30 maggio 2017

Barry Lyndon (Stanley Kubrick, 1975)

Barry Lyndon (id.)
di Stanley Kubrick – GB/USA 1975
con Ryan O'Neal, Marisa Berenson
***

Rivisto in DVD.

Nell'Irlanda di metà Settecento, il giovane e impetuoso Redmond Barry (Ryan O'Neal) è costretto alla fuga dopo aver ferito in duello un ufficiale inglese, promesso sposo di sua cugina (di cui era innamorato). I casi della vita lo porteranno ad arruolarsi nell'esercito di re Giorgio, allora impegnato nella Guerra dei Sette Anni contro la Francia, per poi disertare e finire invece nell'esercito prussiano, alleato degli inglesi. Terminata la guerra, in compagnia dell'avventuriero Chevalier de Balibari (Patrick Magee), Barry farà fortuna dapprima con il gioco d'azzardo, e poi sposando la bella e ricchissima Contessa di Lyndon (Marisa Berenson), il cui nome aggiungerà al suo. Ma l'insano desiderio di ottenere a propria volta un titolo nobiliare inglese, e l'inimicizia del figlio di primo letto della Contessa, Lord Bullingdon (Leon Vitali), gli faranno perdere tutto. Da un romanzo ottocentesco di William M. Thackeray (l'autore del "Falò delle vanità"), adattato con qualche libertà, uno dei film di Stanley Kubrick più ambiziosi e celebrati (almeno dal punto di vista tecnico). Stupefacente la ricostruzione storica: non solo per quanto riguarda scenografie e costumi (giustamente premiati con l'Oscar), ma soprattutto per la cinematografia. La fotografia di John Alcott dona una qualità pittorica alla pellicola, tanto nelle scene in esterni (dove vengono valorizzati i paesaggi e i cieli nuvolosi) quanto in quelle in interni (che sembrano uscire da dipinti d'epoca). Celebre fu la scelta di girare soltanto con luce naturale: per poter catturare la fioca illuminazione delle candele o delle lampade ad olio, per esempio, Kubrick dovette ricorrere a speciali macchine da presa con lenti ultra-veloci, messe a punto dalla Zeiss per la NASA. Il regista, naturalmente, ci aggiunge del suo: il film è graziato dal consueto talento per la composizione della scena, dalla cura di ogni dettaglio, dalle lente carrellate in funzione narrativa (splendida, per esempio, la sequenza del primo bacio fra Barry e Lady Lyndon sulla veranda), che donano all'intera pellicola un senso di perfezione formale senza pari. Lungo (tre ore), lento, ma di certo esteticamente bellissimo!

Un narratore velatamente ironico ci accompagna durante tutto il racconto della vita di Barry, una storia di ascesa e caduta punteggiata dai duelli (con la spada ma soprattutto con la pistola), alcuni dei quali – da quello iniziale con il capitano inglese a quello finale con il figliastro – restano fra i momenti più memorabili del film. Le accuse di freddezza e di eccessivo formalismo che alcuni hanno rivolto alla pellicola cadono di fronte ad episodi ad alta intensità emotiva (la breve storia d'amore con la contadina tedesca, il dramma della morte del figlio Bryan), all'attenzione verso figure tragiche come la Contessa di Lyndon, o quasi comiche come lo Chevalier (uno dei diversi "mentori" che accompagnano la crescita di Barry: prima di lui ci sono l'amico ufficiale Grogan e poi il capitano prussiano Potzdorf). Barry stesso, nel corso della sua esistenza, ricopre diversi ruoli (soldato, disertore, eroe di guerra, spia e controspia, giocatore d'azzardo, arrampicatore sociale, affermato nobiluomo, e infine alcolizzato in disgrazia), così come evolve il suo rapporto con gli altri, che si tratti di onore (certe volte ci appare meschino e codardo, altre volte onesto e coraggioso) o di amore (passa da giovane romantico e idealista a vuoto e disilluso). La colonna sonora di Leonard Rosenman riarrangia diversi brani di musica barocca e classica, in particolare la sarabanda dalla Suite n. 4 HWV 437 di Händel (anche sui titoli di coda) e l'andante con moto dal Trio n. 2 D.929 di Schubert. Il castello in Irlanda dove furono girate la maggior parte delle scene della seconda parte andò distrutto per un incendio pochi mesi dopo la fine delle riprese. Nel complesso, "Barry Lyndon" è il film di Kubrick dove l'immagine ha il maggior peso. Più che il destino dei suoi personaggi, ai quali comunque si affeziona e il cui comportamento non giudica mai, al regista sembra interessare soprattutto ritrarli come in un quadro d'epoca, e anche per questo la pellicola si sposa perfettamente con la sua ambientazione storica (c'è chi ha detto che si tratta della "più ampia e rigorosa rappresentazione del Settecento che il cinema abbia mai prodotto"). Con quattro Oscar vinti (costumi, scenografie, fotografia e colonna sonora), alla pari di "Spartacus", è stato il film di Kubrick che ha riscosso il maggior riscontro di critica alla sua uscita. E ha influenzato, fra gli altri, Ridley Scott ("I duellanti") e Martin Scorsese ("L'età dell'innocenza").

28 maggio 2017

Storia segreta del dopoguerra (Nagisa Oshima, 1970)

Storia segreta del dopoguerra: dopo la guerra di Tokyo
(Tokyo senso sengo hiwa)
di Nagisa Oshima – Giappone 1970
con Kazuo Goto, Emiko Iwasaki
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Un gruppo di studenti di sinistra intende documentare su pellicola le proteste di strada contro il governo, perché "per spezzare l'oppressione serve l'immaginazione. Ecco perché facciamo film". Ma quando uno di loro si suicida gettandosi da un palazzo con la cinepresa in mano, il giovane Motoki si convince che l'amico abbia voluto lasciare nel film una sorta di testamento personale. E con l'aiuto della ragazza del defunto, Yasuko, cerca di dare un significato alle immagini apparentemente senza senso, scorci e riprese delle vie della città, e di ricostruirne il contenuto recandosi a filmare negli stessi luoghi... Girato durante la fase più ideologica e sperimentale della carriera di Oshima, e noto anche con il titolo inglese "The Man Who Left His Will On Film", questo strano film ondeggia fra l'autobiografico, il militante e il metafisico. Significativo che, quando gli studenti elencano i registi che potrebbero simpatizzare con loro, il primo della lista sia proprio Oshima. Fare cinema è un atto contraddittorio, così come la realtà e la finzione sono in contraddizione fra loro (e questo ricorda la querelle fra i teorici sovietici: non a caso si riconoscono echi de "L'uomo con la macchina da presa" di Dziga Vertov). Lo stesso cinema è uno strumento di lotta politica e al tempo stesso un mezzo per l'autodeterminazione individuale (convinto che non sia mai esistito, Motoki comincia a identificarsi nell'amico come a volerne prendere il posto, anche al fianco della compiacente Yasuko). "Catturare" su pellicola i paesaggi e gli scorci della città diventa equivalente a conquistare la ragazza (che infatti si pone spesso fra l'obiettivo e lo sfondo, come voler divenire una parte integrante del paesaggio; in una scena precedente, si spoglia davanti alla cinepresa per "fondersi" nel film proiettato), oltre a riportare dentro di sé quella parte che è fuggita (il misterioso amico scomparso). Girato con attori non professionisti e una bella colonna sonora di Toru Takemitsu, il film è però troppo enigmatico nella sovrapposizione dei piani narrativi e nello sviluppo "filosofico", con tanto di finale circolare, e pur essendo storicamente significativo non raggiunge l'intensità delle opere migliori del regista nipponico né il fascino dei suoi modelli di riferimento (su tutti gli autori della Nouvelle Vague francese, come Resnais e Godard).

26 maggio 2017

La notte brava del soldato Jonathan (Don Siegel, 1971)

La notte brava del soldato Jonathan (The Beguiled)
di Don Siegel – USA 1971
con Clint Eastwood, Geraldine Page
***

Visto in divx.

Durante la guerra civile americana, in territorio confederato, un soldato yankee ferito – il caporale McBurney (Clint Eastwood) – viene accolto e curato dalle ragazze di un collegio femminile isolato nei boschi, con l'intenzione di consegnarlo alle truppe sudiste una volta che si sarà ripreso. Ma la sua presenza accende la curiosità e i desideri di tutte le donne della casa: dall'anziana direttrice Miss Martha (Geraldine Page) alla giovane insegnante Edwina (Elizabeth Hartman), dalla serva di colore Hallie (Mae Mercer) alle sei alunne, che vanno dall'età di diciassette anni – l'intrigante Carol (Jo Ann Harris) – a quella di dodici – l'innocente Amy (Pamelyn Ferdin). A sua volta McBurney approfitta della situazione, compiacendo con bugie le varie donne e lasciandosi "sedurre" da loro... fino a quando il gioco gli sfuggirà di mano. Insolita pellicola, tratta da un romanzo di Thomas P. Cullinan appartenente al cosiddetto genere "Southern Gothic". Le atmosfere torbide, mescolate a quelle fiabesche (la bambina che si avventura nel bosco in cerca di funghi, la casa isolata), che a tratti sfociano nell'horror, lo rendono un film dai toni più europei che americani (e infatti piacque parecchio in Francia e fu un flop in patria). Ed è strano vedere Eastwood uscire dai suoi soliti ruoli per calarsi in quello di vittima, in balia di tante donne, per di più diretto dallo stesso regista con cui pochi mesi più tardi sfornerà il primo film dell'ispettore Callaghan (ma i due erano già alla terza collaborazione, dopo i western "L'uomo dalla cravatta di cuoio" e "Gli avvoltoi hanno fame"). Con una caratterizzazione psicologica più raffinata (soprattutto delle figure femminili), ne sarebbe potuto uscire un capolavoro. Secondo Siegel, il film parla del "desiderio latente delle donne di castrare gli uomini". Da notare la simbologia scoperta (il corvo con l'ala ferita, legato a una corda, che alla fine è trovato morto) e i sottotesti incestuosi (fin troppo espliciti) riguardo Miss Martha. Nel 2017 è in arrivo un remake a opera di Sofia Coppola, con Colin Farrell e Nicole Kidman.

24 maggio 2017

Chinatown (Roman Polanski, 1974)

Chinatown (id.)
di Roman Polanski – USA 1974
con Jack Nicholson, Faye Dunaway
***1/2

Rivisto in divx.

Los Angeles, anni trenta: il detective privato Jake Gittes (Jack Nicholson) è assunto per indagare sulle scappatelle extraconiugali di Hollis Mulwray, ingegnere capo del dipartimento delle acque della contea. Le fotografie vengono poi usate per screditare l'uomo sui giornali, portandolo al "suicidio". Ma quando Gittes scopre che la donna che l'aveva assunto non era la vera moglie dell'ingegnere ma qualcuno che si spacciava per lei, decide di indagare per proprio conto. Attraverso una ragnatela di indizi, porterà alla luce un intrigo di speculazioni territoriali, corruzione politica e – soprattutto – torbidi segreti familiari. L'ultimo film girato a Hollywood da Polanski è un celebrato noir che recupera in parte le atmosfere dei classici hard boiled alla Raymond Chandler, aggiornandole all'era della disillusione e dell'amarezza degli anni settanta (quelli dello scandalo Watergate e della Guerra del Vietnam). Scritto da Robert Towne e interpretato magistralmente da Nicholson (nei panni di un occhio privato cinico ma idealista, elegantemente impeccabile e pieno di risorse: memorabile la trovata degli orologi posizionati sotto le ruote delle auto pedinate), da Faye Dunaway (Evelyn, la vera moglie di Mulwray, personaggio ambiguo e dal passato pieno di ombre) e del grande John Huston (assai convincente nel ruolo del patriarca Noah Cross), il film si svolge durante un'estate assolata in una Los Angeles sconvolta dalla siccità. Polanski si ritaglia per sé stesso la piccola parte dell'uomo che sfregia Nicholson al naso con il coltello. Nonostante il titolo, soltanto gli ultimi minuti della pellicola sono ambientati effettivamente nel quartiere cinese della città: ma Chinatown (dove sia Jake che il tenente Lou Escobar, che conduce l'indagine ufficiale sulla morte di Mulwray, hanno lavorato quando erano colleghi) per l'intero film è una metafora, il simbolo dell'impotenza della legge, il territorio dove vigono regole del tutto particolari e dove è inutile anche solo pensare di poter fare giustizia. Celeberrima, a questo proposito, la frase che chiude la pellicola: "Lascia stare, Jake. È Chinatown". E infatti, anche se l'indagine di Gittes va a buon fine e tutto viene alla luce, la sua alla resa dei conti è una sconfitta (da notare che la conclusione fu cambiata da Polanski: lo script originale di Towne prevedeva un relativo lieto fine). Affascinante l'atmosfera d'epoca, già a partire dai titoli di testa in stile retrò, ricostruita grazie anche alla colonna sonora (a base di jazz nostalgico) di Jerry Goldsmith. Nel 1990 Nicholson stesso si dirigerà in un sequel, "Il grande inganno".

23 maggio 2017

Incubi (Donner, Holland, Zemeckis, 1992)

Incubi (Two-Fisted Tales)
di Richard Donner, Tom Holland e Robert Zemeckis – USA 1992
con Brad Pitt, Kirk Douglas
**

Visto in divx.

Tre episodi, di generi e ambientazioni diverse, per quello che avrebbe dovuto essere il pilota di una serie televisiva (in stile "I racconti della cripta", di cui sarebbe stato uno spin-off, o "Ai confini della realtà"). Il progetto, però, non si concretizzò mai, e gli episodi furono riciclati proprio all'interno de "I racconti della cripta". Il titolo originale è quello di una serie a fumetti pubblicata negli anni '50 dalla EC Comics, ma nessuno dei tre segmenti è un adattamento di storie apparse in quella testata (i primi due soggetti sono originali, scritti rispettivamente da Frank Darabont e da Randall Jahnson; il terzo – il migliore del lotto – è tratto da una storia di Al Feldstein apparsa su un differente albo della EC). Bill Sadler interpreta il personaggio rude e sarcastico che introduce le vicende, un pistolero sulla sedia a rotelle che irride e insulta ripetutamente gli spettatori. Il primo episodio (il western) è l'unico con venature horror e soprannaturali. Gli altri due (ambientati rispettivamente nel mondo delle corse clandestine su strada e durante la prima guerra mondiale) sono semplicemente thriller con un insolito tema comune, quello dello scontro fra generazioni.

Duello fantasma (Showdown), di Richard Donner (*1/2),
con Neil Giuntoli e David Morse
Nel west, un fuorilegge in fuga da un ranger (che lo ha inseguito attraverso il deserto) lo sfida a duello e apparentemente ha la meglio. Non si rende però conto di essere già morto e di essere diventato un fantasma... Poco originale e significativo, a parte il colpo di scena, l'episodio si salva solo per la fotografia e l'atmosfera.

Corsa verso la morte (King of the Road), di Tom Holland (*1/2),
con Raymond J. Barry e Brad Pitt
Billy, giovane delinquente dalla testa calda, vuole sfidare Iceman, anziano asso del volante che ha abbandonato da anni le corse clandestine per diventare un poliziotto. Per convincerlo a tornare sulla strada, ne seduce e rapisce la figlia Carrie (Michelle Bronson). Inizio intrigante, ma conclusione deludente e scontata. Un Brad Pitt a inizio carriera è già carismatico nel ruolo del bad boy.

L'ultimo coraggio (Yellow), di Robert Zemeckis (**1/2),
con Kirk Douglas ed Eric Douglas
Sul fronte francese, durante la prima guerra mondiale, il generale Calthrob condanna alla fucilazione il proprio figlio Martin, macchiatosi di atti di codardia. Per consentirgli di redimersi, gli chiede di mostrarsi coraggioso davanti al plotone d'esecuzione, promettendogli che le armi saranno caricate a salve... Senza dubbio il migliore dei tre episodi, con un Douglas che – oltre a recitare insieme al suo vero figlio Eric, attore anch'egli ma meno noto del fratellastro Michael – torna su sentieri già battuti in "Orizzonti di gloria". Nel cast anche Lance Henriksen (il sergente) e Dan Aykroyd (il capitano).

21 maggio 2017

Closer (Mike Nichols, 2004)

Closer (id.)
di Mike Nichols – USA 2004
con Jude Law, Clive Owen, Natalie Portman, Julia Roberts
**1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Fra amori e segreti, tradimenti e confessioni, le vite di quattro personaggi si intrecciano a Londra nell'arco di alcuni anni. Dan (Jude Law) è un giornalista addetto ai necrologi, arrogante e manipolatore, con ambizioni frustrate da romanziere. Alice (Natalie Portman: ma a proposito del suo nome c'è un twist nel finale) è una giovane spogliarellista americana, enigmatica e apparentemente ingenua, in fuga da un burrascoso rapporto. Larry (Clive Owen) è un medico dermatologo, cinico e solitario, patologicamente ossessionato dal sesso. E infine Anna (Julia Roberts) è una fotografa professionista, fragile e perennemente infelice, i cui scatti vengono esibiti in importanti mostre. Il film è tratto dall'omonima opera teatrale di Patrick Marber (autore anche della sceneggiatura), e l'origine teatrale è evidente: in scena ci sono praticamente soltanto i quattro personaggi (e quasi sempre solo due di loro alla volta), impegnati in lunghi dialoghi (il vero punto di forza della pellicola) sull'amore e il sesso, mentre fra una sequenza e l'altra, temporalmente, passano diversi mesi, in modo da mettere sempre lo spettatore di fronte a nuove variazioni dello status quo. Le coppie, infatti, si smontano e rimontano in continuazione, in reazione all'attrazione sessuale o all'affinità sentimentale che varia di momento in momento. Nessuno dei personaggi è ritratto come moralmente esemplare, anche se paradossalmente a "tradire" non sono i due che sono stati presentati come sessualmente più discutibili (il medico erotomane e la spogliarellista) bensì quelli che dovrebbero essere più irreprensibili (lo scrittore e la fotografa). I loro legami sono al tempo stesso intensi e fragili, profondi e del tutto vacui, come se l'amore non fosse altro che un breve collante destinato ad evaporare alla prima occasione. “Chi ama a prima vista tradisce ad ogni sguardo”, recita la frase di lancio, suggerendo cinicamente che in amore l'eccessiva idealizzazione è solo un inganno o una maschera. E il tema della finzione e del suo rapporto con la realtà è ricorrente (Dan scrive il suo romanzo ispirandosi alla vita di Alice, Anna fotografa i volti di persone sconosciute senza però svelarne i veri sentimenti, le chat erotiche sono solo uno strumento di inganno, e Alice – mentre fa uno striptease indossando una parrucca – afferma: "Mentire è il più grande divertimento per una ragazza senza togliersi gli abiti di dosso"). La regia di Nichols è minimalista, lenta e avvolgente (a tratti quasi ipnotica), anche se per lo più si mette al servizio del provocatorio soggetto. Buono il cast, con elogi in particolare per Owen e la Portman (entrambi nominati all'Oscar e vincitori del Golden Globe). Owen aveva recitato anche nell'opera teatrale, che peraltro aveva un finale diverso e più tragico (Alice muore, Larry e Anna si separano), interpretando però la parte di Dan. Fra le fonti di ispirazione: il "Così fan tutte" di Mozart (alcuni brani del quale, come il quintetto "Di scrivermi ogni giorno" e il terzettino "Soave sia il vento", si possono udire in un paio di occasioni; ma nella colonna sonora c'è anche l'ouverture della "Cenerentola" di Rossini e le canzoni "The Blower's Daughter" e "Cold Water" di Damien Rice) e i drammi "Vite private" di Noël Coward e "Tradimenti" di Harold Pinter.

20 maggio 2017

Windows (Peter Greenaway, 1975)

Windows
di Peter Greenaway – GB 1975
***

Visto su YouTube, in lingua originale.


Dei primi cortometraggi di Greenaway, questo – pur nella sua brevità (dura meno di 4 minuti) – è forse il più paradigmatico del suo stile e del suo modo di fare cinema. Ci si ritrova già il desiderio di descrivere il mondo attraverso correlazioni (spesso del tutto arbitrarie, se non addirittura inventate) fra immagini, eventi, parole e numeri, ma anche l'attenzione al paesaggio e l'ossessione per la morte. Girato nella stessa casa di campagna dove, trascorrendo l'estate con la propria famiglia, aveva realizzato il precedente "H is for House", il film presenta una serie di scene che mostrano il mondo esterno attraverso delle finestre (la bambina e la donna che si intravedono sono la figlia e la moglie del regista), mentre una voce fuori campo recita una serie di informazioni e di statistiche sulle 37 persone che sarebbero morte, cadendo appunto da finestre, nella parrocchia di W. [ossia Wardour] nel corso del 1973. Queste persone sono suddivise per età (7 bambini, 11 adolescenti e 19 adulti), per il tipo di finestre da cui sono cadute, per le cause del salto, e per svariati altri elementi. Come musica di sottofondo, c'è "La poule" di Jean-Philippe Rameau. L'idea venne al regista leggendo le statistiche sui prigionieri politici "defenestrati" in Sudafrica, con le scuse più varie per le loro "cadute accidentali". Può essere pertanto considerato un film politico! L'irrilevanza e l'ironia del testo, cui i numeri sembrano attribuire un'apparente importanza, si abbina poi in maniera straniante con la concretezza delle immagini, un vero e proprio studio sul rapporto fra il paesaggio interno (le stanze in penombra) e quello esterno (l'idilliaca campagna inglese), stimolando la curiosità di uno spettatore che morbosamente non può fare a meno di prestare attenzione a quel che recita la voce narrante (di Colin Cantlie). Greenaway svilupperà questo stile nei suoi futuri lungometraggi, a partire da "The Falls", che può essere quasi considerato una versione estesa e più elaborata di "Windows".

19 maggio 2017

H is for House (Peter Greenaway, 1973)

H is for House
di Peter Greenaway – GB 1973 (rieditato nel 1978)
con Hannah Greenaway
**1/2

Visto su YouTube, in lingua originale.

Da poco sposato e con una figlia piccola, Greenaway trascorse l'estate del 1973 ospite di un amico in una bella casa ottocentesca nella romantica campagna inglese, a Wardour nel Wiltshire. Qui girò una serie di film (fra cui, oltre a questo, anche "Windows"). "H is for House" è ispirato ai sillabari per insegnare l'alfabeto ai bambini: la piccola Hannah stava cominciando a parlare, e il regista la interroga sui nomi delle cose che la circondano (la voce infantile che si sente nel film, errori e indecisioni comprese, è la sua). Se le immagini mostrano scene di vita familiare (la moglie e la figlia che giocano sull'erba in una bella giornata di sole), l'audio – oltre all'immancabile musica di Vivaldi – racconta invece tutta un'altra storia. Ossessionato dalla lettera H, Greenaway elenca una lunghissima serie di oggetti e di concetti astratti i cui nomi iniziano con questa, mentre la pellicola si apre e si chiude con il racconto di tre storie bizzarre e surreali, ambientate forse in quella stessa dimora: un naturalista che rimane spiazzato dall'inversione della rotazione della terra, una donna che si preoccupa dell'arrivo della città fino alle soglie della sua casa, un uomo convinto che i suoi occhi siano come una batteria e che debbano essere ricaricati dal sole. Ne risulta uno studio sull'artificialità del modo in cui denominiamo le cose e sul rapporto confuso fra suoni e significati, mescolato a riflessioni nonsense sulla percezione del tempo, della geografia e del rapporto con il mondo che ci circonda.

Intervals (Peter Greenaway, 1969)

Intervals
di Peter Greenaway – GB 1969
**

Visto su YouTube.


Girato durante una vacanza a Venezia nell'inverno del 1968 (il sonoro sarà poi aggiunto nel 1973), questo cortometraggio sperimentale in bianco e nero mostra una serie di scenari in esterno (pareti, case, porte di negozi, manifesti pubblicitari, insegne e graffiti sui muri scrostati) davanti ai quali camminano delle persone. L'acqua non si scorge mai, ma si intravede un vaporetto. Ogni inquadratura dura al massimo 13 secondi. Il montaggio ripete le stesse sequenze più volte, accompagnandole però con differenti colonne sonore: inizialmente un metronomo scandisce il passaggio delle persone (con occasionali toni acuti quando una di queste "impalla" la telecamera); segue poi una voce fuori campo che (in italiano) recita prima l'alfabeto e poi alcuni esempi di pronuncia; infine irrompono brani musicali (di Vivaldi). Evidente l'intento di studiare il rapporto fra immagini, suoni, movimento e montaggio, all'insegna del ritmo e della ripetizione. Greenaway stesso lo descriverà così: "Molto astratto, un tentativo di fare un film senza narrativa usando il numero 13, la struttura armonica che Vivaldi ha utilizzato nelle Stagioni. Realizzato a Venezia, combina immagini dalla Biennale – che rappresenta la cultura alta dell'arte in Europa – e del Festival del Cinema, in gran parte attraverso graffiti sulle case della città".

17 maggio 2017

Tacchi a spillo (P. Almodóvar, 1991)

Tacchi a spillo (Tacones lejanos)
di Pedro Almodóvar – Spagna 1991
con Victoria Abril, Marisa Paredes
**1/2

Visto in divx.

Rebeca (Victoria Abril), giovane annunciatrice televisiva che ha trascorso tutta la vita all'ombra della madre Becky (Marisa Paredes), celebre cantante ed attrice, ha sposato Manuel, giornalista e proprietario del network in cui lavora, ignorando che questi in gioventù è stato proprio una delle fiamme di Becky. Poco dopo che la madre è tornata in Spagna dopo una lunga assenza all'estero, riallacciando i rapporti con la figlia ma anche dando l'avvio a una nuova relazione con Manuel, l'uomo viene trovato ucciso con un colpo di pistola. Rebeca confessa in diretta tv di essere lei la colpevole, ma più tardi ritratta tutto... Con una struttura complessa che ricorre a flashback e "gioca" a ingannare lo spettatore, a metà fra il melodramma e il giallo, una delle pellicole di Almodóvar che riscosse maggior successo al botteghino nella prima parte della sua carriera. Pur meno anarchica dei film precedenti, contiene tutti gli elementi cari al regista spagnolo: torbidi rapporti familiari, riflessioni sulle passioni e i sentimenti, trasgressioni sessuali, rimandi nostalgici al cinema hollywoodiano classico (anche se si cita "Sinfonia d'autunno" di Bergman, la vera ispirazione è "Lo specchio della vita" di Douglas Sirk), il tutto in una struttura libera e accompagnata da una fotografia colorata e da una colonna sonora d'atmosfera. Indimenticabile Miguel Bosé, che recita in un triplo ruolo (fra cui il travestito Letal, che si esibisce nei locali cantando "Un año de amor" e "Piensa en mí" con la voce di Luz Casal). Da notare come Becky e Rebeca (madre e figlia) condividano in fondo lo stesso nome.

15 maggio 2017

I cancelli del cielo (M. Cimino, 1980)

I cancelli del cielo (Heaven's Gate)
di Michael Cimino – USA 1980
con Kris Kristofferson, Isabelle Huppert
***

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Wyoming, 1890: i potenti allevatori di bestiame della contea di Johnson, mal tollerando la presenza di coloni e agricoltori vicino alle loro terre, si coalizzano per dichiarare guerra ai poveri immigrati che accorrono in gran numero dall'Europa, accusandoli di furto. E assoldano una banda di mercenari per eliminare gli elementi più scomodi della comunità. Sulla death list figura anche la tenutaria del bordello locale, la francese Ella (Huppert), amata sia da James Averill (Kristofferson), ricco possidente divenuto il tutore della legge nella contea, sia da Nathan Champion (Christopher Walken), pistolero al servizio degli stessi allevatori. Film fluviale (219 minuti nella versione originale, poi ridotti a 149), epico e "maledetto", passato alla storia più per il suo clamoroso insuccesso che per i suoi indubbi meriti. L'ambizioso Cimino, reduce dai fasti de "Il cacciatore", aveva ricevuto carta bianca dalla United Artists, ma sforò ampiamente il budget e i tempi di lavorazione. E il flop al botteghino (la pellicola incassò solo 3,5 milioni di dollari dopo esserne costata 44) compromise di fatto la sua carriera, oltre a causare il fallimento della leggendaria casa di produzione (che fu venduta alla MGM, di cui divenne una sussidiaria). Le conseguenze furono a lungo termine: dopo "I cancelli del cielo", i grandi studios di Hollywood decisero di non lasciare più mano libera ai registi ma di controllare più da vicino le varie fasi della lavorazione, ponendo termine alla fase (durata tutti gli anni settanta) in cui autori come Scorsese, Bogdanovich e lo stesso Cimino avevano potuto girare con una libertà mai vista prima (Spielberg dovrà fondare una sua personale casa di produzione, la DreamWorks, per continuare a fare i film che voleva). Anche il genere western ne risentì, sparendo di fatto dai radar delle grandi produzioni (e ricomparendovi solo sporadicamente, più di un decennio dopo, per esempio con "Balla coi lupi" o "Gli spietati").

Snobbato dal pubblico e rivalutato solo in seguito, il film ha certo i suoi difetti. La durata è effettivamente estenuante (sequenze come l'introduzione al college, ambientata vent'anni prima, potevano essere ridotte: ma si sa, Cimino è innamorato della lunghezza delle proprie scene), la sceneggiatura non è sempre convincente, la caratterizzazione dei personaggi lascia alquanto a desiderare (molti sembrano francamente inutili – come il locandiere John Bridges, interpretato dal quasi omonimo Jeff Bridges – o poco significativi – come l'ex amico Billy Irvine, simbolo della codardia, interpretato da John Hurt). Questo vale in particolare per i cattivi, le cui motivazioni sono schematiche e i comportamenti generici. Ma il motivo per cui la pellicola fu ferocemente attaccata dalla critica americana è probabilmente ideologico, visto che il film lancia "un attacco frontale al Sogno Americano", rappresentando in negativo i ricchi imprenditori e proprietari terrieri, forti per di più di elevati appoggi politici, e in positivo i miseri e gli umili che cercano solo di sopravvivere ("Sta diventando pericoloso essere poveri in questo paese", commenta uno di loro). La questione politica si fa esplicita nel momento in cui uno degli agricoltori accusa così i ricchi allevatori: "Si oppongono a qualsiasi iniziativa che migliori la situazione in questo paese, o che tenti di creare qualcosa di più del pascolo del bestiame a favore degli speculatori della costa orientale. Hanno portato avanti l'idea che i poveri non hanno voce in capitolo nelle questioni di questo paese". Cinematograficamente parlando, il film è sontuoso nell'idea e nella realizzazione, grazie anche alla fotografia di Vilmos Zsigmond (la polvere sollevata, che satura l'aria, è la caratteristica più evidente di molte scene, in particolare la battaglia finale). La colonna sonora di David Mansfield è integrata dal tema ricorrente del "Bel Danubio blu": dal valzer rapido e orgiastico nei cortili di Harvard alla versione lenta che si ode sul campo di battaglia. Nel cast anche Sam Waterston, Brad Dourif e Joseph Cotten. Walken e Bridges avevano già recitato per Cimino nei suoi due film precedenti.

13 maggio 2017

Alien: Covenant (Ridley Scott, 2017)

Alien: Covenant (id.)
di Ridley Scott – USA 2017
con Michael Fassbender, Katherine Waterston
*1/2

Visto al cinema Uci Bicocca.

L'equipaggio della nave spaziale Covenant, in missione di colonizzazione verso il pianeta Origae-6, riceve un misterioso segnale di origine umana da un vicino pianeta e decide di sbarcare per verificarne la provenienza. Qui incontrerà l'androide David (Fassbender), unico sopravvissuto della missione Prometheus, che nei dieci anni da allora trascorsi ha lavorato per modificare geneticamente la razza di predatori alieni creata dagli "ingegneri", rendendole creature sempre più perfette e letali... Secondo – dopo "Prometheus", appunto – dei prequel pensati da Scott per svelare le origini degli alieni apparsi per la prima volta nel suo leggendario film del 1979. E come nel caso dei prequel di "Star Wars", forse non ce n'era bisogno. Il regista ha dichiarato di «essere rimasto stupito che nessuno, sviluppando i sequel di "Alien", avesse voluto rispondere a una domanda fondamentale: chi ha creato quei mostri, e perché». Evidentemente, la domanda non era così importante. Penso che nemmeno H.R. Giger, disegnatore degli xenomorfi originali, si fosse posto la questione, e a ben vedere: gli alieni fanno paura perché diversi, letali e mostruosi, e non perché dietro di loro c'erano degli esseri che giocavano a fare le divinità. Solo in parte meno pretenzioso del film precedente, "Covenant" si rivela dunque una pellicola sostanzialmente inutile, che ripropone un canovaccio molto simile a quello del leggendario prototipo (c'è persino il personaggio femminile cazzuto, che lotta in canottiera contro il mostro, e anche il computer di bordo chiamato Mother). Ma a mancare sono il mistero, la tensione e la paura: proprio perché ci si trova di fronte a situazioni già viste e già ampiamente sperimentate in passato, non scatta mai la sensazione di orrore o di claustrofobia che persino i sequel riuscivano a tratti a comunicare, e le scene d'azione si sviluppano con il pilota automatico. In più, abbiamo una serie di personaggi davvero stupidi, che fanno in continuazione le scelte più idiote possibili, e ai quali è francamente difficile affezionarsi. Il peggiore di tutti, anche come caratterizzazione, è il capitano "con la fede" interpretato da Billy Crudup. La battaglia di Fassbender con sé stesso (oltre a David, interpreta infatti anche Walter, il sintetico a bordo del Covenant) è il pezzo forte della pellicola, che per il resto è da ricordare solo per la scena iniziale (con Guy Pearce nei panni di Weyland, una sequenza che forse doveva andare in "Prometheus" e che è stata dirottata qui) e per il colpo di scena finale (peraltro telefonato). La sceneggiatura fa uscire di scena in maniera piuttosto brusca sia Elizabeth Shaw (il personaggio interpretato da Noomi Rapace in "Prometheus") che gli "ingegneri": ma pare che il prossimo capitolo della franchise, intitolato probabilmente "Alien: Awakening", fungerà proprio da raccordo fra il film precedente e questo. Infine, una considerazione: nel 2012 "Prometheus" aveva puntato molto sul 3D (con polemiche sulla scarsa quantità di copie diffuse in versione regolare), mentre "Covenant" vi rinuncia completamente. Un ulteriore conferma che il fenomeno delle tre dimensioni si è già sgonfiato, rimanendo confinato a una manciata di blockbuster fracassoni (in particolare le pellicole Disney e Marvel).

11 maggio 2017

Guardiani della galassia Vol. 2 (James Gunn, 2017)

Guardiani della galassia Vol. 2 (Guardians of the Galaxy Vol. 2)
di James Gunn – USA 2017
con Chris Pratt, Zoë Saldana
**

Visto al cinema Orfeo, con Sabrina e Sabine.

Secondo episodio delle avventure spaziali di Star-Lord, Gamora, Drax, Rocket e Groot, che fornisce – se possibile – un divertimento ancora più infantile del precedente, fra umorismo predigerito, battute scurrili, battaglie fracassone e dinamiche familiari o di gruppo (qui a prevalere c'è il tema del rapporto fra padri e figli, portato avanti dal primo film). Peter Quill viene contattato da Ego, misteriosa entità semi-divina (un "Celestiale": non ricordavo che fosse tale nei fumetti...) che afferma di essere suo padre. La forma umana di Ego è solo una proiezione: in realtà di tratta di un pianeta vivente, che intende sfruttare i poteri latenti del figlio per espandersi fino a inglobare l'intero universo. A lui si opporranno i nostri eroi, aiutati stavolta da alleati che nella pellicola precedente erano antagonisti (il pirata Yondu, padre adottivo di Peter; Nebula, la spietata sorella di Gamora) e dalla new entry Mantis (ritratta in versione più ingenua e innocente che nei comics), mentre fra gli avversari ci sono i Sovereign, razza di creature dorate e perfette (sembrano uscire da uno spot di Christian Dior), ma che spesso sono utilizzare come comic relief. Le dinamiche fra i personaggi e alcuni occasionali momenti di approfondimento emotivo (soprattutto nella seconda parte) salvano la pellicola dal rischio di essere un baraccone di effetti speciali e poco più. Il cast è praticamente lo stesso del primo film (Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista, Michael Rooker, Karen Gillan), con in più Kurt Russell (Ego) e Pom Klementieff (Mantis). Comparsate per Sylvester Stallone (il capo dei Ravager), Ving Rhames e Michelle Yeoh, camei per Howard il papero e per Stan Lee (in compagnia degli Osservatori). Groot compare in versione "mignon", essendosi rigenerato da zero alla fine della precedente pellicola. Kraglin, l'unico membro fedele della ciurma di Yondu, è interpretato da Sean Gunn, fratello del regista. Nella colonna sonora spiccano "Brandy" dei Looking Glass e "Father and Son" di Cat Stevens (che una lacrimuccia la fa scendere sempre). Il "Vol. 2" nel titolo del film fa riferimento alle compilation di canzoni anni ottanta che Peter e i suoi compagni utilizzano come sottofondo musicale delle proprie imprese. Nel controfinale si preannuncia l'arrivo di Adam Warlock.

10 maggio 2017

Rio das Mortes (R. W. Fassbinder, 1971)

Rio das Mortes (id.)
di Rainer Werner Fassbinder – Germania 1971
con Hanna Schygulla, Michael König, Günther Kaufmann
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Gli amici Mike (König) e Günther (Kaufmann) sognano da sempre di andare in Perù. Per racimolare il denaro necessario, visto che i loro umili lavori non sono sufficienti (uno è un piastrellista, l'altro un venditore porta a porta), Mike non esita a vendere la sua automobile e a mandare all'aria il matrimonio con Hanna (Schygulla), ma il denaro non basta ancora. Ingenui e sprovveduti, proveranno diverse strade senza successo (chiedere un prestito per avviare laggiù una fattoria o una piantagione di cotone, aggregarsi a una spedizione scientifica), prima di trovare una ricca sciroccata disposta a finanziarli... Con un cast formato dai soliti membri dell'Antiteater, Fassbinder (che fa una breve apparizione nella scena in cui balla "Jailhouse Rock" con Hanna Schygulla) realizza un film per la tv sul tema del conflitto fra il desiderio di evadere da un'esistenza noiosa attraverso la realizzazione dei sogni infantili (rappresentati dall'esotico Perù, che i due protagonisti conoscono soltanto attraverso mappe di fantasia e la loro immaginazione, fatta di templi Maya nella giungla, uccelli paradisiaci e indios nudi) e la dura realtà, una società composta da severi datori di lavoro, concreti uomini d'affari, istituzioni che affidano le proprie scelte a un computer ("Potremmo anche scegliere da soli, ma... è il progresso"). E in mezzo c'è la bella Schygulla, femminista esclusa dai progetti maschili e testimone delusa del crollo del proprio mondo (Mike è talmente concentrato sul viaggio da ignorarla completamente). Il soggetto nasce da un'idea di Volker Schlöndorff. Nella realtà Rio das Mortes si trova in Brasile, non in Perù, a sottolineare l'assoluta ignoranza dei due protagonisti sulla destinazione del loro viaggio.

8 maggio 2017

Looper (Rian Johnson, 2012)

Looper - In fuga dal passato (Looper)
di Rian Johnson – USA 2012
con Joseph Gordon-Levitt, Bruce Willis
**1/2

Visto in divx.

Un'organizzazione criminale del futuro si sbarazza dei propri nemici inviandoli indietro nel tempo di trent'anni e facendoli uccidere da sicari chiamati "Looper". Il nome deriva dal fatto che, quando il loro contratto viene terminato, essi sono costretti ad assassinare anche sé stessi da vecchi, chiudendo così il loop (il cerchio). Ma il vecchio Joe (Willis) non ci sta a farsi ammazzare dalla propria controparte giovane, anche perché intende trovare il bambino che nel futuro diventerà il terribile Sciamano, il capo della criminalità organizzata che ha fatto uccidere sua moglie, per eliminarlo prima che sia troppo tardi... Al suo terzo film, Johnson (anche sceneggiatore) si dà alla fantascienza, genere che continuerà a frequentare nell'imminente "Star Wars: Gli ultimi Jedi", e imbastisce una storia di paradossi temporali che – come tutte – rischia di avere poco senso se ci si pensa troppo (gli stessi personaggi, a un certo punto, ironizzano sul fatto che sia meglio non parlarne, altrimenti "ci stiamo tutto il giorno e ci ritroviamo a fare diagrammi con le cannucce"). La trovata è quella di ammettere che ogni cambiamento nel passato si ripercuota immediatamente sul futuro (o sulle persone che ne provengono), modificando la realtà "in diretta" (i cattivi possono torturare la versione giovane di un personaggio, e quella vecchia vedrà apparire su di sé le cicatrici di tali ferite; l'aspetto più interessante è che anche le memorie possono cambiare istantaneamente). Se lo spunto di partenza è intrigante, il film soffre di scarso equilibrio: dopo soli otto minuti ha già raccontato quasi tutto quello che aveva da dire, ed è poi costretto a dilungarsi in sequenze dal respiro più convenzionale (tutta la parte nella fattoria), dando l'impressione di non sapere come riempire la pellicola, oltre a sfiorare il plagio di "Terminator" (con il twist che qui è il protagonista a dare la caccia ai bambini). Fra i vari temi introdotti ci sono la telecinesi (il 10% della popolazione umana ha questo potere) e il rapporto fra giovani e vecchi (nel dialogo con il sé stesso di trent'anni più tardi, Joe dice: "Questa è la mia vita di adesso, tu hai avuto la tua. Quindi fai come tutti gli altri vecchi: muori e levati dalle palle!"; sembra quasi un dibattito sulle pensioni!). Gordon-Levitt, già protagonista del film d'esordio di Johnson ("Brick"), è truccato in modo tale da assomigliare a Bruce Willis da giovane. Nel cast anche Emily Blunt, Paul Dano, Jeff Daniels e Piper Perabo.

7 maggio 2017

La banda del trucido (Stelvio Massi, 1977)

La banda del trucido
di Stelvio Massi – Italia 1977
con Tomas Milian, Luc Merenda
*1/2

Visto in divx.

Sequel de "Il trucido e lo sbirro", il film che aveva introdotto il personaggio di Er Monnezza. Il regista della prima pellicola, Umberto Lenzi, rimase deluso dal fatto che Milian avesse scelto di farsi dirigere da Massi, ma lo stesso anno realizzò a sua volta un proprio sequel, "La banda del gobbo". Pur restando un poliziottesco con tutti i crismi (per lunghi tratti il vero protagonista è il commissario Ghini, interpretato da Luc Merenda, a capo dell'unità anticrimine dopo che un suo collega è rimasto ucciso in un attentato), ambientato nel sottobosco della criminalità romana, il film comincia a spostare i toni del personaggio sul versante della commedia, rendendolo protagonista di una serie di scenette di vita "familiare", slegate da tutto il resto, che francamente sembrano improvvisate e lasciano il tempo che trovano. Monnezza, infatti, ha apparentemente abbandonato il crimine per aprire un ristorante ("Alla pernacchia", dove si accolgono i clienti a suon di parolacce), e ha pure un figlioletto, "Monnezzino", che è costretto ad accudire perché la madre è sempre assente per recitare in scalcinati film demenziali (qua e là non mancano frecciatine al cinema italiano: vedi la ragazza di Ghini che, invitata al cinema, replica: "Purché sia un film divertente, e non un orribile poliziesco all'italiana"). Nel frattempo, però, addestra all'arte del borseggio un gruppo di giovani taccheggiatori (la banda del titolo), molti dei quali abbastanza negati. La sceneggiatura è sfilacciata ed episodica, con i due protagonisti che non si incontrano praticamente mai, se non brevemente nel finale, quando Monnezza entra in scena di persona per vendicare l'amico Ranocchia (Paolo Bonetti), uno dei suoi protetti, ucciso dal siciliano Belli (Elio Zamuto), rapinatore senza scrupoli a cui Ghini dà da tempo la caccia. Nel cast anche Franco Citti, Mario Brega, Massimo Vanni e Nicoletta Piersanti. Milian, come sempre doppiato da Ferruccio Amendola, ha scritto da sé le sue battute, particolarmente sboccate. Le musiche di Bruno Canfora sono riciclate dal film precedente.

5 maggio 2017

Lo specchio (Jafar Panahi, 1997)

Lo specchio (Ayneh‎‎)
di Jafar Panahi – Iran 1997
con Mina Mohammadkhani
***

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

All'uscita dalla scuola elementare, la piccola Mina scopre che la mamma non è venuta a prenderla. Indecisa sul da farsi, la bambina sceglie infine di tornare a casa da sola, pur avendo un braccio ingessato e una cartella pesante. Immersa nel traffico e nella confusione cittadina, chiede aiuto ai passanti e finisce col salire sull'autobus sbagliato... Ma quella che sembrava una delle tante pellicole iraniane con protagonisti bambini (un metodo per eludere la censura che lo stesso Panahi aveva utilizzato nel suo film d'esordio, "Il palloncino bianco"), prende una piega del tutto inaspettata quando la piccola protagonista, dopo 38 minuti di film, guarda all'improvviso in camera ed esclama, con la sua vocetta stridula: "Non voglio più recitare!". È un momento chiave. L'inquadratura si amplia e vediamo il regista Panahi e tutta la troupe, presi alla sprovvista, mentre la bambina si toglie il falso gesso che aveva al braccio e scende dall'autobus. Panahi ordina allora al cameraman di continuare a filmarla di nascosto e da lontano, approfittando del fatto che Mina ha ancora addosso il microfono (anche se i suoni, a seconda della distanza, vanno e vengono: a volte abbiamo le immagini senza audio, a volte il contrario). Premesso che quello metacinematografico è a sua volta un filone assai importante all'interno del cinema iraniano (si pensi a "Close Up" e a "Sotto gli ulivi" di Kiarostami, o a "Pane e fiore" di Mohsen Makhmalbaf), questo film rappresenta forse un punto di non ritorno. E poco importa sapere se si tratti di di un vero incidente di percorso o di una messinscena (come tutto lascia immaginare): anche quando si passa dalla "finzione" alla "realtà" la trama del film non cambia, visto che abbiamo sempre la storia di una bambina che torna a casa da sola, con tanto di scene simili (la richiesta di informazioni ai passanti, la telefonata a casa). Ed ecco che si spiega il titolo: la finzione si "specchia" nella realtà (così come gli adulti si specchiano nei bambini). Da notare la grande attenzione al sonoro, con l'audio (i rumori del traffico, dei venditori ambulanti, la radiocronaca della partita di calcio che accompagna tutto il cammino della protagonista, i discorsi dei viaggiatori all'interno del taxi) che a tratti sovrasta per importanza le immagini (non mancano comunque sequenze visivamente notevoli, come quella d'apertura che ci illustra a 360 gradi i quattro angoli dell'incrocio dove si trova la scuola di Mina). L'attenzione critica alla rottura del "quarto muro" non dovrebbe comunque far passare in secondo piano i contenuti del film: nonostante quella che sembra una trama fin troppo semplice e banale, la sceneggiatura riesce a affrontare temi importanti sulla società iraniana (per esempio il dialogo fra i passeggeri nel taxi a proposito del ruolo della donna, o i lamenti dell'anziana sull'autobus), così come ad mostrare aspetti della collettività e della solidarietà (le interazioni di Mina con i vari passanti cui chiede aiuto). Vincitore del Pardo d'Oro a Locarno. La piccola attrice è la sorella minore di Aida Mohammadkhani, protagonista de "Il palloncino bianco". I futuri lavori di Panahi, e in particolare quelli girati clandestinamente dopo il suo arresto e il divieto di realizzare altri film, approfondiranno sempre di più il tema del rapporto fra realtà e finzione.

3 maggio 2017

Big Man Japan (Hitoshi Matsumoto, 2007)

Big Man Japan (Dai-nipponjin)
di Hitoshi Matsumoto – Giappone 2007
con Hitoshi Matsumoto, UA [Kaori Shima]
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Masaru (Matsumoto) appartiene a una famiglia i cui membri sono in grado di diventare "giganti" alti 30 metri se sottoposti a scariche elettriche ad alto voltaggio, e che da generazioni combattono, come veri e propri supereroi, i malvagi mostri che terrorizzano il Giappone. La popolazione, che è al corrente della loro esistenza, ne segue le imprese in tv come se si trattasse di lottatori di wrestling. Masaru, in particolare, è noto con il nome "Il re del dolore". Opera prima del folle comico Hitoshi Matsumoto (autore poi di "Symbol", uno dei film più assurdi che abbia mai visto), la pellicola è girata in gran parte sotto forma di mockumentary, con un intervistatore (che non vediamo mai in volto) intento a seguire il protagonista nella sua vita di tutti i giorni, indagando i suoi sentimenti e intervistando, oltre a lui, le persone che gli stanno accanto: parenti, vicini di casa, la manager (che gli procura gli sponsor i cui marchi esibisce sul corpo durante i combattimenti), ecc. L'attenzione si sposta così su problemi come il rapporto con la figlia, le questioni economiche legate al suo lavoro, e così via... Ne risulta un bizzarro e originale omaggio al filone dei film sui kaiju (mostri giganti, tipo Godzilla) e ai tokusatsu (le pellicole con effetti speciali, di solito supereroistiche), che però punta le sue carte su un umorismo sottotraccia e minimalista, talmente all'insegna del quotidiano e dell'understatement da risultare a tratti finanche noioso. A parte le occasionali scene in cui Masaru si trasforma (di solito recandosi in una centrale elettrica e sottoponendosi a uno strano rito religioso) per poi combattere mostri dai corpi grotteschi e deformi, sbucati fuori da nulla e "richiamati in cielo" dopo essere stati da lui sconfitti, la pellicola si trascina senza regalare particolari emozioni allo spettatore, anche se questi cerca di stare al gioco (condizione peraltro indispensabile per divertirsi). Fa eccezione l'assurdo e brusco finale, che rinuncia di colpo agli effetti digitali per fare ricorso ai più classici attori in costume (come da lunga tradizione del cinema fantastico giapponese), e nel quale Masaru viene aiutato a sconfiggere il suo nemico più forte da un demenziale gruppo di supereroi americani, la famiglia Justice. E qui il film assume decisamente i toni della parodia, né più né meno del "Getting any?" di Takeshi Kitano.