indici di ascolto, annuncia durante il telegiornale la sua intenzione di suicidarsi in diretta entro una settimana. Naturalmente l'audience schizza alle stelle, e i responsabili della rete tv gli offrono la possibilità di esternare, in un programma tutto suo, qualsiasi cosa gli passi per la testa. L'amico Max Schumacher (William Holden), direttore della sezione news, tenta inutilmente di opporsi: viene esautorato dal suo incarico, che passa nelle mani della spregiudicata Diana Christensen (Faye Dunaway), ideatrice di programmi che ricorrono a qualsiasi mezzo e qualsiasi argomento pur di provocare la reazione del pubblico. Quando però le “sparate” di Beale si faranno sempre più scomode e l'indice di gradimento ricomincerà a scendere, nell'impossibilità di cacciarlo di nuovo (perché ormai entrato nelle grazie del proprietario del network), i responsabili della programmazione, guidati dal cinico Frank Hackett (Robert Duvall), organizzeranno il suo omicidio in diretta tv. Più che una satira, una lucida e feroce critica al mondo della tv commerciale, descritto come cinico e insensibile e che l'anziano Max identifica con la giovane e rampante Diana, incapace di provare veri sentimenti e che sostituisce alla realtà un mondo fittizio fatto di cinismo e spettacolarizzazione. Sceneggiato da Paddy Chayefsky, il film è stato intitolato in italiano “Quinto potere” per fare il verso al capolavoro di Orson Welles: ma più che semplicemente la stampa e la televisione, il quarto e quinto potere andrebbero interpretati rispettivamente come il giornalismo che manipola l'opinione pubblica (ossia il potere dei mass media) e la volgarizzazione dell'intrattenimento (ossia il loro inevitabile scadimento con il puro fine della crescita dell'audience). Per Diana i programmi possono parlare di qualsiasi cosa, purché solletichino gli istinti degli spettatori e portino profitto. Non importa se si tratti di idee controverse o pericolose: si può persino sostituire il telegiornale con le previsioni di un'indovina, o finanziare un gruppo terrorista per mostrarne le azioni in anteprima. Beale, addirittura, diventa il “pazzo profeta dell'etere”, un guru in grado di manipolare le masse con il suo anticonformismo, all'insegna dello slogan “Sono incazzato nero, e tutto questo non lo tollererò più”: una specie di Beppe Grillo ante litteram. E naturalmente questo tipo di tv passa sopra a ogni vita e a ogni rapporto umano, visto che tutto è sacrificabile e contano solo lo share e l'indice di gradimento. Nel cast anche Wesley Addy, Ned Beatty e Beatrice Straight. Grande successo di critica, con dieci nomination e quattro premi Oscar vinti: per le interpretazioni a Finch (assegnato postumo), Dunaway e Straight (per soli cinque minuti di apparizione sullo schermo: record minimo di sempre), per la sceneggiatura a Chayefsky.

22 agosto 2017

Un héros très discret (J. Audiard, 1996)

Un héros très discret
di Jacques Audiard – Francia 1996
con Mathieu Kassovitz, Anouk Grinberg
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Il timido e metodico Albert Dehousse (Kassovitz), il cui padre è morto nella prima guerra mondiale, si risparmia di combattere la seconda perché unico figlio di una vedova di guerra. Cresciuto in un villaggio nel nord della Francia, isolato e protetto da tutto, con la sola immaginazione (e i romanzi d'avventura) come valvola di sfogo, nell'immediato dopoguerra fuggirà di casa per raggiungere Parigi, dove comincerà a costruirsi una vita "fittizia" e spericolata, fingendo di essere stato membro della resistenza francese e frequentando i circoli degli ex combattenti, fino a diventare agli occhi di tutti quell'eroe che aveva sempre sognato di essere. La sua gigantesca menzogna – nel corso della quale si scorprirà persino bigamo: dopo aver abbandonato la moglie di provincia, Yvette (Sandrine Kiberlain), sposerà infatti Servane (Anouk Grinberg), una ragazza del suo nuovo ambiente – gli farà fare addirittura carriera: sempre più apprezzato da militari e politici, sarà nominato telente colonnello e messo a capo della commissione di inchiesta sui collaborazionisti francesi in Germania. Il secondo film di Audiard, tratto da un romanzo del diplomatico Jean-François Deniau e premiato a Cannes per la miglior sceneggiatura, è costruito in parte come un mockumentary (con tanto di interviste a storici e protagonisti della vicenda, e naturalmente al nostro "eroe", ormai invecchiato e interpretato da Jean-Louis Trintignant) e in parte come un racconto di formazione. Nella sua complessità sembra di percepire persino rimandi a "Barry Lyndon" (tutta la parte dell'incontro con i vari mentori a Parigi, per esempio: dal "Capitano" Dionnet (Albert Dupontel) al maneggione Mr. Jo, che gli insegnano o lo aiutano ad affinare l'arte del raggiro) e alle opere di Greenaway (le musiche di Alexandre Desplat contribuiscono senza dubbio, così come l'ossessione di Albert da bambino per i dizionari, l'osservazione, la costruzione di identità e storie fittizie). Il protagonista, "très discret", trascorre infatti il tempo a osservare, a leggere, a imparare e a imitare: si inventa storie e frasi (o si appropria di quelle che ascolta), se le ripete, le recita poi come attore consumato. "Le vite più belle sono quelle che ci inventiamo", si giustifica Albert, anziano, all'inizio del film. Decisamente interessante, anche se a tratti si dilunga troppo, e le singole parti sono forse più riuscite dell'insieme. Il tema del rapporto fra fantasia e realtà era probabilmente più nelle corde di un Ozon (vedi "Angel", "Frantz" o "Nella casa") che non di Audiard.

20 agosto 2017

Fireworks wednesday (A. Farhadi, 2006)

Fireworks Wednesday (Chaharshanbe suri)
di Asghar Farhadi – Iran 2006
con Taraneh Alidousti, Hedyeh Tehrani
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

La giovane Rouhi (Taraneh Alidousti), una ragazza che lavora per un'agenzia di pulizie, viene mandata nella casa di una famiglia benestante per aiutarla a riordinare l'appartamento prima dell'imminente partenza per l'estero. Appena giunta lì, si ritrova nel bel mezzo di una lite coniugale: la moglie Mozhdeh (Hedye Tehrani) crede infatti che il marito Morteza (Hamid Farokhnezhad) la tradisca con una vicina di casa, Simin (Pantea Bahram), che gestisce un salone di bellezza nel proprio appartamento. Mentre la confusione le monta attorno (e quella dei sentimenti e delle emozioni è riflessa nel caos in cui versa la casa: dal citofono che non funziona a un vetro rotto, dalle valigie e dagli oggetti da sistemare al via vai di vicini e parenti), senza volerlo Rouhi finisce col lasciarsi coinvolgere sempre più nella vicenda, prendendo per un breve momento – e a turno – le parti di ciascuno dei tre protagonisti. Avrà ragione la moglie, che con il suo intuito femminile ha saputo cogliere le tracce del tradimento? Oppure il marito, onesto lavoratore e vittima della paranoia della donna? E qual è il ruolo della vicina, simpatica ed affabile, ma oggetto delle maldicenze degli altri inquilini? Mentre per le vie del quartiere si odono gli spari e i botti con cui gli iraniani festeggiano il nuovo anno (il titolo del film si riferisce all'ultimo mercoledì prima del capodanno persiano, che coincide con l'equinozio di primavera, quando c'è l'usanza di accendere fuochi nelle strade), Rouhi diventa suo malgrado testimone e parte attiva degli eventi, un'esperienza di cui forse saprà fare tesoro in vista del suo stesso imminente matrimonio con il giovane fidanzato. Un film semplice (racconta un piccolo episodio, si svolge nell'arco di sole 24 ore) e complesso e misterioso al tempo stesso, che si svela allo spettatore poco a poco, nobilitato da ottime prove d'attore (meravigliosa ed enigmatica, in particolare, Hedye Tehrani) e da un'eccellente caratterizzazione dei personaggi: fa da prodromo ai successivi capolavori di Farhadi ("About Elly" e "Una separazione"), senza dubbio il regista iraniano più attento all'analisi e all'introspezione psicologica.

18 agosto 2017

Deadpool (Tim Miller, 2016)

Deadpool (id.)
di Tim Miller – USA 2016
con Ryan Reynolds, Ed Skrein
**1/2

Visto in divx.

Malato di tumore e in cerca di una cura, il mercenario Wade Wilson (un Ryan Reynolds che ironizza anche su sé stesso) accetta di sottoporsi a un trattamento sperimentale, in grado di risvegliare le sue mutazioni latenti. Ne uscirà sfigurato ma dotato di poteri rigeneranti che guariscono ogni sua ferita. E col nome di Deadpool, un arsenale di armi e un costumino rosso (per non rovinarlo con le macchie di sangue!), si lancerà in una personale vendetta contro il responsabile dei suoi guai, lo spietato Francis/Ajax (Ed Skrein), che nel frattempo ha rapito Vanessa (Morena Baccarin), la donna che ama. Personaggio dei fumetti Marvel "moderni" (a differenza degli eroi delle altre pellicole, che hanno le loro origini negli anni sessanta e settanta, nasce negli anni novanta a opera di Rob Liefeld e raggiunge il successo solo nel nuovo millennio), legato all'universo degli X-Men (e questo spiega perché la pellicola sia stata prodotta dalla Fox: ma di mutanti compaiono soltanto Colosso (in CGI) e la sconosciuta Testata Mutante Negasonica (Brianna Hildebrand), al punto che il protagonista stesso scherza sulla povertà del budget a disposizione dei cineasti), Deadpool è un character dissacrante e sguaiato, che gioca sui cliché del mondo dei supereroi (ovviamente lui non si considera tale: a ben vedere, visto che opera al confine fra il bene e il male) e rompe frequentemente la "quarta parete" (parlando con gli spettatori e mostrando piena consapevolezza di trovarsi in una produzione cinematografica). Geek e citazionista (spesso a carte scoperte), sboccato, volgare, senza peli sulla lingua, è animato da un'energia viscerale e sfrenata, oltre che da una carica eversiva che lo avvicina alla parodia o alla satira in stile "Kick Ass". Ma se tutto questo aggiunge valore alla parte relativa alle origini e alla relazione con Vanessa, sinceramente sofferta e anticonformista, e tutto sommato arricchisce anche il rapporto con il "cattivo" Francis (dall'insopportabile accento inglese, e che si infuria se chiamato per nome), le scene in costume e ambientate nel presente rimangono invece prigioniere delle esigenze di un normale action movie supereroistico. Nel complesso, un film divertente ma incredibilmente stupido. Che qualcuno, fuorviato dalle parolacce e dalle tantissime gag a sfondo sessuale (che negli Stati Uniti hanno imposto il divieto ai minori non accompagnati), ne abbia parlato come di una pellicola "più adulta" rispetto alle altre della Marvel, mi perplime non poco: il target è comunque ed esclusivamente adolescenziale. Il regista Tim Miller, al debutto, fa ampio sfoggio di bullet time sin dai titoli di testa (a fini umoristici, però, il che se non altro ne rende l'abuso sopportabile). T.J. Miller è il barista Weasel, sidekick e spalla comica. Gina Carano è Angel Dust, forzuta tirapiedi di Francis. Stan Lee ha un cameo nella scena nello strip club. Nella scena dopo i titoli di coda, lo stesso Deadpool annuncia che nel sequel ci sarà Cable.

16 agosto 2017

Enrico V (Kenneth Branagh, 1989)

Enrico V (Henry V)
di Kenneth Branagh – GB 1989
con Kenneth Branagh, Derek Jacobi
***1/2

Rivisto in divx.

Per il suo esordio come regista cinematografico, l'allora ventottenne Kenneth Branagh sceglie di portare sullo schermo l'Enrico V di Shakespeare, misurandosi con la versione che ne aveva dato Laurence Olivier (anch'egli contemporaneamente regista e interprete) nel 1944. La storia del giovane sovrano d'Inghilterra che invade la Francia per rivendicarne il trono e sconfigge i suoi nemici nella campale battaglia di Agincourt (non prima di aver pronunciato davanti ai propri uomini un celebre discorso che fungerà da impronta e da modello per tante situazioni simili, a teatro come al cinema) è raccontata con energia e passione, e soprattutto con uno stile chiaramente cinematografico (notevoli, in particolare, i debiti a Kurosawa) che va al di là delle limitazioni teatrali (anche se la fedeltà al testo di Shakespeare non viene mai posta in discussione: è mantenuto persino il personaggio del coro, narratore che si rivolge agli spettatori invocando la loro magnanimità per la "povertà" della messa in scena). Shakespeare aveva già introdotto il personaggio di Enrico V nel precedente "Enrico IV": qui, messosi alle spalle gli anni giovanili trascorsi in bagordi con Falstaff e gli amici delle osterie (alcuni dei quali hanno comunque un ruolo, per quanto marginale, nella storia), è diventato un re dall'animo nobile e giusto, oltre che profondamente religioso. Ma al di là della caratterizzazione dei personaggi, il vero clou del dramma (e del film) risiede nella campale battaglia di Agincourt, che Branagh illustra con grande vigore, portando la macchina da presa in mezzo al fragore della mischia, sporcandola (e sporcandosi) di fango e sangue, e facendo ampio uso di ralenti appunto kurosawiani. Anche la musica fa la sua parte: nella colonna sonora di Patrick Doyle, diretta da Simon Rattle, spicca il canto dei soldati mentre attraversano il campo a battaglia finita. Fra tanti piccoli episodi da ricordare (Enrico alle prese con tre traditori; i continui incontri con l'ambasciatore Montjoy; l'arroganza dei nobili francesi, convinti di vincere facilmente; le scenette con i tre popolani Nym, Bardolfo e Pistola, figure comiche trattate però con tragico realismo; Caterina di Valois che cerca di imparare l'inglese), i momenti più suggestivi sono rappresentati dal giro in incognito del re nel campo immerso nella nebbia, alla vigilia della battaglia, per tastare l'umore dei soldati; e naturalmente dal già citato discorso di Agincourt, che riesce a caricare a mille i soldati inglesi nonostante la stanchezza e la netta inferiorità numerica ("Noi pochi, noi felici pochi"), promettendo loro gloria nel giorno di San Crispino e San Crispiano. L'esito dello scontro cambierà il destino dei due paesi e dell'Europa intera. Nel ricco cast, tanti nomi noti: fra gli altri, Derek Jacobi (il coro), Emma Thompson (Caterina), Robbie Coltrane (Falstaff), Brian Blessed (Exeter), Ian Holm (Fluellen), Christopher Ravenscroft (l'araldo Montjoy), Paul Scofield (il re di Francia), Richard Briers (Bardolfo), Judi Dench (Miss Quickly) e persino un Christian Bale ancora bambino (il figlioletto di Falstaff). In italiano Kenneth Branagh è doppiato da un ottimo Tonino Accolla. Premio Oscar per i migliori costumi, nomination a Branagh come regista e attore. Nel prosieguo della sua carriera, il cineasta tornerà ripetutamente ad affidarsi all'amato Shakespeare (realizzando, fra i tanti, i magnifici "Molto rumore per nulla" e "Hamlet").

14 agosto 2017

La signora di Musashino (K. Mizoguchi, 1951)

La signora di Musashino (Musashino fujin)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1951
con Kinuyo Tanaka, Masayuki Mori
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Michiko (Kinuyo Tanaka), discendente di una ricca e nobile famiglia di samurai, promette al padre morente che resterà sempre degna del nome che porta. Dopo la seconda guerra mondiale, tornata a vivere nella dimora di famiglia a Musashino insieme al marito Akiyama (Masayuki Mori), deve però sopportare il comportamento di questi, docente universitario che la trascura e che – favorito anche dal clima di trasformazione di cui è in preda il Giappone del dopoguerra – predica il rilassamento dei costumi e il libero adulterio. La promessa fatta al padre le impedirà sia di accettare il divorzio dal marito sia di farsi tentare dall'affetto del giovane cugino Tsutomu (Akihiko Katayama), con cui è molto più in sintonia, e con il quale ama ascoltare Chopin e fare passeggiate per l'adorata campagna. Da un romanzo di Shohei Ooka (l'autore di "Fuochi nella pianura"), adattato da Yoshikata Yoda, l'ultimo film "minore" di Mizoguchi prima della sequenza di capolavori degli anni cinquanta che gli diedero fama anche in Occidente (a partire da "Vita di O-Haru, donna galante" del 1952). Anche se il regista dichiarò di averlo girato controvoglia, i personaggi e i temi trattati sono perfettamente in linea con la sua poetica, tanto che la pellicola è considerata il tassello finale (con "Il ritratto della signora Yuki" e "La signora Oyu") di una trilogia di film di ispirazione letteraria e imperniati sui tormenti sentimentali di donne "imprigionate" dal loro ruolo sociale. Un altro tema che emerge prepotentemente (e che rende interessante un paragone con le opere coeve di Ozu) è quello del contrasto fra tradizione e modernità, evidente soprattutto nel confronto fra le due cugine Michiko e Tomiko (Yukiko Todoroki), con quest'ultima che si veste e arreda la casa all'occidentale. E l'ultima inquadratura rivela come la Musashino dei sogni di Tsutomu e Michiko sia appunto un luogo "mitico", mentre nella realtà la moderna città di Tokyo avanza e si appropria della natura incontaminata.

12 agosto 2017

Vogliamo i colonnelli (M. Monicelli, 1973)

Vogliamo i colonnelli
di Mario Monicelli – Italia 1973
con Ugo Tognazzi, Carla Tatò
**

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Il sottotitolo, "Cronaca di un colpo di stato", illustra perfettamente di cosa tratti il film, una satira con cui Monicelli (e i suoi co-sceneggiatori Age e Scarpelli) mettono in scena un immaginario tentativo di golpe in Italia, organizzato dal politico di estrema destra Giuseppe Tritoni (Tognazzi) con la complicità di un gruppo di maldestri colonnelli. La pellicola, a metà fra il documentario e la commedia all'italiana, ne documenta le varie fasi nell'arco di un anno, da un 2 giugno (festa della Repubblica) a un altro. I riferimenti sono ovviamente alla giunta militare che in quegli anni governava la vicina Grecia (e un membro di tale giunta appare in alcune scene, per dare consigli ai cospiratori), ma anche ai tentativi di rovesciare la democrazia che furono realmente effettuati nel nostro paese nel 1964 e nel 1970. Come ne "I soliti ignoti", Monicelli racconta l'organizzazione del golpe sin nei minimi dettagli, ma il progetto sarà destinato a fallire per via dell'incompetenza dei suoi perpetratori, oltre che per elementi casuali e fortuiti che ne minano il preciso marchingegno. E ci sarà chi ne approfitterà. Satira politica, con rimandi all'attualità e immancabili venature comiche, dove però la farsa e il dramma si fondono: se i personaggi sono essenzialmente delle macchiette, le risate lasciano comunque spazio ai timori e alle inquietudini. Anche perché, come viene più volte ricordato, "anche la marcia su Roma fu una buffonata... ma riuscì". Al fianco di Tognazzi, un nutrito gruppo di caratteristi. Gli sgangherati colonnelli sono interpretati da Antonino Faà di Bruno, Camillo Milli, Giancarlo Fusco, Max Turilli e Giuseppe Maffioli. Carla Tatò è la stangona vamp Marcella Bassi-Lega, figlia del generale che consegna a Tritoni la lista dei possibili congiurati. Pino Zac è il giornalista di sinistra, Lino Puglisi il parlamentare approfittatore, Claude Dauphin il presidente della Repubblica.

10 agosto 2017

Vertical features remake (P. Greenaway, 1978)

Vertical Features Remake
di Peter Greenaway – GB 1978
**1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

L'Istituto per il Recupero e il Restauro (IRR), un ente statale inventato dallo stesso Greenaway, indaga sull'opera del visionario ricercatore Tulse Luper, misteriosamente scomparso: e basandosi su schizzi, appunti e fotografie ritrovati in vari momenti, tenta di ricostruire un suo film sulla struttura e l'organizzazione degli elementi verticali ("vertical features", appunto) all'interno del paesaggio di campagna inglese. Il progetto, andato perduto e forse distrutto, era costruito attorno a una griglia di 11x11, con 121 sequenze di durata variabile che immortalano tali elementi (alberi, pali, cancelli, ecc.). La pellicola – un falso documentario con la voce narrante di Colin Cantlie – mostra quattro diversi tentativi di ricostruzione del film, intermezzandoli con il resoconto delle diatribe di un gran numero di studiosi (tutti inventati, ovviamente, ma identificati con precisione da cognomi e foto) che, in un contesto pseudo-accademico, discutono delle intenzioni originarie di Tulse Luper (mettendo persino in dubbio la sua reale esistenza), criticano i remake o ne forniscono le intepretazioni più svariate. Non manca chi accusa il tutto di essere un "puro esercizio accademico di montaggio": certo, a chi non condivide la passione di Greenaway per la ricerca di correlazioni (anche fasulle) fra schemi, strutture e realtà, nei paesaggi come nella vita, l'operazione può sembrare inutile e fine a sé stessa: ma è anche indubbiamente affascinante. Tulse Luper, ornitologo immaginario (nonché alter ego di Greenaway) già citato in "A Walk Through H", tornerà a più riprese in altre opere del regista, compresi i mastodontici "The Falls" e "Le valigie di Tulse Luper". Nei primi due remake, le immagini sono accompagnate da una voce femminile che conta le sequenze; negli altri due, c'è una musica di Michael Nyman (ma il tema dell'IRR, elettronico e inquietante, è di Brian Eno).

9 agosto 2017

Dear phone (Peter Greenaway, 1977)

Dear Phone
di Peter Greenaway – GB 1977
**1/2

Visto in divx, in lingua originale.

In questo corto di 16 minuti, protagonisti sono i telefoni pubblici inglesi, per la precisione le leggendarie cabine rosse, una vera e propria icona nazionale, un tempo diffuse ovunque. Le immagini ne mostrano diversi esemplari, ripresi nelle grandi città come nelle stradine di campagna, mentre si sentono i suoni della composizione del numero, i toni della chiamata e la voce della centralinista (anche in francese e in italiano). In alternanza, lo schermo mostra i manoscritti (quasi illeggibili) o i dattiloscritti di 14 storielle surreali e apparentemente insignificanti, che una voce fuori campo recita a beneficio dello spettatore: tutte hanno naturalmente a che fare con i telefoni e presentano diversi elementi in comune, a partire da protagonisti con le iniziali H.C. – e spesso cognomi pseudo-italiani (Hiro Candici, Harry Contentino, Harrin Constanti, Hirohito Condotieri, Howard Contentin, ecc.) – nonché mogli o ex-mogli di nome Zelda. Come in altri lavori di questo periodo (si pensi anche a "Windows" e "Water Wrackets"), Greenaway costruisce un cortometraggio su una correlazione fantasiosa fra le immagini e la narrazione. L'elenco di personaggi dai nomi simili, ciascuno con la propria storia, anticipa "The Falls". Qui si possono leggere i testi dei racconti.

8 agosto 2017

Water Wrackets (Peter Greenaway, 1975)

Water Wrackets
di Peter Greenaway – GB 1975
**

Visto in divx, in lingua originale.

Su un montaggio di immagini che mostrano specchi d'acqua, laghetti, fiumi e stagni, una voce fuori campo ci racconta la storia dell'insediamento di un popolo chiamato Wrackets, abitanti delle paludi, nonché delle loro manovre militari attorno all'anno 12478 (curiosamente, man mano che la narrazione procede, gli anni procedono al contrario, tanto che si termina con il 12464: che si tratti di date precedenti l'anno zero, e dunque di una storia del lontano passato?), delle guerre contro i Marriots (altra popolazione che vive invece sulle colline), e soprattutto del tentativo del loro condottiero Agateer di costruire una diga per deviare un ruscello e formare così nove laghi dove stabilirsi insieme con la sua gente: solo cinque di questi laghi verranno davvero realizzati, e il narratore si dilunga nel descriverne le caratteristiche, gli usi e lo stato attuale in cui si trovano. Greenaway inventò questa popolazione immaginaria ispirandosi alle opere di J.R.R. Tolkien, che ammirava. Ma lo scarto fra la narrazione (con un linguaggio volutamente arcaico e un tono da saggio storico) e le immagini mostrate sullo schermo sembra troppo elevato: il film (di circa 12 minuti) è sicuramente meno interessante di altri cortometraggi degli esordi del regista.

6 agosto 2017

Il tesoro dell'Africa (John Huston, 1953)

Il tesoro dell'Africa (Beat the Devil)
di John Huston – USA 1953
con Humphrey Bogart, Jennifer Jones
*1/2

Visto in divx.

L'avventuriero Billy Dannreuther (Bogey) e sua moglie Maria (Gina Lollobrigida) si trovano in Italia, in attesa di imbarcarsi per l'Africa in compagnia di quattro "soci d'affari" – loschi individui di varie nazionalità: Petersen (Robert Morley), O'Hara (Peter Lorre), Ravello (Marco Tulli) e il maggiore Ross (Ivor Barnard) – per darsi al contrabbando di uranio. Mentre aspettano che il piroscafo, in riparazione, sia pronto per la partenza, fanno conoscenza con un'altra coppia in viaggio, il compassato inglese Harry Chelm (Edward Underdown) e sua moglie Gwendolen (Jennifer Jones), donna curiosa e dalla forte immaginazione. Fra intrighi, sospetti e complotti (i gangster diffidano l'uno dell'altro), tra le due coppie scattano infatuazioni e innamoramenti incrociati... Girato sulla costiera amalfitana (fra Ravello e Atrani), sceneggiato a quattro mani da John Huston e Truman Capote, con un cast di stelle e di ottimi comprimari, un film che sulla carta aveva tutto per diventare un classico... e invece fallisce sotto ogni punto di vista. I toni oscillano fra la commedia e la farsa (gli autori intendevano fare una parodia delle pellicole di spionaggio), ma la trama, confusa e mai focalizzata, si dipana in modo incerto con gag inconcludenti e situazioni sospese (Huston e Capote lavoravano allo script giorno per giorno, durante le riprese: e si vede). E se la storia non va da nessuna parte, la caratterizzazione dei personaggi non è da meno: i gangster sono macchiette spaesate (che nemmeno grandi caratteristi come Morley o Lorre riescono a rivitalizzare più di tanto), mentre gli amori fra le due coppie lasciano il tempo che trovano. Sprecate anche le location, con una fotografia in bianco e nero che non rende giustizia ai paesaggi della costiera di Amalfi e alla vista dalla "Terrazza sull'infinito" di Villa Cimbrone.

4 agosto 2017

Sicario (Denis Villeneuve, 2015)

Sicario (id.)
di Denis Villeneuve – USA 2015
con Emily Blunt, Benicio del Toro
**

Visto in divx, con Sabrina.

Un'agente dell'FBI (Blunt) viene convinta a collaborare con la CIA a un'operazione segreta contro il cartello della droga messicana, che da oltre il confine è responsabile anche di morti e di sequestri nel cuore degli Stati Uniti. Ma la donna, che mal digerisce le procedure non ortodosse del direttore della missione (Josh Brolin), scoprirà di essere stata usata come pedina, a soli fini burocratici, in un gioco al di fuori della legge che aveva lo scopo di permettere a un sicario rivale (Del Toro), che ora lavora per la CIA, di giungere fino al nascondiglio segreto del boss del narcotraffico messicano per sterminare lui e la sua famiglia. Nonostante la buona regia di Villeneuve, l'ottima fotografia di Roger Deakins e le discrete interpretazioni, è un thriller dai dilemmi morali scontati e abbastanza noioso, anche perché la protagonista – ovvero il personaggio che rappresenta il punto di vista dello spettatore – è frustrata, impotente e volutamente tenuta all'oscuro di quello che sta accadendo dietro le quinte. La versione italiana appiattisce il tutto, doppiando nella nostra lingua sia l'inglese che lo spagnolo (che in originale aveva i sottotitoli). E il ritratto delle città di confine, "terre di lupi" dove il pericolo è in agguato ad ogni angolo, pare francamente esagerato. Il personaggio più inutile è però il poliziotto messicano corrotto, che vediamo più volte interagire con il figlio, simbolo di tutte le vittime delle guerra per la droga. In programma un sequel, "Soldado", che sarà diretto da Stefano Sollima. Nel frattempo lo sceneggiatore Taylor Sheridan ha realizzato altri due film sul tema della frontiera americana ("Hell or High Water" e "I segreti di Wind River", quest'ultimo anche come regista).

2 agosto 2017

I Goonies (Richard Donner, 1985)

I Goonies (The Goonies)
di Richard Donner – USA 1985
con Sean Astin, Josh Brolin
***

Rivisto in divx alla Fogona, con Sabrina, Monica e Marisa.

La zona portuale di Astoria, cittadina dell'Oregon, sta per essere demolita per costruirvi un country club. E per un gruppo di ragazzini (soprannominati i Goonies: il termine – cosa non spiegata nella versione italiana – ha origine dal nome del quartiere in cui vivono, chiamato Goon Docks, ma è usato anche come slang per indicare uno sfigato o un sempliciotto), l'unica speranza per non lasciare la propria abitazione è quella di trovare il tesoro nascosto dal leggendario pirata Willy l'Orbo in una delle caverne presso la costa. A lanciarsi a capofitto nell'avventura, con l'ausilio di un'antica mappa spagnola rinvenuta nella soffitta di casa, sono il timido e asmatico Mikey (Sean Astin, il futuro Sam Gamgee de "Il Signore degli Anelli"), che nutre una particolare fascinazione per il pirata Willy, identificandosi in lui e riconoscendolo come "il primo Goonie"; lo sbruffone Mouth (Corey Feldman), vanesio e chiacchierone; il grassoccio Chunk (Jeff Cohen), pasticcione e dall'appetito insaziabile; e il cinesino Data (Ke Huy Quan, già visto l'anno prima nel secondo film di Indiana Jones), ingegnoso inventore di mille marchingegni degni dell'agente 007. A loro, inizialmente controvoglia, si uniranno anche tre ragazzi più grandi: Brandon (Josh Brolin), fratello maggiore di Mike; Andy (Kerri Green), la ragazza di lui innamorata; e Stef (Martha Plimpton), un'amica di quest'ultima. Dovranno vedersela, oltre che con le numerose trappole e i trabocchetti che Willy l'Orbo ha disseminato nelle gallerie che conducono alla sua grotta (dove è ancora ormeggiato il suo galeone), anche con una gang di pittoreschi rapinatori italo-americani, la banda Fratelli (Anne Ramsey, Robert Davi e Joe Pantoliano), che sembrano usciti da un cartoon (ricordano la Banda Bassotti, con la mamma al posto del nonno!) e che però nascondono un segreto: un fratello mostruoso e deforme, Sloth (John Matuszak, le cui fattezze si ispirano forse al Quasimodo di Charles Laughton), che pure si rivelerà un inaspettato alleato dei nostri eroi.

Prodotto da Steven Spielberg (autore anche del soggetto), un piccolo/grande film di culto generazionale. Ai tempi della sua uscita fu ritenuto una sorta di "Indiana Jones per bambini", visto che ne riproponeva il senso di avventura, esplorazione e pericolo, sia pure in un setting meno esotico. Alcuni dei "tracobetti" di Willy l'Orbo ricordano in effetti le trappole cui deve sfuggire Indy: ma c'è anche un richiamo ai marchingegni che lo stesso Mikey ha costruito a casa sua (come quello per aprire la porta), e che rappresentano un omaggio alle vignette del fumettista Rube Goldberg. La sceneggiatura di Chris Columbus è certo infantile (con caratterizzazioni ingenue e situazioni prevedibili), ma comunque efficace, e contribuì ad affermarlo definitivamente come autore di film con (e per) bambini: da notare che si diverte a citare in una linea di dialogo il suo precedente lavoro, "Gremlins". E se la storia è semicomica e divertente, con gag di ogni tipo (dal tormentone "E io che ho detto?", ai capitomboli e alle prese in giro), c'è comunque spazio per temi "seri" come la morte (dalla scena iniziale, che mostra una (finta) impiccagione, ai tanti scheletri disseminati nelle grotte: e in ogni caso, il pericolo per i nostri eroi è sempre concreto e palpabile), l'amore (mitica la scena in cui Mikey "ruba" al fratello Brandon il primo bacio con Andy), la diversità (il deforme Sloth, rifiutato e incatenato dai fratelli ma accettato dai bambini nel loro gruppo), oltre ovviamente alla crescita, all'amicizia e al coraggio. Magnifico l'incipit, che nel giro di pochi minuti (sulle note di "Fratelli Chase") presenta tutti i personaggi. Nella bella colonna sonora di Dave Grusin spicca una canzone di Cindy Lauper ("The Goonies 'R' Good Enough"): la cantante appare anche nel video che Brandon guarda in tv. Cameo, nel finale, per il regista Richard Donner nei panni di un poliziotto. Alcune curiosità: la nave di Willy l'Orbo era ispirata a quelle dei film di Errol Flynn (come "Lo sparviero del mare" o "Capitan Blood", di cui si vedono alcuhe scene in tv). Alcune sequenze sarebbero state dirette da Spielberg in persona: quelle dei ragazzini in bici ricordano ovviamente "E.T.". Donner, dal proprio canto, cita il suo "Superman" quando Sloth ne indossa la maglietta. Fra le scene tagliate, l'incontro con una piovra (di cui però rimane traccia nei dialoghi!).