31 luglio 2015

Suicide club (Sion Sono, 2002)

Suicide club (Jisatsu sākuru, aka Suicide circle)
di Sion Sono – Giappone 2002
con Ryo Ishibashi, Masatoshi Nagase
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La prima scena è di quelle che non si dimenticano: una cinquantina di studentesse liceali, nel tipico abito alla marinaretta, che si prendono per mano e saltano sui binari della stazione di Shinjuku, appena prima che passi un treno. E il resto del film non è da meno, mettendo in scena una vera e propria "epidemia di suicidi", apparentemente scollegati gli uni dagli altri, che spingono persone di tutti i tipi – ma soprattutto giovanissimi, talvolta in gruppo – a togliersi la vita nelle maniere più efferate possibili (lo splatter e il gore non mancano). La polizia indaga, ma fra molte ipotesi (un'insolita setta religiosa? Un "club dei suicidi" che fa il verso ai circoli scolastici?) e vaghe tracce da seguire (un sito web che sembra "tenere il conto" dei morti; una sacca sportiva, rinvenuta sul luogo dei suicidi, contenente macabri rotoli di pelle umana; strane telefonate da misteriosi bambini), i risultati sono pochi. Almeno fino a quando una giovane hacker, che a sua volta indaga sul caso, non viene rapita da un pazzo megalomane che si attribuisce i delitti, affermando di aver usato internet per istigare le persone a uccidersi. Naturalmente la soluzione non è così semplice... Cruento horror indipendente e a basso costo, divenuto film di culto in Giappone, che ha contribuito a far decollare la fama dell'eccentrico e poliedrico Sion Sono come regista di lavori forti e "disturbanti" ma capaci di indagare a fondo il malessere e l'alienazione che permea, a più livelli, la società nipponica. Debitore in parte a pellicole come "Battle royale" o "Audition" (da cui torna l'attore Ryo Ishibashi), rappresenta infatti un mondo dove l'individualità e il proprio io (o la "connessione con sé stessi", per citare la pellicola) vengono messi a forza in secondo piano rispetto al lavoro, al "dovere" e al ruolo nella collettività, e dove la frattura fra le varie generazioni sembra ormai insanabile. Un mondo dove bambini, adolescenti e adulti conducono vite separate e parallele, dove manca il dialogo (o magari si sviluppa in luoghi virtuali, come internet) e dove anche il mercato crea "mostri" come il gruppo di giovanissime idol, le "Dessert" (ma il nome è scritto con numerose varianti), che sono il vero filo conduttore della pellicola con la loro canzone "Mail me". E se non tutto viene spiegato chiaramente alla fine, è evidente che Sono intende suggerire cause sociali e psicologiche prima ancora che criminali o soprannaturali. Il suicidio può persino diventare una "moda", come un gruppo rock o un giocattolo elettronico; e come tutte le mode, può invadere la società senza che alcune fasce di essa (gli adulti, i poliziotti) si rendano conto della sua esistenza. Gli eventi raccontati si svolgono nell'arco di una sola settimana (dal 26 maggio al 2 giugno), durante la quale la tensione sale sempre più alle stelle e nessuno può dirsi al sicuro. Nel 2006 il regista ha rivisitato il film, dandone di fatto una nuova interpretazione, attraverso una sorta di prequel, "Noriko's dinner table".

29 luglio 2015

Mood indigo (Michel Gondry, 2013)

Mood indigo - La schiuma dei giorni (L'écume des jours)
di Michel Gondry – Francia/Belgio 2013
con Romain Duris, Audrey Tautou
***

Visto in divx alla Fogona, con Monica e Marisa.

Adattare per il grande schermo il romanzo di Boris Vian "La schiuma dei giorni" poteva sembrare un'impresa impossibile, visto che il libro è un surreale concentrato di bizzarria, follia, romanticismo, cinismo in stravagante forma letteraria. Per provarci, nessuno era dunque meglio di Michel Gondry, regista di pellicole visionarie e sopra le righe come "Se mi lasci ti cancello" e "L'arte del sogno" (le due, della sua filmografia, che più assomigliano a questa per soluzioni visive, effetti speciali e fusione fra realtà e sur-realtà). Se lo scheletro della trama potrebbe apparire ben calato nella quotidianità, con un finale tragico addirittura da opera ottocentesca (la morte di Chloè come quelle di Mimì o Violetta), tutto è però rivestito di trovate ingegnose, curiose, assurde, colorate e bizzarre, che nella versione cinematografica spaziano – come riferimento – dall'eccentricità di un Terry Gilliam alla stop motion di Jan Švankmajer fino all'estetica di un Jean-Pierre Jeunet (non a caso il personaggio femminile è interpretato da Audrey "Amelie" Tautou). Certo, la debordanza visiva finisce in parte col sovrastare i contenuti, ma era il prezzo da mettere in conto. Il protagonista, Colin (Duris), è un benestante gaudente e fannullone che trascorre le sue giornate senza lavorare, nutrito da Nicolas (Omar Sy), il suo cuoco e servitore tuttofare, spesso in compagnia dell'amico Chick (Gad Elmaleh), ammiratore fanatico dello scrittore e filosofo Jean-Sol Partre (evidente parodia di Sartre). Quando l'amico si fidanza con Alise (Aïssa Maïga), nipote di Nicolas, anche Colin – un po' per noia, un po' per invidia – "decide di innamorarsi". E l'incontro con Chloé, "reincarnazione" di una canzone di Duke Ellington, cambierà la sua vita. Dopo un breve fidanzamento, i due infatti si sposano. Ma presto la ragazza cade preda di un'atroce malattia: una ninfea cresce nei suoi polmoni, e per tenerla a bada sarà necessario circondarla continuamente di fiori. Tutto però è inutile: per pagare le cure alla moglie, Colin spende tutto il proprio denaro ed è costretto a lavorare. E mentre il mondo attorno perde progressivamente i suoi colori (e, in particolare, la casa di Colin si fa sempre più piccola, buia e claustrofobica), la vita di Chloé giunge al termine. Il film si conclude tragicamente in bianco e nero (quando era iniziato ricolmo di luce, gioia, colori ed allegria). Al di là della trama, che segue progressivamente il passaggio dalla gioia alla rovina (anche per quanto riguarda i personaggi secondari, come Chick e Alise), quello che colpisce (e che dà valore al film) è – come detto – la cornice in cui è collocata, fra pietanze prelibate, campanelli semoventi, topolini curiosi, pianoforti che mescolano cocktail, auto trasparenti, cabine-nuvole che vagano per la città, matrimoni competitivi, piogge dimezzate, balli che allungano le gambe, e mille altre trovate stravaganti, non fini a sé stesse ma utili a rappresentare gli stati d'animo dei personaggi attraverso il mondo che li circonda, e che decade in contemporanea al crollo d'animo dei suoi abitanti. Gondry fa ricorso a sequenze in animazione, magrittiane, surreali, a un misto fra natura e tecnologia, a soluzioni visive ed espressioniste (alcune delle quali mutuate dai videoclip di cui è stato regista), per realizzare una pellicola che possa essere un equivalente del testo di Vian (che all'interno del film, fra l'altro, si immagina essere prodotto da centinaia di dattilografi che si danno il cambio su file di macchine da scrivere in movimento). Alain Chabat è il cuoco Gouffé, che appare in video nel frigorifero e nel forno di Colin; Charlotte Le Bon è Isis, l'amante di Nicolas.

28 luglio 2015

I bostoniani (James Ivory, 1984)

I bostoniani (The Bostonians)
di James Ivory – USA/GB 1984
con Christopher Reeve, Vanessa Redgrave
*1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Dall'omonimo romanzo di Henry James (ma il titolo sarebbe stato tradotto meglio con "Le bostoniane"), la storia di un insolito triangolo sentimentale sullo sfondo degli Stati Uniti del 1876 e dei primi movimenti per i diritti e l'emancipazione delle donne. A Boston, la femminista Olive Chancellor (Redgrave), un'assidua frequentatrice di tali circoli, fa amicizia con la giovane Verena Tarrant (Madeleine Potter), spigliata oratrice che diventa in breve tempo la sua protetta e la sua convivente (in un cosiddetto "Boston marriage", termine che indicava due donne indipendenti che vivevano insieme, in affinità romantica e intellettuale). Ma anche il cugino di Olive, Basil Ransom (Reeve), avvocato e politico newyorkese, si innamora della ragazza. I due se la contenderanno, e così lo scontro fra le rispettive idee (Basil è decisamente di stampo conservatore) si trasferirà anche sul piano sentimentale. La buona ricostruzione storica e sociale, la regia raffinata, la fotografia suggestiva e luminosa, i costumi curatissimi e le prove attoriali di grande sottigliezza (soprattutto quella della Redgrave) sono purtroppo al servizio di una narrazione dallo sviluppo lento e tedioso, con personaggi incapsulati nei rispettivi ruoli e una storia che fatica a prendere il volo dopo le intriganti premesse. Resta l'interessante affresco di un momento storico in cui si muovevano i primi passi verso la libertà della donna, a tutti i livelli, nonostante il punto di vista del film (che rispecchia quello del romanzo originale di James) non sia sbilanciato da una parte o dall'altra (Ransom non è il cattivo della vicenda, tutt'altro). Nel cast, in ruoli minori, anche Jessica Tandy, Linda Hunt, Nancy Marchand, Wesley Addy e Barbara Bryne.

26 luglio 2015

The love eterne (Li Han-hsiang, 1963)

The Love Eterne (Liang Shan-bo yu Zhu Ying-tai)
di Li Han-hsiang – Hong Kong 1963
con Betty Loh Ti, Ivy Ling Po
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Prodotto dagli Shaw Brothers, uno dei più celebri musical hongkonghesi degli anni '60, ispirato alla leggenda tradizionale cinese degli "amanti farfalla" (dalla scena finale in cui i due, dopo la morte, si tramutano in farfalle). I protagonisti sono Zhu Ying-tai, ragazza sedicenne di famiglia nobile e ricca, che vuole testardamente studiare e istruirsi come fanno i suoi coetanei maschi, e per questo motivo si traveste da uomo; e Liang Shan-bo, suo compagno di studi, "fratello giurato" e amico per la pelle, del quale naturalmente si innamora. Per tre anni i due studiano insieme e sono inseparabili: quando Ying-tai rivelerà a Shan-bo di essere una ragazza, questi chiederà di sposarla. Ma Ying-tai è già stata promessa dal padre a un altro uomo. Non potendo essere uniti in vita, i due finiranno con l'esserlo nella morte. Enorme successo di pubblico all'epoca, nonché fenomeno sociale e culturale, la pellicola rappresenta il picco – cinematograficamente parlando – del filone musicale dell'opera Huangmei, una forma di spettacolo teatrale di origine popolare e considerata meno "elitaria" rispetto ad altri tipi di opera cinese, una sorta di operetta dunque, i cui drammi prevedono spesso pochi personaggi (in questo caso, di fatto, solo due), situazioni vivaci e melodie semplici e cantabili. L'origine teatrale è conservata nell'impostazione della pellicola anche grazie a una regia elegante e a scenografie volutamente artificiose, con i personaggi immersi in scenari naturali che riflettono i loro sentimenti (alberi fioriti e laghetti ridenti quando sono felici e innamorati, desolazione e tempeste quando sono tragicamente pronti alla morte). I numeri musicali sono lunghi ed elaborati, ma scorrono con piglio leggero e vivace (si pensi al lungo cammino di Ying-tai verso casa, accompagnata da Shan-bo, con la prima che lancia continue allusioni al fatto di essere una ragazza, allusioni che il secondo non coglie). L'ambientazione della leggenda originale durante la dinastia Jin (265–420 d.C.) contribuisce a donare alla vicenda un'astrattezza fuori dal tempo, cui non è estraneo anche il memorabile finale metafisico. Anche se il tema principale della storia, all'apparenza, è la libertà di amare e sposare chi si desidera (a Ying-tai viene detto più volte che le ragazze non hanno voce in capitolo, e che a scegliere il loro futuro marito devono essere i genitori), con non pochi accenni alla parità di genere e ai diritti delle donne, dietro le quinte c'è un forte connotato omosessuale: di fatto Shan-bo amava Ying-tai anche quando credeva che fosse un maschio, al punto che non si scompone più di tanto alla rivelazione che si tratta di una donna. L'iniziale affinità intellettuale si tramuta in modo del tutto naturale in affinità sentimentale. Come se non bastasse, se Ying-tai (Betty Loh Ti, ma il canto è quello di Tsin Ting) è una donna che si veste da uomo nella finzione, Shan-bo lo è nella realtà: il personaggio (maschile) è infatti interpretato da un'attrice, Ivy Ling Po, che divenne immediatamente una star in tutto il sud-est asiatico. La stessa storia è alla base dei film "The lovers" (1994) di Tsui Hark e "The butterfly lovers" (2008) di Jingle Ma.

24 luglio 2015

Monica e il desiderio (Ingmar Bergman, 1953)

Monica e il desiderio (Sommaren med Monika)
di Ingmar Bergman – Svezia 1953
con Harriet Andersson, Lars Ekborg
***

Visto in divx.

Il giovane Harry conosce per caso l'esuberante Monika: entrambi insofferenti ai lacci e alle costrizioni imposte dalla famiglia e dal lavoro, mollano tutto per trascorrere un'estate girando in barca lungo le coste della Svezia. Alla scoperta che lei è rimasta incinta, decidono di sposarsi e di tornare in città, dove Harry trova lavoro. Ma Monika, incapace di adattarsi a una vita di tipo comune, lo tradirà. In quello che può essere considerato il terzo film di un'ideale trilogia sulla donna (dopo "Un’estate d’amore" e "Donne in attesa", tutti girati fra il 1950 e il 1953), Bergman racconta con sensibilità e realismo una storia d'amore scandita dal ritmo delle stagioni, con il suo inizio (non a caso la pellicola si apre a primavera), il culmine della passione (l'estate trascorsa girovagando in libertà, con le "scandalose" – per l'epoca – scene della ragazza che fa il bagno nuda e che mostra a più riprese una "insolente sensualità") e la fine (l'autunno e l'inverno). il titolo originale del film, fra l'altro, significa proprio "Un'estate con Monika", esplicitando il rimando stagionale. I due giovanissimi personaggi (19 anni lui, "quasi 18" lei), ribelli e in lotta contro il mondo, che sognano la libertà e rifuggono le responsabilità, dovranno scoprire sulla loro pelle che cosa significa ritagliarsi un posto nella società. Lui ci riesce, lei – forse non ancora pronta – no. Considerato forse a torto un lavoro minore del regista svedese (che durante le riprese si innamorò della protagonista Harriet Andersson, tanto da volerla in altri suoi otto film), godette di una certa notorietà solo per il carattere scandaloso di alcuni temi e alcune inquadrature; fu invece amatissimo dagli autori della Nouvelle Vague, e soprattutto da Jean-Luc Godard, che in particolare apprezzò l'insolito e prolungato primo piano del volto di Monika nel finale, quando sembra rivolgersi direttamente allo spettatore per comunicare i suoi pensieri e la sua inquietudine: Godard la definì "l'inquadratura più triste di tutta la storia del cinema". In ogni caso Monika resta un personaggio indimenticabile, e i temi bergmaniani dell'ansia, dell'alienazione dalla realtà e della crisi d'identità sono presenti a piene mani.

22 luglio 2015

Human nature (Michel Gondry, 2001)

Human nature (id.)
di Michel Gondry – USA 2001
con Patricia Arquette, Tim Robbins, Rhys Ifans
**1/2

Visto in divx.

Il lungometraggio d'esordio di Gondry, scritto da Charlie Kaufman (i due avrebbero poi collaborato anche nel secondo film del regista, il magnifico "Se mi lasci ti cancello"), mette in scena il conflitto fra natura e civiltà attraverso la storia di tre bizzarri personaggi che raccontano la loro vicenda in flashback, a mo' di testimonianza-confessione, in tre distinti ambienti: uno in prigione, uno davanti al Congresso degli Stati Uniti, e uno... nell'aldilà. Lila (Patricia Arquette) è una donna affetta da una disfunzione ormonale che la rende pelosa come una scimmia, e per questo motivo sceglie di andare a vivere nella foresta. Nathan (Tim Robbins) è uno scienziato cresciuto in una famiglia ossessionata dall'educazione e dal galateo, tanto che anche da adulto i suoi studi si concentrano sull'insegnare il bon ton agli animali. Pugg (Rhys Ifans) è infine un uomo "selvaggio", allevato nei boschi come se fosse uno scimpanzé: trovato da Lila e Nathan, viene rinchiuso da quest'ultimo nel suo laboratorio e sottoposto a una serie di esperimenti per renderlo un essere umano colto e raffinato. Il contrasto fra la natura, con i suoi istinti animaleschi e i richiami sessuali, e il costrutto dell'educazione e delle consuetudini umane, a partire dal modo di comportarsi in pubblico, ritorna a più riprese, con i personaggi sballottati fra i due estremi, spesso indecisi da che parte stare. Rispetto a classici come "Il ragazzo selvaggio" di Truffaut o "L'enigma di Kaspar Hauser" di Herzog, qui non ci si prende decisamente mai sul serio, benché i temi affrontati siano di spessore (e lo spirito di Rousseau riecheggi a più riprese, per non parlare del testo di Guglielmo di Ockham sulla conoscenza intuitiva che si sente durante i titoli di coda!). L'umorismo – di volta in volta nero, surreale, slapstick, romantico o cinico – permea tutta la pellicola fino allo sberleffo finale. Ma l'andamento della narrazione e altalenante, e la sceneggiatura di Kaufman sembra a tratti poco equilibrata. Nell'ottimo cast ci sono anche Miranda Otto (la seducente assistente francese di Nathan), Rosie Perez (la "depilatrice"), Peter Dinklage (l'amico di Lila che l'aiuta a rapire Duff) e Hilary Duff (Lila da giovane). Gondry, fino ad allora noto soltanto come talentuoso regista di videoclip, cita a più riprese proprio uno dei video musicali da lui realizzati, quello per "Human Behavior" di Björk.

20 luglio 2015

L'uomo invisibile (James Whale, 1933)

L'uomo invisibile (The Invisible Man)
di James Whale – USA 1933
con Claude Rains, Gloria Stuart
**1/2

Visto in divx.

"Claude Rains was the Invisible Man..."

Un giovane scienziato, Jack Griffin (interpretato da un Rains all'esordio in America, il cui volto non si vede mai sullo schermo a parte fugacemente nella scena finale), inventa un composto chimico che gli dona l'invisibilità, ma che mette anche a repentaglio la sua salute mentale. Afflitto da una folle megalomania e da istinti sempre più violenti e aggressivi, cerca di ritirarsi in campagna per mettere a punto un antidoto, ma il suo strano aspetto (deve rivestire completamente di bende il proprio corpo per acquisire "visibilità") attira la curiosità della gente, fino a quando la sua condizione non diventa di dominio pubblico. Sempre più folle e violento, non esiterà a commettere spietati omicidi, compreso quello di un suo collega, e diventerà l'oggetto di una serrata caccia all'uomo: nonostante i suoi poteri, alla fine la polizia avrà ragione di lui. Adattando un romanzo di H.G. Wells, James Whale (già regista due anni prima del "Frankenstein" con Boris Karloff) fa debuttare sullo schermo un altro dei celebri mostri della Universal degli anni trenta, forse dalla carriera cinematografica meno fortunata rispetto agli altri suoi colleghi ma comunque in grado di smuovere sufficientemente l'immaginario collettivo, riversando in una vicenda apparentemente di pura fantascienza, a base di scienziati pazzi e di pozioni magiche, la consueta dose di riferimenti sociali e politici. Come un novello Dottor Jekyll/Mister Hyde, il protagonista si vede trasformare dalla sua sostanza non solo nel corpo (gli effetti dell'invisibilità sono realizzati da John P. Fulton attraverso la combinazione di due riprese: una con l'attore in tuta nera su fondo nero, e una della scenografia senza di lui) ma anche e soprattutto nella mente, tramutandosi in un megalomane che parla di dominare il mondo, tenuto a freno soltanto nei brevi momenti in cui incontra la sua fidanzata (interpretata da Gloria Stuart, la futura interprete del "Titanic" di Cameron). Nelle scene con il poliziotto alla locanda ci sono tracce di comicità slapstick, che passano però rapidamente in secondo piano man mano che la storia prosegue. Il cast comprende caratteristi come Una O'Connor e Henry Travers, nonché brevi apparizioni di future star come John Carradine e Walter Brennan. L'uomo invisibile tornerà in altre pellicole Universal a partire dal 1940.

18 luglio 2015

Lo studente di Praga (Stellan Rye, 1913)

Lo studente di Praga (Der Student von Prag)
di Stellan Rye [e Paul Wegener] – Germania 1913
con Paul Wegener, John Gottowt
***

Visto in divx.

Per ottenere il denaro necessario a frequentare la contessa di cui si è invaghito, il povero studente Balduin (Baldovino) accetta di vendere a un misterioso individuo nientemeno che... la propria immagine riflessa nello specchio! Nasce così un suo "doppio", che incrocia spesso il suo cammino e gli mette regolarmente i bastoni fra le ruote, per esempio sostituendosi a lui in un duello. Antesignano e precursore del cinema espressionista e fantastico tedesco, ispirato ai racconti di Chamisso (in particolare la "Storia straordinaria di Peter Schlemihl", il cui protagonista vendeva la propria ombra) e di E.T.A. Hoffman (come "Avventure della notte di San Silvestro", che riprende proprio il personaggio del racconto di Chamisso), questo film innovativo fu pensato e fortemente voluto dall'attore Paul Wegener, grande visionario e futuro regista del "Golem", capace qui di sdoppiarsi sullo schermo grazie ad effetti ottici mirabilmente eseguiti e che appaiono ancor oggi efficaci. Ambientato nel 1820 in una città, quella praghese, ricca di suggestioni e superstizioni (zingare che predicono il futuro, mefistofeliche figure di maghi/alchimisti dal nome italiano, e naturalmente il celebre cimitero ebraico), e debitore – come tutto il filone cui appartiene – al Faust goethiano, così come al tema del doppio (affrontato in letteratura da Wilde, Poe e Dostoevskij), il film recupera quel senso di fantastico e di inquietante che aveva caratterizzato il cinema degli esordi (si pensi a Méliès, dove però il tutto era venato da una leggerezza quasi comica, qui sostituita da un'angoscia romantica tipicamente tedesca) e che stava passando un po' in secondo piano rispetto al realismo storico e documentaristico delle coeve produzioni italiane e francesi. Grazie a una fotografia palpabile e concreta, e a scenografie reali e avvolgenti, ne nasce una narrazione visiva e un tipo di linguaggio che darà vita non solo all'espressionismo tedesco vero e proprio (di cui lo stesso Wegener sarà un rappresentante fondamentale), ma in un certo senso a tutto l'odierno cinema fantastico d'intrattenimento. La modernità della pellicola è tale che, a tratti, sembra quasi incredibile che risalga al 1913, dunque prima delle grandi innovazioni cinematografiche di Griffith. Memorabili sequenze come quella in cui Balduin gioca a carte con sé stesso. La regia è attribuita al danese Stellan Rye, ma lo stesso Wegener ne fu in parte responsabile, così come lo sceneggiatore Hanns Heinz Ewers. Il successo di pubblico fu grande, tanto che la pellicola venne rapidamente esportata anche all'estero (in America, in particolare, fu ribattezzata "A Bargain with Satan", ovvero "Un patto con Satana"). Venne rifatto nel 1926, sempre muto, da Henrik Galeen con Conrad Veidt, e poi nel 1935, da Arthur Robison con Anton Walbrook.

16 luglio 2015

Vittima degli eventi (Claudio Di Biagio, 2014)

Vittima degli eventi
di Claudio Di Biagio – Italia 2014
con Valerio Di Benedetto, Luca Vecchi
**

Visto in divx.

Se nel film "ufficiale" e americano di Dylan Dog, uscito nel 2011, il personaggio era quasi irriconoscibile rispetto al prototipo, diverso è il discorso per i film indipendenti realizzati da fan, spesso con scarse risorse ma molta passione, il più celebre dei quali è questo "Vittima degli eventi", mediometraggio di 50 minuti. Ambientato a Roma (dove, senza tante spiegazioni, risiedono Dylan e tutti i comprimari classici della serie), punta su una forte somiglianza con il fumetto (alcuni personaggi, come Groucho, sono incredibilmente identici al modello originale: ma d'altronde, già nel film "La guerra lampo dei fratelli Marx" era stato dimostrato che chiunque, con un paio di occhiali, di baffi e di sopracciglie finte, può assomigliare a Groucho) e su atmosfere sospese e suggestive, più che su una trama solida e coerente. Se la narrazione procede un po' a strappi, fra scene scollegate fra loro e dialoghi fumosi, in compenso i luoghi di Roma (in particolare il Ponte Sant'Angelo) e i miti della città eterna (la storia di Beatrice Cenci) si sposano in maniera convincente con il mondo di Dylan Dog, donando al risultato finale un'aura da giallo-horror italiano del passato, come certi lavori di Mario Bava ("La ragazza che sapeva troppo") o Dario Argento, autori che peraltro erano fra le fonti di ispirazione del primo Sclavi. La coppia Claudio Di Biagio (regista) e Luca Vecchi (sceneggiatore, nonché interprete nel ruolo di Groucho) fa tutto sommato un lavoro ottimo e professionale, soprattutto se si considera come l'operazione non abbia alle spalle colossi della produzione e sia stata portata a termine grazie al crowdfunding (la stessa Bonelli, avendo al momento ceduto i diritti cinematografici del personaggio, non ha potuto fiancheggiare in alcun modo i cineasti, benché alcuni suoi rappresentanti – Roberto Recchioni, lo stesso Tiziano Sclavi – abbiano dato il loro benestare alla realizzazione del film). Nel cast anche qualche volto noto, come Milena Vukotic (la medium Trelkovski), Alessandro Haber (un ispettore Bloch con la barba) e Massimo Bonetti (Hamlin di Safarà).

15 luglio 2015

Dylan Dog - Il film (Kevin Munroe, 2011)

Dylan Dog - Il film (Dylan Dog: Dead of Night)
di Kevin Munroe – USA 2011
con Brandon Routh, Sam Huntington
*1/2

Visto in divx.

Dal fumetto cult di Tiziano Sclavi, pubblicato da Sergio Bonelli Editore, una pellicola made in USA che ha poco o nulla a che vedere con l'opera originale, se non il nome del personaggio e il fatto che lavori come detective del paranormale. Ambientato a New Orleans (anziché a Londra), il film non è altro che un onesto horror che si iscrive nel filone di "Underworld" (o, se vogliamo, di "Buffy l'ammazzavampiri"). Il protagonista è un investigatore privato, uno dei pochi a sapere che fra la gente comune si nascondono creature come vampiri, licantropi e zombi. E non è detto che la divisione fra buoni e cattivi sia così netta, visto che la maggior parte di questi "non morti" cerca soltanto di condurre un'esistenza tranquilla e lontana dai riflettori. Spinto da un passato tragico, Dylan sembra però aver abbandonato il suo precedente lavoro per dedicarsi a casi più "tradizionali": sarà costretto a cambiare idea quando verrà coinvolto in una guerra fra non morti, causata da qualcuno che sta cercando un antico manufatto in grado di stravolgere equilibri secolari... Se il personaggio era stato ideato fisicamente da Sclavi pensando a Rupert Everett, qui è interpretato da un attore assai distante dal prototipo, Brandon "Superman" Routh, più adatto a un action movie che non a un horror introspettivo come il fumetto originale. E tutti i suoi elementi iconici (l'abito, l'automobile, il clarinetto, il galeone), se e quando sono presenti, non hanno alcuna esigenza narrativa: di fatto sembrano utilizzati solo per "camuffare" i muscoli e la figura di Routh, che più che Dylan Dog, dunque, interpreta qualcuno che si veste come lui. Altri elementi del fumetto (la casa con il campanello urlante, per esempio) sono invece assenti, così come tutti i soliti comprimari. In particolare l'assistente Groucho, per ragioni di diritti dovuti alla sua somiglianza con Groucho Marx, è sostituito da un altro personaggio, Marcus (interpretato da Sam Huntington, che aveva già recitato al fianco di Routh in "Superman Returns"), che per lo meno non sfigura nell'ambito della storia narrata e si ritaglia un buon ruolo di spalla comica, per quanto assai più tradizionale rispetto all'anarchia surreale del personaggio di cui fa le veci. Detto che gli autori della pellicola non si rifanno a nessun albo a fumetti in particolare, né riprendono temi, spunti o suggestioni della poetica di Sclavi (se non a livello superficiale), la maggiore delusione non nasce dal veder travisato il personaggio e le sue atmosfere (ogni trasposizione, in fondo, tradisce in parte l'originale), quanto dal fatto che si è preferito ignorare tutto ciò che fa di "Dylan Dog" un'opera unica per realizzare invece un film che non si differenzia da tanti altri prodotti simili, con personaggi stereotipati e situazioni poco accattivanti, che non trasmette mai paura o inquietudine e non lascia un particolare ricordo. Anche per colpa di una regia anonima, di effetti speciali al ribasso e di scene d'azione poco adrenaliniche. Alcune frasi celebri del personaggio ("Giuda Ballerino!", "Il mio quinto senso e mezzo") sono state aggiunte nel doppiaggio italiano. È comunque presente un omaggio a Sclavi: il suo nome è dato a un vampiro.

11 luglio 2015

C'era una volta (Carl T. Dreyer, 1922)

C'era una volta (Der var engang)
di Carl Theodor Dreyer – Danimarca 1922
con Clara Pontoppidan, Svend Methling
**

Visto su YouTube.

Da un testo del drammaturgo danese Holger Drachmann, una "favola in cinque atti" a sfondo morale (di cui, purtroppo, diverse sequenze sono andate perdute e sono state sostituite, nella versione restaurata, da foto di scena con cartelli riassuntivi). La principessa del reame di Illyria, bellissima ma anche fredda, viziata e orgogliosa, rifiuta con sdegno ogni possibile pretendente. Il principe di Danimarca, intenzionato a conquistarla, si traveste da mendicante e, con l'inganno (nonché grazie a un magico bollitore di rame, donatogli da un folletto, che consente di vedere il proprio futuro), riesce a portarla con sé nella capanna dove finge di abitare e di lavorare come vasaio. La povertà, la fame e le fatiche, pian piano, "ammorbidiscono" la principessa, che giunge a comprendere i reali valori della vita e si innamora del principe: il quale, naturalmente, le rivelerà alla fine la sua vera identità. Se nella prima parte, quella ambientata alla corte di Illyria, la pellicola soffre per una messa in scena statica (con grande abbondanza di mascherini circolari) ravvivata a fatica dai toni da commedia farsesca (evidenti nei personaggi del re o del buffone che accompagna il principe), nella seconda, ambientata nella foresta danese, migliora e si fa decisamente più suggestiva anche a livello visivo. Ma resta un lavoro minore di Dreyer, di cui si apprezza soprattutto la buona direzione degli attori.

10 luglio 2015

Alan Partridge: Alpha Papa (D. Lowney, 2013)

Alan Partridge: Alpha Papa
di Declan Lowney – GB 2013
con Steve Coogan, Colm Meaney
*1/2

Visto in divx alla Fogona, con Monica, Roberto e Sabrina, in originale con sottotitoli inglesi.

Alan Partridge, dj e speaker radiofonico di una stazione privata di Norfolk, convince i dirigenti dell'emittente – in crisi economica, e quindi costretti a "tagliare" qualche testa – a licenziare, al posto suo, il collega irlandese Pat Farrell (Colm Meaney). Questi, impazzito, si barrica nella sede della radio, prendendo come ostaggi tutti i componenti del board. Per negoziare, la polizia sceglie di inviare all'interno della stazione proprio Partridge, che Farrell considera suo amico perché non sa del ruolo che ha giocato nel suo licenziamento. Steve Coogan riprende un personaggio da lui già interpretato in numerosi sketch radiofonici e televisivi, e ci costruisce sopra un lungometraggio cinematografico colmo di humour cinico e tipicamente britannico. L'accoppiata con Meaney funziona, ma la pellicola sembra una puntata di uno show televisivo trascinata un po' troppo per le lunghe. Il punto di forza sono i dialoghi, mentre il personaggio pavido e approfittatore di Alan Partridge non risulta particolarmente originale o divertente. Il film non è mai uscito in Italia.

5 luglio 2015

Il feroce Saladino (Mario Bonnard, 1937)

Il feroce Saladino
di Mario Bonnard – Italia 1937
con Angelo Musco, Alida Valli
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Visto in divx.

L'anziano attore di varietà e illusionista Pompeo Darli (Musco) sembra abbonato ai fallimenti: cacciato da tutti i teatri, non solo fatica a trovare una nuova scrittura ma viene anche abbandonato dalla corpulenta moglie Amalia (Rosina Anselmi), che preferisce diventare l'assistente di un altro saltimbanco, il mister muscolo Johnson (Mario Mazza). Per tirare avanti in qualche modo e permettere un avvenire anche alla sua giovane protetta, la cantante Dora (Valli), Pompeo mette da parte il proprio orgoglio e accetta un lavoro umiliante: vendere caramelle e cioccolatini in quello stesso teatro dove si esibisce la moglie con il suo nuovo compagno. Ma la fortuna gira: diversi spettatori trovano, nelle confezioni da lui vendute, la rarissima figurina del "feroce Saladino". Tanto basta perché Pompeo diventi popolarissimo fra il pubblico, al punto che l'impresario del teatro lo assumerà seduta stante come protagonista di un nuovo spettacolo, nei panni appunto del Saladino. Commedia satirica e di costume che fa riferimento a uno dei fenomeni sociali più noti dell'Italia di metà anni trenta, ovvero la raccolta delle figurine della Buitoni-Perugina (su modello di quelle della Liebig), disegnate da Angelo Bioletto e raffiguranti personaggi storici ed esotici, ispirati a popolari romanzi d'avventura. Chi completava la raccolta poteva vincere ricchi premi (addirittura una Fiat Topolino!). Pare che la carta con il feroce Saladino, stampata in un numero limitato di copie, fosse talmente rara da scatenare una vera e propria ossessione fra i collezionisti alla sua ricerca, al punto che il governo fascista dovette intervenire con leggi ad hoc (dapprima per imporre di stampare in ugual numero tutte le figurine, e poi addirittura per proibire altri concorsi di quel tipo). Se la prima parte del film, pur non mancando mai di un marcato umorismo da farsa o da avanspettacolo, assume a tratti toni realisti e melodrammatici (le difficoltà economiche di Pompeo; la scena in cui deve saltare il pranzo e cerca inutilmente di rimediare; il suo orgoglio e la sua integrità di fondo anche di fronte ai continui fallimenti e al disprezzo da parte di tutti, Dora a parte), la seconda sconfina nel grottesco e culmina nella lunga rappresentazione sul palco, dove lo spettacolo è continuamente messo a repentaglio dai litigi "dietro le quinte" fra Pompeo e il muscoloso amante di sua moglie. Alida Valli, giovanissima, era al suo secondo film. Non accreditato, come comparsa c'è anche Alberto Sordi (è l'attore travestito da leone).

3 luglio 2015

I wish (Hirokazu Koreeda, 2011)

I wish (Kiseki)
di Hirokazu Koreeda – Giappone 2011
con Koki Maeda, Oshiro Maeda
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Visto in divx, in originale con sottotitoli.

In seguito alla separazione dei loro genitori, i fratellini Koichi e Ryunosuke si ritrovano a vivere in due città diverse del Giappone: il primo a Kagoshima con la madre e i nonni, il secondo a Fukuoka con il padre. I due bimbi, che si tengono spesso in contatto, sognano di riunire in qualche modo la famiglia. E la notizia che un nuovo treno superveloce (Shinkansen) collegherà le due città stimola la loro fantasia, convincendoli che esprimendo un desiderio nel punto esatto in cui i treni che viaggiano nelle due direzioni si incrociano sarà possibile vederlo esaudito. Insieme ad alcuni amici, dunque, progettano un viaggio fino al punto intermedio del tragitto che li separa... Dopo lo sconvolgente "Nobody knows", Koreeda torna a raccontare storie di bambini: stavolta ne esce un film dolce e delicato, riflessivo e minimalista, che gioca intorno al concetto dei desideri e dei "miracoli" (il titolo originale, "Kiseki", significa appunto miracolo). Non solo i due piccoli protagonisti, ma tutte le persone intorno a loro hanno infatti dei sogni e dei progetti da realizzare: il padre vuole sfondare come musicista, la madre vuole trovare un lavoro e la stabilità, il nonno riuscire a preparare dei particolari dolcetti tradizionali, e naturalmente i vari amici e compagni di scuola hanno desideri che vanno dal semplice (imparare a disegnare bene, correre più veloce) al complesso (diventare un'attrice o un giocatore di baseball professionista) all'impossibile (riportare in vita un cagnolino morto). C'è anche chi ha ormai rinunciato al proprio sogno (la madre di Megumi, che ha messo da parte l'aspirazione di diventare attrice e proprio per questo è scettica nelle possibilità che la figlia percorra la stessa strada), o chi lo vede avverarsi quando meno se lo aspetta (i due vecchietti che ospitano i bambini nella loro casa, e che ritrovano – anche se solo per una notte – la gioia di avere una famiglia). La semplicità di fondo, il ritmo compassato e l'attenzione al quotidiano e alle piccole cose ne fanno una pellicola estremamente "giapponese", in grado di catturare nel migliore dei modi, senza retorica o sovrastrutture, la "sofisticata ingenuità" dell'infanzia e i traumi dei figli di genitori separati. Alla fine, né Koichi né Ryunosuke esprimeranno il desiderio che si erano prefissati, ma il viaggio potrà comunque dirsi pienamente riuscito come tappa del loro percorso di crescita (e di accettazione della realtà). Molto belle le scene che mostrano il vulcano attivo Sakurajima che sovrasta la città di Kagoshima (la cui cenere, eruttata quotidianamente, turba in modo particolare i pensieri di Koichi). I giovani attori che interpretano i due protagonisti sono fratelli anche nella vita reale. Nel cast, in piccoli ruoli, anche Nene Otsuka, Joe Odagiri, Yui Natsukawa, Kirin Kiki e Hiroshi Abe.