31 marzo 2015

Amleto (Grigori Kozintsev, 1964)

Amleto (Hamlet)
di Grigori Kozintsev – URSS 1964
con Innokenti Smoktunovski, Anastasija Vertinskaya
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Al fianco delle versioni dirette e interpretate da Laurence Olivier e Kenneth Branagh, quello di Kozintsev è forse il più celebrato adattamento cinematografico dell'Amleto di Shakespeare. Epico e solenne, impreziosito da una regia ariosa e panoramica e da una cupa fotografia in bianco e nero, può contare su diversi punti di forza, a partire dalla suggestiva colonna sonora di Dmitri Shostakovich che accompagna le parole e le immagini. La traduzione del testo in russo è quella di Boris Pasternak, ma Kozintsev ne ha tagliato alcune scene, accorciando la tragedia (che in originale dura quattro ore) a circa due ore e venti. A differenza di Olivier, che aveva preferito concentrarsi sui dilemmi personali, morali e filosofici di Amleto, il regista sovietico (che aveva già curato un allestimento teatrale della tragedia a Leningrado dieci anni prima) ne mantiene invece tutto il contenuto "politico", lasciando al centro dell'azione i complotti e le manovre del re e di Amleto stesso. La messinscena è classica, con personaggi in costumi d'epoca che si muovono in un castello di Elsinor (ricostruto in Estonia) vero e proprio protagonista dell'azione, il cui ruolo come "prigione" è enfatizzato e i cui spazi e i cui cortili sono esplorati da una macchina da presa in frequente movimento e attraverso riprese lunghe ed estese delle sale ampie ed affrescate, le robuste mura, il terrapieno, le brughiere circostanti e il mare (la fortezza sorge infatti nei pressi di una scogliera: il monologo "Essere o non essere" è recitato da Amleto proprio sulla spiaggia, fra gli scogli sferzati dalle onde). Numerose le scene da antologia: su tutte, citerei l'inquietante apparizione del fantasma del padre di Amleto sulle mura del castello (a tratti sembra uno dei cavalieri neri de "Il signore degli anelli"!), con tanto di cavalli spaventati; la rappresentazione teatrale degli attori al cospetto del re e della regina, all'esterno, davanti alle porte del castello; e tutta la scena della pazzia di Ofelia, che danza come una bambola (e che poi ritroviamo immersa nell'acqua, come nel quadro di John Everett Millais). Se l'aspetto visivo della pellicola è preponderante, non meno importanti sono i contenuti, che la narrazione mantiene in profonda coerenza con lo stile. I numerosissimi pensieri interni di Amleto sono veicolati attraverso una voce in sovraimpressione, alla Resnais, sul volto impenetrabile di Innokenti Smoktunovski, che fonde riservatezza e intensità nervosa, mentre gli altri personaggi gli ruotano attorno, interagendo con lui in una serie di entrate/uscite tipiche del palcoscenico. Molti degli attori (a partire dal protagonista) provenivano dal teatro anziché dal cinema. Oltre ai nobili abitanti del castello, sullo sfondo si intravedono a tratti contadini e paesani, che occasionalmente salgono in primo piano (come nella scena dello scavafossi e del teschio di Yorick, preludio al funerale di Ofelia). Grazie anche a queste punte di "neorealismo sovietico", ne risulta un dramma concreto e filosofico al tempo stesso, perfetta fusione fra le due anime – il realismo storico del fatto di sangue e la metafora psicanalitica che ne sottende – della tragedia shakespeariana.

29 marzo 2015

Europa report (Sebastián Cordero, 2013)

Europa Report (id.)
di Sebastián Cordero – USA 2013
con Anamaria Marinca, Michael Nyqvist
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Girata con la tecnica del found footage (ovvero fingendo che il materiale mostrato sia il montaggio di registrazioni video ritrovate dopo gli eventi, come in "Cannibal Holocaust" e "The Blair Witch Project", per intenderci), una pellicola di fantascienza indipendente che racconta la prima missione spaziale a inviare esseri umani verso Europa, la luna di Giove, alla ricerca di possibili forme di vita. Durante il viaggio, una tempesta solare danneggia i sistemi di comunicazione della navicella (a bordo della quale si trovano in tutto sei membri dell'equipaggio: quattro uomini e due donne). E così soltanto al termine della missione, quando i video ripresi dalle numerose camere a bordo della nave saranno trasmessi tutti insieme alla Terra, si saprà cosa è accaduto. Le videocamere sono fisse, dunque non c'è una vera e propria "regia", se non attraverso il montaggio: che non è cronologico, in modo da aumentare la suspense mentre vengono mostrati i vari eventi in cui incorrono gli astronauti, fra incidenti, primi segni di squilibri, segnali di misteriose "presenze". Pur essendo una produzione indipendente e a basso costo (nessun attore di grido, dunque), il film è molto curato nei dettagli, soprattutto dal punto di vista tecnico-scientifico: la sensazione di assistere a un vero documento sui viaggi spaziali è alta. Lo stile narrativo, a metà fra il documentario e la testimonianza in diretta, consente di passare sopra a certi cliché dei film horror (il gruppo di persone in un ambito ristretto, eliminate a uno a uno nel corso degli eventi), e alcune immagini, come quelle della superficie ghiacciata di Europa, rimangono impresse nella memoria dello spettatore. Forse non originalissimo, dunque, ma meritevole di visione: insieme a "Moon", dimostra che la fantascienza di qualità può ancora prescindere da budget elevati, effetti speciali e spropositate dosi di azione.

28 marzo 2015

Cuore fedele (Jean Epstein, 1923)

Cuore fedele (Cœur fidèle)
di Jean Epstein – Francia 1923
con Gina Manès, Léon Mathot, Edmond Van Daële
**1/2

Visto su YouTube.

La trovatella Marie è stata cresciuta dai proprietari di una bettola nel porto di Marsiglia, che la sfruttano come cameriera. La ragazza è innamorata di Jean, marinaio povero ma onesto, ma i suoi "genitori" preferiscono darla in sposa al poco di buono Petit Paul. Jean cercherà di riprendersela, affrontando Paul a mani nude, ma finirà in prigione: e quando ne uscirà, un anno dopo, scoprirà che nel frattempo Marie – che ora vive con Paul, sempre più violento e perennemente ubriaco – ha avuto un figlio... Passato alla storia come uno dei primi teorici del cinema, Jean Epstein realizzava film soprattutto per mettere in pratica le proprie idee: così si può spiegare l'apparente banalità del soggetto, un melodramma convenzionale come tanti, sul tema degli amanti separati dalle avversità (il suo intento era quello di "conquistare la fiducia di coloro, ancora così numerosi, che credono che soltanto i melodrammi più bassi possano interessare al pubblico", scrisse; ma anche creare qualcosa di "così sobrio e semplice da potersi avvicinare alla nobilità e all'eccellenza della tragedia"), cui si contrappone uno stile moderno e consapevole. Ispirato dai lavori di Abel Gance, di cui era un ammiratore, Epstein si concentra sulle inquadrature (si spazia dai primissimi piani, a volte addirittura dai più piccoli dettagli di oggetti, mani e volti, ai campi medi e lunghi che permettono di inserire il personaggio nel paesaggio) e sul montaggio, che a volte diventa rapidissimo e ritmico. Da un soggetto scritto, pare, nell'arco di una sola notte, il film è stato sceneggiato da Epstein insieme alla sorella Marie, sua consueta collaboratrice (e guarda caso, i due protagonisti si chiamano proprio come loro: Jean e Marie), la quale – accreditata come "Mile Marice" – recita anche una parte non trascurabile, quella della vicina zoppa che favorisce gli incontri dei due amanti. Peccato però che l'eccessiva povertà dei contenuti finisca per annacquare la potenza espressiva delle immagini. I personaggi sono bidimensionali, definiti solo dai rispettivi ruoli nella storia, e gli elementi della trama non necessitano approfondimento (questo vale anche per i comprimari: i padroni dell'osteria, il bambino di Marie, la donna pettegola...). Fra i momenti da ricordare: l'incipit, con gli sguardi intensi dei protagonisti che si perdono sul mare davanti a loro (con le onde spesso "soprapposte" ai volti); la sequenza delle giostre, quasi ipnotica e dionisiaca, con un montaggio rapidissimo e frammentato, dove i sentimenti e le emozioni contrapposte dei personaggi emergono con rara efficacia (Paul su di giri, Marie triste e con la morte nel cuore; curiosamente, nel finale, la stessa ambientazione è utilizzata per mostrarci il "lieto fine": stavolta lei è serena, mentre Jean sembra turbato e pensieroso); la suspense quasi hitchcockiana della scena in cui Petit Paul sta tornando a casa, salendo lentamente le scale, mentre Marie è in compagnia di Jean; in generale l'attenzione all'ambiente, che anticipa il filone del "realismo poetico", di cui si ricorda per esempio l'osteria sulle cui pareti spicca la scritta in inglese "For ever", che allude al destino dei due protagonisti.

27 marzo 2015

La prigione (Ingmar Bergman, 1949)

La prigione (Fängelse)
di Ingmar Bergman – Svezia 1949
con Birger Malmsten, Doris Svedlund
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Il sesto film di Bergman è anche il primo in cui risultano evidenti in maniera significativa le sue idee e le sue tematiche (anche dal punto di vista stilistico, per esempio nell'attenzione ai volti e nella fusione fra realismo e surrealismo). Incastonata fra un prologo e un epilogo (in cui Martin, un giovane regista, riceve sul set la visita del suo vecchio professore di matematica, il quale gli propone l'idea di girare un film sul Diavolo nel quale si rende esplicito che l'inferno è la Terra attuale), la trama principale ha come protagonisti Thomas, giornalista alcolizzato e in crisi con la moglie, e Birgitta Carolina, una giovane ragazza costretta a prostituirsi dal suo compagno. I due si incontreranno e si innamoreranno, convivendo per breve tempo nella soffitta di un pensionato. Ma la loro "evasione" dai tormenti e dalle miserie della vita (vale a dire la "prigione" del titolo) sarà di breve durata: Birgitta Carolina, che ha dovuto subire il trauma di vedersi sottrarre la bambina cui aveva dato la luce, verrà sottoposta a nuovi tormenti da un "cliente" violento e sceglierà di togliersi la vita; mentre Thomas, rimasto solo, proverà a tornare dalla moglie, nel tentativo di iniziare con lei una nuova relazione. Anche se non mancano momenti interessanti (i titoli di testa recitati da una voce fuori campo; la visione di una vecchia comica muta, nella quale compaiono fra gli altri anche il Diavolo e la Morte, da parte di Thomas e Carolina nella soffitta; e soprattutto la sequenza del sogno di Carolina, nella quale vengono esplicitate sia le sue paure ed angosce sia i suoi desideri e i suoi veri sentimenti, con la dichiarazione d'amore a Thomas), nel complesso il film è un po' appesantito dai dialoghi verbosi, da una scansione narrativa poco equilibrata e da un tono esistenzialista decisamente cupo e non ancora raffinato, per non parlare della confusa commistione di stili fra surrealismo (i suddetti sogni), espressionismo (gli ambienti), critica sociale (per lo più antiborghese) e pessimismo cosmico di fondo. Ma la ricerca bergmaniana sugli specchi dell'anima, gli interrogativi dell'esistenza, e il confronto fra i sogni e la realtà, comincia qui a tutti gli effetti.

25 marzo 2015

Una nuova amica (François Ozon, 2014)

Una nuova amica (Une nouvelle amie)
di François Ozon – Francia 2014
con Anaïs Demoustier, Romain Duris
***

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Alla prematura morte di Laura, di cui era amica del cuore sin da quando erano bambine, Claire (Demoustier) promette che si prenderà cura del marito di lei, David (Duris), e della loro figlia nata da poco, Lucy. Quando scopre che l'uomo ama vestirsi da donna, dopo qualche reticenza accoglierà "Virginia" come la sua "nuova amica". E insieme, i due andranno alla scoperta delle rispettive pulsioni e identità sessuali: la disforia di genere per lui, che prenderà finalmente coscienza del proprio desiderio di essere una donna, e l'omosessualità repressa di lei, che aveva nascosto dietro un matrimonio di facciata l'amore da sempre nutrito per l'amica. Scritto da Ozon a partire dal romanzo "The New Girlfriend" di Ruth Rendell, una pellicola di respiro almodóvariano (si pensi alla scena in cui Claire e Virginia assistono all'esibizione della cantante nel locale notturno, così come a una certa teatralità e ad atmosfere da anni '50, elementi peraltro spesso presenti nei lavori di Ozon) ma lontana dai toni grotteschi del regista spagnolo. È un film che non esita a ricorrere ad alcuni snodi apparentemente forzati e poco originali (vedi il finale) per raccontare con essenzialità e sorprendente leggerezza una storia dove la protagonista, attraverso l'incontro e la frequentazione con Virginia, finisce invece con lo scoprire molte più cose di sé. Il controfinale ambientato sette anni più tardi lascia volutamente qualche dubbio allo spettatore (Claire sta ancora con il marito? È incinta di lui oppure di David? Può essere che Virginia continui a essere per lei solo una "amica", così come può invece essere che Claire abbia ormai accettato la propria omosessualità) ma è necessario per chiudere alcuni punti lasciati in sospeso, rivelandoci fra l'altro come David sia ormai felicemente "integrato" nel suo nuovo ruolo femminile, e che i suoi timori di vedersi privato della figlia nel caso avesse fatto "coming out" fossero del tutto infondati. D'altronde non è un film sull'intolleranza o l'accettazione delle diversità sessuali da parte della società o dei parenti (come potevano essere "Boys don't cry" o "La mia vita in rosa"), bensì sulla scoperta e sulla presa di coscienza della propria identità. In quanto tale, si allontana da Almodóvar (dove queste fasi vengono spesso date come per scontate o già acquisite) e si avvicina di più all'analisi delle ambiguità e delle pulsioni che ha da sempre caratterizzato il cinema del regista francese.

24 marzo 2015

Heimat-Fragmente – Die Frauen (E. Reitz, 2006)

Heimat-Fragmente – Die Frauen
di Edgar Reitz – Germania 2006
con Nicola Schössler, Henry Arnold
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

È un atto d’addio in forma cinematografica. Il cinema funziona come i ricordi. Da un certo punto in poi è il personaggio stesso a riflettere sulla sua propria esistenza, chiedendosi se esiste davvero o se è nato solo all’interno di un film. E verso la fine Lulu si catapulta in una situazione simile a quella in cui mi sono trovato io stesso: nell’ansia e nell’angoscia di dover lasciare un mondo che non riuscivo quasi più a distinguere da quello reale. Perciò le sue ultime parole nel film sono: “Voglio vivere e sono libera”.
(Edgar Reitz)

Sulla soglia dei trent'anni ("La giovinezza finisce quando cominciano i ricordi"), Lulu Simon è in cerca di memorie e forse di un'identità. Con una pala in mano, come per "scavare" nel tempo e nel passato della propria famiglia, la figlia di Hermann si sposta per Schabbach, Monaco di Baviera e la casa sul Reno (ovvero i luoghi dei primi tre "Heimat") per mettere insieme "frammenti" di storie, vicende ed emozioni. "A volte ho la sensazione che tutto sia già accaduto", commenta: e in effetti siamo di fronte essenzialmente a un film di montaggio, con cui Edgar Reitz (con la collaborazione del figlio Christian, accreditato come operatore delle sequenze di raccordo nonché appunto come montatore) recupera una miriade di spezzoni che era stato costretto a tagliare durante la lavorazione delle prime tre saghe e che ha ritrovato durante un trasloco del suo magazzino. Rivediamo così, in tanti brevi momenti più o meno significativi, tutti i personaggi cui eravamo affezionati, con un focus particolare (come suggerisce il sottotitolo) sulle donne: da Maria a Clarissa, da Helga a Schnüsschen, da Olga a Evelyne, passando per Lucie, Martha, Klärchen, Renate, Galina, Esther, Marianne, Dorli e tante altre (il che ci fa rendere conto ancora una volta di come Reitz abbia saputo rendere unici e memorabili anche personaggi che sono apparsi solo per brevi istanti all'interno della saga). "Sono una figlia con molte madri", pensa Lulu a un certo punto, riconoscendo l'importanza e la molteplicità delle figure femminili che l'hanno preceduta. Fra salti avanti e indietro nel tempo (i collegamenti, spesso per associazioni di idee, riguardano più i luoghi in cui Lulu si trova che non la reale sequenza cronologica degli eventi), i frammenti portano alla luce fatti e situazioni che i film precedenti raccontavano "fra le righe", quando addirittura non avevano omesso. Il lavoro quotidiano di Schnüsschen come guida turistica a Monaco (bella la scena del suo incontro con Olga, in compagnia dell'autista del bus); l'arrivo di Pauline e Marie-Goot a casa Cerphal per il matrimonio di Hermann; Evelyne che presenta a Clarissa il suo nuovo fidanzato africano; Galina che confessa a Lulu e Delveau il progetto di aprire un ristorante a San Pietroburgo; Dorli che fa visita a Helga in Baviera; inediti "dietro le quinte" della vita a Schabbach o a Monaco (la festa per i settant'anni di Maria; il viaggio di Hermann a Dülmen; il requiem per la Tana della Volpe; Reinhard e amici al lavoro sul set; i tormenti di Helga; il fugace ritorno di Evelyne a Regensburg; e ancora, momenti con Ernst, Glasisch, Juan, Volker, Ansgar, Alex...). Le scene di raccordo con Lulu sono girate in digitale, e spesso gli spezzoni del passato spuntano dall'inquadratura in maniera surreale (come quando Lulu perfora pareti e superfici con un trapano: "l’archeologia del futuro che scava nel presente"). Il tutto, oltre che un album di ricordi e di frammenti (appunto), assume dunque a tratti un tono metacinematografico, come se fosse Reitz stesso a parlare attraverso i pensieri della protagonista: l'accenno di Lulu che suo padre "a volte cambia faccia", per esempio, è un riferimento al fatto che l'attore che aveva impersonato Hermann quarantenne nell'ultimo episodio del primo "Heimat" ha un volto del tutto differente da quello di Henry Arnold, interprete dello stesso personaggio nei due seguiti. Nel complesso il film è un'interessante appendice alla saga, da considerare come un piccolo e nostalgico regalo per tutti coloro che l'hanno seguita (i neofiti si astengano) o una sorta di "contenuto extra" come quelli dei dvd, che rivela dettagli e momenti che in alcuni casi (si pensi alle scene con Schnüsschen, Olga o Evelyne) è stato un peccato aver dovuto eliminare dagli episodi veri e propri. Ma anche una riflessione sul tempo, sulla famiglia, sui sogni e le paure, oltre che sulla memoria, il cinema e l'immortalità.

22 marzo 2015

Nove anni

Nono compleanno per questo blog! Ancora uno e festeggeremo il decennale, grazie anche a tutti i lettori più o meno regolari... Nell'attesa di cotanto evento, ecco le consuete statistiche sull'anno appena trascorso: negli ultimi dodici mesi sono qui apparse le recensioni di 208 film (contando "Nymphomaniac" di Lars von Trier come un film solo), superando dunque quota 200 a distanza di quattro anni dall'ultima volta. Il totale dei film recensiti sale così a 2142: per la cronaca, il duemillesimo è stato il film muto "C'era un uomo" di Victor Sjöström. Le pellicole viste al cinema sono state 51 (di cui 28 nelle rassegne di Cannes e di Venezia), quelle oggetto di una seconda visione 53. I registi più gettonati nel corso dell'anno sono stati Martin Scorsese con 6 film (anche se 3 erano cortometraggi), Alfred Hitchcock e Kenji Mizoguchi con 5, Sidney Lumet con 4. Seguono, con 3 ciascuno, Robert Aldrich, Roy Andersson, Ernst Lubitsch, Yasujiro Ozu, Ettore Scola e Zhang Yimou.

20 marzo 2015

Sogni (Akira Kurosawa, 1990)

Sogni (Yume, aka Dreams)
di Akira Kurosawa – Giappone 1990
con Akira Terao, Martin Scorsese
***

Rivisto in divx.

Dopo il successo ottenuto in patria e all'estero con i grandi kolossal storici "Kagemusha" e "Ran", nel 1990 l'ottantenne Kurosawa soprese tutti con un lavoro molto diverso dai precedenti, intimo, personale e onirico: come definire altrimenti una pellicola che mette in scena dei "sogni"? Il film presenta infatti otto episodi, ordinati cronologicamente secondo l'età del protagonista (bambino nei primi due, giovane e via via più adulto nei seguenti, interpretato quasi sempre dall'attore Akira Terao), che pescano dalle paure, dalle speranze, dalle angosce e dalle aspirazioni del regista; curiosamente nessuno di questi è legato direttamente al mondo del cinema, anche se il quinto episodio (quello di Van Gogh) mostra il suo amore per l'arte (come è noto, l'Imperatore inizialmente voleva diventare un pittore, e ripiegò sul cinema solo in un secondo momento). La variopinta e luminosa fotografia di Takao Saito (che trasferisce sullo schermo una serie di disegni e di bozzetti dello stesso Kurosawa), la regia classica e austera del nostro Akira (con la collaborazione di Ishiro "Godzilla" Honda), l'atmosfera da "realismo magico" che permea ogni segmento, gli effetti speciali dell'Industrial Light & Magic di George Lucas (che ha sostenuto la realizzazione della pellicola insieme a Francis Ford Coppola e Steven Spielberg, tutti grandi estimatori del regista nipponico) sono al servizio di otto episodi di diverso tono, significato e valore, ma che nel loro insieme concorrono a creare un mondo interiore complesso e suggestivo. Alla sua uscita, ovviamente, molti critici interpretarono il film come il testamento spirituale del grande regista, l'ultimo tassello di una carriera leggendaria e considerata ormai al termine: Kurosawa smentì tutti sfornando, nel giro di tre anni (cosa insolita per lui, che da un trentennio girava solo un film ogni cinque anni) altre due pellicole, differenti da questa ma altrettanto "intime" e personali: "Rapsodia in agosto" e "Madadayo".
Come già detto, non tutti gli episodi sono belli allo stesso modo, così come le atmosfere variano parecchio (e si fanno via via più cupe man mano che il personaggio invecchia, salvo risollevarsi nel segmento conclusivo). I miei preferiti sono i primi due ("Raggi di sole nella pioggia" e "Il pescheto"), ma per motivi diversi meritano una menzione particolare anche "Il tunnel", "Corvi" e "Il villaggio dei mulini".

"Raggi di sole nella pioggia" - Da bambino, il protagonista (ovvero Kurosawa stesso, anche se il suo nome non viene mai pronunciato in tutto il film) esce di casa nonostante il divieto della madre e si inoltra nella foresta durante un giorno in cui piove e contemporaneamente splende il sole. È in giornate come questa che le volpi (animali "magici" secondo le superstizioni giapponesi) celebrano i loro matrimoni. Avendo spiato una di queste cerimonie, il bambino scatena l'ira delle volpi: e dovrà raggiungere la loro dimora ai piedi dell'arcobaleno per chiedere perdono. Il film si apre con un episodio magico e fiabesco, dominato dalle paure dell'infanzia ma anche dalla curiosità e dalla scoperta.

"Il pescheto" - K. ha ora qualche anno di più. È il giorno della "festa delle bambole" (hina matsuri), che tradizionalmente cade il 3 marzo, quando gli alberi di pesco sono in fiore. Il bambino esce di casa seguendo una misteriosa ragazzina dai vestiti rosa, che lo conduce fino ai campi dove sorgeva il pescheto di famiglia. Qui incontra gli spiriti degli alberi, che lo rimproverano perché le piante sono state tagliate. Ma quando si accorgono che il bambino è sinceramente addolorato per l'accaduto, gli spiriti eseguono una danza e gli permettono di ammirare ancora una volta gli alberi in fiore. Personalmente il mio episodio preferito.

"La tormenta" - Durante il servizio militare, K. e altri scalatori rimangono intrappolati in alta quota, dove sono sorpresi da una tormenta di neve. A uno a uno, i suoi compagni si addormentano in preda alla fatica e al freddo: anche lui viene visitato da uno spirito della montagna sotto le sembianze di una fanciulla, ma riesce a resistere alla sua seduzione ("Soldato, la neve è tiepida") e al suo abbraccio gelido e mortale. Poco più tardi, il sole torna a splendere e le tende del campo base si rivelano essere a pochi passi di distanza. L'episodio forse si ispira alla leggenda giapponese della yuki-onna, la principessa delle nevi.

"Il tunnel" - Terminata la guerra, K. sta tornando a casa lungo una strada fangosa e deserta. Dopo aver attraversato un lungo tunnel, a cui faceva da guardia un cane infernale, K. è raggiunto dai fantasmi dei suoi compagni caduti in battaglia. Dovrà convincerli a tornare indietro, non prima di aver chiesto perdono per essere sopravvissuto mentre loro sono morti. Un segmento inquietante ma di grande suggestione (con il rimbombo dei passi dei soldati in marcia che risuona nel tunnel buio), che mette in scena non solo l'orrore e le conseguenze dell'esperienza bellica ("La guerra è follia!"), ma anche i sensi di colpa dei superstiti.

"Corvi" - Mentre ammira i quadri di Van Gogh esposti in una galleria, K. – che evidentemente è ora uno studente d'arte – "entra" magicamente nei dipinti e vaga alla ricerca del pittore olandese (interpretato da Martin Scorsese: uno dei rari casi in cui il regista italo-americano appare in un film non diretto da lui), di cui è un grande ammiratore. Questi gli spiega che non può fare a meno di dipingere, come in preda a una "febbre", e di essersi tagliato un orecchio perché non gli veniva bene in un autoritratto. Il viaggio di K. nei vibranti colori di Van Gogh termina in un campo di grano da cui improvvisamente si alzano i corvi in volo (metafora del suicidio dell'artista). Oltre che dalle pennellate dei quadri, l'episodio è graziato dal preludio n. 15 di Chopin nella colonna sonora.

"Fuji in rosso" - Con questo e il successivo episodio, le paure e le angoscie dell'era atomica si materializzano sullo schermo attraverso due sogni che sono veri e propri incubi (da notare che Kurosawa negli anni cinquanta aveva dedicato un intero film all'argomento, "Testimonianza di un essere vivente"). Il vulcano Fujiyama sta eruttando, e la popolazione fugge in preda al panico, ma non c'è modo di scampare al disastro. Anche perché la centrale nucleare sul fianco della montagna è esplosa, e le sostanze radioattive si stanno spargendo ovunque (colorate per distinguerle meglio: "Abbiamo sviluppato una tecnologia per rendere visibile il rischio; e ora abbiamo il vantaggio di sapere che cosa ti ha ucciso", spiega all'interdetto K. uno degli uomini che hanno contribuito al disastro).

"Il demone che piange" - Quasi un seguito dell'episodio precedente, di cui riprende i toni catastrofici e pessimisti, immersi stavolta in un'atmosfera da bolgia infernale. La terra è stata devastata dalle radiazioni, e tutto quello che resta sono pendii brulli e anneriti, sui quali crescono giganteschi fiori (denti di leone alti tre metri) e piante mutanti. Il mondo è ora popolato da demoni cornuti e deformi, che un tempo erano esseri umani e che ora sopravvivono sbranandosi l'un l'altro. Uno di questi demoni conduce K. fino all'orlo di un cratere, da dove spiano i suoi compagni che piangono, si torcono e ululano al cielo per il dolore procuratogli dalle loro stesse corna. È un'immagine quasi da inferno dantesco.

"Il villaggio dei mulini" - Nel segmento finale si torna a uno scenario positivo, colmo di luce e di speranza. Il viandante K. giunge in un villaggio i cui abitanti vivono in completa armonia con la natura, fra ruscelli, fiori e mulini. Un vecchio contadino (Chishu Ryu, l'attore feticcio di Ozu) spiega al protagonista che in quel villaggio i funerali sono un'occasione per festeggiare e per "congratularsi" con il defunto per la vita che ha condotto. Tra una critica alla modernità e un elogio alle tradizioni, l'episodio conclude la pellicola su toni di ottimismo: "Si dice spesso che la vita è difficile, dura...", commenta il vecchio. "Questa è solamente una posa dell'essere umano. La verità è una sola: la vita è bella. Più che bella: entusiasmante".

18 marzo 2015

La strada verso casa (Zhang Yimou, 1999)

La strada verso casa (Wode fuqin muqin)
di Zhang Yimou – Cina 1999
con Zhang Ziyi, Honglei Sun
**1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Paola, Marta, Beatrice, Giulia, Costanza, Elisa, Gioia.

Alla morte del padre, Yusheng (Honglei) torna nel villaggio natale, fra le montagne nel nord della Cina, per organizzare il funerale. La madre vorrebbe che le esequie seguissero l'antica usanza di trasportare il corpo a piedi dal luogo in cui è morto fino al cimitero, in modo che il defunto non dimentichi qual è "la strada verso casa". Ma c'è un problema: nel villaggio sono rimasti ormai solo bambini e anziani, i giovani sono tutti andati a lavorare in città, e dunque non ci sono uomini a sufficienza per svolgere il compito. Per onorare il grande amore che ha unito i suoi genitori, tuttavia, il figlio troverà una soluzione. Questa cornice, in bianco e nero, fa da introduzione ed epilogo al lungo segmento centrale del film, fotografato invece a colori, che narra il primo incontro fra il padre e la madre di Yusheng, avvenuto quarant'anni prima: lei giovane contadina (interpretata da una radiosa Zhang Ziyi, al suo debutto sullo schermo, che ruba la scena in ogni inquadratura) e lui insegnante inviato da Shanghai nella piccola scuola locale. Semplice e toccante, lineare e commovente, il film porta in scena i sentimenti della fanciulla (vera e propria protagonista, visto che ogni evento è filtrato dal suo punto di vista) in maniera diretta e trasparente, senza appesantirli con dialoghi o complicazioni narrative (persino la sottotrama dei problemi dell'insegnante con il partito, negli anni in cui molti intellettuali venivano perseguitati, non è approfondita più di tanto perché si colloca al di fuori del "raggio di pensieri" della ragazza, preoccupata soltanto del fatto di non poter rivedere il suo amato). A parte la voce narrante di Yusheng, la pellicola si sofferma quasi solo sul volto di Zhao Di, a seconda dei casi curiosa, trepidante, paziente, ostinata, preoccupata, felice... Lo scenario naturale, che lo scorrere delle stagioni colora di tinte differenti, fa da perfetto sfondo alla vicenda. Tratto da un romanzo ("Remembrance") di Bao Shi, autore anche dell'adattamento, e realizzato subito dopo "Non uno di meno", il film appartiene al filone più intimo e realista del cinema di Zhang, caratterizzato da buoni sentimenti e, tra le righe, dall'elegia verso il passato, le tradizioni e le usanze (destinate a scomparire) dei villaggi delle regioni più ai margini delle grandi città. Indicativa, al riguardo, la curiosa presenza di una locandina di "Titanic" in una delle case del villaggio.

17 marzo 2015

Luciano Serra pilota (G. Alessandrini, 1938)

Luciano Serra pilota
di Goffredo Alessandrini – Italia 1938
con Amedeo Nazzari, Mario Ferrari
**

Visto in divx.

Fra i maggiori successi cinematografici italiani del ventennio fascista e in particolare dell'epoca – iniziata nel 1935 – in cui era necessario "celebrare" le imprese e le conquiste coloniali in Africa, "Luciano Serra pilota" è una pellicola importante per una serie di motivi, extrafilmici e non. Innanzitutto è uno dei due film (l'altro è "Scipione l'Africano" di Carmine Gallone) con cui vennero inaugurati gli stabilimenti di Cinecittà, costruiti nel 1937 per promuovere l'industria cinematografica nazionale; poi, vinse la Coppa Mussolini (antesignana del Leone d'Oro) come miglior film italiano alla Mostra di Venezia del 1938; infine, c'è la presenza di un giovane Roberto Rossellini (agli esordi nel mondo del cinema, e non ancora regista) alla sceneggiatura, che coadiuva Alessandrini – già autore di alcune pellicole del filone dei "telefoni bianchi" con lo stesso Nazzari – e Fulvio Palmieri. La vicenda è figlia del suo tempo, e celebra una concezione ingenua e idealistica dell'eroismo. Eppure, nonostante la supervisione di Vittorio Mussolini (secondogenito di Benito e grande appassionato di cinema), non si tratta solo di propaganda fascista: il protagonista mostra anche tratti romantici e fortemente individuali (è mosso dal desiderio di gloria personale e dall'amore per il proprio figlio). E forse questo spiega come mai piacque così tanto al pubblico, che in lui riusciva a identificarsi più facilmente che non con i personaggi di altre pellicole di propaganda uscite in quegli anni e oggi, oltre che dimenticate, praticamente inguardabili per l'alto tasso di retorica e di "amor di patria". In effetti Luciano sembra più l'eroe ribelle di un film d'avventura hollywoodiano che non un soldato fascista inquadrato e ubbidiente. La storia si apre nel 1921. Luciano Serra, aviatore durante la Grande Guerra, vive di sogni e di passione per il volo, rifiutando di mettere i piedi a terra: piuttosto che farsi assumere nell'azienda del suocero, preferisce sbarcare il lunario portando in volo i turisti sul Lago Maggiore. Ma le difficoltà economiche gli impediscono di prendersi cura della moglie e, soprattutto, del figlioletto Aldo: questi tornano dal padre di lei, mentre Luciano – considerato da tutti un fallito – decide di tentare la fortuna in America. Dieci anni dopo lo ritroviamo in Brasile, dove la sua "degradazione" prosegue, visto che gli unici lavori che trova sono in ambito circense o pubblicitario (l'episodio in cui trasporta "Simba, il leone volante", è significativo). Intenzionato a cimentarsi in un'impresa che dovrebbe procurargli la gloria necessaria a tornare in Italia a testa alta, decolla per una trasvolata atlantica in solitaria e senza scali. Ma viene colto di sorpresa da una tempesta: il suo aereo sprofonda in mare e tutti lo credono morto, compreso il figlio che, nel frattempo, ha deciso di seguirne le orme e si è iscritto all'accademia aerea. Scoppia la guerra in Africa orientale: Aldo è lì in servizio con l'aviazione. Nel corso di una tremenda battaglia, a salvare la vita a lui e a tutto il reparto sarà proprio il padre Luciano, che nel frattempo è sopravvissuto e si è arruolato fra i legionari sotto falso nome. L'atto eroico gli costa la vita, ma gli vale finalmente anche il riconoscimento e il rispetto di tutti (nonché una medaglia d'oro al valor militare). Scolastico nei dialoghi e nella sceneggiatura, ma efficace nella rappresentazione del protagonista, degli ambienti e delle situazioni, il film si lascia apprezzare per la recitazione dell'ottimo Nazzari e per il notevole sforzo produttivo, in particolare nelle scene di battaglia, quantomai realistiche e dinamiche (l'assalto al treno, il bombardamento aereo). La pellicola ebbe anche un adattamento a fumetti, opera di Walter Molino.

15 marzo 2015

Shrek (A. Adamson, V. Jenson, 2001)

Shrek (id.)
di Andrew Adamson, Vicky Jenson – USA 2001
animazione digitale
**

Rivisto in TV, con Sabrina.

Per tornare in possesso della propria palude, che è stata invasa dai personaggi delle fiabe scacciati dalle loro case dal perfido (e basso) Lord Falquad, il misantropo orco Shrek accetta di portare a termine una missione per conto di quest'ultimo: salvare la principessa Fiona, imprigionata da un drago in un castello, e condurgliela affinché la possa sposare. Ma nel corso dell'impresa, condotta a termine con l'aiuto di un bizzarro mulo parlante, l'orco e la principessa – nonostante i rispettivi "ruoli" lo dovrebbero impedire – finiranno con l'innamorarsi... Da un libro per bambini di William Steig, che gioca con gli stereotipi delle fiabe classiche rivoltandoli o stravolgendoli, la pellicola in animazione digitale che più di ogni altra ha fatto il successo della DreamWorks. Il personaggio dell'orco volgare, puzzolente e ripugnante, che come nei migliori buddy movie fa amicizia con il Ciuchino dalla parlantina facile (la voce originale è di Eddie Murphy), e che soprattutto si innamora (ricambiato) della principessa, ha colpito l'immaginario di un pubblico ormai stufo dei cliché dei cartoni della Disney (ai quali si rivolgono numerose frecciatine parodistiche: dall'introduzione con il classico libro delle fiabe, una pagina del quale viene usata da Shrek come carta da toilette, alle canzoni che irrompono quando meno ce le si aspetta, fino alle scene con gli animaletti – quel povero uccellino... – o la cittadella stessa di Duloc che ricorda Disneyland, con tanto di parcheggio, guardie e merchandising). Apprezzabile l'elogio della diversità e l'insegnamento di "non giudicare dalle apparenze". Ma l'umorismo è di grana grossa e a senso unico, il setting perde presto significato (i personaggi delle fiabe introdotti all'inizio non hanno praticamente alcun ruolo all'interno della vicenda, e rimangono lì come semplici strizzatine d'occhio allo spettatore), le gag si basano essenzialmente su un'unica idea (quella, appunto, di sovvertire gli stereotipi fiabeschi) e le citazioni (come la scena di combattimento alla "Matrix") lasciano il tempo che trovano. Come se non bastasse, dalla metà in poi la pellicola si "normalizza" e – cosa peggiore di tutte – il finale contraddice il messaggio che il resto del film aveva cercato di veicolare: per vivere felici e contenti, Shrek e Fiona devono essere entrambi della stessa razza, perché in realtà non c'è spazio (o non è accettabile) che un orco e una ragazza possano davvero sposarsi. Il grande successo al botteghino ha dato origine a una vera e propria saga, con diversi sequel (con una qualità di animazione superiore, per quel che conta) e spin-off. Il film è inoltre passato alla storia per aver vinto il primo premio Oscar per il miglior lungometraggio d'animazione (categoria istituita appunto a partire da quell'anno).

13 marzo 2015

L'importanza di chiamarsi Ernest (O. Parker, 2002)

L'importanza di chiamarsi Ernest (The importance of being earnest)
di Oliver Parker – GB 2002
con Colin Firth, Rupert Everett
**1/2

Rivisto in TV.

Dopo "Un marito ideale", che già aveva fra i suoi protagonisti Rupert Everett, il regista Oliver Parker adatta un'altra commedia di Oscar Wilde, e una delle sue più celebri, realizzando una divertente satira della società britannica dell'epoca edoardiana, dove la cura e l'attenzione alle regole formali sovrasta ogni cosa, al punto che la qualità più ammirata di un possibile fidanzato è... il suo nome (capovolgendo di fatto l'assunto shakespeariano di "Romeo e Giulietta", dove invece si diceva: "Che cos'è un nome? La rosa avrebbe lo stesso profumo anche se la chiamassimo in un altro modo. Dunque cambia il nome, Romeo, e amiamoci tranquillamente"). Qui abbiamo il distinto John "Jack" Worthing (Colin Firth), gentiluomo di campagna, che quando si reca in città assume il nome di un suo fantomatico fratello, Ernest, per concedersi vizi e divertimenti che poco gioverebbero alla sua reputazione: è infatti il tutore della giovane Cecily (Reese Witherspoon), e come tale deve mantenere un'immagine impeccabile. A un certo punto Jack chiede la mano di Gwendolen (Frances O'Connor), cugina del suo amico (e compagno di bagordi) Algernon "Algy" Moncrieff (Rupert Everett), la quale afferma di ricambiare il suo amore perché ha sempre sognato di fidanzarsi con un uomo chiamato Ernest, il cui nome le procura delle "vibrazioni". Nel frattempo Algy, intenzionato a conoscere Cecily, si reca nella villa di campagna di Jack e si presenta come il famigerato fratello Ernest, scoprendo che anche la ragazza ha sempre sognato di fidanzarsi con lui perché adora il suo nome. Naturalmente, quando le due donne si incontreranno, crederanno di amare entrambe lo stesso uomo... Wilde giocò sull'assonanza fra il nome Ernest e l'aggettivo "earnest", che significa "serio, onesto, affidabile": alcune delle prime traduzioni italiane della commedia provarono a rendere il titolo con "L'importanza di essere Franco", o "di essere Onesto", ma alla lunga si è preferito mantenere il nome originale, anche perché in fondo "Ernesto" ricorda abbastana "Onesto". Graziato da interpreti che stanno al gioco (ci sono anche Judy Dench nei panni della zia Augusta, Anna Massey come Miss Prism e Tom Wilkinson come reverendo Chasuble), il film non devia dal testo originale ma in fondo non vi aggiunge quasi nulla: è un buon adattamento, dal sapore più televisivo che cinematografico, che rende giustizia a Oscar Wilde e alle sue battute sarcastiche, ma che resta privo di quella "scossa" che solo il grande cinema può donare allo spettatore.

12 marzo 2015

Cavalcando col diavolo (Ang Lee, 1999)

Cavalcando col diavolo (Ride with the Devil)
di Ang Lee – USA 1999
con Tobey Maguire, Skeet Ulrich
*1/2

Rivisto in DVD.

Durante la guerra civile americana, il giovane Jake Roedel (Maguire) segue l'amico Jack Bull (Ulrich) e si arruola nelle milizie "irregolari" confederate che battono il Missouri alla ricerca di unionisti e loro simpatizzanti: questo nonostante suo padre, immigrato tedesco, sostenga invece gli yankee. Gli eventi della guerra lo faranno però crescere e comprendere i propri errori: diventerà amico di un nero, il fedele Holt (Jeffrey Wright), e troverà l'amore in Sue Lee (la cantante e poetessa Jewel, all'esordio cinematografico). Al terzo film hollywoodiano, Ang Lee sceglie di rivisitare a modo suo un periodo cruciale della storia degli Stati Uniti d'America, raccontandolo attraverso la crescita di un giovane colto ma sprovveduto, inizialmente trascinato dagli eventi ma poi in grado di forgiare il proprio destino. In maniera originale, più che sugli scontri fra eserciti sui campi di battaglia (la guerra vera e propria non era ancora giunta in Missouri), la pellicola racconta le azioni di guerriglia messa in atto da truppe di ribelli semi-organizzate, in una serie di incidenti a corto raggio che coinvolgevano le comunità locali, spesso mettendo l'uno contro l'altro amici e vicini soltanto in base alle rispettive simpatie politiche o sociali. Come ha ribadito lo stesso regista, la pellicola "non è semplicemente un film di guerra. Parla soprattutto dell'amore e delle amicizie che nascono durante una guerra: è al contempo un film grande e piccolo, epico e quotidiano". Peccato però che sia anche irrimediabilmente noioso, con un ritmo blando che non decolla mai, e insopportabilmente retorico, dalle scene iniziali fino al finale. Se anche il personaggio principale ha dei dubbi sulla parte da cui stare, lo spettatore non ne è mai sfiorato; a parte il protagonista, gli altri personaggi sono soltanto pedine su una scacchiera funzionali alla progressione della sua storia; ma soprattutto l'andamento narrativo del film è davvero soporifero, appena vivacizzato a tratti da scene di battaglia che lasciano poi il posto a lunghi periodi in cui non accade quasi nulla. Al di là dell'interesse per il contesto storico, insomma, un film da dimenticare. Nel cast anche Simon Baker, Jonathan Rhys-Meyers (il "cattivo" Pitt Mackeson), Jim Caviezel, Mark Ruffalo e Tom Wilkinson.

10 marzo 2015

South Park - Il film (Trey Parker, 1999)

South Park - Il film: più grosso, più lungo & tutto intero
(South Park: Bigger, Longer & Uncut)
di Trey Parker – USA 1999
animazione tradizionale
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Florian, Sabine, Giulia e Sabrina.

Dalla celebre serie animata "South Park", un lungometraggio d'animazione che in un certo senso parla di sé stesso, affrontando – nella stessa vena satirica e irriverente della serie televisiva – il tema della censura e della libertà di espressione; un tema oggi ancora più d'attualità, se si pensa alle vicende legate al settimanale francese "Charlie Hebdo" (difendere il diritto di satira, infatti, è importante anche quando questa non è "nobile" ma sboccata, gratuita e offensiva). Nel film, ironicamente impostato come un musical proprio come i classici della Disney, i bambini del paesino di South Park (Stan, Kyle, Cartman e Kenny) vanno al cinema a vedere "Culi di fuoco", pellicola volgarissima e vietata ai minori, a base di peti e parolacce, dei comici canadesi Trombino e Pompadour (Terrance e Phillip in originale). Con gran sconcerto delle madri e dei loro insegnanti, ne escono con un vocabolario "arricchito" di una quantità spropositata di insulti e oscenità. Ancora peggio, Kenny (il personaggio che nella serie muore in ogni puntata) si dà fuoco nel tentativo di imitare una delle "prodezze" viste sullo schermo. Tanto basta ai benpensanti e agli educatori del paese per indire una vera e propria crociata, non solo contro il film stesso ma contro l'intero Canada ("Diamo la colpa al Canada [...] prima che qualcuno pensi di darla a noi!", cantano le madri in una delle più apprezzate canzoni della pellicola, "Blame Canada", candidata fra l'altro all'Oscar). Organizzatisi sotto forma di resistenza clandestina, i bambini cercheranno di salvare Trombino e Pompadour dall'imminente esecuzione e di impedire lo scoppio del conflitto armato fra Stati Uniti e Canada che ne conseguirebbe, anche perché la guerra rischia di consegnare la Terra nientemeno che a Satana e a Saddam Hussein (i quali, dopo la morte di quest'ultimo, sono diventati amanti).

I creatori della serie, Trey Parker e Matt Stone (che nella versione originale danno anche la voce alla maggior parte dei personaggi), non rinunciano al loro umorismo volgare e corrosivo, e anzi sembrano rincarare la dose, vista la quantità abnorme di oscenità e parolacce concentrata in poco più di 80 minuti (il culmine si raggiunge in canzoni come l'esilarante "Kyle's mom is a bitch"); ma il tutto, oltre che fonte continua di ilarità, è giustificato dalla forte critica sociale e politica che sottende alla sceneggiatura. E comunque non mancano battute più sottili ("Il Canada non è nemmeno una vera nazione"; o anche, sulle mestruazioni: "Non mi fido di una cosa che sanguina per cinque giorni e non muore") o situazioni narrative accattivanti (Stan che va "alla ricerca del clitoride"; il V-chip "rieducativo" installato in Cartman, in stile "Arancia meccanica", che gli dà una scossa elettrica ogni volta che dice una parolaccia). La maggior durata rispetto alle normali puntate non sembra danneggiare il risultato, e anzi è ben sfruttata per imbastire una trama a più ampio respiro, condita dalla consueta apparizione di celebrità del mondo dello spettacolo, della politica e della cultura (dalla famiglia Baldwin, sterminata dai canadesi per rappresaglia, a Winona Ryder, che si "esibisce" con le palline da ping pong; da Bill Gates, la scena della cui esecuzione – erano gli anni di Windows 98 – fece esplodere i cinema dagli applausi, ad appunto Saddam Hussein, all'epoca non ancora morto ma mostrato lo stesso all'inferno) e da una colonna sonora di grande efficacia (oltre alle canzoni già citate, sono da ricordare "What Would Brian Boitano Do?", in cui i ragazzi immaginano cosa farebbe in una situazione simile il loro idolo, il pattinatore olimpico Brian Boitano; "La Resistance", che sfocia in un medley degno di "West Side Story"; e naturalmente "Uncle Fucka", la canzone del film di Trombino e Pompadour). Per i fan della serie, poi, ci sono "chicche" come il viso di Kenny, mostrato per la prima volta. Anche il titolo del film gioca con i doppi sensi a sfondo sessuale: "uncut", in particolare, è un ironico riferimento al caso di Lorena Bobbitt.

8 marzo 2015

L'abisso dell'amore e dell'odio (K. Mizoguchi, 1937)

L'abisso dell'amore e dell'odio (Aien kyo)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1937
con Fumiko Yamaji, Seizaburo Kawazu
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Dal romanzo di Lev Tolstoj "Resurrezione", adattato da Mizoguchi con Matsutaro Kawaguchi e Yoshitaka Yoda, un'altra storia di una donna che soffre a causa dell'egoismo degli uomini; stavolta, però, la protagonista ha la forza di ribellarsi e ricostruirsi una vita. Ohumi, giovane cameriera in un albergo di montagna, è sedotta e messa incinta dal figlio dei proprietari, Kenkichi. Quando costui l'abbandona, la ragazza – trasferitasi nel frattempo a Tokyo – è costretta a lavorare come intrattenitrice nei locali notturni pur di guadagnare il denaro necessario a mantenere il bambino. L'incontro con Yoshi, suonatore ambulante, cambia la sua vita, e insieme a lui si unisce a una compagnia itinerante di attori e saltimbanchi. Quando il tour della compagnia la riporterà nel villaggio da cui proveniva, ad assistere al suo spettacolo (che mette in scena, in versione comica, la storia della sua vita) c'è anche Kenkichi, che prova vergogna dell'accaduto e si offre di rimediare, sposandola. Ma il padre di lui non è d'accordo... I temi tanto cari a Ozu trovano spazio in una pellicola ad ampio respiro, dove il melodramma non sovrasta personaggi di una certa profondità (davvero ottima la prova dalla protagonista Fumiko Yamaji, che accompagna la crescita e la maturazione di Ohumi attraverso diverse fasi: da innamorata pudica e innocente, a ragazza cinica e pronta a tutto per sopravvivere; da attrice comica capace di ridere e riflettere sulle proprie esperienze, a donna orgogliosa e sicura di sé nella propria autodeterminazione). Belli i paesaggi del villaggio innevato, e memorabile la scena della rappresentazione teatrale. Per una volta nel cinema di Mizoguchi, non tutti gli uomini si dimostrano deboli, ingrati, egoisti o inaffidabili: a Kenkichi o al suo amico che ospita lui e Ohumi nei primi giorni a Tokyo, si contrappongono infatti Yoshi, che aiuta Ohumi a non cadere nelle trappole della grande città e che si prende sinceramente a cuore il suo destino, e anche lo zio Murakami, il capo della compagnia di attori, che si rivela più coscienzioso e meno terribile di quanto sembrava all'inizio. A differenza di altre pellicole dell'epoca, l'accompagnamento sonoro è quasi inesistente, il che valorizza le immagini, impreziosite dalle consuete panoramiche lente e dai long take. Curiosità: a un certo punto Yoshi spiega che un tempo suonava nei cinema di Asakusa, e che ha perso il lavoro a causa dell'avvento del sonoro.

6 marzo 2015

Vizio di forma (Paul T. Anderson, 2014)

Vizio di forma (Inherent vice)
di Paul Thomas Anderson – USA 2014
con Joaquin Phoenix, Josh Brolin
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca.

California, 1970: l'ex fricchettone e ora detective privato italo-americano Larry Sportello, detto "Doc" (Phoenix), indaga sulla misteriosa scomparsa di un importante costruttore edile, amante fra l'altro della sua ex fidanzata Shasta Fay (Katherine Waterston). In un'atmosfera di confusione, paranoia e improvvisazione (sono gli anni della cultura hippie, nella quale Doc è immerso a piene mani), dovrà fronteggiare non solo l'ostilità della polizia, rappresentata dalla sua vecchia conoscenza "Bigfoot" Bjornsen (Brolin), ma anche le ingerenze dell'FBI e gli intrighi di una misteriosa organizzazione, la Golden Fang, che gestisce – fra le altre cose – il traffico di eroina dall'Indocina alla California. Da un romanzo neo noir di Thomas Pynchon, sceneggiato dallo stesso Anderson, un film che fonde una trama contorta e complicata, alla Raymond Chandler, con un'ambientazione accattivante, quella della controcultura degli anni settanta, fra sette e bande di vario tipo (si cita spesso il caso Manson), abuso di droga e di sesso, libertà e profonde trasformazioni sociali in corso. Narrativamente, a tratti si perde il filo: e in effetti a una prima visione molte cose possono sfuggire, anche perché il protagonista stesso è perennemente confuso e annebbiato, come in un trip in cui la realtà e i ricordi del passato tendono a sovrapporsi. Il sottile velo di umorismo, onnipresente e a volte sfociante nel grottesco, può ricordare "Il grande Lebowski" (un film a sua volta dichiaratamente ispirato a Chandler, e anch'esso con un protagonista "fattone"), ma nel finale Anderson conferma di essere ben più ambizioso dei fratelli Coen, e non è detto che in questo caso sia un bene. Gran cast: ci sono anche Owen Wilson, Benicio Del Toro, Reese Witherspoon, Martin Short, Jena Malone ed Eric Roberts. L'intera storia è raccontata agli spettatori dalla voce di una narratrice fuori campo, Sortilège, una delle tante donne di Doc, che nel libro di Pynchon era solo un personaggio minore. Buona la colonna sonora (di Jonny Greenwood dei Radiohead, alla terza collaborazione con Anderson), che comprende anche diversi brani dell'epoca (da "Harvest" di Neil Young a "Sukiyaki" di Kyu Sakamoto). Una cosa che mi ha dato fastidio: nel doppiaggio l'espressione "inherent vice" è resa come "vizio intrinseco", mentre nel titolo è "vizio di forma": uniformità no, eh?

4 marzo 2015

Un poliziotto da happy hour (J. M. McDonagh, 2011)

Un poliziotto da happy hour (The Guard)
di John Michael McDonagh – Irlanda 2011
con Brendan Gleeson, Don Cheadle
**1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Lo scontroso sergente Gerry Boyle (Gleeson), poliziotto di stanza in uno sperduto villaggio nel Connemara irlandese, si ritrova ad affiancare un agente americano dell'FBI (Cheadle) sulle tracce di un gruppo di narcotrafficanti che ha scelto come base proprio la sua provincia. Questo film (che segna l'esordio alla regia dello sceneggiatore di "Ned Kelly") è un oggetto strano: il fuorviante titolo italiano può far pensare a una commedia più o meno demenziale, ingannando gli spettatori che – come nel caso di "Se mi lasci ti cancello" – si troveranno invece di fronte a una pellicola dai toni esistenzialisti e crepuscolari, dall'ironia cinica e sarcastica, e dal ritmo compassato e malinconico. Se è vero che il personaggio principale – puttaniere, burbero, razzista ("Sono irlandese: il razzismo fa parte della nostra cultura") ma anche onesto, triste e solitario – garantisce qualche risata, così come la sua relazione con il collega americano ricalca quelle tipiche dei "buddy movie", è anche vero che le atmosfere della pellicola sono insolitamente riflessive e all'insegna dell'understatement, il che crea uno strano contrasto fra frammenti di dialogo tarantiniano e situazioni "sospese" quasi alla Kitano. Il paragone più azzeccato, comunque, è quello con un'altra pellicola britannica, "In Bruges", non a caso scritta e diretta dal fratello del regista (Martin McDonagh) e caratterizzata dagli stessi elementi: criminali che discettano di filosofia, morti dolorose che donano profondità inaspettate ai personaggi, l'uso del paesaggio e del contesto ambientale per aumentare il senso di spaesamento (l'agente americano che si ritrova in un paese dove tutti parlano solo gaelico), la fondamentale solitudine del protagonista (e non solo), il finale ambiguo... Il tutto consente di superare i luoghi comuni del genere e di accomunare il film più al noir (o addirittura al western, se pensiamo alla sparatoria finale) che non alle commedie poliziesche come "Hot Fuzz", al cui pubblico i distributori nostrani speravano invece di rivolgersi con lo sciagurato titolo italiano.

3 marzo 2015

La rapina perfetta (R. Donaldson, 2008)

La rapina perfetta (The bank job)
di Roger Donaldson – GB/USA 2008
con Jason Statham, Saffron Burrows
**

Visto in TV.

Terry (Statham), ex delinquente ora sulla retta via ma con forti problemi economici, è convinto da una vecchia fiamma, Martine, a organizzare una formidabile rapina al caveau di una banca londinese. Ignora però di essere stato manipolato dai servizi segreti britannici, che intendono sfruttare lui e la sua banda per mettere le mani su foto compromettenti per la famiglia reale, che un criminale custodisce proprio in una delle cassette di sicurezza. Ispirato a una storia vera (la celebre rapina alla banca di Baker Street del 1971, sulla quale dopo pochi giorni fu fatto calare il silenzio stampa, il che ha dato adito a speculazioni e interpretazioni di vario genere), un heist movie che riesce a fondere in maniera efficace elementi di realtà storica (le intercettazioni dei dialoghi fra i rapinatori, effettuate da un radioamatore; la sottotrama dell'omicidio di Gale Benson; i riferimenti a svariati personaggi dell'epoca) con una ricostruzione fantasiosa dell'accaduto. Più che la rapina in sé, che tutto sommato fila via liscia, sono le complicazioni successive a dare interesse alla vicenda: al "bottino" e ai rapinatori stessi, per motivi diversi, si interessano infatti le alte sfere dello spionaggio britannico (per i motivi sopra descritti), la normale polizia (che ignora i retroscena della vicenda), il gangster nero militante Michael X (che si ispira a Malcolm X) e altri criminali locali, guidati dal pornografo Lew Vogel (che a sua volta custodiva importanti documenti nel caveau). Alla fine ne risulta un buon intrattenimento, anche per merito degli attori (come ho già scritto in passato, sono un fan di Statham): ma se è da apprezzare l'approccio vecchio stile, non ci si aspetti la stessa tensione e la stessa qualità di classici storici (come "Giungla d'asfalto" o "Rififi") o moderni (come "Inside Man") del genere.

1 marzo 2015

La sanguinaria (Joseph H. Lewis, 1950)

La sanguinaria (Gun Crazy, aka Deadly is the Female)
di Joseph H. Lewis – USA 1950
con John Dall, Peggy Cummins
***1/2

Visto in divx.

La passione per le armi ossessiona il giovane Bart (Dall) fin da quando era bambino. Provetto tiratore, nonostante la sua indole mite gli impedisca di sparare per uccidere, dopo un'adolescenza passata in riformatorio torna al proprio paese deciso a mettere la testa a posto. Ma si innamora di Annie (Cummins), bionda pistolera protagonista di uno spettacolo itinerante, e fugge con lei. La donna lo spingerà a diventare un rapinatore, e insieme i due assalteranno numerosi negozi e banche, fino a quando ci scapperà il morto. Braccati dalla polizia e dall'FBI, ma incapaci di separarsi l'uno dall'altra, saranno costretti a una fuga disperata che finirà col riportare Bart al proprio paese di origine, dove vivono la sorella e gli amici d'infanzia... Capolavoro del cinema gangster-noir degli anni cinquanta, e ispirato alle vicende di celebri coppie di rapinatori come Bonnie e Clyde, il film è sceneggiato – insieme a MacKinlay Kantor, autore della storia originale – da Dalton Trumbo, all'epoca nella lista nera del maccartismo e dunque costretto a far accreditare il proprio lavoro a Millard Kaufman. Lo script, mai moralista, approfondisce i protagonisti (in particolare quello maschile) mostrandone tutte le contraddizioni e i contrasti interiori (l'indole pacifica, la costrizione alla violenza, il desiderio di fuga) e accentuando l'empatia con lo spettatore. Anche se Annie è ascrivibile a ben diritto alla categoria delle femme fatale, le donne che portano gli uomini alla perdizione, la scelta del titolo italiano (o di quello inglese alternativo, "Deadly is the Female") di spostare l'attenzione tutta su di lei è forse un po' esagerata, visto che il centro del film rimane sempre Bart, o al limite la coppia nel suo insieme. Visivamente la pellicola è spettacolare, grazie alla fotografia di Russell Harlan (più luminosa e solare della media per un noir) e all'ottima regia di Lewis, vigorosa, mai banale e capace di soluzioni spesso in anticipo sui tempi (da ricordare, per esempio, la scena della rapina in banca girata in un unico piano sequenza, con la macchina da presa collocata nel retro dell'automobile di Bart e Annie; pare che durante la scena in questione i due attori furono invitati a improvvisare i dialoghi, e che nessuno – a parte gli attori stessi, naturalmente – sapesse che si trattava di un film: si spiega così la reazione spaventata di alcuni passanti). Fra le sequenze memorabili c'è l'incipit, con il furto della pistola da parte di un Bart quattordicenne e il successivo flashback che mostra il suo terrore dopo la morte del pulcino, illustrando di fatto la perdita dell'innocenza; lo "show" circense di Annie in occasione del primo incontro fra i due innamorati; e la fuga finale sulle montagne, con la resa dei conti finale in mezzo alla nebbia, in un'atmosfera sospesa e irreale, quando i due si giurano amore anche di fronte alla morte imminente. In generale, gran parte del film fu girato in esterni e per le strade, anziché in studio, e questo dona un tocco particolarmente vivo e realistico alle molte sequenze di fuga e di inseguimento in auto (paradossalmente, lo scarso budget a disposizione – che impedì per esempio a Lewis di usare la collaudata tecnica della proiezione su un retroschermo – finì col giovare alla pellicola).