30 giugno 2015

Il serpente e l'arcobaleno (Wes Craven, 1988)

Il serpente e l'arcobaleno (The serpent and the rainbow)
di Wes Craven – USA 1988
con Bill Pullman, Cathy Tyson
***

Visto in divx.

Dennis Allan (Pullman), giovane antropologo americano, viene inviato ad Haiti da un'azienda farmaceutica affinché scopra il segreto con cui i sacerdoti voodoo riportano in vita i morti. L'uomo, che era già entrato in contatto con il soprannaturale durante un precedente viaggio in Amazzonia (nel quale aveva incontrato il proprio animale totemico, il giaguaro), si ritroverà invischiato in una ragnatela di misteri, stregoneria e magia nera, sullo sfondo di un contesto sociale e politico ad alta tensione: siamo infatti negli ultimi giorni della dittatura di Jean-Claude Duvalier, e a mettere i bastoni fra le ruote ad Allan c'è Peytraud (Zakes Mokae), capo dei Tonton Macoutes (la polizia segreta del paese) e al tempo stesso potente stregone che usa la magia nera a fini politici, per impadronirsi delle anime dei suoi nemici, renderli schiavi o viaggiare nei loro sogni. Tratto da un libro (non di fiction!) dell'etno-botanico Wade Davis, uno dei film più interessanti e atipici di Craven, che unisce l'ingenuità dei b-movie horror degli anni ottanta (ci sono persino echi di Sam Raimi, tanti effettacci "artigianali" come teste mozzate o mani che si allungano, nonché una buona dose di seguenze oniriche e surreali che ricordano il "Nightmare" dello stesso Craven) ad affascinanti aspetti socio-antropologici che rendono alcune sequenze quasi documentaristiche (vedi per esempio le commistioni fra voodoo e cattolicesimo, come nella scena della processione, che non avrebbe sfigurato in "Demoni e cristiani nel Nuovo Mondo" di Werner Herzog). La carne al fuoco è molta: il filone degli zombi haitiani (popolare al cinema sin dai tempi di "Ho camminato con uno zombi" di Tourneur, e lontano anni luce dalle incarnazioni moderne e post-romeriane), il tentativo di darne una spiegazione scientifica (all'origine della morte apparente c'è una combinazione di tetrodotossina e allucinogeni, benché la preparazione della "polvere" usata dagli stregoni richieda un rito antico e complicato), i tumulti e le rivoluzioni nelle zone più povere dei Caraibi, le danze e le cerimonie, il misto di credenze e superstizioni: a tratti Craven sembra perdere il filo, e il finale forse è un po' di grana grossa, ma nel complesso la pellicola lascia un ottimo ricordo di sé. Cathy Tyson (Marielle), Paul Winfield (Celine) e Brent Jennings (Mozart) interpretano gli alleani haitiani di Allan. Fra le scene cult: la mano mummificata che esce dalla minestra, il protagonista seppellito vivo con una tarantula, la tortura con il chiodo da parte di Peytraud. Il titolo si riferisce alle leggende del voodoo: il serpente e l'arcobaleno sono rispettivamente il simbolo della terra e del cielo, e l'uomo che vi rimane imprigionato in mezzo – come uno zombi che non è né vivo né morto – è destinato a soffrire.

29 giugno 2015

Amleto si mette in affari (Aki Kaurismäki, 1987)

Amleto si mette in affari (Hamlet liikemaailmassa)
di Aki Kaurismäki – Finlandia 1987
con Pirkka-Pekka Petelius, Esko Salminen
**1/2

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

La vicenda di Amleto, ambientata ai giorni nostri e girata come se si trattasse di un film noir. Il protagonista (Petelius) è qui il figlio del presidente di una grande azienda, che viene assassinato dal socio in affari Klaus (Salminen), amante di sua moglie Gertrud (Elina Salo). Quando Amleto riceve dal fantasma del padre l'ordine di vendicarlo, ne seguirà un bagno di sangue. La trama si snoda fedelmente come nella tragedia di Shakespeare, di cui riprende anche diverse battute (nella lettera che Amleto scrive ad Ofelia, o nei suoi discorsi da "pazzo"; curiosamente, invece, è assente il monologo "Essere o non essere"): ma nel finale c'è un notevole colpo di scena, che cambia completamente il significato dell'opera originale, non senza una certa irriverenza. E dunque, più che i temi shakespeariani, ad emergere in primo piano sono il cinismo e l'ironia con cui Kaurismäki ritrae il mondo dell'industria e degli affari. In un certo senso il regista finlandese rifà quello che aveva fatto con "Delitto e castigo" di Dostoevsky, attualizzando un testo classico e adattandolo non solo al suo cinema (personaggi laconici, atmosfere da anni cinquanta) ma anche allo scenario contemporaneo, con la contrapposizione fra imprenditori capitalisti (la famiglia di Amleto) e lavoratori proletari (il suo autista, che lavora sotto copertura per il sindacato). L'atmosfera noir, che ben contestualizza la "resa dei conti" familiare a colpi di pistola, è resa dalla fotografia in bianco e nero, dall'illuminazione a bassa intensità (che mette in risalto alcuni particolari, come la camicia bianca del padre di Amleto che ne fa un fantasma ancora prima della morte), dalla colonna sonora (che fonde musica sinfonica – Shostakovich e Ciajkovskij – e blues – Elmore Jones), dai titoli di testa e dai cartelli che punteggiano la pellicola. Non mancano i consueti tocchi di straniante umorismo, con Klaus vorrebbe ridurre le attività diversificate del gruppo, chiudendo i cantieri navali e le segherie per tuffarsi nell'industria delle paperelle di gomma (!), e le battute sarcastiche sulle rivalità scandinave ("Direte che state viaggiando per divertimento" – "In Norvegia?"). Kati Outinen è un'Ofelia arrampicatrice sociale (bella la scena del suo suicidio nella vasca da bagno, con tanto di paperella di gomma), Kari Väänänen è un umiliato Lauri/Laerte, che muore con la testa dentro una radio; Puntti Valtonen e Mari Rantasila sono l'autista Simo e la cameriera Helena; per il fido Matti Pellonpää, invece, solo un cameo come guardiano notturno.

27 giugno 2015

Quelle due (William Wyler, 1961)

Quelle due (The children's hour, aka The loudest whisper)
di William Wyler – USA 1961
con Audrey Hepburn, Shirley MacLaine
***

Visto in divx, con Sabrina.

Le insegnanti Karen (Audrey Hepburn) e Martha (Shirley MacLaine), amiche per la pelle sin dai tempi dell'università, hanno aperto una scuola privata per bambine in una tranquilla cittadina di campagna. Ma una delle loro alunne, la perfida e bugiarda Mary (Karen Balkin), sparge la voce che le due siano amanti. Il pettegolezzo le rovina: tutte le famiglie della regione ritirano le loro figlie dalla scuola, e anche il promesso sposo di Karen, il medico Joe (James Garner), rischia di perdere il suo posto di lavoro in ospedale. Uno dei più potenti film sulla maldicenza e il "potere distruttivo di una menzogna", per usare le parole di Lillian Hellman, autrice della pièce teatrale da cui la pellicola è tratta. Wyler aveva già provato ad adattarla nel 1936 ("La calunnia"), ma allora era stato costretto dal codice Hays ad eliminare ogni riferimento al lesbismo, mentre nel 1961 potè permettersi una maggiore fedeltà al tema originario. Il che è un bene, perché l'omosessualità (vera o presunta) dei personaggi non è un semplice pretesto: tutto si muove in funzione della sua percezione da parte della gente (o di loro stessi: alla fine il suicidio di Martha avviene dopo che è stato svelato l'inganno della bambina, ovvero dopo che in teoria lei e Karen sono state "riabilitate" agli occhi della società; Martha non si uccide per la calunnia ma per la propria omofobia interiorizzata, perché lei stessa non riesce ad accettare o a giustificare i propri sentimenti). Da notare che in questo senso il film è ancora attuale: a emarginare le due donne non è tanto il fatto che siano lesbiche quanto il loro ruolo di insegnanti: "Quello che queste due sono è esclusivamente affare loro; ma diventa una cosa molto più grave quando coinvolge delle giovanette", commenta la nonna di una delle alunne, riecheggiando pensieri ancora oggi diffusi. Grande la prova delle due protagoniste, con una Hepburn più trattenuta e mai sopra le righe (rimangono impresse nella memoria le scene finali, con le sue camminate pensierose e silenziose) e una McLaine più emotiva e fragile. Ma la carne al fuoco è tanta: si mette sotto la lente d'ingrandimento, con estremo cinismo, la cattiveria "innata" dei bambini, che mentono o rubano senza pensare alle conseguenze e non mostrano mai un vero pentimento; la forza delle maldicenze e dei pettegolezzi, naturalmente; e, a un livello più intimo, la difficoltà nell'accettare e nell'essere consapevoli dei propri sentimenti, la sottile linea fra una relazione innocente o una peccaminosa (o percepita come tale) e il significato delle parole stesse (guarda caso la regia, nelle prime istanze in cui si affronta l'argomento, tiene doverosamente a distanza lo spettatore, impedendogli di udire cosa si dicono i personaggi). Miriam Hopkins, che nel film del 1936 aveva recitato nel ruolo di Martha, qui ne interpreta la zia Lily. Fay Bainter è Amelia, la nonna di Mary, mentre una giovanissima Veronica Cartwright è Rosalie, la bambina cleptomane.

25 giugno 2015

Quella sporca dozzina (R. Aldrich, 1967)

Quella sporca dozzina (The Dirty Dozen)
di Robert Aldrich – USA 1967
con Lee Marvin, Charles Bronson
***

Visto in TV.

Poche settimane prima dello sbarco in Normandia, il maggiore americano Reisman (Lee Marvin) viene incaricato di addestrare un gruppo di dodici soldati detenuti, condannati a morte o all'ergastolo per crimini vari, e di farne una squadra in grado di compiere una missione "impossibile": raggiungere un castello nella Francia occupata dai nazisti, all'interno del quale si radunano gli ufficiali nemici, e sterminarli tutti. Nonostante le iniziali difficoltà (Reisman, a sua volta refrattario alle regole e all'autorità, si troverà a gestire uomini indisciplinati, inaffidabili, incorreggibili o addirittura psicopatici), il gruppo imparerà pian piano a conoscersi e a dimostrare spirito di squadra. E saprà portare a termine la missione con coraggio, anche se la maggior parte ci rimetterà la pelle. Uno fra i più celebri film di guerra "non convenzionali", divertente, violento e fumettoso (non a caso è fra le fonti di ispirazione citate da Tarantino per "Bastardi senza gloria"), riscosse un enorme successo di pubblico proprio perché, alla vigilia del 1968, metteva in scena una serie di individualità che contestavano apertamente la catena di comando e le logiche della guerra (la pellicola si chiude addirittura con la frase "C'è una buona notizia: ammazzare generali può essere un lavoro!"). Solo l'ultimo quarto del film è dedicato alla missione vera e propria: in precedenza assistiamo al lungo processo di addestramento e soprattutto all'esercitazione in cui la "sporca dozzina" (chiamata così perché, per punizione, da un certo punto in poi agli uomini viene proibito di lavarsi o di radersi) dimostra il proprio valore contro i reparti organizzati e regolari dell'esercito alleato, guidati dallo sprezzante colonnello Breed (Robert Ryan). E non mancano altre scene in cui i protagonisti tendono a farsi beffe dell'autorità costituita (come quando uno di loro, spacciandosi per generale, passa in rassegna le truppe). A causa di tutto ciò, anche il finale in cui i nostri eroi si sacrificano durante la missione può essere visto più come un attaccamento ai propri compagni che non agli ideali patriottici o bellici, verso i quali c'è sospetto, diffidenza o totale distacco. La sceneggiatura, estremamente lineare e facilmente divisibile in "atti", è tratta da un romanzo del 1965 di E. M. Nathanson, ispirato a sua volta (pare) da personaggi reali, i "Filthy Thirteen". Ricco, ovviamente, il cast: fra i membri del gruppo spiccano Charles Bronson (Wladislaw, il leader silenzioso e imperturbabile, l'unico che parla tedesco), Telly Savalas (Maggott, il maniaco religioso, il più pazzo del gruppo), John Cassateves (Franco, il più indisciplinato ma anche il più carismatico), Donald Sutherland (Pinkley, il più giovane), Jim Brown, campione di football americano (Jefferson, l'immancabile nero) e Clint Walker (Posey, il "gigante buono"), mentre in altri ruoli troviamo Ernest Borgnine (li generale di divisione), Richard Jaeckel (il sergente di collegamento), Ralph Meeker e George Kennedy. Lee Marvin e Telly Savalas sostituirono all'ultimo minuto John Wayne e Jack Palance, che rifiutarono i ruoli. Uno dei dodici soldati (Jimenez) muore fuori scena perché l'attore che lo interpretava (Trini Lopez) abbandonò il set per divergenze con la produzione. La pellicola fu interamente girata in Inghilterra: il castello francese fu costruito appositamente dallo scenografo William Hutchinson e si rivelò talmente solido che, nella scena dell'esplosione, i cineasti furono costretti a utilizzare un modellino in sughero. Il successo del film, e soprattutto l'impatto che ebbe sul pubblico, portarono alla realizzazione di svariate imitazioni ma anche di tre sequel ufficiali e persino di una serie televisiva negli anni ottanta.

24 giugno 2015

L'amore dell'attrice Sumako (K. Mizoguchi, 1947)

L'amore dell'attrice Sumako (Joyū Sumako no koi)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1947
con Kinuyo Tanaka, So Yamamura
**

Rivisto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Nel Giappone di inizio novecento, l'insegnante e drammaturgo Hogetsu Shimamura è fra coloro che sostengono la necessità di un rinnovamento dell'arte teatrale: anziché ripiegarsi sul tradizionale kabuki, intende dare spazio allo shingeki (nuovo teatro), culturalmente aperto alle influenze europee (Ibsen su tutti) e a un modo di recitare più naturalista e psicologico. Trova la sua musa nella giovane attrice Sumako Matsui, di cui si innamora e per la quale lascia la famiglia. Insieme, i due gireranno per il Giappone con una propria compagnia, superando non poche difficoltà e mettendo in scena opere come "Casa di bambole", "Magda", "Resurrezione" (tutte, guarda caso, incentrate su figure femminili forti e indipendenti, proprio come Sumako stessa). Ma poco dopo la morte del suo mentore per una polmonite, anche l'attrice si suiciderà al termine di una rappresentazione di "Carmen". Ispirato a personaggi realmente esistiti, è il capitolo centrale di un'ideale trilogia mizoguchiana sulla liberazione della donna (dopo "La vittoria delle donne" del 1946 e prima de "Il mio amore brucia" del 1949). I temi sono quelli da sempre cari al regista: il teatro, l'indipendenza femminile, il dilemma fra la necessità di rimanere fedeli a sé stessi e le avversità imposte dalla vita (concetto espresso sin dalla scena iniziale, in cui Shimamura tiene una lezione ai suoi studenti sulle opere di Ibsen). La vicenda personale dei due protagonisti si fonde così con quella dei personaggi dei drammi che mettono in scena, e la vita si confonde con l'arte. Per una volta, caso raro in un film di Mizoguchi, a fianco della figura femminile ce n'è anche una maschile altrettanto forte: Shimamura, soprattutto nella prima parte, è anzi il vero centro di gravità del film. E nel suo rapporto con la figlia Haruko (destinata a un matrimonio combinato, che va a monte quando il padre lascia la famiglia, e che lui avrebbe voluto invece sposa per amore), con la moglie e con la suocera, per esempio, sono evidenti le forti costrizioni sociali e il peso della cultura tradizionale contro cui si batte anche nelle scelte artistiche e teatrali. Nel complesso, forse non un film particolarmente avvincente, a tratti elegiaco e schematico, e nemmeno tanto vivace dal punto di vista stilistico (la regia di Mizoguchi è più statica del solito, anche se non rinuncia ai long take), ma comunque uno dei più significativi fra quelli girati nell'immediato dopoguerra, quando l'occupazione americana vagliava con estrema severità i soggetti dei cineasti giapponesi e imponeva loro di affrontare temi "democratici". Curiosità: nello stesso anno, il 1947, anche Teinosuke Kinugasa realizzò un film su Sumako Matsui, "The actress".

23 giugno 2015

L'orribile verità (Leo McCarey, 1937)

L'orribile verità (The awful truth)
di Leo McCarey – USA 1937
con Cary Grant, Irene Dunne
**1/2

Visto in divx, con Sabrina.

I ricchi coniugi Jerry e Lucy Warriner (Cary Grant e Irene Dunne), sospettandosi reciprocamente di infedeltà (e non è detto che non ci sia qualcosa di vero: la sceneggiatura "glissa" abilmente sull'argomento), decidono di divorziare. Nei novanta giorni di attesa prima che la sentenza diventi operativa, però, fanno di tutto per sabotare i rispettivi tentativi di imbastire nuove relazioni. E naturalmente, proprio allo scoccare della mezzanotte della fatidica data, torneranno insieme, riconoscendo di provare quell'amore che testardamente continuavano a negare. Classico della screwball comedy e del cosiddetto sottogenere del "rimatrimonio" (quello in cui i due protagonisti divorziano per poi risposarsi, in ossequio al codice Hays che proibiva ai cineasti di rappresentare sullo schermo l'adulterio, e dunque imponeva agli sceneggiatori di "separare" marito e moglie prima di esplorare eventuali scappatelle), un film che non si prende sul serio e che ha consentito a Grant di caratterizzare per la prima volta quel tipo di personaggio che interpreterà numerose altre volte in commedie leggere negli anni a venire. Le dinamiche sono quelle solite, fra controllati battibecchi verbali e imprevisti momenti slapstick, anche se, rispetto ad altri film del genere, questo risulta forse un po' datato. La prima parte è vivacizzata dal... cagnolino della coppia, Mr. Smith, conteso fra i due coniugi e protagonista di vivaci siparietti che mettono in crisi i tentativi di Lucy di barcamenarsi fra l'ex marito, il maestro di canto Armand Duvalle (Alexander D'Arcy), con cui Jerry sospetta che abbia una relazione, e il nuovo promesso sposo, il rozzo mandriano e petroliere dell'Oklahoma Dan Leeson (Ralph Bellamy). L'ultima mezz'ora, invece, è puro screwball, con la donna che – spacciandosi per la sboccata e svampita sorella del marito – manda a monte il fidanzamento di Jerry con l'ereditiera Barbara Vance (Molly Lamont), e poi demolisce l'auto per spingerlo a passare la notte con lei nel suo cottage di montagna. Cecil Cunningham è la zia Patsy, Esther Dale è la madre di Dan, Joyce Compton è la ballerina del night club, mentre il fox terrier che "interpreta" Mr. Smith, Skippy, era una celebrità dell'epoca, apparso in decine di film (fra cui "Susanna" e la serie de "L'uomo ombra"). Il soggetto è tratto da una commedia teatrale già adattata per il cinema nel 1925 (muto) e nel 1929. McCarey, esperto di commedie (lo ricordiamo per aver diretto "Duck Soup", il capolavoro dei fratelli Marx), vinse l'Oscar come miglior regista.

21 giugno 2015

Cannes e dintorni 2015 - conclusioni

E anche questa rassegna è finita. Non sono rimasto insoddisfatto: ho potuto vedere almeno un capolavoro ("Il figlio di Saul" dell'ungherese Nemes) e diversi film ottimi o comunque interessanti ("Al di là delle montagne", "Mózes, il pesce e la colomba", "Un mondo fragile", "The lobster", "Trois souvenirs de ma jeunesse"). Certo, non sono mancate le sòle: penso in particolare al micidiale "Peace to us in our dreams" di Sharunas Bartas, peggior film della rassegna (e forse dell'anno). Ma nel complesso, è sempre un piacere farsi un viaggio in pochi giorni attraverso il cinema di tutto il mondo, ascoltando tante lingue diverse e vivendo, per brevi momenti, in paesi così distanti fra loro. È questa la vera magia del cinema (soprattutto se in lingua originale)! Fra i temi preponderanti della rassegna spiccano i legami famigliari, presenti in quasi tutti i film visti: fra fratelli ("Rams"), sorelle ("Little sister"), figli e genitori ("Mózes", "Al di là delle montagne", "Il figlio di Saul") o a tutto tondo ("Un mondo fragile", "The here after"). Inoltre, grande attenzione agli adolescenti ("A testa alta", "Diamante nero", "Trois souvenirs de ma jeunesse" e ancora "The here after") e persino agli animali ("Rams", "Mózes", e ovviamente "The lobster"). Da segnalare l'alta qualità delle opere prime, come le due pellicole ungheresi di Nemes e Zomborácz e quella colombiana. La scelta della "Camera d'or" (il premio al miglior regista esordiente) non deve essere stata facile: per la cronaca, l'ha vinta Acevedo con "Un mondo fragile".

19 giugno 2015

I miei giorni più belli (A. Desplechin, 2015)

I miei giorni più belli (Trois souvenirs de ma jeunesse)
di Arnaud Desplechin – Francia 2015
con Léonard Matton, Lou Roy-Lecollinet
**1/2

Visto al cinema Plinius, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Quando l'antropologo Paul Dedalus si appresta a tornare in Francia dopo dieci anni di viaggi all'estero, viene fermato dalle autorità perché qualcosa non torna nel suo passato. L'uomo si ritrova così a raccontare a uno sconosciuto alcuni eventi della sua adolescenza che non aveva mai confidato a nessuno. Si tratta di un viaggio nei ricordi e nelle esperienze di gioventù, diviso in tre capitoli: l'infanzia (con il difficile rapporto con la madre, pazza e odiata, che morì quando lui aveva undici anni); un gita scolastica in Unione Sovietica, quando con un compagno di scuola si offrì di aiutare alcuni dissidenti a lasciare il paese (regalando loro il suo passaporto); e soprattutto il rapporto con Esther, irrequieta e bella ragazza di Roubaix, conosciuta negli ultimi anni del liceo e frequentata "a distanza", più tramite lettere e pensieri che non dal vivo, durante i primi anni di studi universitari a Parigi. Ne risulta un intenso e insolito romanzo di "coming-of-age" ambientato a cavallo fra la fine degli anni ottanta e l'inizio dei novanta (in televisione si vedono il crollo del muro di Berlino e Gorbaciov), ritratto di un ragazzo diverso dagli altri, timido e inquieto e al tempo stesso estroverso e originale, capace di atti coraggiosi e istintivi così come di rinchiudersi nel proprio mondo di pensieri e di cultura, attorniato da amici e parenti (il fratello Ivan e le sue ossessioni religiose, la sorella Delphine, il cugino Bob) che col tempo abbandonerà perché destinato a rimanere solo. Un personaggio a suo modo unico, che il regista segue con precisione e attenzione come se si trattasse di un alter ego, e che la macchina da presa osserva con cura entomologica (ogni sequenza si apre e si chiude con il mascherino a iride, tipico dei film muti). Non mancano momenti romantici (l'idillio di Paul ed Esther a Parigi), di crescita culturale (gli studi di antropologia con un'insegnante che diventa per Paul una nuova madre; la scoperta del greco, lingua che ben si abbina al suo ingombrante cognome), di dinamiche affettive, famigliari (anche con il padre, assente o inadeguato) o di amicizia (tradita), per un affresco giovanile a tutto tondo che mi è parso più sincero e meno pretenzioso delle altre opere del regista che avevo visto in passato. Da notare comunque che il film, pur visibile a sé stante, è tecnicamente il prequel di un'altra pellicola di Desplechin, "Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle)" del 1996, visto che il protagonista Paul Dedalus (interpretato da adulto da Mathieu Amalric) è lo stesso.

A testa alta (Emmanuelle Bercot, 2015)

A testa alta (La tête haute)
di Emmanuelle Bercot – Francia 2015
con Rod Paradot, Catherine Deneuve
**

Visto al cinema Plinius, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il giovane Malony è ribelle, violento, indisciplinato, una testa calda: refrattario alle regole, insofferente a scuola, vigilato dagli assistenti sociali sin da quando era un bambino (anche perché la madre, cui pure è legato da un profondo affetto, è a sua volta alquanto problematica), si mette nei guai quando, sedicenne, comincia a rubare automobili per scorrazzare con gli amici. Seguito con cura e fatica dagli educatori (Benoît Magimel) e da una giudice che si è occupata del suo caso per dieci anni (Catherine Deneuve), finirà prima in un istituto di recupero giovanile, e poi addirittura in carcere. Nulla sembra riuscire a fargli cambiare atteggiamento, e i tanti tentativi di "rieducazione" si succedono con continui fallimenti: ma la maturità giungerà all'improvviso, a diciassette anni, quando Malony si scoprirà padre. Un film intenso, sgradevole, che non fa sconti allo spettatore, almeno fino a un finale inaspettatamente positivo e ottimista. Qualcuno lo ha paragonato a "Mommy" di Xavier Dolan, ma a parte certe analogie nel contenuto il tono è completamente diverso. Questo, purtroppo, soffre per le caratterizzazioni esagerate ed estremizzate, per l'esasperazione dei toni, e per l'abbondanza di retorica, tanto in un senso (quello violento e punitivo) quanto nell'altro (quello della comprensione). E il finale stona quasi con tutto il resto, per come arriva all'improvviso e inatteso. Ne risulta una pellicola assai faticosa da seguire, decisamente a tema e "tutta costruita sul messaggio", il che non la rende certo più coinvolgente ma almeno le dona una sua coerenza stilistica. La regia punta tutto sugli attori, decisamente bravi (in particolare il giovane Paradot, ma anche la Deneuve è misurata e in parte), mentre la sceneggiatura è assai semplicistica e ripetitiva: mostra, accumula, reitera, ma non indaga mai nella mente dei personaggi e si limita a ritrarli dal di fuori.

18 giugno 2015

Il figlio di Saul (László Nemes, 2015)

Il figlio di Saul (Saul fia)
di László Nemes – Ungheria 2015
con Géza Röhrig, Levente Molnár
***1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Rinchiuso in un campo di concentramento nazista, l'ebreo ungherese Saul fa parte dei "Sonderkommando", ovvero quei prigionieri – scelti fra i più forti e robusti – cui venivano affidati i compiti di manovalanza e di "gestione" del campo: divisi in gruppi comandati dai Kapo, si occupavano fra le altre cose di far "pulizia" dei tanti corpi dopo le docce a gas. Come i suoi compagni, Saul sembra ormai anestetizzato agli orrori di cui è testimone. Ma quando riconosce fra i morti il cadavere di un ragazzino, fa di tutto per sottrarlo di nascosto ai forni crematori e per trovare un rabbino fra gli altri prigionieri in modo da poterlo seppellire nel migliore dei modi: si tratta infatti – o almeno così afferma – di suo figlio. Angosciante e claustrofobico, eppure diverso da ogni altra pellicola sull'Olocausto girata finora, sembra incredibile che si tratti di un film d'esordio. Pochi registi, anche in passato (viene da pensare addirittura a Orson Welles), hanno dimostrato già al debutto una tale padronanza tecnica, una tale originalità nella messa in scena, una tale coerenza stilistica e una tale fiducia nei propri mezzi. La macchina da presa rimane costantemente attaccata al protagonista, senza allontanarsi mai da lui di più di mezzo metro, e rinuncia alla profondità di campo, al punto che tutto l'ambiente sullo sfondo (e dunque anche gli orrori che circondano Saul) appare spesso fuori fuoco, come per proteggere il protagonista (e lo spettatore stesso) dall'inferno in cui si trova. Il tutto rappresenta alla perfezione la chiusura di Saul in sé stesso e la focalizzazione sul suo unico obiettivo (quello di dare un degno funerale al figlio), che gli impedisce di mescolarsi con chi gli sta attorno, che si tratti dei tedeschi aguzzini, dei Kapo collaborazionisti, o persino degli altri prigionieri che stanno progettando una rivolta e una fuga (cui Saul non sembra particolarmente interessato). Manca del tutto il voeyurismo, o il senso di realismo documentaristico che di solito accompagna le pellicole girate con la camera a mano, i lunghi piani sequenza o l'inquadratura che segue il protagonista. Qui la forma (dimenticavo: c'è anche il formato in 4:3 ad accrescere la sensazione di intima claustrofobicità) si sposa mirabilmente con i contenuti, senza che l'una possa essere distinta dagli altri. Ne risulta un film potente, rigoroso, austero (non c'è colonna sonora), carico di tensione, che descrive un'odissea personale prima ancora che un dramma universale, dove il contesto è lasciato abilmente sullo sfondo e dove il punto di vista "chiuso" amplifica l'esperienza emotiva dello spettatore, trascinato insieme a Saul in un inferno senza significato e senza via di scampo. I dettagli della vita nel campo di concentramento (dall'appello fatto con i numeri anziché con i nomi, alle dinamiche di interazione fra deportati che parlano diverse lingue; dai segni di riconoscimento come le croci rosse sugli abiti dei "Sonderkommando", alla consapevolezza della morte imminente, visto che anche loro vengono perdiodicamente giustiziati e sostituiti perché a conoscenza di troppi "segreti", tanto che c'è sempre qualcuno che si premura di far sì che le testimonianze – tramite scritte o fotografie "clandestine" – non vadano perdute) fanno da gelido contorno agli orrori dello sterminio, cui si può far fronte solo rimuovendo apparentemente ogni emozione e mettendo "fuori fuoco" le immagini più cruente. Meritato Grand Prix a Cannes e premio Oscar per il miglior film straniero.

Le ricette della signora Toku (N. Kawase, 2015)

Le ricette della signora Toku (An)
di Naomi Kawase – Giappone 2015
con Masatoshi Nagase, Kirin Kiki, Kyara Uchida
**

Visto al cinema Eliseo, con Sabrina, Daniela e Alessandro, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il quarantenne Sentaro, che gestisce un piccolo negozietto di dorayaki (dolci tradizionali formati da due pancake con un ripieno di marmellata di fagioli dolci), assume come assistente Tokue, un'anziana e timida signora ultrasettantenne, perché è in grado di preparare un'an (la suddetta marmellata) considerevolmente più buona di quella, industriale, che lui usa di solito. Ma come lui, anche la donna ha un passato misterioso e doloroso: ammalatasi di lebbra da giovane, fu rinchiusa subito dopo la guerra in una struttura di quarantena dove ha trascorso tutta la vita. A parte questo spunto interessante, il film della Kawase ha ben poco di originale: e mescola tanti ingredienti tipici del cinema giapponese (l'arte del cibo; l'amore per la natura, con gli immancabili ciliegi in fiore; il confronto fra le generazioni, qui rappresentate da Sentaro, da Tokue e dalla giovane studentessa Wakana; il minimalismo del quotidiano) per creare un film poetico, umanista e gradevole, ma fin troppo esile e manierista, tanto dal punto di vista narrativo che da quello cinematografico. Alla fine, il vero fulcro non sono i personaggi (la cui caratterizzazione non è particolarmente profonda) ma il negozio di dorayaki e i dolci stessi: il primo, un microcosmo che diventa la vera casa e il punto d'incontro di personaggi in fuga dal passato (Sentaro e Tokue) o dal futuro (Wakana); i secondi, un simbolo della tradizione culinaria e della semplicità, quasi una protezione dai ricordi e dai dolori della vita.

17 giugno 2015

Un mondo fragile (C. A. Acevedo, 2015)

Un mondo fragile (La tierra y la sombra)
di César Augusto Acevedo – Colombia 2015
con Haimer Leal, Hilda Ruiz
***

Visto al cinema Ducale, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Dopo essere fuggito anni prima, l'anziano Alfonso fa ritorno a casa quando viene a sapere che il figlio Gerardo è gravemente malato ai polmoni. La famiglia (composta dalla moglie di Gerardo, Alicia; dal loro figlioletto Manuel; e dalla nonna Esperanza, che nutre ancora rancore verso Alfonso per averla abbandonata) vive in mezzo agli sterminati campi di canne da zucchero che danno loro sostentamento come lavoranti: e proprio i frequenti incendi appiccati ai campi (per bruciare le foglie delle canne, dopo che queste sono state tagliate), che producono una grande quantità di cenere, sono la fonte della malattia di Gerardo. La pellicola, asciutta e realista, indaga con acutezza e intensità non solo i rapporti fra i vari membri della famiglia, costantemente preoccupati per le condizioni di Gerardo, ma anche la vita dura e difficile che conducono i lavoratori nei campi, soggetti a turni massacranti e pagati pochissimo da caporali sempre pronti ad approfittarsi di loro (tanto che, a un certo punto, i lavoranti minacciano uno sciopero). Tutto attorno, radure e sentieri circondati da file e file di canne da zucchero, la cenere che piomba da un cielo plumbeo, l'oscurità in cui è immerso Gerardo (che, per le sue condizioni di salute, è costretto a restare chiuso in casa con tutte le finestre e le persiane sbarrate) danno l'impressione di trovarsi in un limbo da cui la fuga è l'unica via di uscita (e infatti Alicia vorrebbe trasferirsi da qualche altra parte con tutta la famiglia, ma la nonna è troppo legata alla casa in cui ha sempre vissuto per abbandonarla: e chissà che proprio una dicotomia di questo tipo non abbia portato Alonso, a suo tempo, ad abbandonare quella terra verso cui sente comunque un forte legame). Proprio l'ambientazione che circonda i personaggi eleva di tono la narrazione, fungendo da sfondo perfetto per le loro dinamiche famigliari. La sofferenza, la dignità, la memoria, la speranza in un futuro diverso e la tragica accettazione dei fatti si fondono così con messaggi di natura politica e sociale, senza che uno degli aspetti soffochi l'altro: un miracoloso equilibrio che sembra il punto di forza del regista, ventottenne e all'esordio.

Rams (Grímur Hákonarson, 2015)

Rams - Storia di due fratelli e otto pecore (Hrútar)
di Grímur Hákonarson – Islanda 2015
con Sigurður Sigurjónsson, Theodór Júlíusson
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Gli anziani fratelli Gummi e Kiddi, entrambi allevatori di pecore in una remota valle islandese, non si parlano da quarant'anni, pur vivendo (da soli) in due fattorie confinanti. La situazione sembra precipitare quando un'epidemia di scrapie, una pericolosa infezione ovina, costringe tutti gli allevatori della valle ad abbattere il proprio bestiame. Ma quando scopre che il fratello ha nascosto nella propria cantina una piccolo gregge di pecore, Kiddi decide di aiutarlo a salvare gli animali, gli ultimi della loro razza rimasti in tutta la regione. Dramma famigliare ambientato in scenari desolati e ostili, il film di Hákonarson – che ha vinto il premio Un Certain Regard a Cannes – è solido, rigoroso e senza fronzoli, e non disdegna una certa ironia. Più che il rapporto umano che lega i due fratelli, mai veramente indagato con profondità (anche se è evidente da numerose scene che i due si vogliono bene, e che ciò che li divide è solo un rancore costruito negli anni e portato avanti con ostinazione), a trainare la narrazione è il legame dell'uomo con la natura, il mondo contadino e i preziosi animali. Finale in sospeso, ma bello. Da ricordare il cane con cui i due si scambiano messaggi, essendo ostinatamente decisi a non comunicare in altro modo.

16 giugno 2015

The lobster (Yorgos Lanthimos, 2015)

The lobster (id.)
di Yorgos Lanthimos – Grecia/Fra/Ola/GB/Irl 2015
con Colin Farrell, Rachel Weisz
***

Visto al cinema Apollo, con Sabrina e Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Primo film in lingua inglese del regista greco Yorgos Lanthimos, questa bizzarra pellicola descrive un mondo distopico in cui le persone sono obbligate per legge a vivere in coppie. Chi è o rimane single (come il protagonista David, lasciato dalla moglie dopo undici anni di matrimonio) viene trasferito in apposite strutture alberghiere, dove avrà 45 giorni di tempo per trovarsi una compagna ideale (o un compagno: l'omosessualità è consentita). Se non ci riuscirà, sarà trasformato in un animale (David afferma che, nel caso, vorrebbe diventare un'aragosta: da qui il titolo del film). Naturalmente in una società del genere esistono anche dei ribelli: gruppi di "solitari" che vivono in clandestinità nei boschi e che hanno a loro volta regole molto severe: le relazioni sentimentali o sessuali sono assolutamente proibite. Da un estremo all'altro, insomma. Se lo spunto sembra degno di uno sketch di Buñuel (ed è difficile non pensare al regista spagnolo quando, nel finale, una lama si avvicina a un occhio), lo sviluppo è del tutto originale, pur se cupo, allegorico e stravagante, nel raccontare un mondo dove ogni relazione è utilitaristica (essendo finalizzata alla sopravvivenza) e dunque anaffettiva, e dove l'unico requisito per vivere insieme non è tanto l'amore quanto il poter vantare una caratteristica in comune, che si tratti di un difetto fisico (la zoppia, la miopia, un naso che sanguina), di una capacità (parlare una lingua straniera, suonare il pianoforte) o persino di una mancanza (quella di provare emozioni, per esempio). Per non parlare delle "battute di caccia" ai solitari (con tanto di fucili che sparano dardi narcotizzanti) da parte degli ospiti dell'albergo, cacce all'uomo che riecheggiano "La pericolosa partita". Cast internazionale, dicevamo: un eclettico Colin Farrell è il protagonista, Rachel Weisz la donna di cui si innamora, Léa Seydoux la leader del solitari; e ancora, Ben Whishaw, John C. Reilly, Olivia Colman, Jessica Barden, Ariane Labed e Angeliki Papoulia. Per tutta la prima parte il film è accompagnato da una narrazione, come se si trattasse di un romanzo: scopriremo soltanto più avanti che si tratta di un diario, e chi è la narratrice. A livello di satira sociale, non è però ben chiaro quali siano i bersagli (i rapporti sentimentali? l'orgoglio dei single? o semplicemente i modelli tradizionali delle relazioni, o le sovrastrutture comportamentali imposte dalla società?). In fondo, anche nel mondo reale molte coppie si formano solo perché si ha paura di restare soli, e non necessariamente per amore, così come al contrario chi reprime i propri sentimenti lo fa per costrizione e non per libera scelta. Il film di Lanthimos fa riflettere su tutto questo con una certa ridondanza, accompagnata da toni freddi che si sciolgono nella commedia assurdista e surreale, distaccandosi se non altro da tante convenzioni del cinema contemporaneo e ricordando certi lungometraggi stranianti degli anni settanta (il citato Buñuel, ma anche Ferreri).

Little sister (Hirokazu Koreeda, 2015)

Little sister (Umimachi diary)
di Hirokazu Koreeda – Giappone 2015
con Haruka Ayase, Suzu Hirose
**

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Alla morte del padre, che aveva lasciato la famiglia quando loro erano piccole, le tre sorelle Koda (Sachi, Yoshino e Chika) accolgono con sé la figlia di secondo letto dell'uomo, Suzu, nella vecchia ma grande casa in cui vivono insieme. L'arrivo della ragazzina (che ha quindici anni, mentre le tre sorelle maggiori sono oltre i venti) riattiva ricordi e legami famigliari sopiti da tempo... Ambientato a Kamakura, città costiera nei dintorni di Tokyo, un film – se possibile – ancora più delicato e minimalista della media dei lavori di Koreeda. È tratto da un manga di Akimi Yoshida, il cui titolo originale significa "Diario di una città di mare", e l'andamento è proprio quello di un diario, ricco di episodi all'apparenza insignificanti (una cena insieme, la raccolta delle prugne, le amicizie a scuola, i cambiamenti sul lavoro, i piccoli bisticci in famiglia, i fuochi d'artificio estivi, le commemorazioni degli antenati...). Ma per quanto garbato e gradevole, alla lunga questo minimalismo sfocia in un'assoluta mancanza di tensione drammatica, anche quando alcuni spunti (i rapporti irrisolti con la madre, i dilemmi al lavoro o sentimentali, la malattia di una cara amica) suggerirebbero un'evoluzione della storia che, invece, di fatto non c'è mai. Con un occhio a Ozu (le relazioni familiari, la casa, il cibo) e uno a "Mangiare, bere, uomo, donna" di Ang Lee (le tre sorelle e i loro fidanzamenti), resta comunque un film piacevole, intimo e gentile, che conferma le qualità del regista quando si tratta di raccontare la vita quotidiana e lavorare di sottrazione (è capace persino di mostrare solo i riflessi dei fuochi d'artificio!). Haruka Ayase è Sachi, la sorella maggiore e quella con la testa sulle spalle, che lavora in un ospedale dove si prende cura dei malati terminali; Masami Nagasawa è Yoshino, impiegata di banca, che passa da un uomo all'altro; Kaho è Chika, la più eccentrica, commessa in un negozio di articoli sportivi; Suzu Hirose è la piccola Suzu, che gioca a calcio nella squadra della scuola e si sente in colpa perché sua madre ha causato la rovina della famiglia delle tre sorelle. Ma a dispetto del titolo internazionale, il vero centro della pellicola non è il rapporto fra le sorelle ma quello con i genitori: assenti, ricordati, rimpianti o verso i quali si prova un rancore mai sopito.

15 giugno 2015

Mózes, il pesce e la colomba (V. Zomborácz, 2014)

Mózes, il pesce e la colomba (Utóélet)
di Virág Zomborácz – Ungheria 2014
con Márton Kristóf, László Gálffi
***

Visto al cinema Palestrina, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Bergamo).

Il giovane Mózes, appena uscito da un istituto psichiatrico, torna in famiglia poco prima dell'improvvisa morte del padre. Peccato che il ragazzo continui a vedere il genitore, sempre accanto a lui, anche dopo la morte. Come liberarsi dell'ingombrante fantasma? Ci proverà portando a termine tutte le questioni lasciate irrisolte dall'uomo... Girato con ironia e leggerezza, un film insolito sull'elaborazione del lutto, sul rapporto fra padre e figlio, ma soprattutto sulla crescita e la maturazione, mai retorico o banale ma, al contrario, sempre acuto e sorprendente. Le atmosfere da cinema realista sono stemperate da un umorismo sottile e onnipresente, che coinvolge a 360 gradi non solo il protagonista ma anche gli altri membri della sua famiglia (la sorellina che ha il sospetto di essere adottata, la zia che corteggia il locale pastore protestante, la mamma depressa che si barcamena fra tanti problemi fingendo di non vederli). Il risultato è una black comedy surreale con inconfondibile retrogusto est-europeo. Fra i molti ingredienti: un meccanico spiritista, un pesce fortunato, una colomba ostinata, una recita scolastica a dir poco fallimentare, e tanti riferimenti non proprio ortodossi alla religione e all'aldilà. E naturalmente il finale sulla barca, quanto mai simbolico. La regista, trentenne e al primo lungometraggio dopo diversi corti, è anche sceneggiatrice (ed è in questo comparto che brilla particolarmente). Il film ha vinto il primo premio al Bergamo Film Meeting.

14 giugno 2015

Al di là delle montagne (Jia Zhangke, 2015)

Al di là delle montagne (Shan he gu ren)
di Jia Zhangke – Cina/Giappone/Francia 2015
con Zhao Tao, Sylvia Chang
***

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Jia Zhangke torna a raccontare le trasformazioni e i cambiamenti della Cina in un film allegorico e tripartito, diviso in tre sezioni distinte e ambientate in differenti epoche (vale a dire: ieri, oggi e domani). Nel 1999, all'alba del nuovo secolo, gli abitanti di Fenyang (nella provincia di Shanxi) si lasciano prendere dai sogni di prosperità e ricchezza. L'insegnante Tao (Zhao Tao) è contesa fra il povero minatore Liangzi (Liang Jingdong) e il ricco imprenditore Jinsheng (Zhang Yi), che proprio a causa sua rompono la loro amicizia. La donna finirà per sposare il secondo, mentre il primo preferirà emigrare. Nel 2014 Liangzi è costretto a tornare al paese per curarsi da un tumore al polmone. E scopre che nel frattempo Tao e Jinsheng hanno divorziato, e che l'uomo si è trasferito a Shanghai portando con sé il figlio Dollar. Quando il padre di Tao muore, il bambino (che ora ha 7 anni) fa ritorno in paese per il funerale del nonno, e ha modo di trascorrere qualche giorno con la madre. Nel 2025, Jisheng e Dollar vivono ora in Australia, e il ragazzo (Dong Zi-jian) ha dimenticato – almeno apparentemente – del tutto la sua vera madre. Ma l'incontro con Mia, un'insegnante di Hong Kong (Sylvia Chang) con cui ha una relazione, gliela farà tornare in mente. La trama è solo un pretesto per mettere in scena, in maniera inedita, i soliti temi del conflitto fra la Cina tradizionale – rappresentata qui dalle canzoni popolari (come quella di Sally Yeh che si ascolta ripetutamente) o dalla cucina di Tao (i ravioli al vapore) – e la globalizzazione (la canzone "Go West" intonata a ogni capodanno, il nome Dollar che Jinsheng impone al figlio, l'incapacità di quest'ultimo di non parlare inglese, mentre invece il padre parla solo cinese, tanto che per comunicare c'è bisogno di un traduttore), fra la propria identità (e la coesione sociale) e la sua perdita o snaturazione, che in fondo scaturisce dal contrasto iniziale fra ricchezza e povertà. Temi forse già visti e rivisti, dicevamo, ma che Jia stavolta affronta da un curioso punto di vista "temporale" (che ricorda in parte un classico del cinema sovietico, "Mosca non crede alle lacrime"), incrociando sentimenti personali e mutamenti collettivi, e che comunque è sempre in grado di raffigurare visivamente in maniera incisiva (si pensi alle panoramiche sulle dighe, i ponti, le città). L'infatuazione del giovane Dollar per l'anziana Mia, nel terzo episodio, è significativa e rappresenta l'attrazione che il ragazzo, pur trapiantato e cresciuto all'estero, prova per la "vecchia" madrepatria. Naturalmente non mancano piccoli e continui rimandi intertestuali fra i vari segmenti, come a indicare che anche se il tempo passa certe cose non cambiano (oppure, che il passato ha sempre conseguenze sul presente): l'uomo con la sciabola da kung fu, il cane della protagonista, i riferimenti agli incidenti aerei (compreso quello del volo della Malaysia Airlines). Un film ricchissimo di dettagli, dunque, che pure nella sua vasta ambizione non perde mai di vista il focus centrale. A tratti amaro, a tratti nostalgico, ma con un finale tutto sommato pacificato. Curiosità: il titolo del film e il nome del regista compaiono soltanto dopo cinquanta minuti di pellicola, ovvero a cavallo fra il primo e il secondo segmento, quando il formato dello schermo passa da 4:3 al widescreen.

The here after (Magnus von Horn, 2015)

The here after (Efterskalv)
di Magnus von Horn – Svezia/Polonia 2015
con Ulrik Munther, Mats Blomgren
*1/2

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Dopo aver trascorso due anni in riformatorio per aver ucciso la sua ragazza, il giovane John fa ritorno a casa. Ma il reinserimento in famiglia, nella scuola e nella società si rivelerà assai problematico, vista l'ostilità che è costretto ad affrontare. Un soggetto interessante, non sfruttato nel migliore dei modi a causa di un protagonista inespressivo (anche se si tratta di una scelta voluta) e di una generale scontatezza dello sviluppo, che non supera mai il rigido schematismo. I personaggi attorno a John recitano dei ruoli prefissati (il padre premuroso, il fratellino ribelle, gli insegnanti menefreghisti, i compagni cattivi, la ragazza empatica) e l'unico motivo di interesse sta nel venire a conoscenza dei dettagli della vicenda, che all'inizio non è presentata allo spettatore e che viene svelata poco a poco. La sceneggiatura non indaga mai le motivazioni, né di John (e dell'atto che ha compiuto) né di coloro che gli stanno attorno. E il confronto con film simili sulle difficoltà del "ritorno a casa" è impietoso. Il regista, all'esordio, punta tutto su toni freddi e realistici.

Peace to us in our dreams (S. Bartas, 2015)

Peace to us in our dreams
di Sharunas Bartas – Lituania/Fra/Rus 2015
con Sharunas Bartas, Lora Kmieliauskaite
*

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Un uomo (lo stesso regista), sua figlia (Ina Marija Bartaité) e la sua giovane fidanzata (Lora Kmieliauskaite), violinista in crisi, si recano nella casa di campagna per trascorrere un week-end in isolamento. Qui entreranno in contatto con la natura, con vicini problematici (un ragazzo scappato di casa e che si aggira per i boschi, due vecchi litigiosi) e con sé stessi. Difficile parlare di un film dove a lunghi tratti non solo non succede nulla, ma che fa di tutto per impedire allo spettatore di trovare un appiglio di qualsiasi tipo, tanto che è facilissimo che durante la visione la mente vaghi pensando ad altro. Silenzi infiniti, rotti solo da dialoghi di banalità assurda o di filosofia spicciola e saccente; personaggi enigmatici, il cui ruolo nella storia – se mai ce n'è uno – è rivelato solo alla fine; un utilizzo del paesaggio quanto mai evanescente, che anziché avvolgere lo spettatore pare tenerlo lontano; piccoli episodi che non si collegano l'uno all'altro, e che non sembrano avere alcun significato nel grande schema delle cose. Per me, che pure amo autori come Tarkovskij o Tsai Ming-Liang, questo film è il vuoto assoluto. Ero stato avvisato su Bartas e sul suo cinema micidiale, ho voluto provare lo stesso, ma difficilmente le nostre strade si incroceranno di nuovo.

Diamante nero (Céline Sciamma, 2014)

Diamante nero (Bande de filles)
di Céline Sciamma – Francia 2014
con Karidja Touré, Assa Sylla
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

La sedicenne Marieme vive con la famiglia a Montreuil, alla periferia di Parigi, barcamenandosi fra il cattivo rendimento a scuola, la cotta per un ragazzo che non può frequentare, e soprattutto un insopprimibile desiderio di indipendenza e di libertà, spesso frustrato da coloro che le vivono attorno (come la "legge dei maschi": vedi il fratello che le impedisce, per esempio, di giocare a calcio con i videogiochi). Timida ma dall'istinto ribelle, trova una via di sfogo quando comincia a frequentare la gang femminile guidata dalla carismatica Lady, di cui diventa uno dei membri più scatenati con il "nome di battaglia" di Vic. Al punto che quando Lady sarà sconfitta in combattimento da una ragazza di una banda rivale, sarà proprio lei a "vendicarla". Ma se per quasi tutte le sue compagne la ribellione è una fase adolescenziale destinata a chiudersi al momento di mettere su famiglia (si pensi alla scena in cui Vic incontra la ragazza di cui ha preso il posto, che la lasciato la gang quando ha avuto un bambino), per lei non è così: e infatti, pur di acquisire maggiore autonomia, passa al passo successivo: affiliarsi a una banda locale di spacciatori. La regista di "Naissance des pieuvres" e di "Tomboy" prosegue nel raccontare storie di adolescenti alla scoperta di sé stessi e in cerca di autodeterminazione. Ma se per lungo tempo il film funziona, grazie a protagoniste (in gran parte prese dalla strada) ricche di energia e di vitalità, dopo due terzi comincia a sfilacciarsi e nel finale si trascina stancamente (anche se non manca una sequenza fondamentale, quella in cui Vic rifiuta la proposta di matrimonio del suo ragazzo perché non vuole "diventare una persona perbene"). Ritratto di un microcosmo in cerca di indipendenza e di libertà dalle costrizioni sociali, sullo sfondo di periferie come quelle di pellicole quali "L'odio" o "La schivata", il film è comunque empatico e sincero, con diverse sequenze da incorniciare (quella in cui Vic e le amiche ballano in albergo sulle note di "Diamonds" di Rihanna, per esempio, da cui il titolo italiano della pellicola). La scena iniziale, che mostra le ragazze impegnate in un incontro di football americano, è al tempo stesso metaforica e programmatica.

13 giugno 2015

Perfect day (Fernando León de Aranoa, 2015)

Perfect day (A perfect day)
di Fernando León de Aranoa – Spagna 2015
con Benicio del Toro, Tim Robbins
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Siamo in Bosnia nel 1995, verso la fine della guerra nei balcani. Alcuni membri di un'organizzazione umanitaria sono impegnati nella bonifica di un pozzo, dentro il quale è stato gettato il cadavere di un ciccione: se non verrà rimosso al più presto, le acque si contamineranno irrimediabilmente. Ma fra la ricerca di una corda (l'unica disponibile si è spezzata), le infinite pastoie della burocrazia delle Nazioni Unite, il boicottaggio da parte degli stessi abitanti del luogo, e difficoltà logistiche di ogni tipo – dalle mucche minate (!) ai bisticci personali o sentimentali fra i membri del gruppo – si scoprirà che in tempo di guerra anche i piccoli problemi possono diventare insormontabili. Diretta da un regista spagnolo (e girata in Spagna, nonostante il setting balcanico) e con un cast internazionale (Benicio del Toro, Tim Robbins, Mélanie Thierry, Olga Kurylenko), una black comedy grottesca e surreale nella vena di "No man's land" (anche se decisamente meno autentica e più radical chic), che ironizza sulla futilità e l'impotenza dei volontari delle ONG, senza trascurare di mostrare gli orrori della guerra, davanti ai quali a volte si perde un po' il senso delle cose. Buon ritmo, battute e dialoghi: a tratti ci si diverte, e gli interpreti sono convincenti. Ma nel complesso il film gira in tondo come i suoi personaggi, fallisce nel voler ergere il conflitto in Bosnia a scenario universale, e in fondo dice cose ovvie per non dire niente di nuovo.

12 giugno 2015

Cannes e dintorni 2015

Anche quest'anno non mancherò all'appuntamento con la rassegna milanese dei film dal Festival di Cannes, in programma da oggi fino al 18 giugno. La selezione, premetto, non sembra il massimo: mancano la Palma d'Oro ("Dheepan" di Jacques Audiard) e pellicole acclamate come quelle di Todd Haynes ("Carol") e Hou Hsiao-hsien ("The assassin"), per non parlare di altri film che mi interessavano (quelli di Villeneuve, Porumboiu, Miike, Minervini). Mi rifarò guardando nei prossimi giorni, fra gli altri, i lavori di Jia Zhangke ("Mountains may depart"), Yorgos Lanthimos ("The lobster") e László Nemes ("Son of Saul"), per citare tre fra i titoli più elogiati sulla croisette. Più Koreeda, Sciamma, Desplechin, Bartas e altri ancora... Stay tuned!

10 giugno 2015

Les amours imaginaires (Xavier Dolan, 2010)

Les amours imaginaires (aka Heartbeats)
di Xavier Dolan – Canada 2010
con Xavier Dolan, Monia Chokri, Niels Schneider
***

Visto in divx alla Fogona, con Sabrina e Marisa, in originale con sottotitoli.

Il secondo lungometraggio del giovanissimo Xavier Dolan (anche interprete, sceneggiatore, montatore e costumista!), più elaborato, stilizzato e pretenzioso del precedente (con tutti i rischi che questo comporta), ne conferma comunque il talento e, anzi, ne mette in risalto ancora di più le enormi capacità tecniche e artistiche. Al servizio dei temi a lui cari (i sentimenti, l'omosessualità, il complesso di Edipo) c'è infatti una regia in stile videoclip e fortemente visiva che quasi sommerge con le sue immagini, i suoi colori e le sue inquadrature una storia semplice ma coinvolgente, e che pure non nasconde i suoi debiti verso alcuni mostri sacri del passato e del presente (Cocteau, Godard, Bertolucci, Wong, Araki). A Montreal, il gay Francis (Dolan stesso) e la sofisticata Marie (Chokri), amici per la pelle, incontrano ad una festa e si innamorano del bel Nicolas (Schneider), che con i suoi modi affabili e la sua apparente disponibilità seduce entrambi in breve tempo, più o meno inconsapevolmente. Pur avendo una propria vita, e i rispettivi amanti, sia Francis che Marie non pensano più ad altro che a Nico, tanto che in un rapporto di amicizia fino ad allora perfetto cominciano a sorgere sospetti e gelosie. Il loro amore per Nicolas, però, è solo "immaginario": in realtà l'efebico ragazzo (una sorta di angelo che sfiora la terra ma non ne è toccato) non è interessato a nessuno dei due. Se il soggetto è quello di un triangolo atipico, fatto di illusioni, speranze, sogni e sentimenti inconfessati (ma il tono del racconto è sempre leggero e a tratti quasi ironico), lo stile folgorante si basa su diverse tecniche di ripresa – con macchina a mano, camera fissa con zoom (durante le "interviste" ad altri ragazzi che raccontano allo spettatore, a loro volta, storie di amori a senso unico), carrelli, panoramiche, campi lunghi, primissimi piani, transizioni in nero – e su una fotografia che pone in risalto i colori primari, accesi e vivaci, oltre che su una colonna sonora particolarmente studiata per portare su un altro livello le immagini cui si abbina: la canzone "Bang Bang" di Sonny Bono, nella versione in italiano cantata da Dalida, accompagna a mo' di commento le transizioni con i protagonisti che si muovono al ralenti per le strade (scene che ricordano assai da vicino le sequenze di "In the mood for love"); ma c'è anche Bach (le suite per violoncello) e Wagner (il preludio del "Parsifal"), così come non mancano riferimenti culturali di vario genere (i disegni di Jean Cocteau, le poesie di Rimbaud e di Gaston Miron, i film con Audrey Hepburn). Anne Dorval, che interpreta la madre di Nicolas, era già stata coprotagonista del primo film di Dolan, "J'ai tué ma mère", e tornerà nei successivi "Laurence Anyways" e "Mommy". Nel finale, comparsata per Louis Garrel.

9 giugno 2015

Cronache di poveri amanti (C. Lizzani, 1954)

Cronache di poveri amanti
di Carlo Lizzani – Italia 1954
con Marcello Mastroianni, Antonella Lualdi
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Nella primavera del 1925, via del Corno (nel quartiere fiorentino di Santa Croce) è un microcosmo che riflette tutta l'Italia, divisa fra i fascisti in ascesa e gli antifascisti che si oppongono come possono. Fra questi ultimi c'è Corrado detto "Maciste" (Adolfo Consolini), meccanico dal fisico prestante, che rimane ucciso durante una ronda notturna delle camicie nere. Per vendicarlo, il suo amico Ugo (Marcello Mastroianni, in uno dei primi ruoli drammatici della sua carriera), fino ad allora interessato più alle donne, al gioco e al bere che non alla politica, si getta anima e corpo nella resistenza clandestina. Tutta la loro vicenda, come quella degli altri abitanti della strada, è raccontata in prima persona dal giovane Mario (Gabriele Tinti), tipografo appena trasferitosi in via del Corno su interessamento della fidanzata Bianca (Eva Vanicek): qui si innamora di Milena (Antonella Lualdi), giovane sposina il cui marito Alfredo (Giuliano Montaldo), proprietario della locale "pizzichetteria", è stato malmenato dagli stessi fascisti perché rifiutatosi di pagare un contribuito al partito. E nel frattempo, su tutti i "cornacchiai" – come si chiamano ironicamente gli abitanti della via – regna "la Signora" (Wanda Capodaglio), l'usuraia del luogo, che pur non muovendosi mai dal suo letto è sempre al corrente di ogni cosa, grazie agli occhi e alle orecchie della giovane serva Gesuina (Anna Maria Ferrero). Del vasto cast (la pellicola è di fatto corale) fanno parte anche Bruno Berellini (il fascista Carlino, detto "il ragioniere"), Cosetta Greco (la prostituta Elisa) e Irene Cefaro (Clara, l'amica di Bianca). Consolini, che recita nei panni di Maciste, era un atleta olimpico (lanciatore del disco), alla prima e unica esperienza cinematografica. Nel complesso, un buon adattamento del romanzo di Vasco Pratolini, che nonostante alcuni tagli si dichiarò soddisfatto del risultato. Il film avrebbe dovuto essere diretto da Luchino Visconti, ma mancarono i finanziamenti. Subentrò Lizzani con la "Cooperativa spettatori produttori cinematografici" che aveva già prodotto il suo lavoro d'esordio, "Achtung! Banditi!". Per risparmiare, il set di via del Corno fu ricostruito in studio (ma all'aperto), anche se non mancano scene e inquadrature che mostrano i luoghi più suggestivi e celebri di Firenze. Ne risulta una rappresentazione "popolare" dell'Italia proletaria di allora, fra mestieri, costumi e dinamiche sociali di un mondo in tumulto, dove gli amori e la vita quotidiana si intrecciano con gli sconvolgimenti politici della storia del paese.

8 giugno 2015

La nave bianca (Roberto Rossellini, 1941)

La nave bianca
di Roberto Rossellini – Italia 1941
con attori non accreditati
*1/2

Visto in divx.

L'esordio di Rossellini come regista, nonché il primo film della cosiddetta "trilogia della guerra fascista" (seguiranno "Un pilota ritorna" e "L'uomo dalla croce"), racconta la storia di un gruppo di marinai a bordo di una nave da battaglia impegnata in azioni contro il nemico. Realizzato su commissione, è un evidente film di propaganda, costruito a tavolino in ogni sua parte per mettere in mostra l'efficienza della macchina militare italiana. Il vero responsabile del progetto era Francesco De Robertis, ufficiale di marina appassionato di cinema, già regista a sua volta di "Uomini sul fondo", pellicola uscita pochi mesi prima e ambientata in un sommergibile, che come questa tentava di inserire elementi realistici (gli interpreti, per esempio, erano scelti fra autentici marinai) per alleviare in qualche modo la retorica fascista (non sempre riuscendoci, o comunque sostituendola in parte con una retorica umanista). Anche sceneggiatore, De Robertis affidò la regia al giovane Rossellini, che contribuì – almeno pare – inserendo la sottotrama della storia d'amore fra il giovane marinaio Basso e l'infermiera. Il film alterna scene girate a bordo di una nave ospedale con sequenze di repertorio che vedono i mezzi italiani in combattimento. Ma più che dalle lunghe scene di battaglia (o della sua preparazione), meccaniche e documentaristiche, è dai segmenti che mostrano i marinai nel loro tempo libero che emerge in parte quel "verismo" e quella ricerca di spontaneità che gli autori preannunciano sin dal cartello introduttivo e che, secondo alcuni critici, anticipa in parte la stagione del Neorealismo. Il film uscì senza segnalare né i nomi degli autori (Rossellini e De Robertis, appunto), né quello degli interpreti, come se anche fare cinema facesse parte del dovere e del sacrificio per la nazione, e firmare la propria opera fosse un peccato d'orgoglio. Interessante la scena iniziale, in cui i marinai leggono e scrivono lettere alle loro "madrine di guerra", ragazze che "adottavano" i soldati a distanza, corrispondendo con loro per dare assistenza morale e patriottica. Una di queste, la maestrina Elena, diventerà l'infermiera che si prenderà cura anche materialmente di Basso quando questi, ferito durante una battaglia, sarà portato sulla nave ospedale. E sin dal titolo, vera protagonista della pellicola è l'imponente nave da guerra su cui i nostri sono imbarcati: dalla sequenza in cui salpa fino a quella in cui torna in porto, è nelle menti e nei pensieri di tutti, disposti a sacrificare ogni cosa per essa. Curiosità: i marinai semplici parlano con accenti e inflessioni dialettali ben marcate (ad amplificare quella ricerca di verismo di cui sopra), mentre gli ufficiali (e anche medici e infermiere, a dire il vero) esibiscono un italiano perfetto. Le musiche sono di Renzo Rossellini, fratello di Roberto.

6 giugno 2015

Eisenstein in Messico (P. Greenaway, 2015)

Eisenstein in Messico (Eisenstein in Guanajuato)
di Peter Greenaway – Olanda/Messico/Bel/Fin 2015
con Elmer Bäck, Luis Alberti
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli.

Nel 1931 il regista sovietico Sergei Eisenstein, già celebre internazionalmente per film come "Ottobre" e "La corazzata Potëmkin", si recò in Messico – per la precisione nella città di Guanajuato – con l'intento di girare un film che non avrebbe mai visto la luce (almeno nella forma da lui pensata). Nel corso di un anno, infatti, furono impressi centinaia di migliaia di metri di pellicola: ma i dissapori con i finanziatori americani, e le pressioni di Stalin affiché il regista tornasse in Russia, gli impedirono di completare il lavoro: parte del materiale fu montato senza di lui, in diverse versioni e in più occasioni. La pellicola di Greenaway, pur ricostruendo il contesto storico e artistico di quel viaggio (e romanzando parecchi dettagli), non mostra però Eisenstein al lavoro: ne indaga l'esperienza emotiva, traumatica e bizzarra, di uno straniero curioso e desideroso di sperimentare, alla scoperta di una cultura in grado di cambiarlo profondamente (ironicamente, parafrasando il sottotitoli di "Ottobre", si dice che il film potrebbe essere intitolato "I dieci giorni che sconvolsero Eisenstein"). Attraverso la sua affascinante guida Palomino Cañedo (Alberti), infatti, il regista ha modo di riflettere sull'arte, sull'amore, sulla vita e su sé stesso. "Non sono sicuro che i cineasti verranno ricordati", confessa preoccupato durante una visita al locale cimitero, in cerca di un soggetto per il suo film. E proprio Cañedo lo conduce ad approfondire i due temi fondamentali, la morte e il sesso, necessari "per provare che siamo vivi". Come un Virgilio che lo guida nell'oltretomba, l'amico dapprima lo "inizia" al culto dei morti messicano, e poi ai rapporti omosessuali (che, con la loro connaturata violenza e sopraffazione, fungono da perfetta metafora a quelle rivoluzioni politiche che negli anni precedenti avevano trasformato i rispettivi paesi). Senza rinunciare al suo stile ricchissimo ed eclettico (con alternanza di bianco/nero e colore, split screen, piani sequenza con camera digitale, inserimenti di fotografie, dipinti, spezzoni di documentari, e naturalmente sequenze dei film dello stesso Eisenstein), a volte provocatorio e discutibile ma mai banale, Greenaway si affida alla fisicità degli attori protagonisti (che non esitano a mostrarsi nudi) – in particolare da un Elmer Bäck dal fisico goffo e dai capelli sparati, ma comunque estremamente espressivo – e soprattutto alla gestione degli spazi, architettonici ed interni. Luogo centrale della pellicola è infatti la camera d'albergo di Eisenstein, quasi un palco teatrale, circondata da un ampio colonnato e caratterizzata da un pavimento a vetri che la macchina da presa esplora in ogni modo (persino vorticando incessantemente in tondo, nella scena in cui il regista riceve la visita di Mary Sinclair). Ma non vanno dimenticati l'atrio e le scale, sferzate dalla pioggia, dell'albergo (che in realtà è lo splendido Teatro Juárez della città: in alcune sequenze se ne ammirano anche gli interni, con un'orchestra intenta a suonare la danza dei cavalieri dal "Romeo e Giulietta" di Prokofiev mentre vengono proiettati i film di Eisenstein). Il resto è un'infinità di spunti, dettagli, riferimenti visivi, culturali, artistici, cinematografici o filosofici, da approfondire se si vuole oppure da lasciar decantare e perderli nell'insieme. Puro Greenaway, insomma, e forse più "accessibile" del solito.

4 giugno 2015

Incontri ravvicinati del terzo tipo (S. Spielberg, 1977)

Incontri ravvicinati del terzo tipo
(Close encounters of the third kind)
di Steven Spielberg – USA 1977
con Richard Dreyfuss, Melinda Dillon
***

Rivisto in TV.

Una serie di avvistamenti (luci e "dischi volanti" nel cielo) e altri fenomeni inspiegabili (effetti poltergeist, ricomparsa di aerei e navi spariti decenni prima) fanno da prodromo al "primo contatto" fra l'umanità e una razza aliena. Questo avviene nei pressi della Devil's Tower, insolita conformazione rocciosa nel Wyoming. L'esercito americano isola l'area, mettendo in scena una finta epidemia; ma alcune persone, fra cui il padre di famiglia Roy (Richard Dreyfuss), guidate da una "visione" (l'immagine della montagna), giungono fin lì per partecipare al rendez-vous. Uscito nello stesso anno di "Guerre stellari", e ispirato ai tanti casi di avvistamento di UFO (oggetti volanti non identificati, non necessariamente extraterrestri) riportati negli Stati Uniti nel dopoguerra, questo film di Spielberg è stato probabilmente il lungometraggio di fantascienza più importante ed influente (anche in negativo: la FS giocattolo comincia da qui) dai tempi di "2001: Odissea nello spazio", con il quale condivide la fondamentale presenza di Douglas Trumbull come supervisore degli effetti speciali visivi. E questo nonostante, rivisto oggi, appaia per molti versi datato, soprattutto per il ritmo lento e i tempi dilatati che precedono il climax finale, quello con il fatidico "incontro ravvicinato". A proposito, il titolo fa riferimento al sistema di classificazione messo a punto dall'astronomo J. Allen Hynek (primo tipo: contatto visivo; secondo tipo: effetti di tipo fisico; terzo tipo: presenza di una "creatura animata"; altri ufologi porteranno avanti la scala, inserendo livelli successivi, ma quella originaria di Hynek si fermava qui). Una delle grandi novità della pellicola fu quella di non rappresentare gli extraterrestri come cattivi (in tutto il film manca un vero antagonista; i personaggi sono mossi dalla curiosità verso l'ignoto, e devono fronteggiare solo lo scetticismo di chi "non crede"), novità addirittura rivoluzionaria se pensiamo ai film americani degli anni cinquanta e sessanta in cui gli alieni erano invasori malvagi (e spesso simboleggiavano il "pericolo rosso" del comunismo): un segno, forse, che i tempi stavano cambiando, anche se non del tutto senza precedenti (si pensi a "Destinazione... Terra!").

Memorabile l'utilizzo della musica (con il famoso tema a cinque note) come metodo di comunicazione fra gli uomini e gli extraterrestri. Nel cast compare anche François Truffaut nei panni dello scienziato francese Lacombe (per evitare – senza molto successo, a dire il vero – di dare l'impressione che la vicenda fosse troppo americano-centrica). Il bambino che viene rapito dagli alieni è invece Cary Guffey, che rivedremo in un paio di film con Bud Spencer sempre a tema ufologico ("Uno sceriffo extraterrestre" e "Chissà perché capitano tutte a me"). Si nota forse qui per la prima volta l'ossessione di Spielberg per il tema della famiglia, nonostante quelle presenti sullo schermo siano tutt'altro che ideali o perfette: Roy è un bambinone che gioca con i trenini al posto dei figli e vuole imporre loro la visione di "Pinocchio" (un riferimento alla canzone "When You Wish upon a Star", che Spielberg ha citato spesso come sua fonte di ispirazione), mentre Jillian (Melinda Dillon) è una madre single. Da sottolineare anche alcuni paralleli biblici: la Devil's Tower come il monte Sinai, dove Mosé ha incontrato Dio (e a un certo punto la tv trasmette "I dieci comandamenti" di DeMille). Teri Garr è la moglie di Roy, Bob Balaban l'interprete di Lacombe, Lance Henriksen il suo assistente. Quanto a Trumbull, notevole il suo lavoro (che gli valse l'Oscar per gli effetti visivi): oltre alle astronavi che danno sfoggio di sé nel finale (disegnate da Ralph McQuarrie), sono da ricordare anche le nuvole animate in un paio di scene. Gli extraterrestri, invece, sono frutto della creatività di Carlo Rambaldi e, ovviamente, anticipano il futuro "E.T." che Spielberg porterà sullo schermo pochi anni più tardi. Il film segna inoltre l'inizio della collaborazione del regista con il montatore Michael Kahn, con cui lavorerà in seguito in tutti i suoi film. Enorme il successo al botteghino. Curiosità: all'età di soli 17 anni, Spielberg aveva già affrontato il tema degli UFO in una pellicola giovanile, "Firelight", la cui trama presentava molti punti in comune con questa.

2 giugno 2015

Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (P. Almodóvar, 1980)

Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio
(Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón)
di Pedro Almodóvar – Spagna 1980
con Carmen Maura, Félix Rotaeta
**1/2

Rivisto in divx, con Sabrina, in originale con sottotitoli.

Il primo vero film di Almodóvar, girato con pochi mezzi (e si vede) ma già ricolmo di tutti i suoi personaggi e le sue tematiche: al centro un gruppo di ragazze (il "montón" del titolo originale) che frequentano il sottobosco alternativo di una Madrid fatta di musica punk, trasgressione, arte, libertà, omosessualità e travestitismo. Pepi (Carmen Maura), aspirante scrittrice e regista (che nel corso della pellicola scriverà la propria storia e quella delle sue amiche: e se il film che stiamo vedendo fosse proprio il frutto della sua fantasia anziché la realtà?), è costretta a cedere la propria verginità a un poliziotto (Félix Rotaeta) che ha scoperto che coltiva piante di marijuana sul terrazzo. Per vendicarsi, ne seduce la moglie Luci (Eva Siva), casalinga con tendenze masochistiche. Ben presto Luci abbandona il marito per frequentare Bom (Olvido Gara), giovane cantante punk che ne diventa la "padrona"... Fra festini improvvisati, concerti scalcinati, progetti di lavoro eccentrici o a lungo termine, perversioni vissute con naturale leggerezza, il film scoppia di colore e vitalità, lasciando intravedere – pur con una confezione raffazzonata e una diffusa povertà tecnica – la mano di un autore destinato a fare strada. La struttura episodica (non si contano i personaggi minori che irrompono in una scena per essere poi dimenticati nel resto della pellicola: la donna barbuta, l'attrice vestita da Rossella O'Hara, ecc.) favorisce l'impressione di un racconto di tranche de vie, quasi bohémiano, in cui si alternano momenti che costruiscono la trama ad altri di puro e satirico intrattenimento all'insegna del trash (vedi gli "spot pubblicitari" ideati da Pepi per le mutande Ponte, la cui protagonista è Cecilia Roth). A contrapporsi a questo gruppo di personaggi, in cerca di libertà e di autodeterminazione (anche sessuale), non poteva essere che un rappresentante dell'ordine e del sistema: il poliziotto prevaricatore e reazionario, evidente residuo di quel regime franchista che in Spagna era caduto da pochissimo tempo. Carmen Maura rimarrà a lungo l'interprete preferita del regista. Belli e colorati i titoli di testa, così come gli occasionali cartelli (che ricordano il cinema muto) in stile cubista. Il titolo originale funziona meglio di quello italiano, per via della rima.