30 novembre 2016

Dietro lo specchio (Nicholas Ray, 1956)

Dietro lo specchio (Bigger than life)
di Nicholas Ray – USA 1956
con James Mason, Barbara Rush
*1/2

Visto in divx.

Per curare una rara forma di periartrite che gli causa forti dolori, all'umile insegnante Ed Avery (Mason) viene prescritta una cura sperimentale a base di cortisone. Ma l'abuso del farmaco comincia a cambiare la personalità dell'uomo, che si fa via via più arrogante, megalomane, iperattivo e violento, fino a manifestare istinti omicidi che mettono in pericolo la sua stessa famiglia... Ispirato a un articolo apparso sul "New Yorker", un melodramma sui rischi psicologici connessi all'abuso di farmaci (e di droghe). A parte la prova di Mason, inquietante come sempre, e la regia iperrealista di Ray, che gioca col formato panoramico, il technicolor e la fotografia di Joseph MacDonald, per il resto la pellicola appare sensazionalista e forzata. Le premesse sono portate avanti in maniera tutt'altro che sottile, attraverso una prolungata, ossessiva e ripetiva discesa negli abissi, con Ed che si trasforma in una versione distorta di sé stesso come un moderno Jekyll e Hyde, preso da manie di grandezza, da un fervore educativo (la perdita di freni inibitori lo porta ad avanzare idee anti-liberali) e religioso (finisce col credersi Abramo, che deve sacrificare il figlio come Isacco... "Ma Dio fermò Abramo", gli dice la moglie. "E Dio sbagliò!", risponde lui). Flop in patria, fu invece amato da Godard e dai critici francesi. Il titolo italiano fa riferimento al specchio dell'armadietto del bagno, dietro il quale Ed custodisce i farmaci, che quando viene rotto riflette un'immagine frantumata del suo volto. Barbara Rush è la patetica moglie Lou, Christopher Olsen è il figlio, Walther Matthau è l'amico Wally.

28 novembre 2016

Palle di neve (Jean-François Pouliot, 2015)

Palle di neve (Snowtime!, aka La guerre des tuques 3D)
di Jean-François Pouliot [e François Brisson] – Canada 2015
animazione digitale
**

Visto al cinema Plinius, con Sabrina.

Durante le vacanze invernali, i bambini di un villaggio fra le montagne, immerso in un paesaggio innevato, si dividono in due gruppi per una colossale battaglia a palle di neve. L'undicenne Luke, che per via della sua tromba è stato nominato capitano della sua squadra, guida i compagni all'assalto della fortezza di ghiaccio difesa da Sophie, sua coetanea da poco arrivata nel paese per le vacanze, e da una manciata di amici. Ma presto quello che è cominciato come un semplice gioco, all'insegna degli sfottò fra ragazzini, assume i connotati di una vera e propria guerra, con l'escalation degli armamenti (si passa da palle di neve a palle di ghiaccio o imbottite di vernice), i tradimenti, le infrazioni alle regole... fino a un tragico epilogo. Remake animato di un film dal vivo del 1984 ("Il cane che fermò la guerra"), rivolto sì a un pubblico infantile ma con un sottotesto pacifista che va ben oltre il semplice intrattenimento (siamo dalle parti, sia pure in versione più semplice ed edulcorata, de "Il signore delle mosche") e che fra gag, capitomboli e personaggi caricaturali parla dei paradossi dei conflitti bellici ("La guerra non è una ragione per farsi male!") e sfiora temi come l'amore, la perdita e il lutto. Affascinante la scenografia, con la neve che la fa da padrona in ogni inquadratura. Qualche dubbio sull'animazione digitale e sul ritmo della pellicola, che procede a tratti lenta e con alcuni tempi morti, prima dell'accelerazione finale. Da sottolineare la totale assenza di adulti (a parte il breve flashback del funerale del padre di Luke): oltre ai nostri protagonisti, che hanno dieci-undici anni, compaiono solo – in un ruolo da "Minions" – i bambini ancora più piccoli della prima elementare che vengono arruolati da Luke come "truppe d'assalto" nella carica finale al castello.

26 novembre 2016

Il cittadino illustre (G. Duprat, M. Cohn, 2016)

Il cittadino illustre (El ciudadano ilustre)
di Gastón Duprat, Mariano Cohn – Argentina 2016
con Oscar Martínez, Dady Brieva
***

Visto al cinema Palestrina.

Cinque anni dopo aver vinto il premio Nobel per la letteratura, l'acclamato scrittore argentino Daniel Mantovani – che vive ormai in Europa da quasi quarant'anni – si ritrova in una impasse creativa e sociale ("Ricevere un premio come questo mi ha trasformato in un monumento"). Quando gli arriva un invito proveniente dalla piccola cittadina di Salas – dove è nato e cresciuto, ma da cui è fuggito in gioventù per non farvi più ritorno – che vorrebbe celebrarlo come suo "cittadino illustre", decide impulsivamente di accettare. Il ritorno nel luogo d'origine, però, non sarà come aveva previsto. Anche perché l'intera sua opera (e in un certo senso tutta la sua identità) si è basata proprio sul rifiuto di quello che Salas rappresenta ("Io non sono mai riuscito a tornarvi, i miei personaggi non sono mai riusciti a partire"), e non tutti i suoi abitanti sono felici di come sono stati "rappresentati". E poi, si sa, nemo propheta in patria: se Mantovani, a Salas, ritrova vecchi (e nuovi) amici e amori, non mancheranno le situazioni imbarazzanti o paradossali e gli atti di ostilità che lo metteranno di fronte alla consapevolezza che "indietro non si torna". Proprio lui, portato per natura ad abbattere miti e istituzioni, così insofferente alle cerimonie ufficiali, scoprirà di essere diventato un mito da abbattere... Una corrosiva e cinica commedia dolce-amara che fa riflettere sulla natura dello scrittore e dell'artista (che da un lato non può che ispirarsi alla realtà, ma dall'altro deve inventare e ricreare i propri mondi), ma anche su tutto ciò che gli ruota attorno, dai fan ai media, dagli applausi all'invidia, dagli onori ai rancori. Ottima la sceneggiatura, arguta e intelligente, e straordinario il personaggio di Mantovani, intellettuale integralista e antiretorico nelle sue idee sul ruolo della cultura, sin dal discorso al momento della consegna del Nobel, che poi si rispecchia – in piccolo – in quello durante la premiazione del concorso di pittura, che finisce con l'indispettire i suoi concittadini quando non riesce più a celare il suo disprezzo verso la mediocrità di un mondo che sembra contento di non voler cambiare mai. Coppa Volpi a Venezia, a Oscar Martínez, per la miglior interpretazione maschile, mentre l'Argentina lo ha scelto come suo rappresentante agli Oscar per il miglior film straniero. Nella realtà, nessuno scrittore argentino ha mai vinto il Nobel: neppure Borges, citato un paio di volte durante la pellicola.

24 novembre 2016

L'asso nella manica (Billy Wilder, 1951)

L'asso nella manica (Ace in the hole, aka The big carnival)
di Billy Wilder – USA 1951
con Kirk Douglas, Jan Sterling
****

Visto in divx.

Lo spregiudicato giornalista Charles Tatum (uno straordinario Douglas, in una delle sue migliori prove), cacciato da numerose testate a causa del vizio del bere, si è ridotto a lavorare per un umile quotidiano di provincia, ad Albuquerque, ed è alla ricerca del colpo che lo farà diventare una celebrità. Trova la sua occasione quando un uomo, Leo Minosa (Richard Benedict), rimane sepolto da una frana mentre stava esplorando una grotta in cerca di manufatti indiani. Gli articoli di Tatum sull'accaduto e sui tentativi di salvataggio richiamano l'attenzione di tutto il paese, e la collina dove si trova Leo, nel bel mezzo del deserto, viene attorniata da un immenso "circo mediatico" (letteralmente!), compresi curiosi e imbonitori di ogni tipo (sorge persino un luna park!). Mentre le quotazioni di Tatum come giornalista salgono rapidamente alle stelle (aiutato dal corrotto sceriffo locale, che in cambio di buona pubblicità tiene lontani i cronisti rivali), le operazioni di salvataggio procedono volutamente a rilento per "prolungare" il più possibile l'attenzione sull'evento. A scapito del povero Leo... Cinicissima pellicola sulle distorsioni del giornalismo, la spettacolarizzazione della cronaca e la manipolazione delle emozioni del pubblico (e in quanto tale, quanto mai moderna e di attualità). Wilder (anche sceneggiatore e produttore: era la prima volta che riuniva in sé tutti e tre i ruoli, essendosi appena separato da Charles Brackett, suo partner creativo di lunga data) si ispirò a due casi di cronaca realmente accaduti: quello di Floyd Collins, rimasto sepolto nel 1925 in una cava di sabbia, che portò il cronista William Burke Miller a vincere il premio Pulitzer (citato anche da Douglas durante la pellicola), e quello della piccola Kathy Fiscus, che solo due anni prima (nel 1949) aveva calamitato l'interesse dell'intera nazione dopo essere caduta in un pozzo abbandonato (un caso del tutto simile alla tragedia di Alfredino). Nonostante il setting sia tutt'altro che urbano, il film è un vero e proprio noir, capace di mettere in mostra il lato più cinico, amorale e opportunista delle persone. Quasi tutti hanno da guadagnarci dalla sventura di Leo e dal prolungare il più a lungo possibile le operazioni di soccorso: non solo il giornalista e lo sceriffo, ma anche la moglie dell'uomo, Lorraine (Jan Sterling), che non lo ama e che vorrebbe fuggire lontano da lui, ma rimane sul luogo perché convinta da Tatum a recitare la parte della moglie affranta per guadagnare il più possibile dall'enorme afflusso di curiosi presso la tavola calda di famiglia ("Verranno qui e divoreranno tutto, emozioni e polpette"). Indicativo come il costo dell'accesso al sito archeologico passi dall'essere gratuito ad aumentare giorno dopo giorno. I rapporto fra i due, Tatum e Lorraine, è particolarmente aspro, conflittuale e distruttivo, ai limiti del codice Hays. Nel cast anche Robert Arthur (il giovane reporter Herbie) e Porter Hall (l'integerrimo direttore del giornale di Albuquerque). Non particolarmente amato alla sua uscita, ma Wilder lo riteneva il miglior film da lui girato. Piccola curiosità: la compagnia di assicurazioni per la quale lavora l'uomo intervistato alla radio è la stessa (fittizia) del protagonista de "La fiamma del peccato".

23 novembre 2016

La locanda della felicità (Zhang Yimou, 2002)

La locanda della felicità (Xìngfu shiguang, aka Happy times)
di Zhang Yimou – Cina 2002
con Zhao Benshan, Dong Jie
**

Rivisto in DVD.

L'attempato e spiantato Zhao, alla ricerca di una moglie, fa credere a una donna (Lifan Dong) di essere il direttore di un importante albergo: in realtà si tratta di un vecchio autobus abbandonato in un parco pubblico, che lui e l'amico Li hanno sistemato e ridipinto per offrire alle coppiette del parco un rifugio in cui "appartarsi". La donna accetta la sua corte, ma nel frattempo gli chiede di trovare un lavoro per la figliastra cieca Wu Ying, di cui vorrebbe sbarazzarsi. E Zhao, approfittando della sua cecità, la "assume" come massaggiatrice: peccato che la "sala massaggi" sia un ambiente fasullo, ricostruito nel capannone abbandonato di una vecchia fabbrica, e che i clienti della ragazza siano i suoi amici pensionati, che si presentano a turno e la pagano (dopo che Zhao ha finito i soldi) con pezzi di carta straccia. Naturalmente Wu Ying si accorge ben presto dell'inganno, ma anche lei continua a recitare la propria parte, per la felicità di tutti... Ispirata a un racconto di Mo Yan, una commedia con cui Zhang (dopo "Keep Cool") continua a raccontare la Cina contemporanea e le sue contraddizioni. Ma gli mancano l'incisività, la coerenza e la cattiveria necessaria: il risultato è leggero e nel migliore dei casi simpatico, per farsi un po' stucchevole nei momenti in cui la sceneggiatura vorrebbe calcare la mano sul pathos. Insoddisfacente il finale: sembra quasi che gli autori non sapessero come concludere la storia. Eccezionale Jie Dong (ballerina alla sua prima esperienza cinematografica) nel ruolo della ragazza cieca, abbandonata dal padre e maltrattata dalla matrigna, che trova negli inganni di Zhao quella considerazione e quell'affetto che le sono sempre mancati.

22 novembre 2016

Fantastic 4 (Josh Trank, 2015)

Fantastic 4 - I Fantastici Quattro (Fantastic Four)
di Josh Trank – USA 2015
con Miles Teller, Kate Mara
*1/2

Visto in divx.

Le due pellicole dei Fantastici Quattro dirette da Tim Story dieci anni prima avevano deluso gran parte dei fan e non avevano fatto sfracelli al botteghino: logico che, in pieno boom dei film sui supereroi, si tentasse di rilanciare la franchise ripartendo da zero. L'intenzione era quella di produrre un film meno camp, più realistico e drammatico. Il risultato è però fallimentare e lascia ancor più con l'amaro in bocca, facendo persino rivalutare gli "ingenui" lungometraggi precedenti. A differenza dei Marvel Studios stessi, che sembrano aver trovato la giusta ricetta per portare sullo schermo i propri character (un mix fra fedeltà al materiale originale, con tanto di strizzatine d'occhio ai fan di vecchia data, e un utilizzo consapevole dei meccanismi dell'intrattenimento cinematografico), la Fox pare incapace di sfruttare al meglio le serie di cui ha i diritti (le è andata bene con gli X-Men, è vero, ma malissimo con i FQ, Devil ed Elektra). In questo film, che è essenzialmente una lunghissima origin story, dei personaggi creati da Stan Lee e Jack Kirby non rimane niente se non i nomi e i superpoteri. Per il resto si tratta di figure del tutto irriconoscibili e, quel che è peggio, stereotipate e per nulla accattivanti: scienziatelli post-adolescenti senza personalità o spessore. Reed Richards (Miles Teller) è un giovane genietto che, insieme al compagno di scuola Ben Grimm (Jamie Bell), inventa un portale extradimensionale che attira l'attenzione della potente Baxter Foundation. Qui, assunto dal professor Franklin Storm per lavorare a una versione più estesa del portale, perfeziona l'invenzione insieme al recalcitrante Victor Von Doom (Toby Kebbell) e ai due figli dello stesso Storm, Johnny (Michael B. Jordan) e Susan (Kate Mara). Per potersi vantare di essere stati i primi a viaggiare in un'altra dimensione, i ragazzi decidono di provarla senza autorizzazione: ne usciranno trasformati in supereroi (tranne Victor che, impazzito, cercherà di distruggere il mondo). Il continuo ed esteso tradimento del setting e delle caratteristiche del fumetto (Johnny nero? Susan adottata? Destino con poteri e senza il background latveriano?) non è nemmeno il peggior difetto della pellicola: il film è semplicemente prevedibile nel suo sviluppo, piatto o implausibile a livello di caratterizzazioni, modesto come effetti speciali, privo di appeal e con attori mediocri e del tutto dimenticabili. Già cancellati, a quanto pare, i progetti di eventuali sequel. Il regista ha lamentato disaccordi con la produzione, che avrebbe cambiato il finale (e il tono generale del film) contro la sua volontà. È comunque davvero un peccato che al cinema non si riesca ad avere una versione decente di quelli che, storicamente, dovrebbero essere una delle colonne portanti dell'Universo Marvel.

20 novembre 2016

Agnus Dei (Anne Fontaine, 2016)

Agnus Dei (Les innocentes)
di Anne Fontaine – Francia/Polonia 2016
con Lou de Laâge, Agata Buzek
**1/2

Visto al cinema Arlecchino, con Marisa.

Nell'inverno del 1945, pochi mesi dopo la fine della guerra, una giovane dottoressa francese della Croce Rossa di stanza in Polonia viene segretamente chiamata in un convento isolato, dove numerose suore e novizie, che erano state violentate dai soldati sovietici, stanno per dare alla luce i loro figli. In un misto di vergogna, disonore e zelo religioso, le monache vorrebbero tenere nascosto al mondo il proprio stato: la dottoressa dovrà aiutarle a partorire in segreto, mentre ai bambini ci penserà la madre superiora, che li affida – o almeno così afferma – alle famiglie delle madri. Ma per alcune delle religiose il trauma è troppo grande: la fede viene messa in discussione, le regole cominciano a vacillare, e ai problemi di salute si sommano i pericoli del mondo esterno (le minacce sovietiche di repressione della chiesa cattolica). Ispirato a una storia vera, un film dove il soggetto difficile e scabroso è forse la cosa più interessante. I conflitti personali e morali dei vari personaggi non sono banalizzati grazie a una messinscena rigorosa, che punta molto sull'intensità dei primi piani e su ambienti austeri e monocromatici (belle le scene delle monache nei paesaggi innevati), ma alcune caratterizzazioni – a partire dalla protagonista – sono poco più che funzionali al racconto, e la sceneggiatura – che pure evita le trappole della retorica (affiancare temi come la devozione religiosa, il trauma della violenza subita e il senso di maternità non era certo facile) – mi è parsa a tratti un po' semplicistica. Agata Kulesza è la madre superiora, Vincent Macaigne è il medico ebreo.

18 novembre 2016

Voglio la testa di Garcia (Sam Peckinpah, 1974)

Voglio la testa di Garcia (Bring me the head of Alfredo Garcia)
di Sam Peckinpah – USA 1974
con Warren Oates, Isela Vega
***

Rivisto in divx.

Un ricco e potente haciendero (Emilio Fernández), furioso perché la sua giovane figlia è stata messa incinta da uno dei suoi lavoranti, offre un milione di dollari a chiunque gli porterà la testa dell'uomo in questione, Alfredo Garcia, che nel frattempo si è dato alla macchia. Molti si lanciano sulle sue tracce, setacciando l'intero Messico: ma a scoprire che Garcia è già morto in un incidente stradale è Bennie (Warren Oates), un americano in cerca di fortuna che si guadagna da vivere suonando il piano in un bar di terz'ordine di Città del Messico, al quale alcuni dei "cacciatori" promettono diecimila dollari se porterà loro la testa. In compagnia della sua donna Elita (Isela Vega), che a suo tempo aveva avuto una tresca proprio con Alfredo, Bennie si mette dunque in viaggio verso il cimitero di provincia dove Garcia è sepolto, con l'intenzione di dissotterrarne e decapitarne il cadavere. Ma ignora di essere seguito da due sicari che vogliono impadronirsi a loro volta della testa... Scritto insieme all'amico Frank Kowalski, interpretato dal fedele Oates (di solito caratterista) e ambientato in un Messico polveroso e ancestrale, realistico e lontano dai cliché hollywoodiani, il decimo lungometraggio di Peckinpah è un "piccolo" film indipendente, al tempo stesso uno dei suoi lavori più personali (fu una delle poche volte che ebbe il totale controllo sul montaggio finale), più controversi e più violenti, permeato da un cinismo dissacrante e fatalista, con un mood a metà fra i poliziotteschi italiani e il futuro cinema tarantiniano. Pur essendo già morto quando il film comincia, la testa di Garcia (avvolta in un fagotto: di lui non vediamo mai il volto, se non in fotografia) passa di mano in mano provocando stragi e spargimenti di sangue fino all'apocalittico finale, simbolo dell'avidità e del potere che distrugge tutto (a partire dai sentimenti) e non produce nulla di buono. Stroncato alla sua uscita, il film è naturalmente diventato – come tutto il cinema del regista – un oggetto di culto. Nel cast anche Robert Webber, Gig Young e Helmut Dantine. In un piccolo ruolo (uno dei due motociclisti violentatori) si riconosce Kris Kristofferson.

16 novembre 2016

Dave - Presidente per un giorno (Ivan Reitman, 1993)

Dave - Presidente per un giorno (Dave)
di Ivan Reitman – USA 1993
con Kevin Kline, Sigourney Weaver
**1/2

Rivisto in TV, con Sabrina.

Il presidente degli Stati Uniti Bill Mitchell (Kevin Kline) ha un collasso mentre si "intrattiene" con una segretaria, e il capo dello staff della Casa Bianca Bob Alexander (Frank Langella), che nutre a sua volta ambizioni politiche, pensa bene di tenere segreta la cosa e di sostituirlo con un sosia perfetto, l'impersonatore Dave Kovic (sempre Kline). Questi dovrebbe limitarsi a fare il fantoccio, controllato dietro le quinte da Bob: ma si appassiona all'incarico e inizia a macinare idee, rivoltando come un calzino la politica corrotta del vero Mitchell sul welfare. Lentamente sia l'opinione pubblica che la first lady Ellen (Sigourney Weaver) cominciano ad essere conquistati dal suo misterioso cambiamento... Fra un film di Frank Capra e una rilettura de "Il prigioniero di Zenda" (o, se vogliamo, di "Kagemusha"), una favoletta a sfondo politico con venature romantiche (il coinvolgimento della first lady, che si innamora del sosia dopo che i rapporti con il vero marito si erano raffreddati, fa pensare al celebre caso seicentesco di Martin Guerre, ma anche al furto dell'identità di Kosaku Kawajiri da parte di Yoshikage Kira nel manga "Le bizzarre avventure di JoJo"). La sceneggiatura di Gary Ross è ingenua ma gradevole, con un mood e una leggerezza molto anni trenta. L'estroso Kline ruba la scena a tutti, ma è indimenticabile Langella nei panni del cattivo. Nel cast anche Kevin Dunn (il capo della comunicazione), Ving Rhames (la guardia del corpo), Laura Linney (la segretaria) e Ben Kingsley (il vicepresidente), più varie celebrità nel suolo di sé stessi (fra gli altri Arnold Schwarzenegger, Larry King, Jay Leno, Oliver Stone, più diversi senatori). Chi ha scelto il sottotitolo italiano probabilmente aveva visto solo i primi dieci minuti.

14 novembre 2016

Maelström (Denis Villeneuve, 2000)

Maelström (id.)
di Denis Villeneuve – Canada 2000
con Marie-Josée Croze, Jean-Nicolas Verreault
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Depressa dopo un aborto, in crisi con il lavoro, sotto pressione per essere la "figlia di una celebrità", la venticinquenne Bibiane Champagne (Croze) è in piena fase autodistruttiva. Una sera, mentre torna a casa ubriaca dopo aver cercato inutilmente sfogo in discoteca, investe e uccide con la sua auto un uomo, l'anziano pescatore Karlsen. Quando se ne rende conto, presa dai sensi di colpa, medita addirittura il suicidio. Ma non appena incontrerà il figlio del defunto, Evian (Verreault), finirà con l'innamorarsene e trovare in lui una nuova ragione di vita... A rendere particolare il secondo lungometraggio di Villeneuve non è tanto la trama in sé (che pure ha diversi punti in comune con il precedente, la commedia romantica "Un 32 août sur terre", al punto da sembrarne quasi una rilettura più cupa e stratificata) quanto la complessa simbologia: a partire dal titolo, il termine di origine norvegese che indica i vortici oceanici. Qui il "vortice" è quello della vita e della morte, che lega il destino dei personaggi attraverso le misteriose concatenazioni del caos (si pensi per esempio alla sequenza che, a partire da un'ordinazione al ristorante da parte della protagonista e della sua amica, porta alla scoperta del cadavere dell'uomo investito). Elemento ricorrente è il mare, con le sue onde, la schiuma, i vortici appunto, ma anche i pesci e le creature acquatiche. Karlsen, ex marinaio, ora lavora in un mercato ittico, mentre suo figlio Evian è un sommozzatore. Bibi cerca di cancellare la propria colpa buttando la sua automobile in fondo al porto. E non mancano numerose suggestioni "norvegesi" (dai continui riferimenti al folklore scandinavo, alla provenienza stessa di Evian e di suo padre). Come bizzarra cornice, l'intera vicenda è raccontata agli spettatori da un pesce parlante, "torturato" in una dimensione ultraterrena da un pescatore infernale. La trovata dona alla pellicola un'impronta da fiaba dark, che non stona con la sua qualità surreale e a tratti persino semi-umoristica, tongue in cheek, come sottolinea la colonna sonora (dove spiccano le canzoni "Les deux guitares" ed "Et pourtant" di Charles Aznavour: ma ci sono anche Tom Waits ed Edward Grieg). Un film strano, dunque, pretenzioso (si parla della condizione umana...) e affascinante al tempo stesso, che ha portato Villeneuve all'attenzione della critica ma anche a una sorta di impasse creativo, tanto che ci vorranno ben nove anni prima di vedere un suo nuovo lungometraggio (del tutto diverso stilisticamente: "Polytechnique", semi-documentaristico e in bianco e nero).

13 novembre 2016

Funny games (Michael Haneke, 2007)

Funny Games (id., aka Funny Games U.S.)
di Michael Haneke – USA 2007
con Naomi Watts, Tim Roth
**1/2

Visto in divx.

Nel realizzare il remake americano del suo film "Funny games" del 1997, questa volta con attori di lingua inglese per poter raggiungere più facilmente il pubblico statunitense, Haneke sceglie di non cambiare assolutamente nulla rispetto all'originale. Noto anche come "Funny Games U.S.", il lungometraggio è infatti un rifacimento del tutto identico al film di dieci anni prima, girato scena per scena negli stessi set e a partire dallo stesso storyboard. Le uniche differenze, davvero minime, riguardano alcuni passaggi nei dialoghi, visto che sono trascorsi dieci anni (al posto del telefono cordless c'è ora un cellulare) e che la storia si svolge negli Stati Uniti (dove tutti conoscono a memoria il numero delle emergenze: ecco perché George cerca di chiamare la polizia anziché un parente). Per il resto, inquadrature, tempi e scansione della pellicola riproducono 1:1 il film originale, mantenendone la carica disturbante e provocatoria (anzi, visto che il tema del film è quello della fruizione della violenza nei media da parte degli spettatori, rivolgersi a un pubblico americano calza ancora più a pennello). Forse gli attori, pur essendo bravi, sono un po' impostati e dunque meno efficaci di chi li aveva preceduti. Guardando i due film uno dopo l'altro, si ha la sensazione di assistere per due sere consecutive al medesimo spettacolo teatrale con cast differenti (qui i due "intrusi" sono interpretati da Michael Pitt e Brady Corbet). E anche la colonna sonora è identica. A cambiare è stata l'accoglienza di pubblico e critica, complessivamente positiva per il prototipo e tendenzialmente negativa per il remake. Si spiega solo con i dieci anni trascorsi fra l'uno e l'altro, che hanno fatto svanire l'effetto shock e la sorpresa? O forse l'operazione stessa di rifare un film tale e quale è stata percepita come inutile? Magari c'entra di più l'esposizione e il pubblico di riferimento: il film del 1997 era una pellicola europea, "d'autore", ed era più facile accettarne la riflessione sul ruolo della violenza come forma di intrattenimento nelle opere di finzione; quello del 2007 ha raggiunto (almeno potenzialmente) spettatori più mainstream, meno inclini a comprendere i livelli di lettura sottostanti o a recepire con benevolenza quella che è una sostanziale critica alla natura stessa dei film di exploitation (senza contare che la pellicola ne infrange parecchie convenzioni, come l'aspettativa che i "buoni" riescano a salvarsi e i "cattivi" vengano puniti).

12 novembre 2016

Coffee and cigarettes (Jim Jarmusch, 2003)

Coffee and cigarettes (id.)
di Jim Jarmusch – USA 2003
con Roberto Benigni, Cate Blanchett
**

Rivisto in divx.

Tutto aveva avuto inizio con un cortometraggio girato da Jarmusch nel 1986, intitolato appunto "Coffee and cigarettes", che vedeva i comici Roberto Benigni e Steven Wright seduti al tavolino di un bar, intenti a bere caffè, a fumare sigarette e a scambiarsi dialoghi surreali. Seguirono due altri episodi, nel 1989 ("Memphis Version", con Cinqué e Joye Lee, fratelli minori di Spike, e Steve Buscemi) e nel 1992 ("Somewhere in California", con Tom Waits e Iggy Pop), prima che il regista scegliesse di raccoglierli, insieme ad altri otto girati appositamente, in questo lungometraggio antologico. I fili conduttori dei vari segmenti sono gli stessi del corto originale: attori e personaggi dello spettacolo impegnati in conversazioni nonsense davanti ad abbondanti tazze di caffè e a pacchetti di sigarette in quantità industriale. Alcuni episodi sono più elaborati (quello in cui Cate Blanchett interpreta sia sé stessa che sua "cugina" Sherry, o quello con Alfred Molina e Steve Coogan che scoprono di essere lontani parenti), altri sono chiaramente improvvisati, e un paio prevedono anche l'intervento di un cameriere (interpretato a sua volta da qualche celebrità, come Steve Buscemi o Bill Murray), ma tutti condividono la medesima estetica (la fotografia in bianco e nero, la desolazione generale dei locali, il pattern a scacchiera dei tavolini) e la poetica di malinconica marginalità che caratterizza tanti film di Jarmusch. Anche se alcuni argomenti di conversazione (le invenzioni di Tesla, parentele vere o presunte) ritornano da una scena all'altra, la sensazione quasi sempre è quella di assistere a pause della vita quotidiana e a momenti fondamentalmente fini a sé stessi. La versione doppiata in italiano, in ogni caso, toglie gran parte del divertimento (soprattutto nel caso di Benigni).

10 novembre 2016

Tempeste sull'Asia (V. Pudovkin, 1928)

Tempeste sull'Asia (Potomok Chingis-Khana)
di Vsevolod Pudovkin – URSS 1928
con Valéry Inkijinoff, I. Dedintsev
**1/2

Visto in divx.

Un giovane cacciatore di pellicce della Mongolia si ribella all'avidità dei mercanti europei, che sfruttano lui e la sua gente, e si unisce ai partigiani che lottano sulle montagne contro le forze di occupazione inglesi. Arrestato, sta per essere fucilato: ma il comandante britannico scopre che il ragazzo è nientemeno che un diretto discendente di Gengis Khan e decide di metterlo a capo del paese, come sovrano "fantoccio", per sfruttare l'influenza che il nome dell'antico condottiero esercita ancora sulla popolazione. Il giovane saprà però riacquistare la propria dignità e guiderà il popolo contro gli oppressori inglesi, spazzandoli via come una tempesta (simbolicamente e letteralmente, nelle ultime, spettacolari scene del film). Il terzo lungometraggio della cosiddetta trilogia sulla "presa di coscienza" di Pudovkin è senza dubbio il più visionario e a più ampio respiro: quasi una fiaba epica, dove la narrazione è meno attenta alla precisione storica (nella realtà gli inglesi non hanno mai invaso la Mongolia) e più al sentimento collettivo post-rivoluzionario (i partigiani mongoli combattono su impulso e in nome dei soviet). A tratti affascinante nella sua qualità antropologica e documentaristica (si pensi all'incipit che mostra la vita dei cacciatori mongoli, e che ricorda "Nanuk l'eschimese" di Flaherty; alla lunga sequenza della visita del comandante inglese al tempo buddista, con le cerimonie e i balli in onore della reincarnazione del Lama; e in generale agli scenari degli altipiani, dei deserti e della tundra dell'Asia Centrale), il film soffre forse per la caratterizzazione – tipicamente da film di propaganda – di diversi personaggi (a partire dagli inglesi, anche se non tutti sono cattivi: il soldato incaricato di fucilare il protagonista, per esempio, mostra una crisi di coscienza, come il cacciatore di "Biancaneve"). A questo proposito, il montaggio – da sempre il punto di forza del cinema di Pudovkin, insieme alla potenza delle immagini – si sbizzarrisce in sequenze come quella in cui paragona la toeletta e la vestizione degli inglesi alla preparazione dei monaci per le cerimonie religiose. L'edizione restaurata dura due ore, contro i 70-80 minuti delle versioni precedenti.

8 novembre 2016

I magnifici sette (John Sturges, 1960)

I magnifici sette (The magnificent seven)
di John Sturges – USA 1960
con Yul Brynner, Eli Wallach, Steve McQueen
***

Visto in divx.

I contadini di un piccolo villaggio messicano assoldano sette pistoleri affinché li proteggano dalle razzie del brigante Calvera (Eli Wallach). Remake in chiave western del capolavoro di Akira Kurosawa "I sette samurai", di cui riprende fedelmente trama e personaggi, e persino il messaggio umanista di fondo, con la dicotomia fra peones e pistoleros (la frase finale, "Ancora una volta hanno vinto i contadini. Noi abbiamo perso", è praticamente identica a quella del film giapponese). Grazie al cast stellare (i "magnifici sette" sono Yul Brynner, Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn, Horst Buchholz, Robert Vaughn e Brad Dexter) e alla trascinante colonna sonora di Elmer Bernstein (nominata all'Oscar ed entrata nella memoria collettiva), nonostante un inizio difficile al box office divenne ben presto un classico, tanto da dar vita a tre sequel e a una serie televisiva, oltre a generare a sua volta diversi remake (l'ultimo dei quali, quello di Antoine Fuqua, è uscito un mesetto fa). Come quasi tutte le pellicole chanbara di Kurosawa (da "La sfida del samurai", ricordiamo, fu tratto "Per un pugno di dollari" di Sergio Leone), il film originale si prestava perfettamente a essere trasposto in uno scenario western. Certo, nella versione hollywoodiana si perdono parecchie sfumature, anche e soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi (il Chico di Horst Buchholz, giovane e immaturo, è infinitamente meno interessante del folle Kikuchiyo interpretato da Toshiro Mifune, per dirne una), ma resta comunque un'avventura epica, eroica e malinconica al tempo stesso, con un pugno di mercenari pronto a sacrificare le proprie vite per proteggere i deboli e gli indifesi, e dove per una volta i contadini messicani non sono visti come l'ultima ruota del carro ma hanno una loro dignità. Al punto che non pochi dei mercenari hanno la tentazione di appendere la pistola al chiodo e di cambiare vita. Come la pellicola giapponese, il film è essenzialmente diviso in tre sezioni: quella iniziale, con il reclutamento dei sette protagonisti; quella centrale, con i preparativi per la battaglia e i momenti in cui gli eroi e i contadini fanno la reciproca conoscenza; e quella finale, lo scontro vero e proprio con i banditi. Il carismatico cajun Chris (Yul Brynner), nerovestito come se fosse un cattivo, è il leader perfetto di un gruppo eterogeneo, che va dallo scanzonato Vin (McQueen), sempre a caccia di donne, al veterano Lee (Vaughn), che deve fare i conti con i propri fantasmi; dal mercenario Bernardo (Bronson), che diventa l'idolo dei bambini del villaggio, al sospettoso Harry (Dexter), convinto che i contadini nascondano un giacimento d'oro; dall'abile Britt (Coburn), esperto nel lancio del coltello, all'impulsivo Chico (Buchholz, al suo esordio americano), a sua volta ex contadino e l'unico che alla fine sceglierà di rimanere nel villaggio. Vladimir Sokoloff è il vecchio che consiglia ai contadini di assoldare dei protettori (il suo ruolo è ridotto rispetto all'originale, visto che manca la scena dell'assalto alla sua casa), Rosenda Monteros è la ragazza di cui Chico si innamora.

6 novembre 2016

Un 32 août sur terre (D. Villeneuve, 1998)

Un 32 août sur terre
di Denis Villeneuve – Canada 1998
con Pascale Bussières, Alexis Martin
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Dopo essere sopravvissuta per miracolo a uno spaventoso incidente d'auto, la giovane Simone capisce che è giunto il momento di ripensare la propria vita: si dimette dal lavoro e chiede al suo miglior amico Philippe di aiutarla a fare un figlio, con la promessa che andrà poi a vivere lontano insieme al bambino e non ci saranno conseguenze per lui. Philippe è recalcitrante (anche perché, pur non avendoglielo mai confessato, è follemente innamorato dell'amica), ma alla fine accetta, ponendo una bizzarra condizione: dovranno fare l'amore nel deserto. Da Montrèal i due si recano così a Salt Lake City, dove si inoltrano nel deserto del lago salato. Qui, fra una disavventura e l'altra, non combineranno nulla. E tornati in patria, Philippe confesserà il suo amore a Simone, che scoprirà di ricambiarlo: ma forse è troppo tardi... Il lungometraggio d'esordio di Denis Villeneuve è una strana commedia romantica on the road, spigliata e simpatica, a tratti surreale (memorabili i paesaggi bianchi e desolati del deserto, che richiamano un altro pianeta: e le suggestioni "extraterrestri" sono in effetti numerose) ma con un finale deludente e poco originale. L'aspetto di Simone, mascolino e con i capelli corti, ricorda quello di Jean Seberg, della quale Philippe ha un poster in camera (il che lascia intendere sin dall'inizio come sia innamorato di lei). Lo strano titolo è metaforico, almeno fino a un certo punto: l'incidente in auto di Simone avviene infatti la notte del 31 agosto, e le vicende successive si svolgono dal 32 agosto in poi (33, 34, 35, 36 agosto...), come se la protagonista fosse entrata in un limbo fuori dal tempo, da cui uscirà (arriva finalmente settembre!) solo quando farà chiarezza nei propri sentimenti.

4 novembre 2016

Me and Orson Welles (R. Linklater, 2008)

Me and Orson Welles (id.)
di Richard Linklater – USA/GB 2008
con Zac Efron, Christian McKay, Claire Danes
**

Visto in divx, con Sabrina.

Nella New York del 1937, fra venti di guerra e musica jazz, il diciassettenne Richard Samuels (Efron), aspirante attore, entra a far parte della compagnia di Orson Welles (McKay) che sta per mettere in scena al Mercury Theatre una versione del "Giulio Cesare" di Shakespeare destinata a passare alla storia. Come tutti, Richard si scopre affascinato dalla genialità e dal carisma di Welles, che lo prenderà sotto la propria ala protettiva e gli insegnerà molte cose sull'arte e sulla vita. Ma il rapporto fra i due si incrinerà quando si troveranno a contendersi l'amore di Sonja (Danes), l'ambiziosa assistente di produzione. Dall'omonimo romanzo di Robert Kaplow, una ricostruzione (vista attraverso gli occhi di un personaggio giovane e curioso) di un breve ma fondamentale periodo della vita di Welles. Se il film è interessante nel rendere palpabile l'emozione, la tensione e l'entusiasmo del "dietro le quinte" di un'esperienza teatrale, nonché nel far percepire il fermento della Broadway di quegli anni (e ha l'indubbio merito di ricreare sullo schermo un allestimento, quello del celebre "Cesare" wellesiano con abiti fascisti, di cui non esistono riprese e non sono sopravvissuti che pochi disegni e alcune foto di scena), per il resto non è particolarmente coinvolgente quando racconta le dinamiche amorose dei personaggi, anche perché soffre – come capita spesso con Linklater – di un pizzico di pretenzioso intellettualismo. Buona comunque la ricostruzione storica e ambientale (il Mercury Theatre è stato riprodotto sull'Isola di Man). Nel cast, nei panni di attori e personaggi realmente esistiti, si riconoscono Ben Chaplin (George Coulouris), James Tupper (Joseph Cotten) ed Eddie Marsan (John Houseman). Zoe Kazan è la giovane scrittrice Greta Adler. Il personaggio di Zac Efron è ispirato a Arthur Anderson, che nella realtà continuò a collaborare con Welles a teatro e in radio anche dopo la prima del "Cesare". Se Richard è il protagonista, al centro della pellicola però rimane sempre l'ingombrante figura di Welles: geniale e arrogante, impulsivo e donnaiolo, mai a corto di idee o di trucchi magici, una sorta di Dio del teatro, della radio e della regia, interpretato da un McKay che ne aveva vestito i panni anche in alcune produzioni teatrali.

3 novembre 2016

Appunti per un film sull'India (P. P. Pasolini, 1968)

Appunti per un film sull'India
di Pier Paolo Pasolini – Italia 1968
con attori non professionisti
***

Visto in divx.

Le esperienze durante la lavorazione di film come “Il vangelo secondo Matteo” ed “Edipo Re” avevano spinto Pasolini a interessarsi sempre più a quello che viene comunemente definito “terzo mondo” (e che negli anni sessanta era al centro dell'attualità: le numerose battaglie per l'indipendenza dalle potenze coloniali stavano portando a forza questi paesi nell'era della modernità e dell'industrializzazione, senza che molti di essi fossero pronti a livello culturale o strutturale, dando così origine a situazioni socio-politiche instabili e contraddittorie). L'idea di girare una pellicola sull'argomento (da suddividere in diversi episodi, ambientati in differenti zone del pianeta) si scontrò però con enormi difficoltà produttive: il film non sarà mai realizzato, e tutto ciò che rimane del progetto sono un paio di documentari, o meglio di “diari di viaggio” (simili al precedente “Sopralluoghi in Palestina”), nei quali PPP affronta temi sociali e antropologici da un punto di vista “poetico” prima ancora che politico o documentaristico. “Appunti per un film sull'India”, prodotto dalla Rai (è l'unico lavoro di Pasolini realizzato per la televisione), racconta il viaggio del regista nel continente indiano, con l'intenzione non solo di catturarne i volti e i luoghi, ma anche di sottoporre agli indiani stessi il soggetto del film che aveva intenzione di girare, per registrarne le reazioni. Il film avrebbe dovuto essere diviso in due parti: la prima, ambientata nell'epoca pre-coloniale, si ispira a una leggenda indiana: un ricco maharaja, mentre visita le proprie terre, si imbatte in alcuni cuccioli di tigre affamati e, preso da compassione, offre loro il proprio corpo come cibo. Nella seconda, che si colloca durante la lotta per l'indipendenza del paese, la famiglia del maharaja deve far fronte all'improvvisa povertà in cui viene a trovarsi dopo la morte del capofamiglia, e gira per il paese senza fortuna. Attraverso la fiaba e la simbologia, il film avrebbe dovuto illustrare i due temi che PPP associa maggiormente all'India (e all'intero terzo mondo), ovvero la religione e la fame. “Un occidentale che va in India ha tutto ma non dà niente. L'India, invece, che non ha nulla, in realtà dà tutto”, spiega il poeta. Nel corso del documentario, PPP non resiste alla tentazione di fare delle piccole inchieste, intervistando le persone che incontra: curiosamente, mentre tutti sembrano interessati alla storia che intende raccontare (qualcuno oggi sarebbe disposto a comportarsi come il maharaja?), quando le domande si spostano sulla realtà contemporanea (le caste, la povertà, le differenze fra contadini e operai, le politiche del governo contro la sovrappopolazione) le risposte si fanno asettiche e omogenee, evidentemente frutto di scarso interesse o mancata riflessione sui problemi sociali.

1 novembre 2016

The great yokai war (Takashi Miike, 2005)

The great yokai war (Yokai daisenso)
di Takashi Miike – Giappone 2005
con Ryunosuke Kamiki, Mai Takahashi
*1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Dopo il divorzio dei suoi genitori, il piccolo Tadashi ha lasciato Tokyo e si è trasferito in una cittadina sulla costa. Qui, durante una festa locale, viene scelto come nuovo "cavaliere Kirin", ovvero l'eroe che – secondo la leggenda – è destinato a salvare il mondo da un'oscura minaccia. E in effetti si ritrova a combattere, al fianco di alcuni spiriti benigni (fra cui la bella principessa dell'acqua Kawahime e il buffo animaletto peloso Sunekosuri), contro il malvagio Yasunori Kato e la sua adepta Agi (Chiaki Kuriyama), che intendono seminare il caos sfruttando il "risentimento" degli oggetti usati e abbandonati dagli esseri umani. Ispirato al manga "Kitaro dei cimiteri" di Shigeru Mizuki (citato esplicitamente: l'autore fa anche un cameo) e alla saga fantasy "Teito monogatari" di Hiroshi Aramata (da cui proviene il cattivo), un film d'avventura/horror dichiaratamente per bambini che rilegge una pellicola del 1968 e porta sullo schermo tutta una serie di spiriti, mostri e creature fantastiche del folklore giapponese (goblin, kappa, shōjō, rokurokubi, azukiarai...), i cosiddetti yokai, spesso ritratti in chiave più comica che spaventosa. La pellicola appartiene al filone meno violento e più commerciale della filmografia di Miike, e pur essendo ricco di inventiva soprattutto dal lato visivo (con effetti speciali "artigianali" che si alternano a quelli digitali: alcune creature sono chiaramente pupazzi o attori in costume... ma questa è una caratteristica dei cinema fantastico giapponese sin dai tempi di "Godzilla"), che lo fanno accomunare a una versione nipponica di "Labyrinth", "La storia infinita" o "Il labirinto del fauno", soffre per una caratterizzazione dei personaggi non molto originale e una trama troppo piena dei cliché del genere. Fra le cose più interessanti, comunque, i pochi tocchi di ironia (nel finale il cattivo viene sconfitto da... un fagiolo) e l'aspetto dei mostri che Tadashi deve affrontare, ibridi robotici fra oggetti meccanici e spiriti ultraterreni.