21 settembre 2016

I magnifici sette (Antoine Fuqua, 2016)

I magnifici sette (The magnificent seven)
di Antoine Fuqua – USA 2016
con Denzel Washington, Chris Pratt
**

Visto al cinema Orfeo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Remake del classico western di John Sturges del 1960, che a sua volta era una rilettura de "I sette samurai" di Akira Kurosawa: ma sembra che ad ogni passaggio la materia trattata perda di spessore e di significato. Ciò che resta in questa versione è soltanto lo spettacolo, che pure soddisfa e non manca a tratti di epica: ma i personaggi hanno una caratterizzazione basilare, quando non monodimensionale (si pensi al cattivo, cattivissimo), spariscono i temi sociali, la struttura monolitica non dà più spazio agli episodi marginali (dai quali proveniva gran parte della caratterizzazione dei personaggi secondari, i contadini in primis), e si finisce con lo stravolgere anche il concetto di fondo, quello dei guerrieri che combattono per una causa non loro. Qui il leader dei sette ha invece un conto in sospeso con il capo dei nemici, e dunque si batte per la propria vendetta e non per semplice senso di giustizia. Come nella più recente tradizione hollywoodiana "ecumenica" (o, se vogliamo, improntata al politically correct), i sette protagonisti sono quanto mai diversi etnicamente: abbiamo un nero (influenze tarantiniane?), il cacciatore di taglie Sam Chisolm (Denzel Washington), ex soldato nordista; l'irlandese alcolizzato, estroverso e giocatore d'azzardo Josh Faraday (Chris Pratt); l'ex cecchino sudista e cajun Goodnight Robicheaux (Ethan Hawke), in preda ai fantasmi del passato; il sicario asiatico Billy Rocks (Lee Byung-hun), abile con le lame; il fuorilegge messicano Vasquez (Manuel Garcia-Rulfo); il trapper di montagna e cacciatore di orsi Jack Horne (Vincent D'Onofrio); il guerriero comanche Red Harvest (Martin Sensmeier). Che persone come queste, nonostante i tanti dissidi storici e sociali che li dovrebbero separare (il nordista e il sudista, il texano e il messicano, l'indiano e il cacciatore), si mettano insieme così facilmente e si fidino l'uno dell'altro quasi senza conoscersi è alquanto improbabile: il comanche è addirittura un pellerossa incontrato letteralmente per caso! Le caratteristiche che identificano i personaggi sono appena abbozzate, non hanno alcun seguito (l'alcolismo di Faraday) o vengono usate in maniera esclusivamente funzionale (la crisi di Robicheaux), quando non servono semplicemente ad aiutare lo spettatore a distinguere un personaggio dall'altro (l'indiano, l'orientale, il trapper...: poco più che stereotipi). Gli unici altri personaggi con un ruolo chiave sono il cattivo Bartholomew Bogue (Peter Sarsgaard), spietato uomo d'affari che intende impadronirsi della miniera d'oro che si trova sotto il terreno dei contadini (ed è ironico come nei "Magnifici sette" originale si scherzasse proprio sul fatto che nel villaggio ci fosse un giacimento d'oro, cosa naturalmente non vera), ed Emma (Haley Bennett), la ragazza che arruola i sette eroi (ma lo fa di propria iniziativa, non su decisione della comunità: e naturalmente sarà lei a sparare il colpo decisivo contro il nemico). È invece completamente assente la "scheggia impazzita", il personaggio di rottura che nel film di Kurosawa era Toshiro Mifune e in quello di Sturges era (in versione già attenuata) Horst Buchholz. Nel complesso il cast non deve sprecarsi troppo, visto che la sceneggiatura non lo richiede e la regia pare attenta solo a rendere al meglio le scene d'azione. D'altronde, a questo siamo di fronte: un film d'azione, che su questo piano alza pure la posta (i nemici da affrontare sono cinque volte tanti rispetto al 1960), e ciò nonostante fatica a far percepire l'eroismo o il dramma del sacrificio. In ogni caso, l'intrattenimento per due ore non manca, e chi è in astinenza di cinema western potrà anche sentirsi soddisfatto. Da segnalare il ripescaggio di due o tre frasi del film originale ("Spesso mi hanno offerto molto, ma mai tutto", "Se Dio non avesse voluto che li tosassimo, non ne avrebbe fatto delle pecore", "Fino a qui tutto bene") nonché del celebre tema musicale, relegato però ad aprire i titoli di coda come una sorta di omaggio nostalgico.

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