31 dicembre 2016

Blade runner (Ridley Scott, 1982)

Blade Runner (id.)
di Ridley Scott – USA 1982
con Harrison Ford, Rutger Hauer
****

Rivisto in DVD.

Nella Los Angeles del 2019, una città cupa, multietnica e perennemente sferzata dalla pioggia, l'ex poliziotto Rick Deckard (Harrison Ford) viene richiamato in servizio per dare la caccia e "ritirare" – ovvero uccidere, in un modo o nell'altro – quattro "replicanti" (sofisticati androidi del tutto identici all'uomo, progettati per lavorare in condizioni estreme nelle colonie spaziali), tornati illegalmente sulla Terra. Il gruppo, guidato da Roy Batty (Rutger Hauer), vuole entrare in contatto con l'uomo che li ha progettati, il dottor Eldon Tyrell (Joe Turkel), per conoscere lo scopo della propria esistenza e la durata della propria vita. I replicanti sono infatti programmati per "spegnersi" dopo quattro anni, vista la pericolosa tendenza a sviluppare emozioni e diventare così umani in tutto e per tutto. Nel corso delle sue indagini, Deckard – coadiuvato dall'ambiguo Gaff (Edward James Olmos) – fa la conoscenza di Rachael (Sean Young), ultimo prototipo ideato da Tyrell, una replicante che non sa di essere tale (per via dei falsi ricordi in lei innestati), e se ne innamora. Tratto dal romanzo di Philip K. Dick "Do Androids Dream of Electric Sheep?", pubblicato in Italia come "Il cacciatore di androidi" (ma gli sceneggiatori Hampton Fancher e David Webb Peoples, nell'adattarlo, si prendono le loro libertà), una pellicola di fantascienza filosofica, seminale e incredibilmente influente (anche a livello estetico), capostipite di quel filone cyberpunk che con il suo mood e il suo stile retrò da neo-noir ha formato gran parte dell'immaginario SF cinematografico (e non solo: pensiamo ai fumetti o ai videogiochi) dei decenni successivi. Si dice che William Gibson, l'autore di "Neuromante" (il libro al quale si fa risalire la nascita del cyberpunk letterario), guardando il film mentre era ancora impegnato nella stesura del suo romanzo, rimase talmente scosso nel ritrovare sullo schermo quelle stesse immagini e atmosfere che stava tentando di portare sulla carta da pensare addirittura di abbandonare l'impresa (il libro sarebbe stato pubblicato poi nel 1984, con il suo celebre incipit: "Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto").

"Non era previsto che i replicanti avessero sentimenti, e nemmeno i cacciatori di replicanti", commenta Deckard (nella prima versione cinematografica, quella con la voce narrante). Anziché semplici "robot cattivi", come nelle più stereotipate pellicole di fantascienza, i "lavori in pelle" – come li chiama il superiore di Rick, il capitano Bryant – sono personaggi complessi e sfaccettati, vero fulcro (ancor più del protagonista) della storia narrata. Lo sviluppo di emozioni li porta a indagare su sé stessi e sulla propria esistenza, fino al desiderio di conoscere il proprio creatore. Se noi potessimo incontrare Dio, cosa gli diremmo e cosa gli chiederemmo? Roy Batty spiega a Tyrell di avere paura della morte e che desidera "più vita". Lo scienziato risponde che tutti devono avere dei limiti, come è giusto che sia (e inoltre: "La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo. E tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti, Roy"). Da quel momento, la pellicola è diretta verso l'inevitabile conclusione: certo, deve ancora mostrarci lo scontro finale fra Deckard e Batty (ma non è più uno scontro fra il bene e il male, se mai lo era stato), ma anche questo si rivela fuori dagli schemi, lontano da tutto ciò che si era mai visto fino ad allora in un film di fantascienza. Anche se violenta e piena d'azione, la battaglia è quasi esistenzialista, e a vincerla non è l'eroe ma il "cattivo" (persino noi spettatori, in certi punti, ci ritroviamo a tifare per lui: quando prima Leon e poi Roy domandano a Rick "Com'è vivere nel terrore?", ci stupiamo del fatto che due androidi comprendano più degli umani il valore della vita). Non a caso la scena più celebre del film è quella del monologo finale di Roy, sulla terrazza e sotto la pioggia, a petto nudo e con una colomba bianca in mano, mentre aspetta di morire dopo aver salvato la vita al suo avversario: "Io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi...". Un monologo che tutti gli appassionati di SF cinematografica hanno probabilmente imparato a memoria, e che talvolta amano recitare nei momenti più opportuni. I replicanti hanno un passato artificiale, con innesti di ricordi fasulli ("Hanno bisogno di ricordi": o forse hanno bisogno di umanità), ma quello che hanno vissuto in prima persona è ancora più unico dei falsi ricordi, più prezioso e più difficile da abbandonare: "E tutti questi momenti andranno perduti, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire".

Com'è noto, la versione uscita nelle sale cinematografiche nel 1982 fu rimaneggiata dai produttori che inserirono, contro il volere di Scott e di Ford, la voce narrante di Deckard (su testi scritti da Roland Kibbee, non accreditato) e il "lieto fine" in cui Rick e Rachael fuggono da Los Angeles (con la voce che spiega che la ragazza non ha nessuna "data di scadenza"): le immagini di quest'ultima sequenza, che mostrano la natura incontaminata al di fuori della città, facevano parte delle panoramiche aeree girate (e poi non utilizzate) per lo "Shining" di Stanley Kubrick. Un'altra modifica fu quella di eliminare una sequenza in cui Deckard sognava un unicorno: questa scena, se collegata con quella nel finale in cui Deckard trova un origami a forma di unicorno lasciatogli da Gaff, suggeriva che lo stesso Rick potesse essere un androide (in quanto il suo sogno sarebbe stato innestato artificialmente, tanto che Gaff e altri ne sarebbero a conoscenza). Le versioni del film uscite nel 1991 ("Director's Cut") e nel 2007 ("Final Cut") ristabiliscono – in particolare la seconda – la visione originale di Ridley Scott. Personalmente, però, sono rimasto affezionato alla prima edizione, al punto da preferirla: mi pare che la voce narrante accentui mirabilmente l'atmosfera da film noir, anche grazie all'ottimo doppiaggio italiano (in quella inglese, Harrison Ford fu accusato di aver volutamente "recitato male" durante le sessioni di registrazione, nella speranza che i produttori cambiassero idea e rinunciassero a inserire il voice-over). Le versioni successive reintroducono anche un paio di scene violente che mancavano dall'edizione americana (ma già presenti in quella internazionale) e correggono inoltre alcuni errori di continuity. Bryant, all'inizio, spiega che i replicanti evasi sono sei e che uno è "rimasto folgorato" tentando di introdursi nella Tyrell Corporation: ma poi quelli cui Deckard darà la caccia sono solo quattro (Roy, Leon, Pris e Zhora)! Nello script era inizialmente previsto lo scontro con un'altra replicante, Mary (che sarebbe stata interpretata da Stacey Nelkin), poi eliminato per problemi di budget. Solo nella "Final Cut" l'errore è stato corretto, e ora quelli che si sono "folgorati" sono due. A proposito dell'unicorno, infine: costretto ad eliminarlo da "Blade Runner", Scott si rifece inserendone uno, tre anni più tardi, nel suo lavoro successivo, il fantasy "Legend".

Il mondo in cui si svolge "Blade Runner" (a proposito, il titolo – preso in prestito dall'omonimo romanzo di Alan E. Nourse e dal suo trattamento scritto da William S. Burroughs, di cui Scott acquistò i diritti pur di poterlo usare – si riferisce ai membri dell'unità di polizia incaricati di rintracciare e "ritirare" i replicanti) è urbano, distopico, perennemente al buio e sotto una pioggia incessante. Richiama in maniera evidente quello dei film noir, anche se virato in chiave fantascientifica: e il personaggio di Deckard, con la sua professione, il suo impermeabile, la sua misantropia, la sua aura di perdente, sembra uscire da un romanzo hard boiled (la voce narrante con cui si rivolge allo spettatore, come detto, accentua questa atmosfera: "Non cercano killer nelle inserzioni sui giornali..."). Se nulla ci viene mostrato delle cosiddette "colonie extra-mondo", quelle dove lavorano i replicanti e verso le quali martellanti annunci spingono i disperati in cerca di "una nuova vita", tutto l'impegno profuso dai cineasti nel world building è rivolto alla città di Los Angeles: una distesa di palazzi scuri, illuminati dalle insegne al neon, dagli schermi pubblicitari sempre accesi e dai fiotti di fuoco che si innalzano verso il cielo, dove le suggestioni architettoniche richiamano al tempo stesso il futuro e il passato (le piramidi – ispirate ai disegni dell'architetto futurista Antonio Sant'Elia – e gli arredi "egiziani"). A breve distanza convivono affollate chinatown, caotici quartieri-bazar, locali edonistici, distretti tecnologici (la Tyrell Corporation) e zone invece disabitate (il palazzo dove vive J.F. Sebastian, che sarà lo scenario dello scontro finale fra Deckard e Roy). "La cosa più semplice e radicale che Ridley Scott ha fatto – ha commentato Gibson – è stata quella di mettere archeologia urbana in ogni fotogramma. Nelle città, il passato, il presente e il futuro possono essere totalmente adiacenti". La sua Los Angeles è anche un coacervo di culture e di etnie – occidentali e orientali, arabi ed europei, cinesi e giapponesi – che si riflette anche nella lingua parlata: si pensi allo slang di Gaff ("Un guazzabuglio di giapponese, spagnolo, tedesco e chi più ne ha..."). La mescolanza di stili e di epoche torna infine nella moda, nelle acconciature, nel look dei suoi abitanti, che a volta ricordano gli anni trenta o gli anni cinquanta: un esempio su tutti è la capigliatura a pompadour di Rachael. Ma persino la colonna sonora di Vangelis, elettronica e fuori dal tempo, è completata da brani (come la canzone "One more kiss, dear") che guardano chiaramente al passato e al music hall.

Fra le fonti alle quali Scott e Syd Mead (il concept artist) si sono ispirati per la creazione del paesaggio urbano (a costo di ripetermi, uno dei punti di forza della pellicola, tanto che molti critici l'hanno paragonata in questo al "Metropolis" di Fritz Lang) ci sono i quadri di Edward Hopper e soprattutto i fumetti francesi degli Humanoïdes Associés (in particolare le opere di Moebius e degli altri autori pubblicati sulla rivista "Métal Hurlant"). Proprio Moebius venne avvicinato per collaborare al film in fase di pre-produzione, ma il disegnatore declinò l'invito (per poi pentirsene). Il regista ha anche citato "il paesaggio di Hong Kong in una brutta giornata" (a proposito, fra i finanziatori del film figura Run Run Shaw, uno dei leggendari Shaw Brothers, produttori cinematografici dell'ex colonia inglese) e quello industriale del Nord-Est dell'Inghilterra, dove lo stesso Scott è nato e ha vissuto per diversi anni. Gli effetti speciali, stupefacenti se si pensa che furono realizzati senza il ricorso al digitale, sono supervisionati da Douglas Trumbull (già responsabile di quelli di "2001: Odissea nello spazio" e "Incontri ravvicinati del terzo tipo") e Richard Yuricich. Il casting non fu facile: per il ruolo di Deckard, lo sceneggiatore Hampton Fancher aveva pensato a Robert Mitchum (altra suggestione noir, visto che Mitchum è uno dei volti per eccellenza del Marlowe di Raymond Chandler), mentre Scott e i produttori avrebbero preferito Dustin Hoffman. Harrison Ford fu scelto solo all'ultimo momento, forse perché collegato all'immaginario fantascientifico per via della sua presenza in "Guerre stellari". Sul set, però, attore e regista non andarono d'accordo e si scontrarono a più riprese (uno dei pochi punti in comune fu l'opposizione all'inserimento della voce narrante). Più semplice fu il casting di Rutger Hauer ("il Batty perfetto: freddo, ariano, senza difetti", disse Dick). Sean Young era relativamente sconosciuta, così come Daryl Hannah (Pris). Il ricco cast è completato da Brion James (Leon), Joanna Cassidy (Zhora: memorabile la sequenza in cui fugge fra la folla, seminuda e coperta solo con un giubbotto di plastica trasparente), M. Emmet Walsh (il capitano Bryant), William Sanderson (J.F. Sebastian). A Morgan Paull, che interpretava il ruolo di Deckard durante i provini per gli altri attori, fu poi riservata la parte di Holden, il "Blade Runner" che viene ucciso da Leon nella prima scena.

Pur trovandoci in un futuro dove esistono androidi sofisticatissimi e automobili volanti, anche la tecnologia appare "antica", arrugginita. Gli schermi televisivi (a tubi catodici) sono piccoli e di bassa qualità, i computer o i telefoni sono ingombranti e rumorosi, per non parlare delle armi (la pistola di Deckard) e degli oggetti di uso comune (gli ombrelli con il manico al neon). L'aspetto "tecnologico" più affascinante, auto volanti a parte, è senza dubbio quello legato alla robotica. Oltre ai replicanti (il modello più avanzato, cui appartengono Roy e gli altri obiettivi di Rick, è il Nexus-6), la cui presenza sulla Terra è illegale, gli organismi artificiali più diffusi sono gli animali. Ci troviamo infatti in un mondo futuro in cui (per via dell'inquinamento o della sovrappopolazione?) le specie viventi sono quasi del tutto estinte, e dunque chi desidera un animale da compagnia non può che ricorrere a un duplicato cibernetico. Questo elemento (che riecheggia nel titolo originale del romanzo di Dick) si riflette nella natura "psicologica" del test Voight-Kampff, studiato per provocare reazioni emotive e dunque individuare gli androidi in mezzo agli esseri umani: gran parte delle domande che gli agenti Blade Runner pongono agli individui sospetti riguardano proprio gli animali. Una versione più "limitata" di questa avanzatissima tecnologia è quella che fa mostra di sé nella dimora di J.F. Sebastian. Costui, progettista genetico che lavora per Tyrell (è attraverso lui che Roy riesce a entrare in contatto con il proprio artefice), si costruisce dei "giocattoli" (poco più che burattini) come amici. In un certo senso non siamo lontano dal concetto degli animali artificiali, anche se in questo caso si tratta per lo più di figure antropomorfe (benché talvolta deformi, o affette da nanismo), poco più che soldatini a molla con l'unica funzione di camminare per le vaste stanze della sua casa vuota e di salutarlo quando torna dal lavoro. Sintomo di un disperato bisogno di avere compagnia, di qualcuno che gli mostri affetto (anche se artificiale): Sebastian è un personaggio tragico e patetico (soffre anche di una sindrome di invecchiamento precoce), che cade facilmente – e forse consapevolmente – nella tela di Pris ("modello base di piacere") e di Roy. Proprio la sua malattia, che gli preannuncia una vita breve, lo porta forse a empatizzare con loro. La stessa Pris, mascherata da procione (con la pelle bianca e l'iconica striscia di vernice nera sugli occhi) si mescolerà facilmente fra le bambole e gli altri robot-giocattolo di J.F. al momento dell'irruzione di Rick nell'edificio.

Visivamente splendido nella sua mescolanza di suggestioni "alte" e "basse", il film è esteticamente notevolissimo, graziato dalla stupefacente fotografia di Jordan Cronenweth, che gioca in più modi con la luce (la fotografia è spesso uno dei principali punti di forza delle pellicole di Scott, che ha imparato a curarla in modo particolare per via del suo background di regista pubblicitario), e dalla sublime colonna sonora di Vangelis, che combina l'uso di melodie classiche (cui contribuiscono la voce di Demis Roussos e il sassofono tenore di Dick Morrissey) con le sonorità futuristiche della musica elettronica. Nonostante tutto, però, alla sua uscita fu accolto freddamente dalla critica e dal pubblico americano (all'estero invece andò meglio), e solo con il passare del tempo assunse lo status di cult movie di cui gode tuttora. Il lungometraggio era il terzo della carriera di Ridley Scott, un altro capolavoro di fantascienza (sicuramente il genere a lui più congeniale, col senno di poi) dopo "Alien": ai tempi, di fronte a tre film di livello così elevato (il primo era stato "I duellanti"), il regista britannico sembrava destinato all'olimpo dei più grandi cineasti, e molti già lo collocavano sul piedistallo al fianco di Kubrick e Spielberg. In seguito, purtroppo, sono state più le delusioni che non le conferme (anche se ottimi film, occasionalmente, li ha comunque realizzati, da "Thelma & Louise" al recente "The Martian"). Il successo della pellicola ha portato inoltre l'opera di Philip K. Dick all'attenzione dei produttori di Hollywood, e da allora non sono stati pochi i film ispirati ai lavori dello scrittore americano ("Total Recall" e "Minority Report", per citarne un paio: addirittura, un film per la tv uscito nel 1999, "Total Recall 2070", è quasi una rilettura dello stesso "Blade Runner"). Dick morì in quello stesso 1982, poco prima dell'uscita della pellicola (che è a lui dedicata), dopo averle dato il suo endorsement. Negli anni seguenti, diversi romanzi e fumetti si sono proposti come "seguito" della storia originale. E nel 2017 uscirà finalmente un sequel ufficiale: "Blade Runner 2049", diretto dal canadese Denis Villeneuve, nel quale Harrison Ford tornerà a interpretare il ruolo di Deckard dopo trentacinque anni (anche se il titolo lascia intendere che dal primo film ne sono trascorsi "solo" trenta).

30 dicembre 2016

L'urlo della città (Robert Siodmak, 1948)

L'urlo della città (Cry of the city)
di Robert Siodmak – USA 1948
con Richard Conte, Victor Mature
**1/2

Visto in divx.

Il tenente Vittorio Candella (Mature) e lo scapestrato Martin Rome (Conte) sono cresciuti insieme a Little Italy, ma hanno preso strade differenti: il primo è diventato un poliziotto integerrimo, il secondo un delinquente di piccolo calibro. Imprigionato per aver ucciso un agente, Martin decide di evadere per proteggere la ragazza che ama, Tina (Debra Paget), dalle accuse di essere stata sua complice in un sanguinoso furto di gioielli (di cui in realtà è innocente). Candella gli darà la caccia, anche per impedire che l'esempio di Martin finisca col traviarne il fratello minore Tony, che lo ammira come un idolo. Noir dalle marcate atmosfere urbane (tutto girato in esterni, pratica che all'epoca non era certo una consuetudine), con una coppia di protagonisti assolutamente complementari (e Siodmak ne approfitta, giocando a mischiare le carte: pur non essendoci mai il dubbio che Candella sia il buono e Martin il cattivo, il primo è sempre vestito di nero e il secondo di bianco, invertendo cioè i tradizionali colori di questo tipo di personaggi). La sceneggiatura (cui ha collaborato Ben Hecht, non accreditato) va dritta al punto, senza svolazzi o divagazioni, costruendo i personaggi in maniera semplice ma efficace e mostrandone tutte le luci e le ombre: il poliziotto intransigente, che non si ferma davanti a nulla pur di far rispettare la legge, e il criminale incallito che pure ha un cuore ed è accusato ingiustamente. Nel cast anche Shelley Winters (Brenda, una delle tante ragazze di Martin), Fred Clark (il collega di Candella), Berry Kroeger (l'avvocato corrotto) e Hope Emerson (la ladra di gioielli). Nella versione italiana, il nome di Martin Rome diventa "Martino Rosky". La colonna sonora di Alfred Newman, che richiama Gershwin, è riciclata dal film "Street scene" del 1931.

28 dicembre 2016

Paterson (Jim Jarmusch, 2016)

Paterson (id.)
di Jim Jarmusch – USA 2016
con Adam Driver, Golshifteh Farahani
***1/2

Visto al cinema Eliseo, con Sabrina.

Paterson, autista di bus con la passione per la poesia, vive a Paterson, New Jersey, con la moglie Laura e il cane Marvin (un bulldog francese). Il film ne racconta una settimana di vita (da lunedì a domenica), attraverso la sua routine quotidiana: sveglia alle 6.15, colazione, lavoro, pausa pranzo, ritorno a casa, cena con Laura, passeggiata con il cane, visita al pub. Gli unici suoi svaghi consistono nello scrivere versi su un "taccuino segreto", ascoltare le bizzarre conversazioni del passeggeri del suo autobus, osservare le dinamiche degli avventori del pub, ed essere testimone delle tendenze artistiche della moglie (che dipinge tessuti e oggetti, sempre con forme e simboli in bianco e nero, cucina cupcake da vendere alla festa dei coltivatori, o progetta di imparare a suonare la chitarra per diventare una cantante country). Come sfondo c'è la città che porta il suo stesso nome, con le sue strade e i suoi parchi, i suoi locali e le sue periferie, i suoi abitanti e i suoi cittadini illustri (il comico Lou Costello, il poeta modernista William Carlos Williams). Il minimalismo di Jarmusch portato agli estremi: un elogio della semplicità e della "poesia delle piccole cose", quella bellezza che, per chi sa coglierla, si nasconde dietro ogni singolo momento e ogni incontro casuale, la cui banalità ispira i versi che il protagonista compone (e che appaiono in sovrimpressione sullo schermo), e che può essere valorizzata dal gioco di rimandi e ripetizioni che la vita stessa regala: sono tanti, infatti, i temi ricorrenti, come il passato, i sogni, i gemelli... tutti già presenti nelle pellicole precedenti di Jarmusch (in particolare in quelle più episodiche, come "Coffee and cigarettes"), ma che qui assumono un'organicità maggiore e profonda, in grado di comprendere tutta un'esistenza. Ne risulta un film al tempo stesso realistico e filosofico, mondano e poetico, caldo, sincero e mai noioso, con cui è facile entrare in sintonia. La contemplazione, la rassegnazione e persino l'indecisione, attraverso la poesia, possono diventare sublimi. Ottimo Driver (nomen omen), deliziosa la Farahani.

24 dicembre 2016

Rogue one (Gareth Edwards, 2016)

Rogue One: A Star Wars Story (id.)
di Gareth Edwards – USA 2016
con Felicity Jones, Diego Luna
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca.

Primo spin-off cinematografico della saga di "Star Wars" (se non contiamo il lungometraggio d'animazione "The Clone Wars" e i due film per la tv sugli Ewok usciti negli anni ottanta). La Disney, dopo aver acquistato i diritti da George Lucas nel 2012, per sfruttare al massimo la franchise progetta infatti di alternare pellicole di questo tipo ai film "canonici" (quelli numerati, per intenderci), facendo così uscire una pellicola nelle sale praticamente ogni anno. Si tratta di storie fuori numerazione, ambientate all'interno dell'universo di "Guerre stellari" ma che mettono in scena avventure di personaggi secondari, o retroscena ed eventi accaduti dietro le quinte. "Rogue One", per la precisione, si colloca fra "Episodio III" ed "Episodio IV" (anzi, si svolge immediatamente prima di quest'ultimo) e racconta come l'alleanza ribelle sia entrata in possesso dei piani della Morte Nera, mostrando dunque quello che nel film del 1977 era liquidato in poche righe nei titoli introduttivi, facendo piombare lo spettatore di allora in media res ("Navi spaziali ribelli, colpendo da una base segreta, hanno ottenuto la loro prima vittoria contro il malvagio Impero Galattico. Durante la battaglia, spie ribelli sono riuscite a rubare i piani segreti dell'arma decisiva dell'impero, la Morte Nera..."). Non solo: spiega anche com'è possibile che in un'arma tanto potente e sofisticata potesse esserci una falla tale da permettere la sua distruzione con un solo colpo (quello scagliato da Luke contro il reattore): Galen Erso (Mads Mikkelsen), lo scienziato che l'ha progettata, l'ha inserita volontariamente per permettere ai ribelli di distruggerla. Personaggio centrale del film è sua figlia Jyn (Felicity Jones: curiosamente, dopo "Il risveglio della forza", è il secondo film consecutivo della saga ad avere una protagonista femminile), che guida il gruppo di spie incaricate di rubare i piani. Con lei ci sono il capitano ribelle Cassian Andor (Diego Luna), l'ex pilota imperiale Bodhi Rook (Riz Ahmed), il droide riprogrammato K-2SO, l'aspirante Jedi cieco Chirrut (Donnie Yen) e il guerriero Baze Malbus (Jiang Wen). Dovranno vedersela in particolare con il direttore Krennic (Ben Mendelsohn), a capo del progetto della Morte Nera.

Diciamo subito che il film, rispetto ai normali capitoli della saga, "vola basso" (il che non è necessariamente un difetto). Di impostazione derivativa, manca quasi del tutto di sense of wonder, non presenta personaggi particolarmente memorabili (anche perché sono tutti "sacrificabili") né momenti destinati a rimanere iconici (forse giusto il finale). Con una regia che punta su uno stacco di montaggio ogni tre secondi (Edwards si è fatto le ossa con un paio di monster movie, fra cui l'ennesimo reboot di "Godzilla"), a lunghi tratti lascia indifferenti, soprattutto nella fase iniziale, quella che introduce personaggi per lo più stereotipati o di poco spessore (non aiutano gli interpreti, in particolare i due principali: meglio invece i comprimari). Cresce invece parecchio nella seconda parte, quando le sequenze d'azione prendono il sopravvento e la pellicola si trasforma in un film di guerra in tutto e per tutto (la battaglia delle forze ribelli sulle "spiagge" del pianeta Scarif ricorda in modo impressionante lo sbarco in Normandia durante la seconda guerra mondiale). Qui, fra scontri, sangue ed esplosioni, pian piano ci si rende conto che la missione degli eroi questa volta è suicida, e quasi dispiace dover dire addio ad alcuni dei comprimari (K-2SO, Chirrut e Baze su tutti). Nel resto del cast, da segnalare Forest Whitaker nei panni di Saw Gerrera, ribelle fra i ribelli, mentre alcuni personaggi chiave di "Episodio IV" – il governatore Tarkin e la principessa Leila – tornano in scena grazie agli effetti digitali (nel caso di Leila non del tutto convincenti, a dire il vero). Ci sono anche un paio di sequenze dedicate a Darth Vader (ma che brutto il doppiaggio italiano!), nonché un breve cameo per R2-D2 e C-3P0 (i quali restano così gli unici personaggi a essere apparsi in ogni film della saga). Gli esterni sono stati girati in Islanda, in Giordania e alle Maldive. Per evidenziare maggiormente il distacco con gli episodi canonici, è la prima pellicola della saga a non avere una colonna sonora di John Williams (anche se alcuni dei suoi temi più celebri sono stati incorporati in quella di Michael Giacchino) e a non presentare, all'inizio, il consueto carrello introduttivo.

23 dicembre 2016

Tokyo! (Gondry, Carax, Bong, 2008)

Tokyo! (id.)
di Michel Gondry, Leos Carax, Bong Joon-ho – Giappone/Francia/Germania/Corea del Sud 2008
con Ayako Fujitani, Denis Lavant, Teruyuki Kagawa
**

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli in inglese.

Film diviso in tre episodi, ambientati a Tokyo e diretti da tre registi (non giapponesi) noti per la loro cifra stilistica autoriale e bizzarra: i francesi Gondry e Carax e il sudcoreano Bong. Il risultato è originale e a suo modo godibile per il taglio surreale e grottesco, ma nel complesso non certo entusiasmante. Disagio, spaesamento e incomunicabilità sono i principali temi trattati: tutt'altro che un grido d'amore per la città (come invece erano stati altri film collettivi, tipo "Paris, je t'aime" o "New York, I Love You"). Tokyo fa qui da sfondo universale per le vicende di personaggi che, tutto sommato, avrebbero potuto svolgersi in qualsiasi altra metropoli (come dimostra il fatto che l'episodio di Gondry è tratto da un fumetto – di Gabrielle Bell – che originariamente era ambientato a New York).

Interior Design (**1/2), di Michel Gondry, con Ayako Fujitani e Ryo Kase
Akira e Hiroko, fidanzati con pochi soldi e poche prospettive, giungono a Tokyo dove lui – aspirante filmmaker – deve proiettare una pellicola in un festival underground. Ospitati momentaneamente da un'amica, cercano senza troppo successo un appartamento e un impiego. Mentre per Akira le cose cominciano ad andare bene (il suo film riceve una buona accoglienza, e intanto trova un lavoro seppur modesto), la ragazza si sente sempre più vuota e a disagio di fronte alle difficoltà e alle responsabilità della grande città. Si trasformerà in una sedia, e come oggetto di arredamento si sentirà finalmente utile. Nonostante il finale surreale, è l'episodio più intimo e malinconico, quello con la miglior sceneggiatura nonché quello che meglio sfrutta l'ambientazione urbana.

Merde (*1/2), di Leos Carax, con Denis Lavant e Jean-François Balmer
Un bizzarro individuo semi-preistorico, scalzo e con la barba rossa, fuoriesce da un tombino e semina il panico e il disordine per le strade di Tokyo. Merde (questo è il suo nome, decisamente programmatico) è una scheggia irrazionale e impazzita, elemento di disturbo e specchio deformante della società: mangia il denaro e i fiori, e odia la gente senza alcun motivo. Arrestato, viene processato (è difeso da un avvocato francese che gli somiglia incredibilmente e che comprende il suo linguaggio gutturale) e condannato a morte: ma sopravviverà all'impiccagione e sparirà nel nulla. Il cartello conclusivo preannuncia una sua trasferta a New York ("Merde in USA"), ma il personaggio riapparirà invece a Parigi in una scena del successivo film di Carax, "Holy Motors". È la prima volta che vedo qualcosa di questo regista, e francamente il suo approccio provocatorio, metaforico e volutamente sgradevole non sembra particolarmente di mio gusto.

Shaking Tokyo (**), di Bong Joon-ho, con Teruyuki Kagawa e Yu Aoi
Un hikikomori, che non esce di casa da dieci anni perché odia la luce del sole e il contatto visivo con le altre persone, rimane affascinato dalla ragazza che ogni settimana gli consegna a casa la pizza. Pur di rintracciarla, si azzarda a avventurarsi per le strade della città, scoprendole completamente deserte: quasi tutti gli abitanti, infatti, si sono reclusi in casa, proprio come lui. Ma le scosse di un terremoto li spingeranno a uscire... L'episodio più romantico e simbolico (molti i paralleli fra la vita umana e quella dei robot: la ragazza ha tatuati sul proprio corpo dei pulsanti che, se premuti, attivano le sue emozioni), ma anche il più esile. Per molti aspetti sembra anticipare i temi di "Castaway on the Moon", pellicola sudcoreana che uscirà l'anno successivo.

22 dicembre 2016

Killer elite (Sam Peckinpah, 1975)

Killer elite (The Killer Elite)
di Sam Peckinpah – USA 1975
con James Caan, Robert Duvall
*1/2

Rivisto in DVD.

Mike Locken (James Caan) lavora per un'agenzia privata di mercenari che offre i propri servizi al miglior offerente, a partire dalla CIA. Tradito dall'amico George (Robert Duvall), che gli spara durante una missione (ma lasciandolo in vita), ha l'opportunità di tornare in azione quando gli viene assegnato il compito di proteggere un politico cinese (Mako) dagli attentati di un gruppo di ninja (!), guidati proprio da George. Messa insieme una squadra di elementi borderline ma fidati – il cecchino Miller (Bo Hopkins) e l'autista Mac (Burt Young) – Mike avrà la sua resa dei conti con George, ma dovrà vedersela anche con il doppio gioco dei suoi superiori (Arthur Hill e Gig Young). Confuso film di spionaggio e di azione, forse il titolo meno memorabile di tutta la filmografia di Peckinpah, che lo diresse sotto la stretta supervisione del produttore Mike Medavoy nel tentativo di dimostrarsi ancora affidabile agli occhi delle major hollywoodiane dopo i dissidi, i flop e i problemi di alcool e di droga sul set dei film precedenti. Se alcuni singoli momenti sono buoni (l'incipit con il tradimento di George, le dinamiche della nuova squadra, lo scontro finale con i ninja su una flotta di navi in disarmo al largo di San Francisco), l'insieme è decisamente poco riuscito: ritmo e narrazione mancano di equilibrio, le motivazioni dei personaggi non vengono approfondite più di tanto (al di là, come spiega il critico Valerio Caprara, di "un universo regressivo, dove il bene e il male sono misurati su criteri strettamente utilitaristici") e gli elementi legati alle arti marziali (assai di moda in quegli anni, sull'onda del successo di Bruce Lee) appaiono goffi e ridicoli. Persino i temi che sarebbero nelle corde del vecchio Sam (l'amicizia virile, l'onore, il tradimento) sono affrontati con meccanicità o svogliatezza. Il lungo inserto con la riabilitazione di Mike potrebbe essere letto come un messaggio dello stesso Peckinpah ai suoi produttori ("Mi sono ripreso, sono pronto a tornare in azione"). Lo scrittore Tom Clancy (non coinvolto nel soggetto o nella scrittura del film) recita nel ruolo di O'Leary, l'uomo della CIA. È l'ultima collaborazione di Peckinpah con il compositore Jerry Fielding, che lavorava con lui sin dai tempi de "Il mucchio selvaggio".

20 dicembre 2016

Il cerchio (Jafar Panahi, 2000)

Il cerchio (Dayereh)
di Jafar Panahi – Iran 2000
con Nargess Mamizadeh, Fereshteh Sadre Orafai
***

Visto in divx.

Diverse storie, tutte con protagoniste femminili, si intrecciano nell'arco di una sola giornata a Teheran. Si comincia con l'audio di un parto, sui titoli di testa. In un ospedale, la madre della partoriente apprende con delusione che la neonata è una femmina, e teme che la famiglia del marito di lei, che desiderava un maschio, la ripudierà. Si prosegue seguendo tre ragazze che sono appena uscite di prigione, e cercano di procurarsi il denaro per la corriera che le porterà nel villaggio di una di loro; un'altra detenuta è evasa perché incinta e vorrebbe abortire; una madre, rimasta da sola, tenta di abbandonare la propria figlia; una ragazza è arrestata per prostituzione; il cerchio si chiude a tarda sera, in una cella, quando dalla finestrella della porta (simile a quella dell'ospedale nella scena introduttiva) si sente lo stesso nome della ragazza che al mattino stava partorendo. Terzo film di Panahi (il primo non incentrato sui bambini), vincitore del Leone d'Oro alla mostra del cinema di Venezia, è probabilmente il più celebre dei tanti film sul tema della condizione (e dell'oppressione) delle donne in Iran. Non soltanto senza un uomo (il marito o un parente) al fianco non possono fare niente (dall'affittare una stanza in albergo a viaggiare da sole, fino al semplice fumare in pubblico!), ma alla minima trasgressione rischiano di essere ripudiate dalle proprie famiglie ed emarginate dalla società, costrette poi a gesti disperati. Soltanto una vaga rete di solidarietà interna le aiuta a stare a galla (le varie ragazze uscite dal carcere si aiutano a vicenda; ma c'è anche chi, come l'infermiera, cerca in tutti i modi di tenere nascosto il proprio passato). Costruito su una serie di long take che si fanno via via sempre più intensi (con uno stile di ripresa differente per ogni protagonista: si passa dalla camera a mano al dolly, dalle inquadrature statiche a quelle in costante movimento), dietro l'ambientazione apparentemente semplice e neorealista il film è complesso, stratificato (eccezionale, come sempre, il lavoro sul sonoro) e magistrale nella messa in scena, per esempio mostrando per contrasto svariate situazioni che permettono di confrontare il trattamento delle donne con quello degli uomini (quando una coppia viene sorpresa in auto, per esempio, la donna è arrestata e l'uomo solo redarguito; e nel furgone della polizia, al detenuto maschio viene concesso senza troppe discussioni di fumare, mentre alla donna no). E soprattutto, non è mai retorico nella sua denuncia di un mondo dove alle donne non è permesso nemmeno di espiare le proprie colpe (ogni forma di riabilitazione è preclusa). Gran parte delle interpreti non erano attrici professioniste (le uniche due eccezioni sono Fereshteh Sadre Orafai, che interpreta Parì, la ragazza incinta, e Fatemeh Naghavi, la madre che abbandona la figlia). Nonostante il premio a Venezia, dove venne peraltro iscritto senza il permesso del ministero della cultura, il film (coprodotto da Italia e Svizzera) non fu particolarmente gradito dalle autorità iraniane, che ne proibirono la proiezione: negli anni seguenti, Panahi ebbe sempre più problemi con la censura e il governo, fino agli arresti nel 2003 (quando gli fu "consigliato" di espatriare, ma lui rifiutò) e nel 2010.

18 dicembre 2016

La stoffa dei sogni (G. Cabiddu, 2016)

La stoffa dei sogni
di Gianfranco Cabiddu – Italia 2016
con Sergio Rubini, Ennio Fantastichini
**

Visto al cinema Eliseo, con Sabrina.

Una furiosa tempesta fa naufragare su un'isola-prigione nel Mediterraneo (mai nominata, ma il film è stato girato all'Asinara) una piccola compagnia di attori teatrali, guidata da Oreste Campese (Rubini), fra i quali si nascondono però anche tre camorristi che erano destinati proprio a quella prigione. Per capire chi di loro è un vero attore e chi è un criminale, il direttore del carcere (Fantastichini) ordina al gruppo di mettere in scena una commedia. Con soli cinque giorni a disposizione per le prove prima che giunga il battello postale, il riluttante Oreste (costretto a reggere la corda ai camorristi, che minacciano sua moglie e sua figlia) organizzerà una riduzione in dialetto napoletano della "Tempesta" di Shakespeare: ma sull'isola la vita reale e la finzione si confondono, così come i ruoli di ogni personaggio... Liberamente ispirato a "L'arte della commedia" di Eduardo De Filippo (del quale viene usata anche la traduzione de "La tempesta"), un film gradevole nella prima metà, ma che perde progressivamente interesse quando il tema dei rimandi fra realtà e teatro comincia a farsi troppo scoperto. Una volta compreso che ogni personaggio della pellicola ha il suo contraltare in uno della commedia di Shakespeare (che non sempre è quello che lo interpreta sul palco: Prospero è in realtà il direttore del carcere, Calibano il pastore sardo, e così via), ci si accorge che il film non ha molto altro da raccontare, se non l'inflazionato tema del teatro e dell'arte che rende liberi anche i prigionieri. Belli comunque gli scenari naturali e incontaminati dell'isola, perfetto sfondo per una storia metaforica e tragicomica. L'omaggio a Eduardo è completato dal cameo di suo figlio Luca De Filippo (anche se il film è uscito nelle sale a fine 2016, è stato infatti girato nel 2015, prima della morte di Luca).

16 dicembre 2016

Captain Fantastic (Matt Ross, 2016)

Captain Fantastic (id.)
di Matt Ross – USA 2016
con Viggo Mortensen, George MacKay
**1/2

Visto al cinema Eliseo, con Sabrina.

Ex hippy e seguaci delle idee di Henry David Thoreau ("Vita nei boschi") e di Noam Chomsky, Ben Cash (Mortensen) e la moglie Leslie hanno cresciuto i loro sei figli (Bodevan, Kielyr, Vespyr, Rellian, Zaja e Nai: tutti nomi inventati per far sì che ognuno di loro fosse "unico" e speciale) nelle foreste selvagge del Nord degli Stati Uniti, lontano dalla civiltà e dal consumismo. Pur non andando a scuola, i ragazzi sono colti e istruiti: oltre ad addestrarli alle tecniche di sopravvivenza nella natura più impervia, Ben li fa leggere e studiare, e naturalmente instilla loro la propria filosofia, le fondamenta del pensiero ateo e critico e le sue idee contro il capitalismo e la società moderna. Alla morte di Leslie, suicidatasi nella clinica dove era ricoverata per un disturbo bipolare, l'uomo – nonostante l'opposizione del suocero Jack (Frank Langella), che minaccia di sottrargli la custodia dei ragazzi – decide di portare i figli al funerale della madre, nel lontano New Mexico, anche per esaudire le ultime volontà della donna (quelle di essere cremata e non sepolta con una cerimonia religiosa). Tra "Mosquito Coast" e "Into the Wild" (ma i toni ricordano quelli di un'altra commedia indipendente e on the road, "Little Miss Sunshine"; e se vogliamo, lo spunto di partenza è simile a "La grande avventura"), una pellicola che celebra l'anticonformismo e fa riflettere su temi come l'educazione, il consumismo, il rapporto fra genitori e figli e quello con la società. Pur semplicistico e viziato da un pizzico di retorica (è pur sempre un film americano, con tanto di obbligatorio lieto fine), il lungometraggio è efficace nel mettere a confronto l'ipocrisia borghese dei parenti con la schiettezza e l'integrità di Ben (che risponde sempre a ogni domanda dei propri figli, non risparmiando loro chiarimenti e spiegazioni – anche scomode – su ogni fatto della vita). Ma al tempo stesso non nasconde gli effetti negativi della sua filosofia di opposizione al sistema: anche se sono stati addestrati a sopravvivere nel migliore dei modi nel contesto della natura, i ragazzi si scoprono incapaci di relazionarsi con la realtà esterna, tanto che lo stesso Ben riconoscerà alcuni dei propri errori e lascerà ai figli la libertà di andare via, se lo desiderano, o di integrarsi ed entrare in contatto con altri modi di pensare (e in questo il film si differenzia, per esempio, dal ben più radicale "Dogtooth" di Yorgos Lanthimos).

14 dicembre 2016

Cobra (George Pan Cosmatos, 1986)

Cobra (id.)
di George Pan Cosmatos – USA 1986
con Sylvester Stallone, Brigitte Nielsen
*1/2

Rivisto in TV.

Il tenente di polizia Marion Cobretti, detto "il Cobra", duro dai modi spicci e insofferente alle regole, viene incaricato di proteggere una modella (Nielsen) da una banda di maniaci armati di accetta (che la vogliono uccidere perché è l'unica testimone di uno dei loro delitti). Nonostante l'ostilità di superiori e colleghi, saprà sgominare la banda e conquistare l'amore della ragazza. Nel tentativo di dare vita a una nuova franchise di successo dopo quelle di Rocky e Rambo, Stallone si affida – almeno nominalmente – alla regia di Cosmatos (che l'anno prima lo aveva diretto in "Rambo 2") e firma di persona una sceneggiatura che più esile non si può (anche se, a onor del vero, la pellicola fu accorciata di oltre mezz'ora per evitare problemi con la censura), ispirata un po' ai film dell'ispettore Callaghan (da cui provengono anche comprimari come Remi Santoni e Andrew Robinson) e un po' al romanzo "Fair Game" di Paula Gosling. Il risultato fu un discreto flop, che si lascia ricordare soltanto per un paio di frasi ad effetto (fra cui la più mitica, nella scena iniziale: "Tu sei il male, io sono la cura"). Per il resto la trama è stereotipata, le scene d'azione non regalano particolari sussulti, la caratterizzazione del protagonista è monodimensionale (il "solito" poliziotto giustizialista e individualista, anche nel vestiario: al posto dell'uniforme indossa jeans, giubbotto di pelle e occhiali a specchio) e quella dei comprimari è virtualmente inesistente (compresi i cattivi, di cui non si spiegano né origini né motivazioni: l'unico che si ritaglia un certo spazio è Brian Thompson, alias "La bestia della notte"). Eppure, se non lo si prende sul serio e lo si approccia come tipico action movie degli anni ottanta, basilare e disimpegnato, può garantire un certo guilty pleasure. All'epoca la Nielsen era la compagna di Stallone, e anche l'automobile di Cobra, una Ford Mercury nera del 1950, era davvero di proprietà dell'attore (ma per le riprese ne furono utilizzate due copie). Diffusissimo il product placement (di Coca-Cola e Pepsi contemporaneamente!). Stallone, che aveva rifiutato il ruolo di protagonista in "Beverly Hills Cop", riversò qui alcune delle idee che aveva proposto per quello. Marion, il nome "femminile" di Cobretti, è il vero nome di John Wayne.

12 dicembre 2016

Storie (Michael Haneke, 2000)

Storie (Code inconnu)
di Michael Haneke – Francia/Germania/Romania 2000
con Juliette Binoche, Thierry Neuvic
**1/2

Rivisto in divx.

A Parigi, sulle facciate delle case, non ci sono citofoni: per aprire i portoni occorre digitare un codice numerico. E se non lo si conosce, è impossibile entrare in contatto. Il "codice sconosciuto" del titolo originale, dunque, allude al filo conduttore di questo film, il primo girato da Haneke fuori dall'Austria: la difficoltà nel comunicare, anche quando si vive sotto lo stesso tetto (che si tratti di coniugi, parenti o vicini di casa) o nella stessa città (e qui il riferimento va agli immigrati, di prima o di seconda generazione). Come nel precedente "71 frammenti di una cronologia del caso", la pellicola è composta da una serie di scene (quasi tutte in piano sequenza, e separate da un breve momento in cui lo schermo si fa nero) che seguono in parallelo le vicende di vari personaggi: l'attrice Anne (Juliette Binoche); il suo compagno Georges (Thierry Neuvic), fotografo di guerra; il giovane Jean (Alexandre Hamidi), fratello di Georges, che vuole fuggire di casa; il padre di questi (Josef Bierbichler), contadino taciturno; Amadou (Ona Lu Yenke), figlio di immigrati africani; Maria (Luminița Gheorghiu), migrante rumena; e tanti altri ancora. Stavolta, però, non c'è un punto di convergenza finale (anzi, c'è divergenza: molti di questi si incontrano nella prima scena per poi seguire strade differenti): il sottotitolo, "Racconto incompleto di diversi viaggi", preannuncia che in effetti mancherà un'esplicita risoluzione. I personaggi sembrano incapaci di comprendersi non soltanto perché parlano lingue diverse (nel film si odono il francese – doppiato in italiano – oltre all'arabo e al rumeno), ma anche perché, pur condividendo lo stesso linguaggio, non sono in grado di comprendere le ragioni o le esigenze degli altri, in una società dove mondi diversi possono coesistere senza mai entrare veramente in contatto. Eppure i possibili linguaggi con cui comunicare sarebbero molteplici, al di là di quello verbale: le immagini (le foto di guerra scattate da Georges), la recitazione o il doppiaggio (Anne), la religione (la madre di Amadou), i riti condivisi (il matrimonio festeggiato in Romania), le dinamiche di gruppo (come quelle fra compagni di classe), i gesti, le regole della convivenza civile, la ribellione, la solidarietà, o semplicemente l'empatia. Tutti sembrano destinati a fallire (persino i bambini sordomuti che aprono e chiudono la pellicola, impegnati nel gioco dei mimi con il linguaggio dei segni, non indovinano mai!). E se viene a mancare anche il rapporto fra innamorati (nella scena finale Georges rimane chiuso fuori di casa, perché non conosce il "codice" del portone che Anne ha cambiato), o quello fra padre e figlio, perché dovrebbe esserci solidarietà fra i popoli? Il film è stato girato nel 2000, all'alba del nuovo millennio: e rivisto oggi, in piena crisi dei migranti, si dimostra non solo preveggente, ma più realista che pessimista.

11 dicembre 2016

Peccato che sia femmina (J. Balasko, 1995)

Peccato che sia femmina (Gazon maudit)
di Josiane Balasko – Francia 1995
con Victoria Abril, Alain Chabat, Josiane Balasko
**

Visto in divx, con Sabrina.

In un paese nel sud della Francia, la coppia composta dall'agente immobiliare Laurent (Chabat) e dalla sua moglie spagnola Loli (Abril) vive più o meno felicemente nonostante i continui tradimenti di lui (di cui lei non è a conoscenza). L'equilibrio viene però infranto dall'arrivo della camionista lesbica Mari Jo (Balasko), di cui Loli diventa prima amica e poi amante. Geloso dell'attrazione fra le due donne, Laurent si lascia andare a una scenata di gelosia: ma quando i suoi stessi altarini verranno alla luce, si ritrova prima cacciato da casa e poi – preso atto che l'amore fra i due coniugi non è svanito – costretto dalla moglie a un "ménage à trois" nella sua stessa casa. Pochade dal grande successo di pubblico, sostenuta dalla verve dei tre interpreti (compresa la stessa regista, di cui è il film più celebre e fortunato: vinse anche il premio César per la miglior sceneggiatura), ma tutto sommato stereotipata e superficiale nel mettere in scena i sentimenti e la bisessualità, più o meno consapevole, dei vari personaggi. Alcuni twist (come quando Mari Jo chiede a Laurent di farle fare un figlio) sono alquanto improbabili. Nel finale, comparsata per Miguel Bosé come possibile nuovo elemento di attrazione gay (stavolta al maschile) all'interno della coppia.

9 dicembre 2016

Boccaccio '70 (Monicelli, Fellini, Visconti, De Sica, 1962)

Boccaccio '70
di Mario Monicelli, Federico Fellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica – Italia 1962
con Peppino De Filippo, Anita Ekberg, Sophia Loren
**

Visto in divx.

Ideato da Cesare Zavattini (non nuovo a questo tipo di progetti: si vede che amava particolarmente le pellicole collettive), un film in quattro episodi – ciascuno di circa 50 minuti: il totale supera le tre ore, decisamente troppe – che intende aggiornare le novelle del Boccaccio e il loro tema (l'amore e il sesso) alla contemporaneità. Il risultato, però, francamente non è esaltante: la pellicola tira per le lunghe soggetti che forse meritavano maggior concisione (oppure, se proprio si volevano approfondire i personaggi, dei film a sé stanti) e non si amalgamano fra loro, risultando interessante principalmente per i nomi coinvolti e come documento di costume. Gli episodi di Fellini e di Visconti, comunque, spiccano sugli altri e non tradiscono le caratteristiche più tipiche dei loro autori.

"Renzo e Luciana", di Mario Monicelli (**), con Marisa Solinas e Germano Gilioli
La segretaria Luciana e il fattorino Renzo sono costretti a tenere nascosto il loro amore e persino a sposarsi in segreto, per non farsi licenziare dall'azienda dove entrambi lavorano. In nome dell'amore, sapranno però ribellarsi al moralismo ipocrita che li circonda. Ambientato in una Milano di periferia, fredda e ostile, l'episodio più (neo)realista e meno divertente del film (venne persino eliminato dalla versione internazionale della pellicola), interessante come spaccato sociale degli anni sessanta ma non particolarmente avvincente. Tratto dal racconto "L'avventura di due sposi" di Italo Calvino, dall'antologia "Gli amori difficili", sceneggiato dallo stesso Calvino con Giovanni Arpino e Suso Cecchi d'Amico. Il titolo è un evidente richiamo ai "Promessi sposi".

"Le tentazioni del dottor Antonio", di Federico Fellini (***), con Peppino De Filippo e Anita Ekberg
Antonio Mazzuolo è un rigido e inflessibile fustigatore della morale altrui. Indignato perché di fronte alle sue finestre è stato installato un cartellone pubblicitario con una seducente pin-up, fa di tutto per farlo rimuovere. Ma l'immagine lo ossessiona al punto da comparire anche nei suoi sogni... La prima parte costruisce il protagonista e la sua crociata contro tutto ciò che è immorale o "pornografico" (dalle coppiette che si appartano, alle riviste vendute nelle edicole). La seconda, di registro onirico, è surreale e allucinata, con una Ekberg gigante che cammina di notte per le strade di Roma. Alla sceneggiatura hanno contribuito Ennio Flaiano e Tullio Pinelli. La colonna sonora di Nino Rota comprende la canzoncina-jingle "Bevete più latte!", un vero tormentone. Primo lavoro di Fellini a colori (anticipando di tre anni "Giulietta degli spiriti").

"Il lavoro", di Luchino Visconti (**1/2), con Tomas Milian e Romy Schneider
Finito sui giornali per uno scandalo con ragazze squillo, il giovane e scapestrato conte Ottavio deve vedersela con l'ira flemmatica della moglie tedesca Pupe, che vorrebbe lasciarlo e cercarsi un lavoro (anche se si preoccupa: "I lavoratori si annoiano? Ma fino all'angoscia?"). L'episodio più esistenzialista e nichilista del lotto, ambientato tutto nei vasti saloni della dimora milanese del conte, che mette a confronto le vacue preoccupazioni di quest'ultimo con quelle della consorte, degli avvocati e della servitù (tutti personaggi che sembrano muoversi – e vivere – su piani paralleli e mai destinati a incontrarsi veramente). La sceneggiatura, di Visconti e Suso Cecchi d'Amico, è ispirata alla novella di Guy de Maupassant "Sul bordo del letto".

"La riffa", di Vittorio De Sica (**), con Sophia Loren e Luigi Giuliani
A Lugo, durante una fiera di paese, una lotteria clandestina mette in palio una notte d'amore con la bellissima maggiorata Zoe, imbonitrice di un baraccone di tiro a segno. A vincere sarà il timido sacrestano locale, ma la donna preferirebbe fuggire con il giovane allevatore che poco prima l'aveva salvata dalla carica di un toro... Sceneggiato dallo stesso Zavattini, poco più di una barzelletta tirata per le lunghe, con la Loren (e la sua carica erotica) assoluta protagonista, in un mondo di piccola gente di paese, contadini e allevatori che per trasorrere una notte con lei farebbero follie. La musica è di Armando Trovajoli.

8 dicembre 2016

Le grand bleu (Luc Besson, 1988)

Le grand bleu (id.)
di Luc Besson – Francia 1988
con Jean-Marc Barr, Jean Reno, Rosanna Arquette
***

Rivisto in DVD, con Sabrina, Giovanni, Rachele, Daniela e Gianluca.

Il francese Jacques Mayol (Jean-Marc Barr) e l'italiano Enzo Molinari (Jean Reno), amici-rivali sin da bambini, sono due campioni di immersione in apnea. A livello caratteriale non potrebbero essere più diversi: Jacques è introverso e incapace di comunicare con il mondo esterno (soprattutto dopo aver assistito, da bambino, alla morte del padre in mare); Enzo è esuberante, guascone e fiero della propria sicilianità. Eppure i due condividono non solo l'amore per il mare e per le immersioni, ma anche un profondo rispetto reciproco. L'assicuratrice americana Johanna (Rosanna Arquette), innamorata di Jacques, e il giudice di gara Novelli (Sergio Castellitto) sono testimoni delle loro continue sfide. Ispirato a personaggi reali (Mayol ed Enzo Maiorca – rinominato qui Molinari perché il vero Maiorca ebbe da ridire sul modo "ridicolo e stereotipato" in cui era stato rappresentato, al punto da impedire a lungo l'uscita del film in Italia: da noi arrivò soltanto nel 2002, dopo che ne furono tagliati 15 minuti – tra gli anni sessanta e gli anni ottanta si soffiarono a vicenda e a ripetizione il record di immersione in apnea), attraverso il rapporto di amicizia e rivalità fra i due protagonisti la pellicola mette in scena la lotta con sé stessi. In particolare Mayol si sente fuori posto nel mondo ed è evidentemente incapace di trovare la felicità sulla terraferma (in mare, con le creature acquatiche e segnatamente i delfini, non sembra invece avere problemi: emblematico il fatto che nel portafogli conservi la foto di un delfino... "La mia famiglia", spiega). Nonostante l'amore offertogli da Johanna, nel finale (ambiguo ma fino a un certo punto) si consegnerà volontariamente alle profondità marine. In questo la sceneggiatura del film (cui ha collaborato lo stesso Mayol) sembra aver compreso alla perfezione il carattere del campione francese, anticipandone il suicidio all'Isola d'Elba nel 2001, vittima della depressione. Nonostante le modalità stereotipate e sopra le righe con cui vengono rappresentati gli italiani sullo schermo (filtrati da una visione alquanto sciovinista da parte dei francesi, anche se a tratti simpatica: vedi la mitica Fiat 500 di Enzo), la pellicola riesce a fondere l'aspetto romatico e poetico con quello avventuroso, e in alcuni momenti – anche attraverso il kitsch, certo: Besson non è certo un regista raffinato e sottile – sfiora vette sublimi. Cult movie in patria alla sua uscita, grazie anche alla colonna sonora di Éric Serra. Suggestive le riprese del mare (con immagini delle coste e dei fondali del Mediterraneo, dalla Grecia alla Sicilia e alla Costa Azzurra): la passione per l'argomento porterà Besson tre anni dopo a girare un documentario sulla fauna marina, "Atlantis". Paul Shenar è il dottor Laurence, Griffin Dunne è il capo di Johanna.

6 dicembre 2016

I due cugini (Jackie Chan, 1982)

I due cugini (Long xiao ye, aka Dragon Lord)
di Jackie Chan – Hong Kong 1982
con Jackie Chan, Mars
**1/2

Rivisto in DVD.

Dragon (Jackie Chan), studente scansafatiche e indisciplinato della scuola di arti marziali diretta da suo padre (Tien Feng), quando non è impegnato in assurde competizioni sportive passa il tempo a bighellonare in compagnia dell'amico Cowboy (Mars), del quale è anche rivale per conquistare il cuore della bella ma riottosa Alice (Suet Lei). Quando la sua strada incrocia casualmente quella di una banda di contrabbandieri di reperti archeologici (finirà infatti nel loro covo nel tentativo di recuperare un aquilone sul quale aveva scritto un messaggio d'amore per la ragazza), sarà costretto ad affrontarne il capo (Hwang In-shik). Originariamente pensato come sequel de "Il ventaglio bianco" (Young Master), al punto da essere messo in lavorazione con il titolo "Young Master in Love", il film non ha riferimenti diretti o legami con il precedente, anche se il personaggio principale e l'ambientazione sono praticamente identici. Qui, però, si spinge ancora di più sul pedale della comicità, in particolar modo quella slapstick o legata alle comiche del muto (si pensi, per esempio, alla gag del fucile o a quella del cannone che conclude la storia). Se Dragon mette in mostra le sue abilità marziali e fisiche nelle competizioni sportive che vedono la sua scuola in lizza contro quelle rivali (il bizzarro incontro di rugby che apre la pellicola, quello di jianzi – una sorta di calcio-volano – a metà film), il combattimento finale nel fienile con il cattivo, orbo da un occhio, è invece nel segno della confusione e dell'improvvisazione: il protagonista ha la meglio non perché più forte, ma perché nel suo impeto finisce col sovrastare – e magari col prendere per stanchezza – persino un avversario tecnicamente più esperto e più abile di lui. Mars (alias Cheung Wing Fat), per una volta eletto a co-protagonista, è un caratterista e stuntman che si vedrà di frequente, in ruoli minori, nei film di Jackie di tutti gli anni ottanta. Il titolo italiano (e il doppiaggio) presentano i due come "cugini", ma in realtà non c'è alcun rapporto di parentela: semplicemente i loro padri sono amici, e in estremo oriente è consuetudine chiamare "zio" le persone con la stessa età dei propri genitori. Anche se un po' sconclusionata, la pellicola nel complesso è divertente e piena di energia, ed è importante perché è di fatto l'ultimo gongfupian più o meno "classico" di Jackie, ormai pronto a fare il salto verso i film di ambientazione contemporanea. È anche il suo primo film a mostrare, durante i titoli di coda, i cosiddetti bloopers (gli errori commessi durante le riprese, in particolare gli stunt sbagliati): Jackie prese l'idea dal regista Hal Needham, che l'anno prima lo aveva diretto in una piccola parte ne "La corsa più pazza d'America".

4 dicembre 2016

Starman (John Carpenter, 1984)

Starman (id.)
di John Carpenter – USA 1984
con Jeff Bridges, Karen Allen
**

Visto in divx.

Rispondendo all'invito della sonda Voyager 2 (che recava con sé un disco con immagini e suoni del nostro pianeta), un extraterrestre raggiunge la Terra e assume l'aspetto di Scott Hayden (Jeff Bridges), un uomo morto da poco, ispirandosi alle fotografie (e a una ciocca di capelli, da cui estrae il DNA) custodite dalla sua giovane moglie Jenny (Karen Allen). In compagnia della donna, lo "Starman" intraprende un viaggio verso un cratere in Arizona, dove ha un appuntamento con altri membri della sua specie per tornare sulla sua stella. E nel frattempo, mentre cerca di evitare i tentativi di cattura da parte dell'esercito e dell'FBI, imparerà le usanze dei terrestri e soprattutto – grazie a Jenny – cos'è l'amore. Forse originale (e persino toccante) come film romantico, ma decisamente banale come pellicola di fantascienza (siamo a metà strada fra "Incontri ravvicinati", "E.T." e "Un poliziotto extraterrestre... poco extra e molto terrestre"), il film più ambizioso della carriera di Carpenter è per molti versi una delusione. Prodotto da Michael Douglas a partire da una sceneggiatura in lavorazione da cinque anni, il lungometraggio appare stiracchiato e noioso, poco accattivante ma soprattutto poco sorprendente, anche perché le suggestioni fantascientifiche sembrano rimaste agli anni Cinquanta e lasciano per lo più confusi (a partire dai misteriosi poteri dell'alieno, che tramite le sue "sferette" sembra in grado di fare un po' di tutto: dall'emanare energia e calore a resuscitare gli animali morti, passando per il curare la sterilità di Jenny, alla quale darà un figlio che si preannuncia fuori dall'ordinario, e che sarà protagonista nel 1986 di una breve serie tv). Nonostante tutto, Jeff Bridges ottenne una nomination all'Oscar (l'unica mai ricevuta da un film di Carpenter). Charles Martin Smith è lo scienziato del SETI che dapprima contribuisce alla ricerca dei nostri eroi ma poi li aiuta a sfuggire ai militari cattivi. Nella colonna sonora figurano alcune canzoni che "Scott" impara dal disco del Voyager ("Satisfaction") o dalla radio sulla Terra ("New York, New York").

3 dicembre 2016

Magic Mike (Steven Soderbergh, 2012)

Magic Mike (id.)
di Steven Soderbergh – USA 2012
con Channing Tatum, Alex Pettyfer
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

In Florida, fra un lavoretto e un altro, Michael Lane (Channing Tatum) – detto "Magic Mike" – si esibisce con successo come spogliarellista nel locale dell'amico Dallas (Matthew McConaughey) e introduce al mestiere anche il giovane Adam (Alex Pettyfer), detto "Kid", nonostante le perplessità della sorella di questi, Brooke (Cody Horn). Girato con una fotografia iperfiltrata e uno stile esistenzialista, uno spaccato del mondo dello spogliarello maschile in cui, per i primi tre quarti di film, è praticamente assente ogni tipo di conflitto: la pellicola procede (volutamente) in maniera piatta per illustrare al meglio le esistenze vuote e superficiali di personaggi privi di introspezione e abbandonati al disimpegno (giusto Mike ha il desiderio di "differenziare" il proprio stile di vita, e sogna di diventare designer di mobili artigianali). Quando, infine, i problemi vengono a galla (quelli di coscienza per Mike, quelli legato allo spaccio di droga per Kid), gli sviluppi risultano decisamente banali e telefonati. Bella, però, l'atmosfera. Lontano anni luce, naturalmente, da "Full Monty": lì c'era quantomeno uno sfondo sociale, qui impera l'edonismo. Olivia Munn è Joanna, la sexy psicologa amante di Mike. L'attore Channing Tatum ha avuto realmente esperienze da spogliarellista a Tampa, quando aveva 19 anni, e il film è dunque parzialmente autobiografico. Nel 2015 è uscito un sequel, "Magic Mike XXL", non diretto da Soderbergh.

1 dicembre 2016

Bullet ballet (Shinya Tsukamoto, 1998)

Bullet ballet (id.)
di Shinya Tsukamoto – Giappone 1998
con Shinya Tsukamoto, Kirina Mano
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Quando la sua compagna si suicida inspiegabilmente con un colpo di pistola, Goda (Tsukamoto), impiegato in un'agenzia pubblicitaria, rimane ossessionato dall'accaduto e cerca di procurarsi un'arma simile per uccidersi a sua volta. Dopo aver provato ad acquistarne una al mercato nero (in Giappone è illegale per un privato possedere armi da fuoco) e addirittura a fabbricarne una da solo, entra finalmente in possesso di una pistola e rimane coinvolto nella faida fra due giovani bande di yakuza, trasformandosi in giustiziere per proteggere Chisato, una ragazza che come lui ha tendenze autodistruttive. Fra rimandi ai lavori precedenti (in particolare "Tokyo Fist"), echi di "Taxi Driver" (Idei, il boss capellone e drogato, ricorda il pappone interpretato da Harvey Keitel nel film di Scorsese) e del cinema giapponese d'avanguardia degli anni sessanta e settanta (come quello di Koji Wakamatsu), Tsukamoto torna a girare in bianco e nero come ai tempi del primo "Tetsuo", ricorrendo anche all'estetica "povera" ma ricca di idee dei suoi primi lavori (la macchina a mano, frequentemente scossa; il montaggio rapidissimo; i suoni metallici). Ma pur interessante – come sempre – dal lato estetico, il film si sfilaccia lungo la via a livello di contenuti, perdendo di vista il fuoco sul personaggio principale e il suo lento sprofondare in un abisso di degradazione, e indugiando troppo sulla guerra fra bande. Kirina Mano è Chisato, la ragazza androgina con il giubbotto di pelle. Takahiro Murase è Goto, il giovane yakuza che vorrebbe mettere la testa a posto ma che poi scatena la faida uccidendo l'amico pugile.

30 novembre 2016

Dietro lo specchio (Nicholas Ray, 1956)

Dietro lo specchio (Bigger than life)
di Nicholas Ray – USA 1956
con James Mason, Barbara Rush
*1/2

Visto in divx.

Per curare una rara forma di periartrite che gli causa forti dolori, all'umile insegnante Ed Avery (Mason) viene prescritta una cura sperimentale a base di cortisone. Ma l'abuso del farmaco comincia a cambiare la personalità dell'uomo, che si fa via via più arrogante, megalomane, iperattivo e violento, fino a manifestare istinti omicidi che mettono in pericolo la sua stessa famiglia... Ispirato a un articolo apparso sul "New Yorker", un melodramma sui rischi psicologici connessi all'abuso di farmaci (e di droghe). A parte la prova di Mason, inquietante come sempre, e la regia iperrealista di Ray, che gioca col formato panoramico, il technicolor e la fotografia di Joseph MacDonald, per il resto la pellicola appare sensazionalista e forzata. Le premesse sono portate avanti in maniera tutt'altro che sottile, attraverso una prolungata, ossessiva e ripetiva discesa negli abissi, con Ed che si trasforma in una versione distorta di sé stesso come un moderno Jekyll e Hyde, preso da manie di grandezza, da un fervore educativo (la perdita di freni inibitori lo porta ad avanzare idee anti-liberali) e religioso (finisce col credersi Abramo, che deve sacrificare il figlio come Isacco... "Ma Dio fermò Abramo", gli dice la moglie. "E Dio sbagliò!", risponde lui). Flop in patria, fu invece amato da Godard e dai critici francesi. Il titolo italiano fa riferimento al specchio dell'armadietto del bagno, dietro il quale Ed custodisce i farmaci, che quando viene rotto riflette un'immagine frantumata del suo volto. Barbara Rush è la patetica moglie Lou, Christopher Olsen è il figlio, Walther Matthau è l'amico Wally.

28 novembre 2016

Palle di neve (Jean-François Pouliot, 2015)

Palle di neve (Snowtime!, aka La guerre des tuques 3D)
di Jean-François Pouliot [e François Brisson] – Canada 2015
animazione digitale
**

Visto al cinema Plinius, con Sabrina.

Durante le vacanze invernali, i bambini di un villaggio fra le montagne, immerso in un paesaggio innevato, si dividono in due gruppi per una colossale battaglia a palle di neve. L'undicenne Luke, che per via della sua tromba è stato nominato capitano della sua squadra, guida i compagni all'assalto della fortezza di ghiaccio difesa da Sophie, sua coetanea da poco arrivata nel paese per le vacanze, e da una manciata di amici. Ma presto quello che è cominciato come un semplice gioco, all'insegna degli sfottò fra ragazzini, assume i connotati di una vera e propria guerra, con l'escalation degli armamenti (si passa da palle di neve a palle di ghiaccio o imbottite di vernice), i tradimenti, le infrazioni alle regole... fino a un tragico epilogo. Remake animato di un film dal vivo del 1984 ("Il cane che fermò la guerra"), rivolto sì a un pubblico infantile ma con un sottotesto pacifista che va ben oltre il semplice intrattenimento (siamo dalle parti, sia pure in versione più semplice ed edulcorata, de "Il signore delle mosche") e che fra gag, capitomboli e personaggi caricaturali parla dei paradossi dei conflitti bellici ("La guerra non è una ragione per farsi male!") e sfiora temi come l'amore, la perdita e il lutto. Affascinante la scenografia, con la neve che la fa da padrona in ogni inquadratura. Qualche dubbio sull'animazione digitale e sul ritmo della pellicola, che procede a tratti lenta e con alcuni tempi morti, prima dell'accelerazione finale. Da sottolineare la totale assenza di adulti (a parte il breve flashback del funerale del padre di Luke): oltre ai nostri protagonisti, che hanno dieci-undici anni, compaiono solo – in un ruolo da "Minions" – i bambini ancora più piccoli della prima elementare che vengono arruolati da Luke come "truppe d'assalto" nella carica finale al castello.

26 novembre 2016

Il cittadino illustre (G. Duprat, M. Cohn, 2016)

Il cittadino illustre (El ciudadano ilustre)
di Gastón Duprat, Mariano Cohn – Argentina 2016
con Oscar Martínez, Dady Brieva
***

Visto al cinema Palestrina.

Cinque anni dopo aver vinto il premio Nobel per la letteratura, l'acclamato scrittore argentino Daniel Mantovani – che vive ormai in Europa da quasi quarant'anni – si ritrova in una impasse creativa e sociale ("Ricevere un premio come questo mi ha trasformato in un monumento"). Quando gli arriva un invito proveniente dalla piccola cittadina di Salas – dove è nato e cresciuto, ma da cui è fuggito in gioventù per non farvi più ritorno – che vorrebbe celebrarlo come suo "cittadino illustre", decide impulsivamente di accettare. Il ritorno nel luogo d'origine, però, non sarà come aveva previsto. Anche perché l'intera sua opera (e in un certo senso tutta la sua identità) si è basata proprio sul rifiuto di quello che Salas rappresenta ("Io non sono mai riuscito a tornarvi, i miei personaggi non sono mai riusciti a partire"), e non tutti i suoi abitanti sono felici di come sono stati "rappresentati". E poi, si sa, nemo propheta in patria: se Mantovani, a Salas, ritrova vecchi (e nuovi) amici e amori, non mancheranno le situazioni imbarazzanti o paradossali e gli atti di ostilità che lo metteranno di fronte alla consapevolezza che "indietro non si torna". Proprio lui, portato per natura ad abbattere miti e istituzioni, così insofferente alle cerimonie ufficiali, scoprirà di essere diventato un mito da abbattere... Una corrosiva e cinica commedia dolce-amara che fa riflettere sulla natura dello scrittore e dell'artista (che da un lato non può che ispirarsi alla realtà, ma dall'altro deve inventare e ricreare i propri mondi), ma anche su tutto ciò che gli ruota attorno, dai fan ai media, dagli applausi all'invidia, dagli onori ai rancori. Ottima la sceneggiatura, arguta e intelligente, e straordinario il personaggio di Mantovani, intellettuale integralista e antiretorico nelle sue idee sul ruolo della cultura, sin dal discorso al momento della consegna del Nobel, che poi si rispecchia – in piccolo – in quello durante la premiazione del concorso di pittura, che finisce con l'indispettire i suoi concittadini quando non riesce più a celare il suo disprezzo verso la mediocrità di un mondo che sembra contento di non voler cambiare mai. Coppa Volpi a Venezia, a Oscar Martínez, per la miglior interpretazione maschile, mentre l'Argentina lo ha scelto come suo rappresentante agli Oscar per il miglior film straniero. Nella realtà, nessuno scrittore argentino ha mai vinto il Nobel: neppure Borges, citato un paio di volte durante la pellicola.

24 novembre 2016

L'asso nella manica (Billy Wilder, 1951)

L'asso nella manica (Ace in the hole, aka The big carnival)
di Billy Wilder – USA 1951
con Kirk Douglas, Jan Sterling
****

Visto in divx.

Lo spregiudicato giornalista Charles Tatum (uno straordinario Douglas, in una delle sue migliori prove), cacciato da numerose testate a causa del vizio del bere, si è ridotto a lavorare per un umile quotidiano di provincia, ad Albuquerque, ed è alla ricerca del colpo che lo farà diventare una celebrità. Trova la sua occasione quando un uomo, Leo Minosa (Richard Benedict), rimane sepolto da una frana mentre stava esplorando una grotta in cerca di manufatti indiani. Gli articoli di Tatum sull'accaduto e sui tentativi di salvataggio richiamano l'attenzione di tutto il paese, e la collina dove si trova Leo, nel bel mezzo del deserto, viene attorniata da un immenso "circo mediatico" (letteralmente!), compresi curiosi e imbonitori di ogni tipo (sorge persino un luna park!). Mentre le quotazioni di Tatum come giornalista salgono rapidamente alle stelle (aiutato dal corrotto sceriffo locale, che in cambio di buona pubblicità tiene lontani i cronisti rivali), le operazioni di salvataggio procedono volutamente a rilento per "prolungare" il più possibile l'attenzione sull'evento. A scapito del povero Leo... Cinicissima pellicola sulle distorsioni del giornalismo, la spettacolarizzazione della cronaca e la manipolazione delle emozioni del pubblico (e in quanto tale, quanto mai moderna e di attualità). Wilder (anche sceneggiatore e produttore: era la prima volta che riuniva in sé tutti e tre i ruoli, essendosi appena separato da Charles Brackett, suo partner creativo di lunga data) si ispirò a due casi di cronaca realmente accaduti: quello di Floyd Collins, rimasto sepolto nel 1925 in una cava di sabbia, che portò il cronista William Burke Miller a vincere il premio Pulitzer (citato anche da Douglas durante la pellicola), e quello della piccola Kathy Fiscus, che solo due anni prima (nel 1949) aveva calamitato l'interesse dell'intera nazione dopo essere caduta in un pozzo abbandonato (un caso del tutto simile alla tragedia di Alfredino). Nonostante il setting sia tutt'altro che urbano, il film è un vero e proprio noir, capace di mettere in mostra il lato più cinico, amorale e opportunista delle persone. Quasi tutti hanno da guadagnarci dalla sventura di Leo e dal prolungare il più a lungo possibile le operazioni di soccorso: non solo il giornalista e lo sceriffo, ma anche la moglie dell'uomo, Lorraine (Jan Sterling), che non lo ama e che vorrebbe fuggire lontano da lui, ma rimane sul luogo perché convinta da Tatum a recitare la parte della moglie affranta per guadagnare il più possibile dall'enorme afflusso di curiosi presso la tavola calda di famiglia ("Verranno qui e divoreranno tutto, emozioni e polpette"). Indicativo come il costo dell'accesso al sito archeologico passi dall'essere gratuito ad aumentare giorno dopo giorno. I rapporto fra i due, Tatum e Lorraine, è particolarmente aspro, conflittuale e distruttivo, ai limiti del codice Hays. Nel cast anche Robert Arthur (il giovane reporter Herbie) e Porter Hall (l'integerrimo direttore del giornale di Albuquerque). Non particolarmente amato alla sua uscita, ma Wilder lo riteneva il miglior film da lui girato. Piccola curiosità: la compagnia di assicurazioni per la quale lavora l'uomo intervistato alla radio è la stessa (fittizia) del protagonista de "La fiamma del peccato".

23 novembre 2016

La locanda della felicità (Zhang Yimou, 2002)

La locanda della felicità (Xìngfu shiguang, aka Happy times)
di Zhang Yimou – Cina 2002
con Zhao Benshan, Dong Jie
**

Rivisto in DVD.

L'attempato e spiantato Zhao, alla ricerca di una moglie, fa credere a una donna (Lifan Dong) di essere il direttore di un importante albergo: in realtà si tratta di un vecchio autobus abbandonato in un parco pubblico, che lui e l'amico Li hanno sistemato e ridipinto per offrire alle coppiette del parco un rifugio in cui "appartarsi". La donna accetta la sua corte, ma nel frattempo gli chiede di trovare un lavoro per la figliastra cieca Wu Ying, di cui vorrebbe sbarazzarsi. E Zhao, approfittando della sua cecità, la "assume" come massaggiatrice: peccato che la "sala massaggi" sia un ambiente fasullo, ricostruito nel capannone abbandonato di una vecchia fabbrica, e che i clienti della ragazza siano i suoi amici pensionati, che si presentano a turno e la pagano (dopo che Zhao ha finito i soldi) con pezzi di carta straccia. Naturalmente Wu Ying si accorge ben presto dell'inganno, ma anche lei continua a recitare la propria parte, per la felicità di tutti... Ispirata a un racconto di Mo Yan, una commedia con cui Zhang (dopo "Keep Cool") continua a raccontare la Cina contemporanea e le sue contraddizioni. Ma gli mancano l'incisività, la coerenza e la cattiveria necessaria: il risultato è leggero e nel migliore dei casi simpatico, per farsi un po' stucchevole nei momenti in cui la sceneggiatura vorrebbe calcare la mano sul pathos. Insoddisfacente il finale: sembra quasi che gli autori non sapessero come concludere la storia. Eccezionale Jie Dong (ballerina alla sua prima esperienza cinematografica) nel ruolo della ragazza cieca, abbandonata dal padre e maltrattata dalla matrigna, che trova negli inganni di Zhao quella considerazione e quell'affetto che le sono sempre mancati.

22 novembre 2016

Fantastic 4 (Josh Trank, 2015)

Fantastic 4 - I Fantastici Quattro (Fantastic Four)
di Josh Trank – USA 2015
con Miles Teller, Kate Mara
*1/2

Visto in divx.

Le due pellicole dei Fantastici Quattro dirette da Tim Story dieci anni prima avevano deluso gran parte dei fan e non avevano fatto sfracelli al botteghino: logico che, in pieno boom dei film sui supereroi, si tentasse di rilanciare la franchise ripartendo da zero. L'intenzione era quella di produrre un film meno camp, più realistico e drammatico. Il risultato è però fallimentare e lascia ancor più con l'amaro in bocca, facendo persino rivalutare gli "ingenui" lungometraggi precedenti. A differenza dei Marvel Studios stessi, che sembrano aver trovato la giusta ricetta per portare sullo schermo i propri character (un mix fra fedeltà al materiale originale, con tanto di strizzatine d'occhio ai fan di vecchia data, e un utilizzo consapevole dei meccanismi dell'intrattenimento cinematografico), la Fox pare incapace di sfruttare al meglio le serie di cui ha i diritti (le è andata bene con gli X-Men, è vero, ma malissimo con i FQ, Devil ed Elektra). In questo film, che è essenzialmente una lunghissima origin story, dei personaggi creati da Stan Lee e Jack Kirby non rimane niente se non i nomi e i superpoteri. Per il resto si tratta di figure del tutto irriconoscibili e, quel che è peggio, stereotipate e per nulla accattivanti: scienziatelli post-adolescenti senza personalità o spessore. Reed Richards (Miles Teller) è un giovane genietto che, insieme al compagno di scuola Ben Grimm (Jamie Bell), inventa un portale extradimensionale che attira l'attenzione della potente Baxter Foundation. Qui, assunto dal professor Franklin Storm per lavorare a una versione più estesa del portale, perfeziona l'invenzione insieme al recalcitrante Victor Von Doom (Toby Kebbell) e ai due figli dello stesso Storm, Johnny (Michael B. Jordan) e Susan (Kate Mara). Per potersi vantare di essere stati i primi a viaggiare in un'altra dimensione, i ragazzi decidono di provarla senza autorizzazione: ne usciranno trasformati in supereroi (tranne Victor che, impazzito, cercherà di distruggere il mondo). Il continuo ed esteso tradimento del setting e delle caratteristiche del fumetto (Johnny nero? Susan adottata? Destino con poteri e senza il background latveriano?) non è nemmeno il peggior difetto della pellicola: il film è semplicemente prevedibile nel suo sviluppo, piatto o implausibile a livello di caratterizzazioni, modesto come effetti speciali, privo di appeal e con attori mediocri e del tutto dimenticabili. Già cancellati, a quanto pare, i progetti di eventuali sequel. Il regista ha lamentato disaccordi con la produzione, che avrebbe cambiato il finale (e il tono generale del film) contro la sua volontà. È comunque davvero un peccato che al cinema non si riesca ad avere una versione decente di quelli che, storicamente, dovrebbero essere una delle colonne portanti dell'Universo Marvel.

20 novembre 2016

Agnus Dei (Anne Fontaine, 2016)

Agnus Dei (Les innocentes)
di Anne Fontaine – Francia/Polonia 2016
con Lou de Laâge, Agata Buzek
**1/2

Visto al cinema Arlecchino, con Marisa.

Nell'inverno del 1945, pochi mesi dopo la fine della guerra, una giovane dottoressa francese della Croce Rossa di stanza in Polonia viene segretamente chiamata in un convento isolato, dove numerose suore e novizie, che erano state violentate dai soldati sovietici, stanno per dare alla luce i loro figli. In un misto di vergogna, disonore e zelo religioso, le monache vorrebbero tenere nascosto al mondo il proprio stato: la dottoressa dovrà aiutarle a partorire in segreto, mentre ai bambini ci penserà la madre superiora, che li affida – o almeno così afferma – alle famiglie delle madri. Ma per alcune delle religiose il trauma è troppo grande: la fede viene messa in discussione, le regole cominciano a vacillare, e ai problemi di salute si sommano i pericoli del mondo esterno (le minacce sovietiche di repressione della chiesa cattolica). Ispirato a una storia vera, un film dove il soggetto difficile e scabroso è forse la cosa più interessante. I conflitti personali e morali dei vari personaggi non sono banalizzati grazie a una messinscena rigorosa, che punta molto sull'intensità dei primi piani e su ambienti austeri e monocromatici (belle le scene delle monache nei paesaggi innevati), ma alcune caratterizzazioni – a partire dalla protagonista – sono poco più che funzionali al racconto, e la sceneggiatura – che pure evita le trappole della retorica (affiancare temi come la devozione religiosa, il trauma della violenza subita e il senso di maternità non era certo facile) – mi è parsa a tratti un po' semplicistica. Agata Kulesza è la madre superiora, Vincent Macaigne è il medico ebreo.

18 novembre 2016

Voglio la testa di Garcia (Sam Peckinpah, 1974)

Voglio la testa di Garcia (Bring me the head of Alfredo Garcia)
di Sam Peckinpah – USA 1974
con Warren Oates, Isela Vega
***

Rivisto in divx.

Un ricco e potente haciendero (Emilio Fernández), furioso perché la sua giovane figlia è stata messa incinta da uno dei suoi lavoranti, offre un milione di dollari a chiunque gli porterà la testa dell'uomo in questione, Alfredo Garcia, che nel frattempo si è dato alla macchia. Molti si lanciano sulle sue tracce, setacciando l'intero Messico: ma a scoprire che Garcia è già morto in un incidente stradale è Bennie (Warren Oates), un americano in cerca di fortuna che si guadagna da vivere suonando il piano in un bar di terz'ordine di Città del Messico, al quale alcuni dei "cacciatori" promettono diecimila dollari se porterà loro la testa. In compagnia della sua donna Elita (Isela Vega), che a suo tempo aveva avuto una tresca proprio con Alfredo, Bennie si mette dunque in viaggio verso il cimitero di provincia dove Garcia è sepolto, con l'intenzione di dissotterrarne e decapitarne il cadavere. Ma ignora di essere seguito da due sicari che vogliono impadronirsi a loro volta della testa... Scritto insieme all'amico Frank Kowalski, interpretato dal fedele Oates (di solito caratterista) e ambientato in un Messico polveroso e ancestrale, realistico e lontano dai cliché hollywoodiani, il decimo lungometraggio di Peckinpah è un "piccolo" film indipendente, al tempo stesso uno dei suoi lavori più personali (fu una delle poche volte che ebbe il totale controllo sul montaggio finale), più controversi e più violenti, permeato da un cinismo dissacrante e fatalista, con un mood a metà fra i poliziotteschi italiani e il futuro cinema tarantiniano. Pur essendo già morto quando il film comincia, la testa di Garcia (avvolta in un fagotto: di lui non vediamo mai il volto, se non in fotografia) passa di mano in mano provocando stragi e spargimenti di sangue fino all'apocalittico finale, simbolo dell'avidità e del potere che distrugge tutto (a partire dai sentimenti) e non produce nulla di buono. Stroncato alla sua uscita, il film è naturalmente diventato – come tutto il cinema del regista – un oggetto di culto. Nel cast anche Robert Webber, Gig Young e Helmut Dantine. In un piccolo ruolo (uno dei due motociclisti violentatori) si riconosce Kris Kristofferson.

16 novembre 2016

Dave - Presidente per un giorno (Ivan Reitman, 1993)

Dave - Presidente per un giorno (Dave)
di Ivan Reitman – USA 1993
con Kevin Kline, Sigourney Weaver
**1/2

Rivisto in TV, con Sabrina.

Il presidente degli Stati Uniti Bill Mitchell (Kevin Kline) ha un collasso mentre si "intrattiene" con una segretaria, e il capo dello staff della Casa Bianca Bob Alexander (Frank Langella), che nutre a sua volta ambizioni politiche, pensa bene di tenere segreta la cosa e di sostituirlo con un sosia perfetto, l'impersonatore Dave Kovic (sempre Kline). Questi dovrebbe limitarsi a fare il fantoccio, controllato dietro le quinte da Bob: ma si appassiona all'incarico e inizia a macinare idee, rivoltando come un calzino la politica corrotta del vero Mitchell sul welfare. Lentamente sia l'opinione pubblica che la first lady Ellen (Sigourney Weaver) cominciano ad essere conquistati dal suo misterioso cambiamento... Fra un film di Frank Capra e una rilettura de "Il prigioniero di Zenda" (o, se vogliamo, di "Kagemusha"), una favoletta a sfondo politico con venature romantiche (il coinvolgimento della first lady, che si innamora del sosia dopo che i rapporti con il vero marito si erano raffreddati, fa pensare al celebre caso seicentesco di Martin Guerre, ma anche al furto dell'identità di Kosaku Kawajiri da parte di Yoshikage Kira nel manga "Le bizzarre avventure di JoJo"). La sceneggiatura di Gary Ross è ingenua ma gradevole, con un mood e una leggerezza molto anni trenta. L'estroso Kline ruba la scena a tutti, ma è indimenticabile Langella nei panni del cattivo. Nel cast anche Kevin Dunn (il capo della comunicazione), Ving Rhames (la guardia del corpo), Laura Linney (la segretaria) e Ben Kingsley (il vicepresidente), più varie celebrità nel suolo di sé stessi (fra gli altri Arnold Schwarzenegger, Larry King, Jay Leno, Oliver Stone, più diversi senatori). Chi ha scelto il sottotitolo italiano probabilmente aveva visto solo i primi dieci minuti.

14 novembre 2016

Maelström (Denis Villeneuve, 2000)

Maelström (id.)
di Denis Villeneuve – Canada 2000
con Marie-Josée Croze, Jean-Nicolas Verreault
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Depressa dopo un aborto, in crisi con il lavoro, sotto pressione per essere la "figlia di una celebrità", la venticinquenne Bibiane Champagne (Croze) è in piena fase autodistruttiva. Una sera, mentre torna a casa ubriaca dopo aver cercato inutilmente sfogo in discoteca, investe e uccide con la sua auto un uomo, l'anziano pescatore Karlsen. Quando se ne rende conto, presa dai sensi di colpa, medita addirittura il suicidio. Ma non appena incontrerà il figlio del defunto, Evian (Verreault), finirà con l'innamorarsene e trovare in lui una nuova ragione di vita... A rendere particolare il secondo lungometraggio di Villeneuve non è tanto la trama in sé (che pure ha diversi punti in comune con il precedente, la commedia romantica "Un 32 août sur terre", al punto da sembrarne quasi una rilettura più cupa e stratificata) quanto la complessa simbologia: a partire dal titolo, il termine di origine norvegese che indica i vortici oceanici. Qui il "vortice" è quello della vita e della morte, che lega il destino dei personaggi attraverso le misteriose concatenazioni del caos (si pensi per esempio alla sequenza che, a partire da un'ordinazione al ristorante da parte della protagonista e della sua amica, porta alla scoperta del cadavere dell'uomo investito). Elemento ricorrente è il mare, con le sue onde, la schiuma, i vortici appunto, ma anche i pesci e le creature acquatiche. Karlsen, ex marinaio, ora lavora in un mercato ittico, mentre suo figlio Evian è un sommozzatore. Bibi cerca di cancellare la propria colpa buttando la sua automobile in fondo al porto. E non mancano numerose suggestioni "norvegesi" (dai continui riferimenti al folklore scandinavo, alla provenienza stessa di Evian e di suo padre). Come bizzarra cornice, l'intera vicenda è raccontata agli spettatori da un pesce parlante, "torturato" in una dimensione ultraterrena da un pescatore infernale. La trovata dona alla pellicola un'impronta da fiaba dark, che non stona con la sua qualità surreale e a tratti persino semi-umoristica, tongue in cheek, come sottolinea la colonna sonora (dove spiccano le canzoni "Les deux guitares" ed "Et pourtant" di Charles Aznavour: ma ci sono anche Tom Waits ed Edward Grieg). Un film strano, dunque, pretenzioso (si parla della condizione umana...) e affascinante al tempo stesso, che ha portato Villeneuve all'attenzione della critica ma anche a una sorta di impasse creativo, tanto che ci vorranno ben nove anni prima di vedere un suo nuovo lungometraggio (del tutto diverso stilisticamente: "Polytechnique", semi-documentaristico e in bianco e nero).

13 novembre 2016

Funny games (Michael Haneke, 2007)

Funny Games (id., aka Funny Games U.S.)
di Michael Haneke – USA 2007
con Naomi Watts, Tim Roth
**1/2

Visto in divx.

Nel realizzare il remake americano del suo film "Funny games" del 1997, questa volta con attori di lingua inglese per poter raggiungere più facilmente il pubblico statunitense, Haneke sceglie di non cambiare assolutamente nulla rispetto all'originale. Noto anche come "Funny Games U.S.", il lungometraggio è infatti un rifacimento del tutto identico al film di dieci anni prima, girato scena per scena negli stessi set e a partire dallo stesso storyboard. Le uniche differenze, davvero minime, riguardano alcuni passaggi nei dialoghi, visto che sono trascorsi dieci anni (al posto del telefono cordless c'è ora un cellulare) e che la storia si svolge negli Stati Uniti (dove tutti conoscono a memoria il numero delle emergenze: ecco perché George cerca di chiamare la polizia anziché un parente). Per il resto, inquadrature, tempi e scansione della pellicola riproducono 1:1 il film originale, mantenendone la carica disturbante e provocatoria (anzi, visto che il tema del film è quello della fruizione della violenza nei media da parte degli spettatori, rivolgersi a un pubblico americano calza ancora più a pennello). Forse gli attori, pur essendo bravi, sono un po' impostati e dunque meno efficaci di chi li aveva preceduti. Guardando i due film uno dopo l'altro, si ha la sensazione di assistere per due sere consecutive al medesimo spettacolo teatrale con cast differenti (qui i due "intrusi" sono interpretati da Michael Pitt e Brady Corbet). E anche la colonna sonora è identica. A cambiare è stata l'accoglienza di pubblico e critica, complessivamente positiva per il prototipo e tendenzialmente negativa per il remake. Si spiega solo con i dieci anni trascorsi fra l'uno e l'altro, che hanno fatto svanire l'effetto shock e la sorpresa? O forse l'operazione stessa di rifare un film tale e quale è stata percepita come inutile? Magari c'entra di più l'esposizione e il pubblico di riferimento: il film del 1997 era una pellicola europea, "d'autore", ed era più facile accettarne la riflessione sul ruolo della violenza come forma di intrattenimento nelle opere di finzione; quello del 2007 ha raggiunto (almeno potenzialmente) spettatori più mainstream, meno inclini a comprendere i livelli di lettura sottostanti o a recepire con benevolenza quella che è una sostanziale critica alla natura stessa dei film di exploitation (senza contare che la pellicola ne infrange parecchie convenzioni, come l'aspettativa che i "buoni" riescano a salvarsi e i "cattivi" vengano puniti).

12 novembre 2016

Coffee and cigarettes (Jim Jarmusch, 2003)

Coffee and cigarettes (id.)
di Jim Jarmusch – USA 2003
con Roberto Benigni, Cate Blanchett
**

Rivisto in divx.

Tutto aveva avuto inizio con un cortometraggio girato da Jarmusch nel 1986, intitolato appunto "Coffee and cigarettes", che vedeva i comici Roberto Benigni e Steven Wright seduti al tavolino di un bar, intenti a bere caffè, a fumare sigarette e a scambiarsi dialoghi surreali. Seguirono due altri episodi, nel 1989 ("Memphis Version", con Cinqué e Joye Lee, fratelli minori di Spike, e Steve Buscemi) e nel 1992 ("Somewhere in California", con Tom Waits e Iggy Pop), prima che il regista scegliesse di raccoglierli, insieme ad altri otto girati appositamente, in questo lungometraggio antologico. I fili conduttori dei vari segmenti sono gli stessi del corto originale: attori e personaggi dello spettacolo impegnati in conversazioni nonsense davanti ad abbondanti tazze di caffè e a pacchetti di sigarette in quantità industriale. Alcuni episodi sono più elaborati (quello in cui Cate Blanchett interpreta sia sé stessa che sua "cugina" Sherry, o quello con Alfred Molina e Steve Coogan che scoprono di essere lontani parenti), altri sono chiaramente improvvisati, e un paio prevedono anche l'intervento di un cameriere (interpretato a sua volta da qualche celebrità, come Steve Buscemi o Bill Murray), ma tutti condividono la medesima estetica (la fotografia in bianco e nero, la desolazione generale dei locali, il pattern a scacchiera dei tavolini) e la poetica di malinconica marginalità che caratterizza tanti film di Jarmusch. Anche se alcuni argomenti di conversazione (le invenzioni di Tesla, parentele vere o presunte) ritornano da una scena all'altra, la sensazione quasi sempre è quella di assistere a pause della vita quotidiana e a momenti fondamentalmente fini a sé stessi. La versione doppiata in italiano, in ogni caso, toglie gran parte del divertimento (soprattutto nel caso di Benigni).