29 giugno 2016

...altrimenti ci arrabbiamo! (M. Fondato, 1974)

...altrimenti ci arrabbiamo!
di Marcello Fondato – Italia/Spagna 1974
con Bud Spencer, Terence Hill
***1/2

Rivisto in divx, per ricordare Bud Spencer.

Uno dei film che più volte ho visto da bambino, perfetto esempio di quell'universo di comicità, avventura, ingenuità e innocua violenza con cui Bud (e Terence) mi hanno divertito e accompagnato per tanti anni: inevitabile per me dargli un voto così alto, al di là degli effettivi meriti cinematografici.

Il garagista Ben (Bud Spencer) e il giramondo Kid (Terence Hill), amici e rivali, partecipano a una gara di rallycross e tagliano insieme il traguardo: il problema di come dividersi il primo premio, una dune buggy rossa fiammante ("con la capottina gialla"), passa in secondo piano quando la vettura viene distrutta dai gangster al soldo di un "cattivissimo" boss (John Sharp), che su suggerimento del suo psicologo (Donald Pleasence) intende far chiudere il Luna Park adiacente al garage di Ben per edificarvi un grattacielo. Ben e Kid si presentano dal capo, intenzionati a ottenere da lui una nuova "carriola" ("Altrimenti?" "Altrimenti ci arrabbiamo"): ma il boss, istigato dal dottore, non vuole accontentare la loro richiesta... Primo film della coppia ambientato in Europa (per la precisione in Spagna: è stato girato nelle calle e nelle periferie di Madrid), è probabilmente la loro pellicola più celebre e citata (insieme a "Lo chiamavano Trinità", ma al primo posto fra quelle di ambientazione contemporanea), una vera miniera di risate e di situazioni iconiche, a partire dalle leggendarie scazzottate (che rispetto ai film precedenti crescono in durata e in importanza): dalla sfida a "birra e salsicce" per aggiudicarsi la dune buggy (interrotta dai gangster che distruggono il locale in cui i due si trovano, nella loro totale indifferenza) alla rissa nella palestra (dove si possono apprezzare i fenomenali effetti sonori che accompagnano pugni e schiaffoni), dalla sfida con la gang dei motociclisti (con tanto di radiocronaca trasmessa al boss) all'irruzione finale in macchina alla festa dei cattivi, in una sala colma di palloncini. Ma la scena più mitica è senza dubbio quella del coro dei pompieri ("Bom bom bom bom... La la la la la la..."), con Bud Spencer che passa dalla sezione maschile a quella femminile nel tentativo di sfuggire al mirino del glaciale killer Paganini ("Lo chiamano così perché non replica mai!"), scena resa ancora più memorabile dalla colonna sonora, con un brano che chiunque avrà provato a cantare una volta nella vita, e che in certi momenti ingloba persino il tema legato al killer. Al fianco di Bud e Terence, comunque protagonisti assoluti, per una volta si muovono una serie di personaggi che, pur secondari, restano impressi nella memoria collettiva, interpretati da caratteristi italiani o spagnoli o persino da attori di un certo livello: John Sharp è il capo, infantile e facilmente manipolabile da chi gli sta attorno, che vorrebbe essere cattivo solo perché glielo ha ordinato il dottore; questi, psicologo con l'accento tedesco, è interpretato dal grande Donald Pleasance, paradossalmente in uno dei suoi ruoli più memorabili. Ci sono poi il vecchio Geremia (Luis Barbero), assistente di Ben nel suo garage, lo scagnozzo baffuto Attila (Deogratias Huerta) e la bella Liza (Patty Shepard), la ragazza del circo di cui Kid si innamora. Manuel de Blas è Paganini, un evidente spoof di Alain Delon. Fra i caratteristi, infine, è da citare almeno il direttore del coro (Emilio Laguna), frustrato dalle continue "improvvisazioni" di Ben. Fra le tante battute, la frase più celebre è quella che dà il titolo al film (e il suo reprise, più avanti: "Siamo già arrabbiati"). Degna di menzione, infine, la canzone (in inglese) "Dune Buggy" degli Oliver Onions (ovvero i fratelli Guido e Maurizio De Angelis).

27 giugno 2016

Grazie di tutto, Bud


26 giugno 2016

New York, New York (M. Scorsese, 1977)

New York, New York (id.)
di Martin Scorsese – USA 1977
con Robert De Niro, Liza Minnelli
**

Visto in DVD.

Subito dopo "Taxi Driver", Scorsese gira ancora un film su New York, con Robert De Niro nei panni di un reduce di guerra dalla personalità "difficile"... eppure le due pellicole non potrebbero essere più diverse, così come diversa è stata l'accoglienza da parte di pubblico e critica. Se il film precedente era cupo, realistico e assolutamente figlio dei suoi tempi, sin dai titoli di testa "New York, New York" è invece uno spensierato omaggio ai musical degli anni '40, agli spettacoli di varietà, al jazz e al cabaret. Si apre il 2 settembre 1945, il giorno della resa del Giappone: fra la folla che festeggia la fine della guerra nelle strade e nei locali di New York c'è il sassofonista Jimmy Doyle (De Niro), in cerca di ragazze da abbordare. Quando incontra Francine Evans (Minnelli), nonostante lei cerchi di tenerlo a distanza, capisce che è la donna che fa per lui: ancora di più quando scopre che è una cantante, peraltro molto dotata. La pellicola segue la loro tormentata storia d'amore, fra alti e bassi: dalle tournée in giro per il paese (nonostante il titolo, non tutto il film si svolge nella Grande Mela) al matrimonio, fra momenti di tensione e di gelosia (il successo della band di cui i due fanno parte è dovuto principalmente alla voce di Francine, e Jimmy non prende bene la decisione di lei di smettere di cantare quando rimane incinta) fino all'inevitabile separazione. Sei anni più tardi, li ritroveremo entrambi ormai affermati: lei è diventata una diva di Hollywood, lui possiede un locale dove si suona jazz ed è un apprezzato scrittore di canzoni: proprio uno dei suoi successi, quello che dà il titolo al film, sarà eseguito da Francine in occasione del loro reincontro. Sono ormai riappacificati, ma non abbastanza da rimettersi insieme. Considerato da molti come l'unico vero passo falso della carriera di Scorsese, "New York, New York" è un film lungo, poco convincente, volutamente immerso in un'atmosfera retrò che – anche per voler omaggiare le pellicole e i musical dell'epoca – appare decisamente artificiale per scenografie, luci e colori, tanto che anche le (poche) scene in esterni sembrano girate in studio. La trama non è particolarmente interessante, così come i due personaggi (in particolare Francine: Jimmy si salva grazie all'interpretazione di De Niro). E delle tante canzoni, poche sono quelle rimaste memorabili: giusto "But the World Goes Round" e naturalmente quella principale, "New York, New York" appunto, che però diventerà una vera hit soltanto quando sarà riproposta, l'anno successivo, da Frank Sinatra (quando uscì il film non fu nemmeno nominata all'Oscar!).

24 giugno 2016

Dark star (John Carpenter, 1974)

Dark Star (id.)
di John Carpenter – USA 1974
con Dan O'Bannon, Brian Narelle
**1/2

Rivisto in DVD.

Scritto e realizzato insieme al suo compagno di studi Dan O'Bannon, il film d'esordio di John Carpenter è una pellicola di fantascienza a bassissimo costo, che non fa nulla per nascondere la povertà del budget e anzi la sfrutta a suo favore: che l'astronave nella quale viaggiano i protagonisti sia una vecchia carretta, in preda a continui guasti e malfunzionamenti, è uno dei punti cardine della storia. I quattro membri dell'equipaggio hanno il compito di individuare e distruggere "pianeti instabili" (a rischio cioè di uscire dalle proprie orbite, mettendo a repentaglio interi sistemi solari) per mezzo di sofisticate bombe termonucleari. Queste bombe sono senzienti, in grado di comunicare sia con il computer di bordo che con gli astronauti stessi. Ne consegue una delle scene più memorabili del film, quella in cui gli uomini cercano di convincere a disinnescarsi una bomba che vuole esplodere pur non essendosi sganciata, attraverso un dialogo filosofico che tocca temi esistenzialisti come la percezione della realtà. Pur trattandosi di un film povero per regia, effetti speciali e scenografie (particolarmente debole è la sequenza dell'alieno che uno degli astronauti ha portato a bordo come mascotte, un vero e proprio "pallone gonfiato"), e che non si prende assolutamente sul serio, risuonano dunque echi kubrickiani: impossibile non pensare a "2001: Odissea nello spazio" (i computer senzienti, lo scenario spaziale, le comunicazioni) e al "Dottor Stranamore" (le bombe, la satira militare, il finale in cui uno degli astronauti cavalca il portellone della nave come una tavola da surf). Il tono dismesso è enfatizzato dalle scenografie, ma anche dall'aspetto dei membri dell'equipaggio, barboni e capelloni, oltre che dalla loro natura di sociopatici e solitari (uno di essi risiede perennemente nella torretta di guardia, senza mai unirsi agli altri), che trascorrono il tempo litigando, leggendo fumetti o suonando bizzarri strumenti musicali. Uno, addirittura, non è nemmeno un vero astronauta ma un operaio finito lì per caso. Commentando sull'assurdità delle situazioni e dei dialoghi, Carpenter ha descritto la pellicola come "Aspettando Godot nello spazio". Costato solo 60.000 dollari, il film è stato in pratica realizzato interamente da Carpenter e O'Bannon. Il primo, oltre a dirigerlo, ha anche curato le scenografie e scritto la colonna sonora (a base di musica elettronica, oltre alla canzone country "Benson, Arizona"), mentre il secondo recita nei panni di uno degli astronauti e si occupa anche degli effetti speciali (molto artigianali ma rozzamente efficaci, tanto che Lucas lo assolderà per collaborare al primo "Guerre stellari": a lui è dovuta l'idea grafica di mostrare le stelle in rapido movimento quando la nave viaggia nell'iperspazio, vista per la prima volta proprio in questa occasione). O'Bannon scriverà in seguito la sceneggiatura di "Alien", nella quale trasferirà diversi elementi qui presenti, virandoli però dalla commedia all'horror: l'astronave vecchia e sporca, l'alieno che si nasconde nei corridoi, il gioco del coltello fra le dita delle mani. Nato come progetto studentesco, il film ha finito col diventare un oggetto di culto, più però per la carriera futura dei nomi coinvolti che non per i suoi reali pregi.

23 giugno 2016

Vita da bohème (Aki Kaurismäki, 1992)

Vita da bohème (La vie de bohème)
di Aki Kaurismäki – Francia/Finlandia 1992
con Matti Pellonpää, Evelyne Didi, André Wilms
***

Rivisto in divx.

Alla sua seconda coproduzione internazionale dopo "Ho affittato un killer", Kaurismäki sceglie di adattare la stessa raccolta di racconti (e poi dramma teatrale) di Henri Murger da cui Giacomo Puccini ha tratto l'opera "La Bohème", senza però rinnegare il proprio stile asciutto e la propria poetica (e portando a bordo alcuni dei suoi attori preferiti, come Matti Pellonpää e Kari Väänänen, al fianco di interpreti francesi). In fondo i temi sono quelli a lui consoni (storie di emarginati e di disadattati), così come l'alternanza fra momenti di ironia più o meno sottotraccia ed episodi malinconici e drammatici. Pur ambientato in una Parigi quasi contemporanea, il film sembra ignorare la modernità e guardare al passato: è girato in bianco e nero, presenta protagonisti avanti con l'età (quelli originari erano invece giovani, e proprio la fine della gioventù era uno dei fili conduttori dell'opera) e scenari decadenti e desolati. Il film racconta le vicende di tre artisti spiantati e falliti, il pittore albanese Rodolfo (Pellonpää), lo scrittore Marcel Marx (Wilms) e il compositore Schaunard (Väänänen), sempre a corto di denaro e alle prese con minacce di sfratto, problemi con le autorità (Rodolfo non ha il permesso di soggiorno) e frequenti visite al banco dei pegni. I tre diventano amici e condividono lavoretti, appartamenti e le proprie miserie. A un certo punto Rodolfo conosce Mimì, giunta in città dalla campagna in cerca di lavoro, e se ne innamora, ma la ragazza finirà con il morire a primavera, dopo una breve malattia. Il canovaccio della "Boheme" è rispettato (con qualche variazione: Rodolfo e Marcel si scambiano i campi di attività, e manca il quarto membro del gruppo di amici, il filosofo Colline), così come – almeno in parte – i significati tematici del testo originale (la disinvoltura nella vita, il senso di perdita e di dolore), ma Kaurismäki li interpreta a modo suo, fedele alla propria poetica di celebrazione degli emarginati che mostrano contegno e rispetto per sé stessi anche nelle avversità. Piccole parti per uno stralunato Jean-Pierre Léaud (l'industriale che commissiona un ritratto a Rodolfo) e per i registi Samuel Fuller (l'editore di Marcel) e Louis Malle (l'uomo che offre la cena al pittore quando questi viene derubato del portafoglio), mentre il cane di Rodolfo, Baudelaire, è interpretato da Laika, cagna dello stesso Kaurismäki che rivedremo (e con lei, i suoi discendenti) in tantissimi film dell'autore finlandese. Nella colonna sonora manca volutamente Puccini, come a sottolineare che non si tratta di un melodramma: quando Mimì e Musette vanno all'opera, ascoltano invece "Le nozze di Figaro" di Mozart. E sul funerale di Mimì, oltre che sui titoli di coda, c'è una canzone popolare giapponese, "Yuki no furu machi wo", interpretata da Toshitake Shinohara.

22 giugno 2016

Cannes e dintorni 2016 - conclusioni

Mi aspettavo francamente qualcosa di più da questa rassegna, che non ha certo mostrato film che passeranno alla storia del cinema (anche perché alcuni dei migliori in concorso a Cannes, come "Paterson" ed "Elle", erano qui assenti). La pellicola che più mi ha soddisfatto è stata "Un padre, una figlia" di Cristian Mungiu, dramma ricco di conflitti morali, mentre sul podio ci metterei anche "Neruda" di Pablo Larrain ed "È solo la fine del mondo" di Xavier Dolan. Tutto il resto è stato abbastanza dimenticabile. Da salvare comunque il film d'animazione a passo uno "La mia vita da zucchina" (anche se i giorni successivi alla visione qualche dubbio me l'hanno fatto venire), la divertente commedia franco-islandese "L'effetto acquatico", gli iraniani "Il cliente" (un Farhadi minore rispetto ai lavori precedenti) e "Nahid", e il vincitore della Palma d'Oro "Io, Daniel Blake" di Ken Loach (che però tutto fa fuorché stupire lo spettatore). Ho trovato decisamente sopravvalutato "Sieranevada" di Cristi Puiu, mentre il film peggiore della rassegna è stato l'italiano "Fiore". Fra i temi più frequentati: il rapporto tra genitori e figli ("Bacalaureat", "Fiore", "Nahid", ma anche "Sieranevada", "La mia vita da zucchina" ed "È solo la fine del mondo") e la violenza contro le donne (ancora "Bacalaureat", "Il cliente", "Nahid" e volendo "Tokyo love hotel"). Curiosità: in ben due pellicole ("Sieranevada" e "Fiore") si è sentita la canzone "Maledetta primavera".

21 giugno 2016

È solo la fine del mondo (Xavier Dolan, 2016)

È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde)
di Xavier Dolan – Canada/Francia 2016
con Gaspard Ulliel, Marion Cotillard
***

Visto al cinema Orfeo, con Sabrina e Daniela,
in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Dopo dodici anni di assenza, il trentasettenne Louis (Gaspard Ulliel), drammaturgo gay, torna nella casa di famiglia con l'intenzione di comunicare ai parenti la notizia della sua morte imminente. Ma l'incontro con la madre (Nathalie Baye), il fratello maggiore (Vincent Cassel), la sorella minore (Léa Seydoux) e la cognata (Marion Cotillard) si rivela più difficile di quanto avesse immaginato. Tratto da un dramma teatrale di Jean-Luc Lagarce, a metà fra le tensioni familiari di Tennessee Williams e il teatro dell'assurdo di Samuel Beckett, un film diverso rispetto agli altri lavori di Dolan, pieno di dialoghi che girano intorno all'argomento senza riuscire ad esprimerlo. Fra chiacchiere e banalità, incertezze, imbarazzi e silenzi, Louis si scopre incapace di comunicare quello che aveva intenzione di dire, e nel frattempo è sovrastato dai parenti, che proiettano su di lui rimpianti, conflitti, sfoghi e frustrazioni: i ricordi e i rimorsi della madre, le speranze della sorella, il rancore e l'invidia del fratello, la curiosità della cognata (l'unica con cui riesce a stabilire un contatto, anche perché è una nuova conoscenza). E tutto gira intorno al "non detto", al tentativo doloroso di Louis di riempire un vuoto (quello del tempo perduto, o quello che verrà dopo la sua morte), attendendo un momento giusto che naturalmente non arriverà mai. La regia si concentra sui primissimi piani dei volti dei personaggi (il cast è di primissimo livello), salvo occasionalmente concedersi sequenze più ariose, quelle dei ricordi e dei flashback, accompagnate da una colonna sonora non particolarmente raffinata (con brani come "Dragostea din tei", "Natural blues" e "I Miss You": ma sono pochi a saper mescolare bene musica e immagini come Dolan). È il secondo film del regista canadese a essere tratto da un lavoro teatrale, dopo "Tom à la ferme", con il quale infatti ha più punti in comune. Poco amato dai critici a Cannes, dove peraltro ha vinto il Gran Premio della Giuria.

20 giugno 2016

Tokyo love hotel (Ryuichi Hiroki, 2014)

Tokyo love hotel (Sayonara Kabukicho)
di Ryuichi Hiroki – Giappone 2014
con Shota Sometani, Atsuko Maeda
**

Visto al cinema Ducale, con Sabrina (rassegna di Cannes).

Le vicende di diversi personaggi si intrecciano nell'arco di 24 ore nelle stanze di un "love hotel" (albergo a ore) a Kabukicho, il più celebre quartiere a luci rosse di Tokyo. Toru (Shota Sometani), il giovane gestore, lavorava un tempo alla reception di un grande hotel di lusso, da cui è stato licenziato senza dirlo alla fidanzata Saya (Atsuko Maeda). Questa è un'aspirante cantante che pur di firmare un contratto discografico accetta di passare la notte con un produttore proprio nell'albergo gestito da Toru: l'incontro fra i due sarà imbarazzante (anche perché poco prima il ragazzo si era imbattuto anche nella sorella Miyu, impegnata nelle riprese di un film porno). Heya (Lee Eun-woo) è una escort coreana al suo ultimo giorno di lavoro, prima di tornare in patria con l'intenzione di aprire un negozio. Masaya (Shugo Oshinari) è un giovane yakuza che abborda studentesse per trasformarle in ragazze squillo: ma l'innocenza e la sincerità di Hinako (Miwako Wagatsuma), la sua ultima vittima, gli faranno cambiare idea. Satomi (Kaho Minami), infine, lavora come donna delle pulizie nell'albergo, dove si imbatte in una poliziotta, giunta lì clandestinamente insieme al suo amante, che potrebbe incriminarla per un reato non ancora caduto in prescrizione. Se il pregio maggiore della pellicola è la sua coralità, con l'ìntreccio di tanti fili e tante storie (alcune delle quali, però, si trascinano un po' troppo a lungo), per il resto il film non riesce mai a fare il salto di qualità, e in certi momenti esibisce persino un pizzico di moralismo che non ci si attenderebbe in un lungometraggio giapponese (vedi per esempio la scena della vasca da bagno, quando una Heya piangente chiede al fidanzato Chong-su di "lavarle via tutto lo sporco"). Il regista si è fatto le ossa con il cinema erotico, per poi passare alle commedie sentimentali: qui sembra voler combinare i due generi, ma l'equilibrio non è del tutto soddisfacente. In generale i personaggi mi sono parsi poco focalizzati, a partire dal protagonista Toru, spettatore troppo impassibile di gran parte delle vicende che gli capitano attorno (compresa la propria!). Il titolo internazionale è "Kabukicho Love Hotel".

19 giugno 2016

L'effetto acquatico (Sólveig Anspach, 2016)

L'effetto acquatico (L'effet aquatique)
di Sólveig Anspach – Francia/Islanda 2016
con Samir Guesmi, Florence Loiret Caille
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Innamorato dell'istruttrice Agathe, l'operaio Samir si iscrive alla piscina comunale di Montreuil e finge di non saper nuotare per poter prendere lezioni da lei. Le cose si complicheranno quando Agathe si reca in Islanda per partecipare a un congresso internazionale, e Samir la segue spacciandosi per il delegato israeliano. Simpatica commedia romantica franco-islandese, con personaggi bizzarri (i custodi della piscina; i due islandesi che ospitano Agathe e Samir, consiglieri municipali a giorni alterni; in generale, tutti i personaggi di contorno), situazioni esilaranti (il discorso improvvisato di Samir al convegno) e tanti momenti divertenti, nonostante una sceneggiatura un po' improvvisata, che passa da una situazione all'altra saltando di palo in frasca e senza preavviso (a un certo punto Samir perde la memoria, e sarà Agathe, che nel frattempo ha capito di ricambiare il suo affetto, a cercare di conquistarlo). Il suo maggior pregio è quello di fondere bene lo spirito caldo e romantico del cinema francese con l'ambientazione nordica, fredda e surreale. È purtroppo l'ultimo film della regista, morta di tumore alla fine delle riprese.

Nahid (Ida Panahandeh, 2015)

Nahid (id.)
di Ida Panahandeh – Iran 2015
con Sareh Bayat, Pejman Bazeghi
**1/2

Visto al cinema Ariosto, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Nahid, divorziata e con un figlio a carico, si barcamena come può con un umile lavoro di dattilografa e cronici problemi di soldi per pagare l'affitto di casa e gli studi di un figlio che sembra invece più interessato a bighellonare per strade e locali, seguendo così le orme di un padre scapestrato e nullafacente, ex tossicodipendente che vive di scommesse clandestine. La donna avrebbe la possibilità di rifarsi una vita con un Masood, benestante proprietario di un albergo sulla spiaggia (la vicenda si svolge in una città nel nord del paese, sulle rive del Mar Caspio), che le chiede di sposarlo. Ma se la notizia della loro relazione giungesse alle orecchie del primo marito, lei perderebbe l'affidamento del figlio: e dunque è costretta a tenerla nascosta anche al bambino. Ennesimo film iraniano sulla condizione della donna, con una protagonista messa di fronte a una difficile scelta: continuare a sacrificarsi per il figlio o pensare alla propria felicità? Intenso ed equilibrato, il film finisce però per girare in cerchio e un po' a vuoto, anche se è interessante per come mette in scena alcune dinamiche sociali dell'Iran moderno (come il meccanismo dei "matrimoni temporanei", da rinnovare di mese in mese, al quale ricorrono Nahid e Mansoor), dove il desiderio di indipendenza e di autodeterminazione della donna è ancora tenuto a freno dai legami familiari e sociali.

Fiore (Claudio Giovannesi, 2016)

Fiore
di Claudio Giovannesi – Italia 2016
con Daphne Scoccia, Josciua Algeri
*1/2

Visto al cinema Ariosto (rassegna di Cannes).

Daphne, giovane ladruncola che vive di rapine e di espedienti, viene arrestata e rinchiusa in un carcere minorile. Qui conosce Josh e se ne innamora. Ma portare avanti la loro relazione sarà difficile, visto che in prigione i maschi e le femmine sono tenuti separati e non si possono incontrare se non in brevi e fugaci momenti. Fra luoghi comuni (gli adolescenti ribelli e problematici, l'amore come forza per restare a galla in un mondo duro e incomprensivo, il rapporto con i genitori) e un'ambientazione claustrofobica e opprimente, un film non brutto ma sicuramente poco interessante, così come poco interessanti sono i suoi personaggi. Con pellicole così, purtroppo, il cinema italiano non va da nessuna parte. Ah, dimenticavo: almeno metà dei dialoghi sono inintellegibili, per via della pessima dizione degli attori o di una scarsa qualità del sonoro in presa diretta. Come ho già scritto in più occasioni, bisognerebbe tornare alla sana abitudine di doppiare anche certi film italiani, come si faceva una volta. Valerio Mastandrea è il padre di Daphne.

18 giugno 2016

Neruda (Pablo Larraín, 2016)

Neruda (id.)
di Pablo Larraín – Cile/Argentina 2016
con Gael García Bernal, Luis Gnecco
***

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Visionario biopic su Pablo Neruda (interpretato da un somigliantissimo Luis Gnecco), concentrato sui mesi fra il 1948 e il 1949, quando il poeta cileno – a quei tempi anche impegnato in politica ed eletto come senatore – fu costretto a darsi alla clandestinità per sfuggire alla persecuzione e all'arresto da parte del governo autoritario del presidente Videla. Il film rappresenta Neruda come un personaggio a tutto tondo, senza nasconderne le tante contraddizioni: le idee comuniste, l'esuberanza artistica, ma anche il carattere narcisistico e soprattutto l'edonismo (la scena in cui una militante gli chiede se, quando finalmente arriverà il comunismo e saranno tutti uguali, "saranno tutti come me o come lei?" è magistrale). Il vero colpo di genio è però quello di rendere narratore dell'intera vicenda – grazie alla sua voce fuori campo – il poliziotto che gli dà ossessivamente la caccia, l'ispettore Oscar Peluchonneau (Gael García Bernal), che man mano che passa il tempo si rivela essere una proiezione dello stesso Neruda, un personaggio tragico con cui il poeta ammanta di romanticismo (come nei romanzi polizieschi che ama tanto leggere) il proprio esilio e la propria fuga. Lo stesso Peluchoneau si rende conto, a un certo punto, di essere una figura di finzione, creata dall'immaginazione stessa dell'uomo di cui è alla ricerca. E tutto ciò raggiunge il culmine nelle sequenze dell'avventurosa fuga del poeta attraverso la cordigliera delle Ande per raggiungere prima l'Argentina e poi l'Europa (a Parigi, dove lo aspettava l'amico Picasso), fra montagne e distese innevate, con momenti che sembrano uscire da un western di frontiera. Intenso, lirico e strabordante, il film intreccia i temi dell'arte, della vita e della politica rendendoli indistricabili, e sfrutta nel migliore dei modi una fotografia retrò, calda e avvolgente, spesso sovraesposta o controluce. Il presidente Videla è interpretato da Alfredo Castro, l'attore feticcio di Larraín. La colonna sonora fa ampio uso di musica classica (Penderecki, Grieg, Ives, Mendelssohn).

17 giugno 2016

Il cliente (Asghar Farhadi, 2016)

Il cliente (Forushande)
di Asghar Farhadi – Iran/Francia 2016
con Shahab Hosseini, Taraneh Alidoosti
***

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Costretti ad abbandonare all'improvviso la loro casa perché l'edificio è a rischio di crollo, i coniugi Emad e Rana si trasferiscono in un altro appartamento, messo a loro disposizione da un amico. Ma una sera, mentre la donna è sola in casa, viene aggredita da un intruso. L'incidente comincia a minare il rapporto fra marito e moglie, anche perché Emad, più che a comprendere il trauma subito da Rana e a starle vicino, sembra interessato soltanto a rintracciare il responsabile e vendicarsi, forse per vincere i sensi di colpa per non essere stato presente e non aver saputo difendere la moglie. Lei, invece, preferirebbe perdonare e dimenticare. Come nei suoi film precedenti, Farhadi mette in scena il dramma di una coppia che scopre che il proprio matrimonio – proprio come le mura della casa in cui viveva – è a rischio di crollo per via di crepe che appaiono all'improvviso. L'intesa e la sintonia che sembrava legarli (appartengono entrambi a una classe culturalmente aperta ed elevata: Emad insegna letteratura al liceo, e tutti e due sono attori teatrali) si rivela fragile di fronte alle avversità della vita reale (che viaggia in parallelo a quella sul palcoscenico) e ai differenti modi di reagirvi. Ancora una volta il regista iraniano si conferma attento alla psicologia dei suoi personaggi, che ritrae con sottigliezza e sensibilità, anche se nel complesso il film (che pure ha vinto a Cannes il premio per la miglior sceneggiatura ed è valso a Hosseini quello per il miglior attore) è più esile dei precedenti e dà il meglio di sé nel finale, quando viene messo in scena il lungo e intenso confronto con il responsabile dell'aggressione a Rana. Il titolo, assurdamente travisato dai distributori italiani che hanno tradotto il "salesman" della versione inglese con "cliente", deriva dal fatto che i protagonisti sono impegnati in una rappresentazione del dramma "Morte di un commesso viaggiatore" di Arthur Miller.

La mia vita da zucchina (Claude Barras, 2016)

La mia vita da zucchina (Ma vie de courgette)
di Claude Barras – Svizzera/Francia 2016
animazione a passo uno
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Dopo aver provocato senza volerlo la morte della madre alcolizzata (il padre, invece, è fuggito di casa), il novenne Icare, detto "Zucchina", finisce in una struttura che ospita orfani o bambini abbandonati dai genitori, ciascuno con la sua triste storia. Ma tutti insieme, grazie a un'amicizia che si cementa con il passare del tempo, sapranno reagire alle avversità per garantirsi, almeno alcuni di loro, un futuro migliore. Dal romanzo "Autobiografia di una zucchina" di Gilles Paris, adattato da Céline Sciamma (la regista di "Tomboy"), un film d'animazione in stop motion che mostra sullo schermo, in maniera delicata e comprensibile agli stessi bambini, i traumi dell'abbandono o della separazione violenta dai genitori. Merito, prima ancora che dei dialoghi o della narrazione, dello stile visivo: dall'espressività dei personaggi, i cui occhi giganteschi e spalancati evidenziano la tristezza, la paura, la titubanza e le emozioni, al design generale di personaggi e ambienti, con immagini semplici e naif che intendono riproporre il punto di vista di un bambino (il romanzo originale era scritto in prima persona), filtrando attraverso gli occhi dell'innocenza anche i temi più scabrosi. Forse un tantino costruito a tavolino per commuovere, soprattutto nel finale: ma senza dubbio efficace e meritevole per come sa affrontare questioni difficili senza banalizzarle né scadere nel melodramma. Resto però convinto che per comunicare certi argomenti ai bambini sia meglio usare il linguaggio della fiaba o dei simboli che non spiattellare loro in faccia la realtà. Oltre alla simpatia del protagonista (e degli altri personaggi), nel cuore e nella memoria restano alcune trovate brillanti, come il "meteo dei bambini", tramite il quale i piccoli ospiti dell'istituto comunicano il loro umore.

16 giugno 2016

Un padre, una figlia (Cristian Mungiu, 2016)

Un padre, una figlia (Bacalaureat)
di Cristian Mungiu – Romania 2016
con Adrian Titieni, Maria-Victoria Dragus
***1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina e Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Alla vigilia della prima prova dell'esame di maturità, la giovane Eliza, studentessa modello, è vittima di un'aggressione con tentativo di stupro. Incolume ma sotto shock e con un polso lussato, la ragazza rischia di non rendere al meglio durante gli esami e di non raggiungere così la media necessaria per vincere una borsa di studio e trasferirsi in un college in Inghilterra, come – ancora più di lei – sogna il padre Romeo. L'uomo, un medico serio e stimato da tutti, decide così di mettere da parte la propria integrità, affidandosi a una rete di favori e di amicizie per "garantirsi" che i voti della figlia siano quelli sperati. Vincitore a Cannes del premio per la miglior regia, il film di Mungiu è un lucido e incisivo studio sull'onestà e i compromessi morali, tutto incentrato su un protagonista che vede, nel giro di pochi giorni, crollare il castello di certezze che si è costruito in un'intera vita. Convinto di avere il controllo su ogni cosa e di agire nel giusto, all'insegna del machiavellico "il fine giustifica i mezzi", Romeo sottopone sé stesso e la figlia a un profondo conflitto etico. Anche perché ha ormai perduto ogni illusione sul futuro del proprio paese: non vuole che la figlia rimanga in Romania e commetta i suoi stessi errori, e ha trasferito su di lei le proprie speranze di riscatto e di rivincita. Sarà invece proprio Eliza, con la sua determinazione, a costringerlo a cambiare e ad uscire dall'ipocrisia della sua vita (accettando la realtà degli altri e chiarendo finalmente le cose con la moglie e l'amante). Ricco di momenti significativi, il film ha una certa "vibrazione" alla Haneke, sin dalle scene iniziali del lancio di pietre che mandano in frantumi il vetro di casa e più tardi il parabrezza dell'automobile (che il responsabile sia il piccolo Matei, il figlio dell'amante di Romeo?), per proseguire con la sequenza del cane investito o del dialogo – in cima alla seggiovia – fra il medico e l'amico poliziotto, metafora del tempo che trascorre e cambia il modo di vedere le cose. Il finale, a suo modo liberatorio, è figlio di una – finalmente – serena accettazione.

15 giugno 2016

Io, Daniel Blake (Ken Loach, 2016)

Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake)
di Ken Loach – GB 2016
con Dave Johns, Hayley Squires
**1/2

Visto al cinema Colosseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Dopo quarant'anni di lavoro come carpentiere in una segheria, Daniel Blake ha dovuto smettere a causa di un infarto. Ma per un cavillo gli viene negato l'assegno di invalidità: l'uomo è così costretto a una lunga trafila fra uffici e call center per cercare di far valere i propri diritti, vittima di una burocrazia ottusa e ridicola che sembra fare apposta a mettergli i bastoni fra le ruote. Intenzionato a non darsi per vinto e al tempo stesso a non perdere la propria dignità, Daniel le prova tutte, e nel frattempo stringe amicizia con Katie, madre single con due figli a carico, a sua volta disoccupata e alla disperata ricerca di una fonte di sostentamento. Ken Loach ha sempre fatto film "politici", e questo – premiato a Cannes con la Palma d'Oro, la seconda per il regista britannico dopo "Il vento che accarezza l'erba" nel 2006 – non solo non è da meno, ma è forse uno dei suoi lavori più esplicitamente di denuncia sociale. È un film cupo e pessimista, che mette al centro un vecchio lavoratore tagliato completamente fuori dal nuovo mondo "digitale" che si è formato intorno a lui, prigioniero di un meccanismo statale e burocratico che sembra aver perso di vista il proprio fine, in una società dove soltanto la solidarietà fra poveri, che si aiutano e sostengono a vicenda, può offrire qualche spiraglio di speranza e di fiducia per il futuro. Ma come tutti i film a tema, ha naturalmente i suoi limiti: nonostante la calda umanità del protagonista e la cura psicologica della sceneggiatura nel descrivere le tribolazioni di Katie, la Newcastle in cui si svolge la storia sembra troppo costruita per essere vera, e tutti i personaggi con cui interagisce Daniel non hanno personalità al di là del loro ruolo nelle sue vicende. Ma il brusco finale (con la lettera di Dan letta da Katie, quasi un manifesto per rivendicare la propria dignità di uomo e di lavoratore) è senza dubbio commovente.

Sieranevada (Cristi Puiu, 2016)

Sieranevada (id.)
di Cristi Puiu – Romania 2016
con Mimi Branescu, Bogdan Dumitrache
**

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

In occasione della commemorazione della morte del padre Emil, tutta la famiglia di Lary (Branescu) si riunisce a casa della madre. Ma è il prete è in ritardo, e nell'attesa del suo arrivo (e di poter cominciare a mangiare) i commensali chiacchierano del più e del meno. Interminabile (dura quasi tre ore) dramma da camera che si svolge tutto in spazi angusti e limitati, con la macchina da presa collocata nell'ingresso del piccolo appartamento, sul quale si aprono e si chiudono le porte delle varie stanze, e che cattura le conversazioni (realistiche e forse improvvisate: sono pochissimi i momenti in cui si percepisce un lavoro di scrittura) attraverso lunghi piani sequenza, mentre una radio in cucina trasmette canzoni italiane (da De André a Loretta Goggi!). Se inizialmente si parla di politica (con l'inevitabile nostalgica del vecchio regime comunista), di complottismo (si discute ancora dell'attentato alle Torri Gemelle), di salute e di medicina, man mano che passa il tempo vengono alla luce i contrasti e gli altarini di famiglia. Una cugina porta a casa un'amica straniera ubriaca, mettendo scompiglio nell'appartamento; uno zio fedifrago scatena pianti e accuse incrociate; e il dramma va di pari passo con le risate soffocate di Lary. Raccontata quasi in tempo reale e con una regia assai precisa, a questa riunione di famiglia manca l'intensità (presente solo a tratti) che consentirebbe la partecipazione emotiva di uno spettatore che, nonostante la durata, non fa in tempo a conoscere e ad approfondire quasi nessun personaggio. Tutto sembra fine a sé stesso, e di davvero interessante c'è soltanto la commemorazione vera e propria, con la cerimonia cantata del prete ortodosso e il rituale dell'abito del morto, indossato in sua vece da un familiare. Misterioso il titolo.

14 giugno 2016

Cannes e dintorni 2016

Da oggi si parte con la rassegna milanese dei film dell'ultimo Festival di Cannes, che durerà per una settimana. Fra le pellicole che vedrò ci sono la Palma d'Oro ("I, Daniel Blake" di Ken Loach) e i film di Xavier Dolan, Pablo Larrain, Asghar Farhadi e Cristian Mungiu. Quelli di Almodóvar e Winding Refn li ho già visti in sala nei giorni scorsi, mentre purtroppo mancano all'appello (fra gli altri) Verhoeven, Jarmusch, Assayas e Koreeda. Come ogni anno, la rassegna è integrata da pellicole provenienti da altri festival (fra cui il giapponese "Tokyo love hotel" di Hiroki Ryuichi dal Far East Film Festival di Udine).

13 giugno 2016

The neon demon (Nicolas Winding Refn, 2016)

The neon demon (id.)
di Nicolas Winding Refn – Danimarca/Francia/USA 2016
con Elle Fanning, Jena Malone
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca.

Jesse (Elle Fanning), sedicenne proveniente da un paesino di provincia, si è trasferita a Los Angeles dove aspira fare la modella. Qui la sua bellezza – ma soprattutto la sua purezza e la sua luce interiore – conquistano subito tutti: viene così assunta da un'agenzia e scelta da un importante stilista come sua musa. Il rapido successo, però, le procura anche l'invidia di altre modelle già affermate e ossessionate dal desiderio di rimanere al centro dei riflettori... Thriller psicologico che nel finale si trasfigura, cambiando improvvisamente registro e assumendo venature horror, esplicitando in chiave estrema il concetto del "cannibalismo" della bellezza di cui si nutrono tutti coloro che fanno parte del mondo della moda (la dicotomia fra cibo e sesso, fra l'altro, è introdotta quasi subito, nel discorso a proposito dei colori dei rossetti). Con il suo candore e la sua innocenza, Jesse pare una vittima predestinata in un mondo che si nutre di giovani donne per masticarle e sputarle non appena non sono più all'altezza (oltre che preda ideale, indistintamente, di uomini e di animali feroci), mentre l'unico che sembra interessarsi a lei non solo per il suo aspetto, il giovane Dean (Karl Glusman), viene respinto dalla stessa ragazza una volta che comincia a "integrarsi" nel sistema. Ma la sua bellezza, ciò che le dà "potere" sugli altri, è anche estremamente pericolosa... Con atmosfere fra il Lynch di "Mulholland Drive" e l'Aronofsky de "Il cigno nero", il film scorre pericolosamente sul filo degli eccessi. Il regista danese (che nei titoli di testa si firma con la sigla "NWR", come se fosse un marchio di moda) si appoggia a un'estetica pop e da video-arte, fra luci, colori, musica elettronica (di Cliff Martinez) e movimenti di macchina che danno vita a sequenze oniriche e psichedeliche, e compensa con lo stile un soggetto in fondo più banale di quando non appaia a prima vista, perfetto per un mondo crudele ma artificiale, dove dietro la bellezza non c'è altro che vacuità e vanità. Jena Malone è Ruby, la truccatrice lesbica che dedica il suo lavoro (e le sue attenzioni) sia alle modelle che ai cadaveri dell'obitorio; Abbey Lee e Bella Heathcote sono le colleghe di Jesse. Nel cast anche Keanu Reeves (il gestore del motel), Christina Hendricks (la direttrice dell'agenzia), Desmond Harrington (il fotografo) e Alessandro Nivola (lo stilista).

11 giugno 2016

Fahrenheit 451 (François Truffaut, 1966)

Fahrenheit 451 (id.)
di François Truffaut – GB/USA/Francia 1966
con Oskar Werner, Julie Christie
***

Rivisto in DVD.

Considerato dallo stesso regista il suo lungometraggio dalla realizzazione più "faticosa", questo adattamento del romanzo di Ray Bradbury è un lavoro decisamente atipico nella carriera di Truffaut: si tratta del suo primo (e unico) film girato all'estero e in lingua inglese, del suo primo film a colori, e del primo (e unico) di genere fantascientifico, anche se sarebbe più preciso dire distopico. Il testo di Bradbury ha infatti contribuito, insieme a "1984" di Orwell, a fondare il filone, stabilendo tutti quei luoghi comuni che caratterizzeranno un genere che resterà particolarmente in voga negli anni sessanta e settanta (da "THX 1138" a "la fuga di Logan"). In una società futura in cui leggere è proibito (perché "i libri rendono la gente infelice e antisociale"), il protagonista Montag fa parte del corpo dei pompieri, ovvero di coloro che sono incaricati di bruciare i libri che la gente, ostinatamente, continua a tenere nascosti nelle proprie case. Montag non sembra aver dubbi, esegue ciecamente gli ordini e segue le regole che gli vengono imposte senza interrogarsi sul perché. Eppure è diverso dagli altri suoi colleghi: a un certo punto, spinto dalla curiosità instillatagli da una misteriosa ragazza, si azzarda a leggere uno dei volumi che sequestra e scopre che al suo interno ci sono vita, sentimenti, emozioni, ovvero tutto ciò che nel mondo attorno a lui è ormai assente, fra persone tenute nell'ignoranza, anestetizzate dal conformismo (è vietato anche avere capelli lunghi!), dai farmaci e dalla televisione (onnipresente in ogni casa, con schermi giganti a parete, da cui sono dipendenti soprattutto le donne: casalinghe che si illudono di far parte di una "grande famiglia" e che chiamano "cugine" le annunciatrici televisive). Insomma, un mondo popolato da automi, privi di emozioni e di veri rapporti umani, e paradossalmente pronti in ogni istante a denunciare il prossimo (e anche i propri familiari) per presunti comportamenti antisociali.

Pur essendo tecnicamente un film di fantascienza, sullo schermo c'è poco spazio per la tecnologia futuristica e gli effetti speciali (da citare i suddetti schermi televisivi, praticamente identici a quelli odierni, interattività compresa; i veicoli, fra cui spicca una metropolitana sospesa; e gli edifici, freddi, moderni e razionali), perché l'attenzione di Truffaut è rivolta agli aspetti sociali e ideologici della vicenda, alla rappresentazione di una società che ha volontariamente messo al bando la cultura scritta per poter meglio controllare i suoi cittadini. L'intuizione più geniale, non a caso, è quella della comunità di ribelli alla quale Montag finirà con l'unirsi: gli "uomini libro", che vivono clandestinamente in aperta campagna e ognuno dei quali ha imparato a memoria un libro, da tramandare di generazione in generazione, per evitare che scompaia per sempre. Il titolo "Fahrenheit 451" si riferisce alla temperatura alla quale bruciano i libri, corrispondendente a 232,7 gradi Celsius (in realtà pare che sia più bassa): il numero 451, insieme a una salamandra stilizzata, compare sulle caserme e sulle divise del corpo dei pompieri. Oskar Werner (Montag) aveva già recitato per Truffaut in "Jules e Jim". Julie Christie interpreta un doppio ruolo: Linda (la moglie di Montag) e Clarisse (la ribelle che instilla nel protagonista i primi germi della curiosità per la lettura), ovvero i due estremi del conformismo e dell'anticonformismo nella vita di Montag. Da notare che i titoli di testa sono letti a voce anziché essere scritti sullo schermo (come avevano fatto Orson Welles ne "L'orgoglio degli Amberson" e Jules Dassin ne "La città nuda", ma qui la trovata è molto più in contesto). La colonna sonora è di Bernard Herrman, il compositore preferito da Alfred Hitchcock, da sempre ammirato dal regista francese. Fra i tantissimi libri che si vedono bruciare sullo schermo (compreso il "Mein Kampf" di Hitler), c'è anche una copia dei "Cahiers du Cinéma", la rivista sulla quale scriveva lo stesso Truffaut. Anche Bradbury è citato esplicitamente (uno degli "uomini libro", infatti, è "Le cronache marziane").

9 giugno 2016

Julieta (Pedro Almodóvar, 2016)

Julieta (id.)
di Pedro Almodóvar – Spagna 2016
con Emma Suárez, Adriana Ugarte
**

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina.

Quando riceve per via traverse notizie della figlia Antía, di cui non sapeva più nulla da dodici anni, la madrilena Julieta si tuffa nei ricordi, rievocando gli ultimi trent'anni della propria vita: dal primo incontro con Xoan, il pescatore di cui si innamora e che sarà il padre di Antía, alla vita trascorsa insieme prima della scomparsa dell'uomo in mare; dal periodo di depressione vissuto con la figlia adolescente, alla misteriosa partenza di quest'ultima e al tentativo di rifarsi una vita con un nuovo conoscente. Tratto da alcuni racconti di Alice Munro, un melodramma che parla di addii e di separazioni, di perdite e di sensi di colpa: a partire dal primo e fugace incontro con uno sconosciuto in treno, del cui suicidio la protagonista si sente responsabile e il cui ricordo resterà vivo nella sua mente, per proseguire con l'abbandono dei familiari (il compagno, la figlia, i genitori: a volte Julieta è abbandonata, altre volte – come con il padre – è lei ad abbandonare). Altro tema ricorrente è quello della malattia e di come questa trasformi non tanto chi ne è colpito ma i cari che lo accudiscono: la moglie di Xoan (in coma da anni), la madre di Julieta (nella casa di campagna) e lei stessa (nella sua fase di depressione) hanno al loro fianco qualcuno che li sostiene ma che contemporaneamente pensa a sé stesso, al "dopo", a costruirsi un'altra vita senza il fardello che li opprime (Xoan e il padre di Julieta, una volta morte le rispettive mogli e anzi ancora prima, si trovano subito una nuova compagna; Antía pianifica la fuga e rinnega ogni cosa della vita precedente, persino l'amicizia con l'inseparabile Beatriz). La dimensione spirituale del personaggio principale, insegnante di letteratura classica, è accompagnata dalla mitologia: sembra quasi che ogni evento e ogni persona della sua vita si possa ricondurre a un mito greco, a partire dall'amato Xoan, inghiottito dal mare come un Ulisse che non può mettere radici sulla terra, mentre la stessa Julieta è una Penelope che attende invano il ritorno della figlia. La regia di Almodóvar è attenta ai dettagli e gioca come sempre con i colori (vedi l'abbigliamento di Julieta, che passa dall'azzurro al rosso e al bianco: ma i toni del passato perdono vivacità man mano che ci avviciniamo al presente), anche se la sceneggiatura manca un po' di focus e si perde in rivoli che non portano a nulla (ma così è la vita vera). Il risultato, paradossalmente, è un film stratificato ma senza particolare profondità, da ascrivere al filone più serio, realistico e meno "trasgressivo" del regista spagnolo (quello cui appartengono "Volver" e "Il fiore del mio segreto", per intenderci). Adriana Ugarte e Emma Suárez sono rispettivamente la Julieta giovane e invecchiata. Dopo alcuni film in cui mancava, si rivede Rossy de Palma (nei panni della governante Marian).

8 giugno 2016

71 frammenti di una cronologia del caso (M. Haneke, 1994)

71 frammenti di una cronologia del caso (71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls)
di Michael Haneke – Austria/Germania 1994
con Gabriel Cosmin Urdes, Lukas Miko
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Prendendo spunto da un fatto di cronaca avvenuto a Vienna l'anno prima (uno studente diciannovenne fa fuoco nella filiale di una banca, alla vigilia di Natale, uccidendo tre persone prima di suicidarsi, apparentemente senza motivo), Haneke "costruisce" un film che racconta in parallelo, attraverso una serie di frammenti di durata diversa (da pochi secondi a svariati minuti) e separati l'uno dall'altro da uno stacco nero, le vite dei vari personaggi che si ritroveranno alla fine nella banca. Seguiamo così le esistenze dello studente in questione, fra studi, allenamenti di ping pong, giochi con gli amici, telefonate ai genitori e la decisione (di cui non viene spiegato il perché) di acquistare una pistola; di una coppia in cerca di un bambino da adottare; di un piccolo profugo rumeno che bighellona per il centro della città, prima di essere preso dalla polizia e affidato ai servizi sociali; dell'anziano padre di una delle impiegate di banca, che vive da solo e senza affetti; di una guardia portavalori e della sua famiglia... Il tutto inframmezzato da spezzoni di telegiornali che raccontano eventi dell'epoca (la guerra in Bosnia, scioperi, attentati). Come nei precedenti "Il settimo continente" e "Benny's video", Haneke è interessato a mostrare come il male, la follia e la tragedia possano sorgere o irrompere all'improvviso nelle vite quotidiane di persone comuni. Si spiegano così le lunghe sequenze di normale banalità (da ricordare, in particolare, il lungo allenamento a ping pong e la telefonata dell'anziano genitore con la figlia), l'apparente mancanza di collegamento fra i vari personaggi, l'insensatezza della violenza che esplode all'improvviso nel finale: un'assurda strage della follia che finisce col diventare solo una delle tante notizie del telegiornale, senza alcun approfondimento, fra un bollettino di guerra e una cronaca su Michael Jackson. I vari frammenti sono caratterizzati da dialoghi assenti o estremamente rarefatti, quasi a mettere in luce la solitudine delle persone e la fragilità dei legami sociali, familiari, di amicizia. I singoli individui sono a loro volta dei "frammenti" della società, con difficoltà a interagire e spesso lasciati a sé stessi e alla deriva ("La gente qui pensa ai fatti suoi", afferma il giovane profugo per spiegare come ha potuto sopravvivere per tanto tempo da solo, vivendo di furti e di espedienti). Temi che il regista austriaco tornerà ad affrontare, in particolare in "Storie - Code inconnu".

6 giugno 2016

Che ho fatto io per meritare questo? (P. Almodóvar, 1984)

Che ho fatto io per meritare questo? (Qué he hecho yo para merecer esto!!)
di Pedro Almodóvar – Spagna 1984
con Carmen Maura, Verónica Forqué
**1/2

Visto in divx.

Le vicende di una famiglia disfunzionale, ambientate in un caseggiato nella periferia di Madrid, sono al centro di una pellicola quasi corale, ricca di personaggi eccentrici e di situazioni sopra le righe. Gloria (Carmen Maura) lavora come donna delle pulizia e conduce una vita miserabile, cercando a fatica di far quadrare i conti del bilancio familiare. Il marito Antonio (Ángel de Andrés López), tassista, vive nel ricordo della sua prima fiamma, la cantante tedesca Ingrid Muller. Il figlio maggiore Toni (Juan Martínez) vende marijuana ed è l'unico che sembra andare d'accordo con la nonna (Chus Lampreave), una vecchietta taccagna e sciroccata, mentre il figlio minore, Miguel (Miguel Ángel Herranz), è gay e si prostituisce nonostante la giovane età. Fra i personaggi che si muovo attorno a loro, e le cui strade si intrecciano in continuazione, ci sono le vicine di casa Cristal (Verónica Forqué), prostituta con la passione per i travestimenti, e Juani (Kiti Manver), che maltratta ripetutamente la figlia Vanessa (dotata, all'insaputa di tutti, di poteri telecinetici). Ma anche Lucas (Gonzalo Suárez) e Patricia, coppia di scrittori alcolizzati. E ancora: uno psicanalista depresso, un poliziotto impotente, un dentista pedofilo, un ramarro domestico... Fra falsi diari di Hitler e delitti in famiglia, il quarto film di Almodóvar, quello che lo fece uscire dai confini del cinema underground per consacrarlo a livello nazionale, nonostante una certa mancanza di focus (alcuni personaggi minori lasciano il tempo che trovano) risulta complessivamente coerente ed equilibrato, oltre in linea con la sua poetica kitsch, fantasiosa e alternativa, con particolare attenzione ai personaggi femminili e a quelli più disagiati ed emarginati. Anche se non dichiaratamente comico, il tono è leggero e non si prende mai sul serio, risultando surreale e divertente: e questo nonostante il regista abbia dichiarato di aver voluto rendere omaggio al neorealismo italiano, con un film che fosse un "ritratto pulsante della vita suburbana nelle grandi città". In ogni caso, a livello formale rappresenta un deciso passo in avanti rispetto ai lavori precedenti. Cecilia Roth è la ragazza dell'annuncio pubblicitario in tv, mentre lo stesso Almodóvar appare cantando (in playback) in un programma trasmesso in televisione.

4 giugno 2016

Blade: Trinity (David S. Goyer, 2004)

Blade: Trinity (id.)
di David S. Goyer – USA 2004
con Wesley Snipes, Jessica Biel
*1/2

Visto in DVD.

La trilogia del cacciatore di vampiri Blade si conclude con quello che senza dubbio è il più debole dei tre film. Questa volta lo sceneggiatore David S. Goyer si incarica anche della regia e sembra voler legare maggiormente la franchise alle sue origini fumettistiche (in una scena si intravede persino un numero di "Tomb of Dracula", la serie a fumetti Marvel da cui proviene il personaggio). Ecco dunque che il protagonista trova nuovi alleati nei Nightstalkers, un gruppo di giovani cacciatori di vampiri di cui fanno parte, fra gli altri, il sarcastico Hannibal King (Ryan Reynolds) e la coraggiosa Abigail Whistler (Jessica Biel), figlia del suo vecchio mentore (Kris Kristofferson) che in questa occasione, e stavolta per davvero, esce di scena. L'avversario, inoltre, è proprio Dracula (Dominic Purcell), il primo e più antico dei vampiri, risvegliato per l'occasione dal suo sonno centenario, che ora si fa chiamare Drake. Ma ogni spunto potenzialmente interessante (dai vampiri che "incastrano" Blade, mettendolo nel mirino della polizia e dell'FBI, che lo ricerca per omicidio; al tentativo dei Nightstalkers di creare un virus che, combinato con il sangue di Dracula, distrugga all'istante tutti i vampiri del mondo) è neutralizzato da uno sviluppo piatto e da una regia fracassona e molto meno visionaria o inventiva di quella, per esempio, di Del Toro nel secondo capitolo. I siparietti comici affidati a Reynolds cadono nel vuoto (con la possibile eccezione della scena con i cani) e l'interazione fra i personaggi non convince (pare che Snipes sul set non andasse d'accordo né col regista né con gli altri attori). Piccole parti per Parker Posey, Natasha Lyonne e James Remar. La traduzione italiana altera alcuni termini rispetto ai due film precedenti (usando per esempio "familiare" al posto di "discepolo").

3 giugno 2016

Blade II (Guillermo del Toro, 2002)

Blade II (id.)
di Guillermo del Toro – USA 2002
con Wesley Snipes, Kris Kristofferson
**

Rivisto in DVD.

Il secondo film di Blade è sicuramente migliore del primo per regia (Del Toro!), confezione, fotografia ed effetti speciali, e schiaccia maggiormente il pedale dell'azione e dell'horror. Peccato per una trama poco originale e per una sceneggiatura che nel finale, fra sorprese, tradimenti e colpi di scena, si rivela non priva di buchi logici. Questa volta Blade (Snipes) è costretto ad allearsi con i suoi nemici, i vampiri, che gli chiedono una tregua per affrontare insieme una minaccia comune: una nuova specie di succhiasangue, nati da da una variante del virus del vampirismo, dotati di capacità sovrumane, fattezze mostruose (la mandibola che si apre, l'aspetto malaticcio alla Nosferatu) e immuni all'argento e all'aglio (ma non alla luce del sole), che predano non solo gli esseri umani ma anche e soprattutto gli stessi vampiri. Blade si ritrova così a guidare l'Emobranco, unità d'èlite di combattenti fra i quali spiccano la bella Nyssa (Leonor Varela), figlia del capo supremo dei vampiri, e l'infido Reinhardt (Ron Perlman, l'attore feticcio di Del Toro). Oltre al protagonista, l'unico personaggio che ritorna dal film precedente è il vecchio mentore Whistler (Kristofferson), che si scopre non essere morto ma solo tenuto prigioniero dei vampiri per un paio di anni. Nel frattempo Blade si è procurato un nuovo assistente e armaiolo, più giovane: Scud (Norman Reedus). Nella prima parte del film è reso ancora più esplicito il parallelo fra vampiri e tossicodipendenti, che vanno in crisi d'astinenza quando non possono più bere sangue: peccato che la metafora si perda man mano che la pellicola procede e si trasforma in un action movie simile a tanti altri. Come spesso capita con Del Toro, al fascino di forma e immagini corrisponde poca sostanza dal lato dei contenuti. Il terzo e ultimo film della trilogia sarà diretto direttamente dallo sceneggiatore, David S. Goyer.

2 giugno 2016

Blade (Stephen Norrington, 1998)

Blade (id.)
di Stephen Norrington – USA 1998
con Wesley Snipes, Stephen Dorff
**

Rivisto in DVD.

Il cacciatore di vampiri Blade (Snipes) è un "diurno" (ovvero un dhampir, un uomo nato da una donna che era stata vampirizzata mentre era incinta), con caratteristiche tipiche delle creature della notte (forza, agilità e resistenza oltre la norma, ma anche sete di sangue, che tiene a bada con un particolare siero) ma senza le loro debolezze (non teme la luce del sole, per esempio). Con l'aiuto dell'anziano Whistler (Kris Kristofferson), suo mentore e armaiolo, vaga di città in città per stanare ed eliminare i vampiri che si nascondono fra la gente comune, usando armi come lame e proiettili d'argento. La sua strada si incrocia con quella del Diacono Frost (Dorff), un vampiro in ascesa nelle gerarchie della sua gente, che intende dominare il mondo risvegliando un'antica divinità. Liberamente ispirato a un personaggio minore dell'Universo Marvel, creato negli anni settanta da Marv Wolfman e Gene Colan per la serie a fumetti "Tomb of Dracula", uno dei primi film "belli", diciamo così, tratti dai comics della Casa delle Idee, anche se fa di tutto per nascondere la sua origine fumettistica. Nonostante un budget limitato e una sceneggiatura che nel finale parte un po' per la tangente, il buon ritmo, la regia attenta, l'atmosfera stilosa e il mood a tratti quasi carpenteriano giustificano il successo di pubblico, che porterà alla realizzazione di ben due sequel (il primo diretto da Guillermo del Toro e il secondo direttamente dallo sceneggiatore David S. Goyer). Apprezzabili anche gli effetti speciali, con uno dei primi esempi di bullet time. Da notare come, ben prima di "Twilight" e rimanendo comunque nei binari dell'action-horror, il film aggiorni la figura del vampiro mostrando succhiasangue giovani, modaioli e che indugiano in rave party a base di sangue. Buono il cast: oltre a Snipes, Dorff e l'inatteso Kristofferson, c'è N'Bushe Wright nei panni dell'ematologa che cerca una cura contro il vampirismo. Brevi parti, inoltre, per Udo Kier e Traci Lords.