30 maggio 2015

Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015)

Mad Max: Fury Road (id.)
di George Miller – Australia/USA 2015
con Tom Hardy, Charlize Theron
***1/2

Visto al cinema Orfeo, con Monica e altra gente.

A distanza di trent'anni, George Miller torna sorprendentemente al personaggio con cui aveva esordito, sfornando un quarto capitolo della saga che surclassa tutti i precedenti (nonché buona parte dell'odierno cinema hollywoodiano d'azione) per adrenalina, intrattenimento, energia e ritmo, il tutto senza sacrificare i personaggi e le loro motivazioni. Praticamente il regista ha preso il "pezzo forte" dei lungometraggi antecedenti (ovvero gli inseguimenti finali, che occupavano i 20-30 minuti conclusivi dei film del 1981 e del 1985) e lo ha esteso per l'intera durata della pellicola, realizzando un manifesto del cinema d'azione che consiste essenzialmente in una corsa continua e forsennata nel deserto con inseguimenti e battaglie senza esclusione di colpi, senza un attimo di tregua e senza tempi morti. L'ambientazione post-apocalittica, barbarica e violenta che ha sempre contraddistinto la saga (con tanto di personaggi sopra le righe, ma caratterizzati alla perfezione con pochissimi tocchi di scrittura) fa il resto: e il divertimento non manca, anche perché la sceneggiatura mette da parte ogni tipo di zavorra concettuale e ideologica (il politically correct, per esempio: qui non c'è scampo per nessuno, e nemmeno donne incinte, bambini o vecchiette possono dirsi al sicuro) per concentrarsi sull'azione sfrenata e su una trama, come al solito, semplicissima ma coinvolgente e che va dritta al punto. Nel ruolo del protagonista, l'ex poliziotto Max Rockatansky divenuto vagabondo che lotta per la propria sopravvivenza ma che, in un modo o nell'altro, si trasforma sempre in un eroe riluttante destinato a salvare gli altri (e ad allontanarsi nel finale dopo averlo fatto, come se per lui non ci possa essere mai un luogo dove fermarsi e riposare: un perfetto "eroe senza nome" da film western, insomma), non c'è più Mel Gibson (ormai "troppo vecchio" per la parte) ma un azzeccato Tom Hardy, che fra l'altro era già stato protagonista di un altro film interamente on the road, ovvero il bellissimo "Locke". Il suo Max, taciturno e individualista come sempre, è ancora più "pazzo" di quello di Gibson, giustificando ad un ulteriore livello il suo soprannome: "sente le voci" e ha improvvise visioni di coloro che ha amato e non ha potuto salvare, lampi che alludono al suo passato (per chi ha visto i film precedenti) ma che non appesantiscono il personaggio, o la sua vicenda, per i neofiti (come tutti i film della saga, anche questo è perfettamente godibile da solo; la continuity della serie sembra azzerarsi ogni volta: qui all'inizio, per breve tempo, Max ha addirittura nuovamente la sua V8 Interceptor).

Se Max non è mai stato così "Mad" (persino all'interno di un mondo ancora più folle di lui), al suo fianco c'è una strepitosa Charlize Theron, forse nel ruolo finora più convincente della sua carriera, nei panni di Furiosa: al tempo stesso violenta guerriera e fragile donna in cerca di redenzione, di un rifugio e (lo si capisce dallo sguardo) di amore. Proprio lei mette in moto la vicenda quando fugge dalla Cittadella governata dall'anziano tiranno-patriarca Immortan Joe, portando via con sé (a bordo di una "blindo-cisterna") le sue cinque concubine, con l'intenzione di attraversare il deserto in cerca di una vita migliore. Joe scatena tutte le sue truppe all'inseguimento, composte in gran parte dai suoi "figli di guerra", giovani emi-vita che si lanciano incontro alla morte con il sorriso (cromato!) sulle labbra, pronti all'appuntamento con il Valhalla (e fra questi rimane memorabile Nux, interpretato da un eccellente Nicholas Hoult, vero e proprio terzo protagonista della storia). Nella lotta è naturalmente coinvolto anche il nostro Max, che non tarderà a mettersi dalla parte delle fuggitive. La sequela di corse, inseguimenti, scontri e battaglie procede senza soluzione di continuità dall'inizio alla fine del film, con non pochi colpi di scena che sarebbe un peccato anticipare. Mai come in questo caso, comunque, la forma e il contenuto si fondono, con la prima in grado di veicolare il secondo (che non è assente, attenzione). A questo proposito, fondamentale e spettacolare l'estetica della pellicola, con una fotografia che sfrutta fino in fondo la tavolozza di colori digitali (il giallo e il rosso del deserto, il blu della notte) per mettere in scena un mondo di sabbia, sangue, ferro e fuoco, e un montaggio che si nutre del turbinio di motori rombanti e ruote fumanti, mentre i personaggi si battono con armi di ogni tipo, dai fucili ai pugnali, dagli arpioni alle catene, senza lasciare la presa sui volanti a forma di teschio. Come dicevo, memorabili tutti i personaggi, anche quelli minori, i cattivi in caccia come le vecchiette motorizzate; e in mezzo a tanti barbari mostruosi e deformi, l'aspetto angelico delle cinque mogli di Joe è incredibilmente straniante: per la cronaca, si tratta delle modelle Rosie Huntington-Whiteley, Zoë Kravitz (figlia di Lenny), Riley Keough (nipote di Elvis Presley), Abbey Lee Kershaw e Courtney Eaton. Fra le figure più kitsch, merita però una menzione il chitarrista che accompagna gli inseguitori, fornendo loro una colonna sonora diegetica a base di hard rock (ma nella soundtrack, per inciso, c'è anche il "Dies irae" dal Requiem di Verdi). Grande successo di critica e di pubblico, e strada sicuramente spianata per ulteriori sequel.

29 maggio 2015

Mad Max: Oltre la sfera del tuono (Miller, Ogilvie, 1985)

Mad Max - Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome)
di George Miller, George Ogilvie – Australia 1985
con Mel Gibson, Tina Turner
**

Rivisto in divx.

Il terzo (e per lungo tempo rimasto l'ultimo) film della serie di "Mad Max", è per molti versi il più debole della saga, sicuramente il meno originale. Ritrae un mondo ancora più barbarico di quello dei film precedenti, forse perché sono trascorsi più anni dalla guerra nucleare che ha sconvolto il pianeta: ora persino l'acqua è una risorsa preziosa, e i pochi avamposti di "civiltà", come la città di Bartertown che fa da sfondo alla prima parte della pellicola, si basano sul baratto e sulla legge del più forte. Il comando di Bartertown è conteso fra la corrotta Aunty (Tina Turner), che gestisce i commerci e l'ordine pubblico, e il nano Master (Angelo Rossitto), direttore della fabbrica che fornisce energia alla città (attraverso il metano prodotto dallo sterco dei maiali: una metafora fin troppo esplicita!). Aunty chiede a Max di sconfiggere per suo conto Blaster, la colossale guardia del corpo di Master, attraverso un duello nella Thunderdome, la gabbia-arena al centro della città. Il nostro eroe finisce però per tradire la fiducia della donna, che lo esilia così nel deserto. Qui incontrerà una tribù di ragazzini che vivono in una piccola oasi, una pozza d'acqua circondata dalle rocce, e li guiderà verso una nuova dimora. Come al solito i collegamenti con i film precedenti sono esili o contraddittori (abbiamo addirittura un personaggio, l'aviatore interpretato da Bruce Spence, che torna dalla seconda pellicola ma che non riconosce Max, né è riconosciuto da quest'ultimo), il che è forse un vantaggio perché consente di godersi ogni singolo episodio come se si trattasse di un reboot della saga. Il problema però è che stavolta manca l'originalità (tanto lo scenario della città perduta, quanto quello della tribù dei bambini, non sono particolarmente innovativi all'interno del filone post-apocalittico) ed è assente anche l'energia delle stimolanti sequenze d'azione e di corsa su auto o moto. Solo nel finale abbiamo un inseguimento che prova a imitare quello del film precedente, stavolta a un treno anziché a un'autocisterna, ma l'effetto è decisamente in tono minore. Per il resto la serie sembra ammantarsi di atmosfere new age, con i bambini che mettono Max e gli aeroplani al centro di una religione non dissimile dai "cargo cult" di certi indigeni del Pacifico. Proprio la presenza della tribù dei bambini (che ricordano anche i "bimbi perduti" di Peter Pan) rischia di infantilizzare un po' il setting, come invece non accadeva con il Feral Kid del secondo film per via della sua furia selvaggia. Ma quella dell'abbassamento dell'età del target era un po' una tendenza del cinema fantastico dei primi anni ottanta (si pensi anche a "Il ritorno dello Jedi"). Byron Kennedy, il produttore storico della serie, era scomparso in un incidente di elicottero durante la fase di pre-produzione della pellicola, e Miller ne fu talmente sconvolto da meditare persino di non dirigere più il film: alla fine scelse di farsi aiutare dall'amico George Ogilvie, che dunque figura come co-regista. Oltre che recitare nel ruolo di Aunty, Tina Turner canta due canzoni, fra cui "We Don't Need Another Hero (Thunderdome)" sui titoli di coda. Nota finale: finalmente anche i titoli italiani cominciano a mettere in rilievo il nome del protagonista; d'altronde la V8 Interceptor era andata distrutta nella pellicola precedente.

27 maggio 2015

Interceptor - Il guerriero della strada (G. Miller, 1981)

Interceptor - Il guerriero della strada
(Mad Max 2: The Road Warrior)
di George Miller – Australia 1981
con Mel Gibson, Bruce Spence
***1/2

Rivisto in divx.

Dopo una guerra nucleare che ha devastato il pianeta, il mondo è piombato nella barbarie, una sorta di nuovo medioevo in cui la legge e l'ordine non esistono più, imperano saccheggi e violenze, e la risorsa più importante è il carburante (persino più, pare, delle riserve alimentari: per quelle, basta sfamarsi con il cibo per cani, come mostra una delle scene più memorabili all'inizio del film). Max (Gibson), ex agente di polizia, vaga ora per le strade del deserto australiano (ribattezzate "Le terre perdute") a bordo della sua V8 Interceptor, senza più obiettivi se non la sopravvivenza giorno per giorno. L'incontro con un bizzarro pilota di elicotteri (Bruce Spence) lo porta a scoprire un insediamento fortificato i cui abitanti riescono ad estrarre petrolio e a raffinarlo, sperando di accumularne abbastanza per fuggire verso il mare (a duemila miglia di distanza) e un futuro migliore. Nonostante l'iniziale riluttanza, Max si unirà a loro per aiutarli a sconfiggere la banda di violenti predoni che assedia l'accampamento (guidati dal malvagio Lord Humungus). Dopo l'inatteso ed enorme successo del film a basso costo "Mad Max" (da noi intitolato "Interceptor": e l'assenza di un numero 2 nel titolo italiano del sequel porterà spesso a confondere le due pellicole), Miller ebbe a disposizione un budget decisamente più elevato per realizzarne il seguito, riuscendo così a portare sullo schermo in maniera compiuta quell'ambientazione post-apocalittica che aveva sempre avuto in mente e che entrerà a far parte dell'immaginario collettivo degli anni ottanta e oltre (si pensi, in particolare, alla serie di "Ken il guerriero", che a questo film è debitore per gli scenari, le atmosfere e numerosi personaggi). Rispetto al prototipo il registro è differente, più cupo ma anche più bizzarro, come mette subito in chiaro la voce epica di un narratore in stile Conan il Barbaro (e solo alla fine del film sapremo a chi appartiene quella voce da anziano), che riepiloga velocemente gli eventi del primo film e fornisce vaghe informazioni sullo scenario in cui si muovono i personaggi.

Nonostante la scarsità di dettagli, proprio l'ambientazione è il formidabile punto di forza della pellicola: raramente la fine della civiltà e l'avvento di una nuova barbarie, in cui la vita umana non ha più valore e le forme di aggregazione sociale seguono regole differenti, erano state rappresentate con tale efficacia. A essa contribuiscono i personaggi, in particolar modo i cattivi, predoni motorizzati che vanno oltre le semplici bande di motociclisti visti in precedenza: l'abbigliamento, le maschere, il linguaggio e l'atteggiamento ne fanno qualcosa a metà strada fra i punk, i wrestler, i gladiatori e i barbari medievali, con connotazioni fra l'altro omoerotiche (uno dei cattivi, Wez, è indubbiamente legato a uno dei suoi compagni; lo stesso Humungus sfoggia una tenuta, maschera a parte, quasi sadomaso), e la mancanza di informazioni su di loro e sul loro passato non fa che accentuarne la sensazione di pericolosità, peraltro confermate da diverse scene che li vedono mettere in pratica stupri e violenze. Ma in generale, con pochi tocchi (eccezionale soprattutto il lavoro sui costumi), Miller riesce a caratterizzare in maniera sorprendente tutti i personaggi, anche quelli minori, fra i "buoni" così come fra i "Vermi" (come si chiamano i predoni). Basti pensare allo stesso Spence (il pilota di elicotteri, con cuffia e occhiali da aviatore), alla ragazza guerriera, al bambino selvaggio con il boomerang, e ad altri ancora. Il lavoro di regia con la camera car, il ritmo e il senso dell'azione (già ammirati nel primo film) salgono di livello e culminano nella mezz'ora finale, la lunga e ininterrotta sequenza d'azione con l'inseguimento alla motrice, guidata da Max, che trasporta la cisterna piena del prezioso carburante. Gibson incarna alla perfezione l'eroe riluttante e taciturno, quasi inespressivo, dal passato misterioso (in particolare per chi non avesse visto la pellicola del 1979), pronto a salvare gli altri ma non sé stesso: una vera e propria figura iconica, da paragonare a tanti eroi del western. All'epicità dell'insieme contribuisce anche il commento musicale di Brian May.

26 maggio 2015

Interceptor (George Miller, 1979)

Interceptor (Mad Max)
di George Miller – Australia 1979
con Mel Gibson, Joanne Samuel
**1/2

Rivisto in divx.

In un futuro non molto distante, in cui le risorse e le materie prime cominciano a diminuire, gli agenti della Main Force Patrol (MFP) mantengono a fatica l'ordine sulle strade. Uno di questi poliziotti, Max Rockatansky (un Gibson praticamente al debutto), deve fronteggiare una feroce banda di motociclisti drogati e psicopatici che hanno ucciso il suo collega Goose. Quando i banditi se la prendono anche con sua moglie e suo figlio, Max diventa "pazzo" e scatena la sua vendetta... Il primo film della saga di "Mad Max", nonché pellicola d'esordio del regista australiano George Miller, fu ai suoi tempi uno dei più grandi successi economici della storia del cinema (detenne il record di film con il maggior rapporto fra incassi e costi fino al 1999, anno di "Blair Witch Project"). Girato con pochissimi mezzi (e si vede), portò all'attenzione di tutto il mondo il suo autore, la sua star e un mondo post-apocalittico che a partire dagli episodi successivi avrebbe influenzato profondamente l'immaginario popolare (dal cinema hollywoodiano ai manga giapponesi). Qui, a dire il vero, le potenzialità si intravedono appena: siamo di fronte a una pellicola non molto lontana da quelle di exploitation degli anni settanta, a base di violenza e di vendette, ovviamente on the road. La prima parte, incentrata sulle operazioni dei poliziotti per tenere pulite le strade, è caratterizzata dal blando sfondo distopico e fantascientifico, alla "Judge Dredd" se vogliamo (dove alla violenza dei teppisti corrisponde quella degli agenti, senza alcun approfondimento o riflessione di natura etica o sociale), ma sconta la povertà del budget che si riflette nelle scenografie (essenzialmente solo strade di campagna) e nei costumi (gli agenti della MPF sono vestiti con giubbotti di pelle). Meglio invece la seconda parte, quella in cui Max dà le dimissioni da agente e parte per una breve vacanza con la sua famiglia: incrocerà nuovamente la strada dei banditi e gli eventi precipiteranno piuttosto in fretta. Nonostante tutto, quello che conta non è né l'ambientazione (lasciata quantomeno nel vago, ed è un eufemismo: a tratti non sembra di trovarsi in un mondo così distante dal nostro), né la tecnologia (auto e moto genericamente "potenziate", come la macchina con motore V8 e compressore volumetrico usata da Max nel finale), ma solo gli esseri umani e le loro emozioni primordiali (rabbia, follia, desiderio di pace o di vendetta). Gibson venne scelto come protagonista quasi per caso: aveva accompagnato ai provini l'amico Steve Bisley (poi scelto per il ruolo di Goose) e fu notato perché i postumi di una rissa in un bar, avvenuta la sera prima, gli davano un aria da duro e da "freak". Fu perciò scritturato come uno dei cattivi, ma quando le ferite al volto guarirono si ritrovò a recitare nella parte dell'eroe. Per il suo successo a partire da una pellicola artigianale e a basso costo, nonché per il talento visionario e creativo (visibile soprattutto nelle scene d'azione), Miller – anche sceneggiatore – può essere accostato ad altri grandi registi dell'horror e del fantastico che hanno mosso i primi passi nello stesso modo: Wes Craven, Sam Raimi e Peter Jackson. Il distributore italiano scelse malauguratamente di intitolare il film con il nome della vettura guidata da Max, anziché mantenere quello del protagonista stesso: un errore che si trascinerà nel sequel (intititolato da noi "Interceptor - Il guerriero della strada") e a cui si rimedierà solo con il terzo capitolo ("Mad Max - Oltre la sfera del tuono").

23 maggio 2015

Youth - La giovinezza (Paolo Sorrentino, 2015)

Youth - La giovinezza
di Paolo Sorrentino – Italia 2015
con Michael Caine, Harvey Keitel
***

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

In un isolato albergo con centro benessere fra i monti della Svizzera, l'anziano compositore e direttore d'orchestra Fred Ballinger (Michael Caine) trascorre alcune settimane di vacanza in compagnia della figlia Lena (Rachel Weisz), reduce dalla separazione col marito, e dell'amico regista Mick Boyle (Harvey Keitel). Fred afferma di essersi "ritirato dal lavoro e dalla vita": si oppone alla richiesta di scrivere le sue memorie (come vorrebbe un editore francese), rifiuta di dirigere un concerto a Londra davanti alla regina Elisabetta e al principe Filippo (perché le sue "canzoni semplici", che aveva composto per la moglie, non devono essere interpretate da altri), e in generale sembra aver rinunciato ad amare ("Le emozioni sono sopravvalutate"). Al contrario, Mick è al lavoro con un gruppo di giovani sceneggiatori per preparare un nuovo film, che dovrà essere il suo "testamento spirituale". Ma le passeggiate in montagna e gli incontri con gli altri ospiti dell'albergo porteranno Fred a riflettere sul tempo, sui ricordi e sulla vecchiaia: e osservando il vicolo cieco in cui si ritrova Mick (il quale, quando la sua attrice-musa Brenda rifiuta di fare il film, scopre di non avere più altro davanti a sé), alla fine accetterà di lasciarsi il passato alle spalle. Dopo il successo de "La grande bellezza", Sorrentino torna ai suoi temi favoriti (il tempo, la vecchiaia, la decadenza) ma li affronta da un nuovo punto di vista e con un respiro differente. Qui l'argomento centrale è proprio il tempo, il contrasto fra il passato (con i suoi ricordi che svaniscono, le glorie, i piccoli episodi acquistano un diverso significato) e il futuro (quello dei figli, quello del proprio lascito artistico). E Fred, osservando l'amico Mick che si rivelerà incapace di liberarsi dei fantasmi del tempo andato (fondamentale la scena in cui il regista, attraverso il telescopio del rifugio alpino, spiega ai giovani colleghi come da vecchi si guarda tutto all'indietro e da lontano), sceglierà invece di andare avanti. La pellicola, comunque, ha un respiro corale, grazie allo spazio che dedica a tutti gli altri ospiti dell'albergo, tutti in qualche modo legati al proprio passato: un attore (Paul Dano) in cerca di ispirazione per il suo nuovo personaggio (nientemeno che Adolf Hitler, che proprio sulle Alpi aveva una casa di vacanze), che a sua volta vorrebbe dimenticarsi di una parte della sua carriera (un ruolo in un film di fantascienza che gli ha dato la celebrità suo malgrado); una coppia che apparentemente non ha più nulla da dirsi, visto che resta in silenzio durante tutta la sua permanenza; gruppi di arabi o di russi dall'aspetto enigmatico; un misterioso monaco buddhista in perenne meditazione; una giovane escort accompagnata dalla madre; e nientemeno che Diego Armando Maradona (interpretato dall'attore argentino Roly Serrano), ingrassato a dismisura, che sogna la propria gloria passata (mentendo alla compagna: "A cosa stavi pensando?" "Al futuro") e palleggia con una pallina da tennis.

Curiosamente, sono invece i personaggi più giovani (il bambino violinista, la ragazzina nel negozio di orologi, la sorprendente Miss Universo) a dare loro lezioni di saggezza su come rinunciare ai rimpianti e accettare tutte le cose che formano il proprio passato, in quanto hanno contribuito a fare di loro quello che sono adesso, anziché rinnegarle, rimuoverle o considerarle barriere insuperabili. E che è importante cogliere l'attimo, anche perché spesso la vita pone ostacoli inaspettati con cui bisogna fare i conti (necessità pratiche o economiche, come quelle che spingono Brenda a rifiutare il film di Mick in favore di una serie televisiva di bassa qualità; problemi fisici, come quelli che "appesantiscono" Maradona e deformano il suo magico sinistro; in generale l'imprevisto, come la separazione di Lena dal marito alla vigilia di una vacanza; o semplicemente la vecchiaia, come nel caso di Fred e Mick) e che contrastano con quegli ideali di arte e di perfezione che i nostri protagonisti sognano invano (persino la tanto attesa Miss Universo, alla sua prima apparizione, non sembra granché: spettinata, disordinata, con un herpes... ma più tardi, in piscina e al momento giusto, la sua incarnazione della bellezza esploderà in tutto il suo fulgore, proprio come se fosse la natura stessa). Esteticamente suggestivo, il film – il secondo girato da Sorrentino in lingua inglese (dopo "This must be the place") – conferma il regista come il più talentuoso dei nostri autori dal punto di vista tecnico: la fusione di sogni, ricordi, immagini del presente e si attua in una serie di quadri da ricordare (Fred che "dirige" i campanacci delle mucche e i rumori della natura; Mick che incontra sui prati le cinquanta attrici con cui ha lavorato in precedenza; Lena che sogna un videoclip di Pamela Faith, la popstar che le ha rubato il marito; e ancora, le sessioni di massaggi, le canzoni e gli spettacoli serali, e in generale il panorama alpino). Nel ricco cast, Jane Fonda è Brenda, l'attrice-musa di Mick; Madalina Ghenea è Miss Universo; Luna Zimic Mijovic è la giovane massaggiatrice; Robert Seethaler è l'alpinista che "riaccende" la passione di Lena. Roly Serrano, che interpreta Maradona, sfoggia un incredibile tatuaggio di Karl Marx sulla schiena (nella realtà il "pibe de oro" ha il volto di Che Guevara tatuato su un braccio). Nel ruolo di sé stessi compaiono la popstar Pamela Faith, il cantante Mark Kozelek e la soprano Sumi Jo. La pellicola è stata girata allo Schatzalp Hotel di Davos, lo stesso albergo citato da Thomas Mann ne "La montagna incantata". Bella la colonna sonora di David Lang (che ingloba anche brani di Igor Stravinsky, la cui tomba a Venezia è visitata da Fred nel finale).

22 maggio 2015

French kiss (Lawrence Kasdan, 1995)

French kiss (id.)
di Lawrence Kasdan – USA 1995
con Meg Ryan, Kevin Kline
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Per riprendersi il fidanzato Charlie, che durante un viaggio in Francia si è infatuato di una ragazza del luogo, la repressa Kate (Meg Ryan) supera la paura di volare (nonché l'odio per i francesi e per i loro formaggi!) e si reca a Parigi. Qui scoprirà che in fondo Charlie non era l'uomo giusto per lei, e dopo un'iniziale dose di bisticci si innamorerà invece di Luc Teyssier (Kline), affascinante mascalzone e aspirante vignaiolo incontrato in aereo, che le sta allo costole perché ha nascosto una collana rubata nella sua borsa per poter superare la dogana. Prodotto dalla stessa Meg Ryan, una commedia romantica che, a fronte di una trama prevedibile e banale (per nulla dissimile da un'infinità di pellicole del genere), può almeno contare sul buon comparto attoriale (dove brilla in particolare Kline) e su scenari che non deludono mai come quelli di Parigi, della campagna francese e di Cannes (anche se, naturalmente, si tratta di una Francia come la vede Hollywood: irrealistica, romantica, e del tutto stereotipata). Il ruolo di Kline era stato pensato originariamente per Gérard Depardieu. Nel cast anche Jean Reno (il poliziotto che dà la caccia a Luc ma è anche suo amico), Timothy Hutton (Charlie, il fidanzato di Kate) e Susan Anbeh (Juliette, la sua nuova fiamma). Lo sceneggiatore Adam Brooks è l'uomo seduto a fianco a Luc e Kate in aereo. Nella colonna sonora spicca "Via con me" di Paolo Conte, che si sente mentre Kate vaga da sola per le strade di Parigi. La regia di Kasdan, abbastanza anonima, ha almeno il pregio di lasciar fluire la storia, senza sottolinearne i passaggi più scontati e anzi arricchendola di piccole trovate (come quando Kate "manca" ripetutamente di vedere la Torre Eiffel). Ma chi cerca realismo od originalità si tenga alla larga (o smetta di vedere il film dopo la prima metà).

19 maggio 2015

Il racconto dei racconti (M. Garrone, 2015)

Il racconto dei racconti (Tale of Tales)
di Matteo Garrone – Italia 2015
con Salma Hayek, Vincent Cassel
***

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, Daniela e Alessandro.

"Lo cunto de li cunti" è una raccolta di cinquanta fiabe popolari, scritta in napoletano nel 1600 da Giambattista Basile. Garrone sceglie di adattarne tre, che si alternano sullo schermo con i loro motivi e i loro simboli, sullo sfondo di un mondo barocco e incantato. Nella prima favola ("La regina"), il desiderio di avere un figlio è forte a tal punto che una sovrana (Salma Hayek) fa ricorso alla magia per ottenerlo: contemporaneamente, però, una giovane serva dà la luce a un ragazzo identico al principe. I due gemelli (Christian e Jonah Less) crescono come amici inseparabili. E quando la regina scaccerà dal regno il figlio della serva, il giovane principe – allertato da una sorgente magica, la limpidezza della cui acqua lo avvisa dello stato di salute dell'amico – partirà alla sua ricerca. Nella seconda ("La pulce"), una principessa (Bebe Cave) sogna di sposarsi e di lasciare il castello dove è sempre vissuta. Suo padre (Toby Jones), però, è costretto a concedere la sua mano a un mostruoso orco, l'unico che ha saputo indovinare da quale animale proviene la pelle che il sovrano ha steso nella sala del trono (ovvero da una pulce!). Nella terza ("Le due vecchie"), un re lascivo (Vincent Cassel) si innamora di Dora (Hayley Carmichael) dopo averla udita cantare, ignorando che non si tratta di una giovinetta ma di una vecchia. Grazie a una strega, Dora tornerà magicamente giovane (Stacy Martin) e sposerà il re, scatenando l'invidia della sorella Imma (Shirley Henderson). Un cast internazionale (ci sono anche John C. Reilly, Guillame Delaunay, Alba Rohrwacher e Massimo Ceccherini) e una confezione che poco ha da invidiare ai fantasy hollywoodiani (la fotografia di Peter Suschitzky, le musiche "elfmaniane" di Alexandre Desplat) per un film che in realtà è assai distante per ritmo e contenuti dalle pellicole di intrattenimento adolescenziale: proprio come le fiabe di Basile (che, nonostante il sottotitolo "lo trattenemiento de peccerille", sono più adatte ai lettori adulti), la pellicola presenta un complesso substrato di significati psicologici e dinamici, per non parlare di connotazioni quasi horror secondo i criteri odierni. Girato in spettacolari e celebri location dell'Italia centrale e meridionale (si riconoscono le gole di Alcantara, la fortezza di Castel del Monte, il castello di Donnafugata con il labirinto, Civita di Bagnoregio, il castello di Roccascalegna, quello di Sammezzano, e il Palazzo Reale di Napoli), il film dà vita a un microcosmo suggestivo e caleidoscopico, popolato da creature fantastiche (il drago d'acqua, mostri vari), orchi, maghi e streghe, ma soprattutto da esseri umani i cui desideri e i peccati, i vizi e le virtù, sono spesso pronti a essere puniti dal destino. Come nei precedenti lavori di Garrone (si pensi a "Primo amore" o a "Reality"), uno dei temi principali è l'ossessione o il desiderio di qualcosa che, forse, sarebbe meglio non ottenere ("Sta attento a cosa desideri", diceva Oscar Wilde), che si tratti di un figlio, di un marito o della giovinezza (spesso raggiunti attraverso una magia che chiede sempre un prezzo in cambio di ciò che concede). Altro tema è quello dell'abbandono, o dell'incapacità di accettare una separazione (la regina non riesce a separarsi dal figlio, la vecchia Imma dalla sorella, il re dalla sua pulce domestica, alla quale sembra più interessato che non alla figlia). Il montaggio alterna le tre storie, che non si incrociano mai: gli unici momenti in cui si sfiorano sono quelli in cui – in occasione di un funerale, di un matrimonio o di un'incoronazione – i sovrani dei regni vicini si presentano nei castelli dei propri confinanti.

18 maggio 2015

Ted (Seth MacFarlane, 2012)

Ted (id.)
di Seth MacFarlane – USA 2012
con Mark Wahlberg, Mila Kunis
**1/2

Visto in divx, con Sabrina.

La notte di Natale, John Bennett, un bambino senza amici, esprime il desiderio che l'orsacchiotto di peluche che ha appena ricevuto in regalo prenda vita. E viene magicamente esaudito. Per breve tempo "Ted" diventa una celebrità, ma poi l'opinione pubblica lo dimentica. Venticinque anni dopo, ai giorni nostri, ritroviamo John e Ted che vivono ancora insieme, sempre amici come si erano promessi: ma l'ingombrante presenza dell'orsacchiotto (che ora parla sboccato e si dà ai festini con escort e alle droghe leggere) rischia di mettere a repentaglio il rapporto fra l'uomo e la sua fidanzata Lori, che lo accusa di essere rimasto un bambino. Seth MacFarlane, creatore di tante serie animate di successo (fra cui "I Griffin" e "American Dad"), si lancia nel cinema con una commedia che aggiorna il filone del bromance coniugandolo con la bizzarria di classici come "Harvey". Forse non tutte le battute vanno a segno, ma bisogna ammettere che – nonostante la situazione di partenza sia quantomeno eccentrica – la pellicola non deraglia mai e si rivela al tempo stesso divertente e intelligente, anche nel portare sullo schermo i punti di vista contrapposti dei suoi personaggi (non solo riguardo all'amicizia fra John e Ted, ma anche alla relazione di coppia fra John e Lori) sui temi della crescita e dell'eterno adolescente. Funzionale alla trama, ma anche ottimamente caratterizzante, è l'aura nostalgica che circonda i nostri amici, rimasti ancorati all'immaginario mediatico di quei primi anni ottanta in cui sono cresciuti: non si contano le citazioni e i riferimenti a "Guerre stellari", "Indiana Jones", "Alien" (Tom Skerritt!), "Octopussy", "Supercar", ma soprattutto al "Flash Gordon" di Mike Hodges, il cui protagonista Sam J. Jones è l'idolo di John e Ted e si concede un paio di divertenti comparsate autoironiche. MacFarlane dà vita in prima persona all'orsacchiotto con la tecnica del motion capture (e gli fornisce la voce, nella versione originale): memorabile la scena della scazzottata fra i due amici. Relativa al doppiaggio (ma anche alla paternità del film e del cartoon) è la battuta di Ted che afferma "Mica ho la voce come quella di Peter Griffin": sia in inglese, MacFarlane appunto, sia in italiano, Mino Caprio, il doppiatore è invece lo stesso. Da segnalare anche un'altra battuta, che sembra un'ammissione da parte di MacFarlane stesso: "La tv mi ha rotto le palle!" (nel film, però, da intendersi alla lettera!). Bravo Wahlberg (che in una meta-gag finge di non saper cantare), splendida (e che lo dico a fare) Mila Kunis. Nei panni di sé stessa compare anche Norah Jones. Il buon successo di pubblico e di critica ha spinto MacFarlane a mettere in cantiere un seguito.

17 maggio 2015

La vedova del pastore (Carl T. Dreyer, 1920)

La vedova del pastore (Prästänkan)
di Carl Theodor Dreyer – Svezia 1920
con Einar Röd, Hildur Carlberg
***

Visto su Dailymotion.

Il secondo lungometraggio di Dreyer (girato in Svezia, a quei tempi industria cinematografica più "avviata" di quella danese) è considerato dalla critica il suo "primo vero film", nonostante sia ancora privo di quel rigore psicologico e formale che lo contraddistinguerà in seguito, e presenti invece alcune caratteristiche insolite per il regista, prima su tutte un diffuso sense of humour che ne fa a tratti una commedia più che un dramma. Tratto da un racconto del 1879 dello scrittore norvegese Kristofer Janson, parla di un giovane e povero studente di teologia, Sofren, che si propone per il posto di parroco in un villaggio isolato fra le montagne, il cui pastore è da poco deceduto. A spingerlo a ottenere l'incarico è anche l'amore: il padre della sua fidanzata Mari, infatti, gli consentirà di sposarla soltanto se diventerà parroco. Dopo aver superato la concorrenza di altri due pretendenti, viene selezionato dai notabili del luogo, ma a una condizione: dovrà sposare la vedova del precedente pastore, l'anziana Dama Margarete, che non intende abbandonare la casa dove ha sempre vissuto. Messo alle strette, Sofren accetta, sperando che la donna abbia ancora poco da vivere. Ma Margarete, sui cui girano voci di stregoneria, non sembra intenzionata ad abbandonare tanto presto questo mondo... Punteggiato da scenette comiche (tutta la sequenza delle "audizioni" dei vari pretendenti al posto di parroco; le sfortunate interazioni di Sofren con i due servi di Margarete; il buffo travestimento notturno da diavolo con cui il giovane spera di spaventare a morte la vecchia; i suoi tentativi di trascorrere alcuni momenti da solo con Mari, che nel frattempo ha fatto accogliere in casa spacciandola per sua sorella...), la pellicola culmina in un finale commovente e consolatorio, in cui il personaggio della "strega" Margarete acquista profondità, rivedendo in Mari sé stessa da giovane e lasciando finalmente via libera ai due giovani amanti, anzi benedicendoli. Dopo aver tanto desiderato la sua morte, Sofren e Mari la ricorderanno con affetto. Molti elementi del film sono tipici del cinema scandinavo di quegli anni: una fonte letteraria assai nota, tipicamente tardo ottocentesca; un pizzico di soprannaturale o di superstizione (qui i poteri magici di Margarete); una grande attenzione agli aspetti umani e psicologici dei personaggi, alle prese con dilemmi di natura morale o sociale. Bella la scenografia (l'antico villaggio norvegese del diciassettesimo secolo, con la sua chiesa e le case di legno, era stato ricostruito in Norvegia da un appassionato: Dreyer in pratica se lo trovò già pronto): la difficoltà di piazzare la macchina da presa in un punto fisso, a causa delle pareti delle case, costrinse il regista a spostarla di continuo, "riprendendo i personaggi da ogni lato", a tutto vantaggio della dinamicità della messa in scena. Nel comparto degli interpreti, da sottolineare la prova della settantaseienne attrice teatrale Hildur Carlberg, che morì poco dopo la fine delle riprese, senza mai aver visto il film completato.

16 maggio 2015

Sangue gitano (Ernst Lubitsch, 1918)

Sangue gitano (Carmen)
di Ernst Lubitsch – Germania 1918
con Pola Negri, Harry Liedtke
**

Visto su YouTube.

Se fino al 1918 Lubitsch aveva diretto essenzialmente solo commedie satiriche, da quell'anno – anche su pressione del produttore Paul Davidson dell'UFA – cominciò a realizzare anche ambiziosi drammi in costume, per lo più con protagonista Pola Negri, diva di origine polacca, scoperta a teatro dallo stesso Lubitsch. Dopo il primo film insieme, il thriller "Gli occhi della mummia", fu la volta di questo adattamento della "Carmen" di Prosper Mérimée (anche se, come l'opera di Bizet, ne mette in scena soltanto la terza parte). Il personaggio era già stato portato al cinema, fra gli altri, da Raoul Walsh e Cecil B. DeMille nel 1915: ma la versione di Lubitsch è più imponente e sfarzosa, con numerose comparse e scene di massa (la folla per le strade di Siviglia), e sfocia a tratti nell'epica su grande scala (vedasi lo scontro fra i soldati e i banditi sulle montagne). E questo nonostante la sceneggiatura – che pure si prende il suo tempo per caratterizzare a fondo i personaggi – non sia particolarmente vivace od originale: anche la regia non è troppo ispirata, con Lubitsch che sembra più a suo agio nelle scene minori e da commedia (come i tentativi di Carmen di "intrattenere" il guardiano della prigione in cui è rinchiuso José) che non nei passaggi chiave e melodrammatici. Complessivamente la trama è più fedele al materiale di partenza rispetto alle versioni precedenti: c'è anche una "cornice", all'inizio e alla fine, in cui uno zingaro racconta la vicenda accanto al fuoco di un bivacco (pare che in originale queste scene fossero tinte a mano di rosso). Ma la narrazione non è accattivante, e pare oggi assai datata. Il meglio è dato dalla rappresentazione del rapporto asimmetrico fra José e Carmen (chiamata sempre "La Carmencita" nei cartelli): lui così legato all'onore, alla morale, al ruolo sociale, a una visione idealizzata (e rigida) dell'amore; lei così "libera" e viva, a suo modo molto più franca e onesta, consapevole delle sue azioni e pronta a pagarne le conseguenze.

14 maggio 2015

Oxford Murders (Álex de la Iglesia, 2008)

Oxford Murders - Teorema di un delitto (The Oxford Murders)
di Álex de la Iglesia – GB/Spagna/Francia 2008
con Elijah Wood, John Hurt
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Lo studente americano Martin (Elijah Wood) giunge a Oxford con l'intenzione di studiare matematica sotto la guida dell'arrogante professor Arthur Seldon (John Hurt), ma rimane coinvolto insieme a lui in quella che sembra l'opera di un serial killer che, con i suoi delitti, intende sfidare l'intelligenza e la logica di Seldon. Per il suo primo film in lingua inglese, il regista spagnolo Álex de la Iglesia adatta un romanzo dello scrittore (e matematico) argentino Guillermo Martínez per imbastire una sorta di avventura moderna di Sherlock Holmes (con Seldon nei panni di Holmes e Martin in quelli di Watson; e c'è pure un ispettore di polizia simil-Lestrade) sullo sfondo del più prestigioso college britannico per gli studi scientifici. Fra citazioni (Turing e la macchina Enigma), omaggi e parodie (Andrew Wiles e l'ultimo teorema di Fermat, ribattezzati rispettivamente Wilkes e Bormat), la vicenda si dipana come un giallo-horror classico, dove tutti possono essere sospettati, benché nel finale non manchino colpi di scena. Il tema ricorrente è quello delle serie logiche, sequenze di numeri o di simboli in cui si è sfidati a indovinare l'elemento successivo: ma proprio come nel caso dei delitti seriali, "se la formula è sufficientemente complicata, l'elemento seguente può essere indeterminato" (come suggerisce il paradosso della regola di Wittgenstein). En passant, la sceneneggiatura ci butta dentro (e non sempre a sproposito) il teorema di Gödel, il principio di indeterminazione di Heisenberg, il tetraktys della setta dei pitagorici, e discussioni filosofiche sulla causalità (con la classica metafora dell'effetto farfalla) e sulla possibilità di compiere un delitto perfetto. Come sempre in questo tipo di film, gran parte della caratterizzazione dei protagonisti è data dal contrasto fra di loro (a parte l'età, Martin e Seldon sono separati da opposte filosofie di vita: il giovane è ottimista, crede nell'ordine e nel significato dell'esistenza; il professore è cinico e disilluso, e ritiene che nel mondo non esista una verità: "Anche i numeri mentono"). Bella comunque l'atmosfera (c'è anche spazio per la commemorazione di Guy Fawkes del 5 novembre: chi ricorda "V for Vendetta"?) e buono il cast (la bella Leonor Watling, Julie Cox, Dominique Pinon, Anna Massey, Alex Cox), ma forse la pellicola è più superficiale di quanto non sembri. In ogni caso si discosta parecchio dagli altri lavori del regista, di cui mancano del tutto l'ironia e il grottesco. In origine i ruoli erano stati pensati per Gael García Bernal e Michael Caine.

12 maggio 2015

Star Trek Into Darkness (J.J. Abrams, 2013)

Into Darkness - Star Trek (Star Trek Into Darkness)
di J.J. Abrams – USA 2013
con Chris Pine, Zachary Quinto
**

Visto in divx.

Secondo capitolo del reboot cinematografico di "Star Trek", virato in chiave fracassona e giovanilistica dal regista/produttore J.J. Abrams. Meglio del precedente, devo dire: a parte la debole caratterizzazione dei personaggi principali e il fatto che si risolva sempre tutto a scazzottate, si cominciano lentamente a intravedere alcune delle caratteristiche fondanti della saga (in questo caso, il dilemma morale fra il desiderio di vendetta e il rispetto delle regole, anche quando ci si trova di fronte a terroristi, il che riecheggia questioni di stretta attualità nel mondo odierno come accadeva nei migliori episodi della serie), tali da giustificare la sospensione dell'incredulità di fronte a una trama non priva di buchi o di passaggi forzati. E il finale annuncia l'avvio di quella "missione quinquennale" di esplorazione dello spazio che nelle prossime pellicole – almeno così si spera – giustificherà finalmente quel "Trek" nel titolo. Come nel secondo film della serie classica, il cattivo è Khan, superuomo geneticamente modificato e poi ibernato insieme ad altri suoi compagni, che minaccia di distruggere la Federazione Stellare perché il guerrafondaio ammiraglio Marcus (Peter Weller) intendeva usarlo – e sacrificarlo – pur di scatenare una guerra contro l'impero Klingon. I nostri eroi si troveranno nel mezzo e dovranno decidere da che parte stare, fra la tentazione di una facile vendetta contro Khan (responsabile della morte del mentore di Kirk, il capitano Pike) e la scelta di allearsi momentaneamente con lui per fronteggiare un nemico ancora peggiore. Ne risulterà, fra l'altro, uno scontro diretto con Marcus, con due navi della federazione una contro l'altra (ma quella dei cattivi, manco a dirlo, è più grande, nera, e praticamente senza equipaggio). Trama a parte, come in ogni secondo capitolo di franchise che si rispetti, dopo la difficoltosa introduzione dei personaggi nel primo film il loro processo di "costruzione" procede spedito, avvicinandoli sempre più a quelli che conosciamo, anche se non tutti godono dello stesso spazio sotto i riflettori e alcuni sembrano quasi una caricatura di sé stessi. A parte Kirk e Spock, protagonisti assoluti, una discreta attenzione è dedicata a Scotty e Uhura, mentre Sulu e Chekov sono ancora al livello di macchiette e il dottor McCoy è parecchio sacrificato (e dire che nella serie tv era di fatto un terzo protagonista).

Molti i rimandi e i riferimenti al classico "L'ira di Khan", come dicevamo. A parte l'identità del cattivo (svelata solo a metà film), interpretato da un Benedict Cumberbatch che lo differenzia parecchio dalla versione precedente di Ricardo Montalbán (perde del tutto, per dirne una, l'etnia indiana o sikh), possiamo udire la celebre frase "Le esigenze dei molti contano più di quelle dei pochi" (subito all'inizio, durante la sequenza d'azione introduttiva). Quando il vecchio Spock (Leonard Nimoy, alla sua ultima apparizione sullo schermo) compare brevemente in video, quello nuovo gli chiede come avessero sconfitto Khan nella linea temporale originale. Ma l'omaggio più evidente è nel finale, quando viene riproposta – a parti invertite – la famigerata scena in cui Spock moriva per le radiazioni dopo essersi sacrificato per rimettere in funzione il motore a curvatura dell'Enterprise. Stavolta è Kirk a soccombere, e Spock ad assistere alla sua morte. Naturalmente, nella versione di Abrams, tale morte non è temporanea: tempo pochi minuti, ed ecco che si scopre un modo per riportare l'amico in vita. Dal film del 1982 viene anche il personaggio di Carol Marcus: ma in questa sciacquetta che si mostra in lingerie non c'è nulla della scienziata matura e indipendente di allora. Per il resto, detto che i Klingon ci fanno una magra figura e che non mancano le consuete assurdità scientifiche e fantascientiche (come l'inseguimento e il combattimento fra astronavi durante la curvatura, o il fatto che Khan si teletrasporti direttamente dalla Terra al pianeta dei Klingon: a cosa servono le navi spaziali allora?), da segnalare – fra una scena d'azione e l'altra – qualche momento divertente: come quando Chekov, cui Kirk ha ordinato di mettersi una divisa rossa per sostituire Scotty nella sala macchine, mostra una faccia preoccupata: perché sente la responsabilità dell'incarico affidatogli, o perché sa – come i fan – che le "redshirt" fanno di solito una brutta fine? Il titolo italiano, chissà perché, inverte le due parti del titolo, rendendolo fra l'altro privo di senso semantico. Abrams rinuncerà a dirigere il terzo episodio perché impegnato con il nuovo film di "Star Wars": e il fatto che possa passare con tale disinvoltura da "Star Trek" a "Guerre stellari", due universi fantascientifici un tempo agli antipodi per contenuti e significato, dimostra come questo reboot, pur gradevole a livello di intrattenimento, sia ancora parecchio distante dalla filosofia originaria della serie.

10 maggio 2015

Paradise: Hope (Ulrich Seidl, 2013)

Paradise: Hope (Paradies: Hoffnung)
di Ulrich Seidl – Austria 2013
con Melanie Lenz, Joseph Lorenz
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Terzo film dell'ottima trilogia "Paradiso" di Seidl: questa volta la protagonista è Melanie, figlia tredicenne della Teresa del primo capitolo e nipote dell'Anna Maria del secondo. Mentre la madre è in vacanza in Kenya e la zia è impegnata nelle sue attività apostoliche, la ragazzina viene inviata a trascorrere l'estate in un campo per dimagrire, fra le montagne, insieme ad altri 15 adolescenti sovrappeso come lei. Qui è sottoposta a sedute di ginnastica, passeggiate nei boschi, alimentazione controllata e soprattutto tanta disciplina... ma i risultati si vedranno poco. Costruito su una trama semplice che si dipana in una serie di scene che mostrano la vita quotidiana nell'edificio, il film è solo apparentemente meno profondo e incisivo dei due precedenti: in realtà riflette l'esteriore superficialità dei suoi protagonisti, adolescenti normalissimi che trascorrono il tempo parlando di banalità, delle prime esperienze sessuali, del cattivo rapporto con i genitori (quasi sempre separati). Si tratta di ragazzi costretti ad andare da soli alla scoperta di sé e dei propri sentimenti, non aiutati in questo da adulti che non li comprendono, sono assenti o pensano soltanto a impartire regole da seguire. La sottotrama principale vede Melanie prendersi una cotta per il medico della struttura, un uomo molto più anziano di lei che, dopo averla incoraggiata con il suo comportamento affabile, non può far altro che rifiutarla, aumentandone la bassa autostima e l'infelicità. Bella e geometrica (quasi kubrickiana) la regia, che si sofferma con precisione statica e minimalista sugli spazi della struttura in cui risiedono i ragazzi: le sale, le palestre, i cortili, i corridoi, le stanzette con i letti a castello nei quali, a sera tarda (dopo il "coprifuoco") Melanie e le compagne danno vita a piccole festicciole. Nonostante il militaresco istruttore di ginnastica tenti di tenerle a bada, infatti, le ragazze si concedono talvolta piccole trasgressioni: che si tratti di introdursi nottetempo in cucina per sgraffignare qualcosa da mangiare, o di mettere in atto una vera e propria evasione per visitare un locale notturno in paese. Il realismo di fondo è favorito da una certa improvvisazione nei dialoghi (evidente, per esempio, nella scena del gioco della bottiglia) e dall'ottima prova degli interpreti. La trilogia si conclude insistendo sui temi dell'insoddisfazione e dell'inutile ricerca della felicità: se nei primi film questo avveniva tramite il turismo sessuale ("Paradise: Love") e la vocazione missionaria ("Paradise: Faith"), qui siamo di fronte al primo amore e all'accettazione di sé e del proprio corpo. La scena finale, in cui Melanie non riesce a mettersi in contatto via telefono con la madre, suggerisce che dovrà compiere da sola il suo difficile percorso.

9 maggio 2015

Catwoman (Pitof, 2004)

Catwoman (id.)
di Pitof – USA 2004
con Halle Berry, Sharon Stone
*

Rivisto in TV.

Patience Phillips (Halle Berry), mediocre impiegata del reparto advertising di una corrotta industria di cosmetici, viene uccisa quando scopre inavvertitamente che il nuovo prodotto che il suo capo (Lambert Wilson) sta per lanciare sul mercato provoca dipendenza e pericolosi effetti collaterali. Ma torna magicamente in vita grazie al potere soprannaturale di un gatto, cambiando personalità (da timida, goffa e asociale, diventa aggressiva, atletica e sicura di sé) e trasformandosi nella supereroina Catwoman. Del celebre avversario di Batman rimane solo il nome e – rispetto alla precedente versione, quella dei film di Tim Burton – parzialmente le origini e il costume sadomaso (qui però molto più brutto e volgare, con un orrido reggiseno di pelle). Il resto è tutto riletto all'insegna di un divertimento infantile e stereotipato, con un personaggio dalla doppia personalità (più che dalla doppia identità) che deve capire la "nuova" sé stessa, e nel frattempo – fra un furto di gioielli (di cui si pente!) e qualche occasionale atto eroico – combatte contro la vera cattiva: la moglie del suo ex boss (Sharon Stone). Il film ha avuto una lunga gestazione (era in progetto addirittura dalla metà degli anni novanta, come spin-off della serie di Tim Burton, che avrebbe dovuto dirigerlo di persona con Michelle Pfeiffer come protagonista), ma il risultato ha scontentato tutti. Da un lato risulta scollegato dal materiale di partenza (non si respira mai "aria di supereroi", nome e caratterizzazione del personaggio sono diversi, non vi è alcun accenno a Gotham City né a qualsiasi altro elemento dell'universo batmaniano o DC), dall'altro trama e comprimari – a cominciare dal poliziotto Tom Lone (Benjamin Bratt) di cui Patience si innamora – sono inflazionati e insulsi. Pitof, regista francese che si era fatto notare in patria con l'interessante "Vidocq", ricorre a una camera molto mobile e a una fotografia iperfiltrata, ma per il resto dimostra di avere poche idee. Detestato da pubblico e critica (che lo ha definito il più brutto film di supereroi degli ultimi vent'anni: non è vero, quello è "Elektra"), il lungometraggio ha "trionfato" ai Rapsberry Awards, gli anti-Oscar per i peggiori film dell'anno. E Halle Berry, che pochi anni prima aveva vinto proprio l'Academy Award con "Monster's Ball", è stata una delle poche attrici a presentarsi alla cerimonia dei Razzie per ricevere il premio, dimostrando se non altro una certa autoironia.

8 maggio 2015

L'arcidiavolo (Ettore Scola, 1966)

L'arcidiavolo
di Ettore Scola – Italia 1966
con Vittorio Gassman, Claudine Auger
*1/2

Visto in divx.

Quindicesimo secolo: per riaccendere la guerra fra fiorentini e romani, appena conclusa con un trattato di pace dopo la Congiura dei Pazzi, Belzebù invia sulla Terra uno dei suoi diavoli, il principe Belfagor (Gassman). Questi, aiutato da un assistente pestifero e invisibile, Adramalek (Mickey Rooney), si sostituisce a Franceschetto Cybo dell'Anguillara, figlio di papa Innocenzo VIII, che deve sposare Maddalena de' Medici (Auger), figlia di Lorenzo il Magnifico, per suggellare la pace fra le due città. Belfagor porterà a termine la sua missione, mandando all'aria il matrimonio e scatenando l'ira dei fiorentini contro Roma: ma intenzionato a provare i piaceri della carne, finirà con l'innamorarsi davvero di Maddalena e rinuncerà a tornare all'inferno. Sceneggiato da Scola insieme a Ruggero Maccari ispirandosi alla novella "Belfagor arcidiavolo" di Machiavelli, è un fumettone comico poco riuscito e, soprattutto, poco divertente, che punta le sue carte sulla verve di Gassman (al terzo film con Scola), sulla consueta rilettura del rinascimento in chiave moderna (non mancano gli anacronismi: la partita a pallone, le macchine di Leonardo – il carro armato, le ali – e allusioni alla politica odierna) e su battute ("Quasi quasi stanno meglio giù da noi", commenta Belfagor osservando le miserie degli esseri umani), gag e situazioni comiche (le varie cortigiane...) che preannunciano la stagione dei decamerotici e lo scadimento della commedia all'italiana in farsa. Fra i momenti più riusciti, l'invito/sfida di Belfagor ai fiorentini, ai quali promette che farà mostrare la riottosa Maddalena nuda a mezzanotte dalla finestra del proprio palazzo (e naturalmente la popolazione si organizza per attendere l'evento in piazza come se si trovasse in un teatro). Gabriele Ferzetti è Lorenzo de' Medici, Ettore Manni il capitano delle guardie, Rooney – doppiato da Elio Pandolfi – un'inutile spalla comica (Gassman conduce il gioco tutto da solo). Musiche di Armando Trovajoli.

7 maggio 2015

2 cavalieri a Londra (David Dobkin, 2003)

2 cavalieri a Londra (Shanghai Knights)
di David Dobkin – USA 2003
con Jackie Chan, Owen Wilson
**1/2

Visto in TV.

È il seguito di "Pallottole cinesi", ambientato pochi anni dopo, nel 1887. Questa volta i nostri due eroi, Chon Wang (Jackie) e Roy O'Bannon (Wilson), si trasferiscono nel vecchio continente, ossia nella Londra vittoriana, alla ricerca del misterioso sicario britannico che ha ucciso in Cina il padre di Chon per impadronirsi di un prezioso sigillo imperiale. Il cattivo è Lord Rathbone (Aidan Gillen), imparentato nientemeno che con la famiglia reale: in cambio del sigillo, che vuole consegnare al fratellastro dell'imperatore cinese (Donnie Yen), questi sterminerà per lui la regina Vittoria e tutti i parenti più prossimi, lasciandolo come unico sopravvissuto nella linea di successione. Chon e Roy sventeranno però l'attentato, aiutati anche dall'ispettore di polizia Arthur Conan Doyle (al quale i nostri due eroi ispireranno, involontariamente, il personaggio di Sherlock Holmes) e da un piccolo ladruncolo di strada, Charlie Chaplin (qui c'è un anacronismo: Chaplin in realtà è nato nel 1889). Come nel film precedente, siamo di fronte a un pastiche che mescola generi e luoghi comuni dell'avventura, con citazioni e riferimenti di ogni tipo. Fra un bisticcio e un combattimento, i nostri eroi attraversano con ironia tutti i luoghi simbolo di Londra e dintorni (passando da Stonehenge, da Whitechapel – dove affrontano Jack lo Squartatore – o dal museo delle cere di Madame Tussaud, per concludere con la lotta finale nel Big Ben). Come e più del precedente (al quale è superiore per ritmo e regia), il film è sempre in movimento: per quanto riguarda le scene d'azione Jackie sembra parecchio in forma (se si pensa che aveva quasi 50 anni), combatte come suo solito utilizzando gli oggetti e i luoghi stessi a suo favore, ed è protagonista di numerose sequenze divertenti (vedi lo scontro nelle porte girevoli dell'albergo, quello al mercato londinese – dove combatte con un ombrello sulle note di "Singin' in the rain" – o appunto quello nel Big Ben: delude invece, ahimé, la lotta con Donnie Yen sul Tamigi). Wilson, dal canto suo, contribuisce con il suo personaggio sbruffone e inaffidabile, che qui si prende una cotta per la sorella di Chon, la bella Lin (Fann Wong). La scena in cui l'amico parla male di lui alla sorella, mentre Roy origlia, è speculare a quella del primo film in cui era Roy a "tradire" l'amicizia di Chon; e se in "Pallottole cinesi" i due cementavano l'amicizia con un bagno a base di bolle di sapone, qui si riappacificano con una battaglia di cuscini in un bordello! Nel finale, i due (anzi tre, contando anche Conan Doyle) vengono nominati baronetti dalla regina Vittoria, giustificando così il titolo del film (anche se quello italiano perde ogni legame con il precedente: in originale si passava da "Shanghai Noon" a "Shanghai Knights", qui invece nulla fa capire a uno spettatore non informato che si tratta di una serie). Controfinale metacinematografico, con i nostri due eroi che progettano di trasferirsi a Hollywood per girare film di kung fu (altro anacronismo: sono un paio di decenni in anticipo!), ovviamente – in puro Jackie style – "senza controfigure".

5 maggio 2015

Sciarada (Stanley Donen, 1963)

Sciarada (Charade)
di Stanley Donen – USA 1963
con Audrey Hepburn, Cary Grant
***

Visto in TV.

Dopo la misteriosa morte di Charles Lampert, buttato giù da un treno mentre cercava di lasciare la Francia con 250.000 dollari, la sua inconsapevole moglie americana Regina (Audrey Hepburn) – che del marito ignorava quasi tutto, a cominciare dal passato da spia – inizia ad essere perseguitata a Parigi da quattro individui, convinti che lei abbia il denaro con sé. Tre di questi (James Coburn, George Kennedy e Ned Glass) erano stati commilitoni di Charles durante la guerra, e insieme a lui avevano avevano sottratto il bottino ai servizi segreti americani; il quarto (Cary Grant) è un enigmatico ma affabile individuo dalle molteplici identità: Regina ne è attratta, ma si potrà fidare di lui? Mescolando abilmente il film di spionaggio tanto in voga a quei tempi (con venature di giallo alla Hitchcock, se non addirittura alla Agatha Cristie: i personaggi cominciano a morire uno a uno, senza sapere chi di loro è l'assassino) con la commedia screwball (di cui Grant è stato il campione per eccellenza), Donen realizza una pellicola come non se ne fanno più, e forse già in ritardo anche sui suoi tempi (o al limite in zona Cesarini), ma sorretta da una sceneggiatura piena di dialoghi spumeggianti (le schermaglie amorose e i botta e risposta fra Grant e la Hepburn valgono da soli il prezzo del biglietto), da una riuscitissima commistione fra suspense e leggerezza, da interpreti in gran forma (benché la differenza di età fra Grant, 59 anni, e la Hepburn, 33, si noti al punto da essere rimarcata più volte nei dialoghi), nonché da numerosi colpi di scena fino al finale. Walther Matthau è l'impiegato del consolato americano, Jacques Marin è l'ispettore di polizia. A parte l'apertura a Megève, fra le Alpi francesi, tutto il resto del film si svolge a Parigi, fra alberghi, parchi, metropolitane e una crociera romantica sulla Senna. Audrey cambia abito in ogni scena (i vestiti sono di Givenchy), nonostante all'inizio si dica che abbia perso l'intero guardaroba. A un certo punto i due protagonisti citano "Un americano a Parigi", che Donen stesso aveva coreografato. Il regista e lo sceneggiatore Peter Stone compaiono in un cameo, nell'ascensore dell'ambasciata. La scena del venditore di francobolli ispirerà forse Kieslowski per l'ultimo episodio del suo "Decalogo".

3 maggio 2015

Star Wars Episodio II: L'attacco dei cloni (G. Lucas, 2002)

Star Wars Episodio II: L'attacco dei cloni
(Star Wars Episode II: Attack of the clones)
di George Lucas – USA 2002
con Ewan McGregor, Hayden Christensen, Natalie Portman
*1/2

Rivisto in DVD.

Sono trascorsi dieci anni dalla fine del precedente film. Anakin Skywalker ha intrapreso l'addestramento Jedi sotto la guida di Obi-Wan Kenobi, dimostrandosi assai promettente ma anche irrimediabilmente impulsivo e arrogante, tanto da far esclamare al suo maestro in un'occasione "Sento che tu sarai la mia fine" (strizzatina d'occhio al pubblico che conosce bene i successivi sviluppi: nel film del 1977, proprio Anakin/Darth Vader ucciderà l'ormai anziano Kenobi). Come in "Episodio I", al centro della trama ci sono intrighi di natura politica ed economica: diversi sistemi stellari, spalleggiati dalla federazione dei mercanti, minacciano di lasciare la Repubblica. Alla guida dei separatisti c'è il Conte Dooku, ex cavaliere Jedi (fu allievo di Yoda, nonché maestro di Qui-Gon Jinn) passato al lato oscuro (nel finale scopriremo che, sotto l'identità di Darth Tyranus, è il nuovo adepto del signore oscuro dei Sith, ovvero il futuro imperatore, quel Darth Sidious che solo i più distratti faticheranno a identificare con l'ambiguo senatore Palpatine). Per far fronte alla minaccia (ma perché la tanto osannata democrazia della Repubblica non tollera che alcuni dei suoi membri possano scegliere di andarsene per la propria strada?), i cavalieri Jedi non sono sufficienti: nel Senato si discute dunque dell'opportunità di fondare un esercito. Padme Amidala, non più regina di Naboo ma rappresentante del proprio pianeta al Senato, è contraria, e si reca a Coruscant (la capitale della Repubblica) per votare contro la decisione. Scampata a un attentato, è però convinta a tornare sul proprio pianeta, scortata (guarda caso) dal giovane Anakin, che nel frattempo si è innamorato di lei, mentre il suo posto al Senato verrà preso temporaneamente da Jar Jar Binks (personaggio che, dopo l'accoglienza non certo entusiasta da parte di pubblico e critica, vede notevolmente ridotto il suo spazio sullo schermo). Nel frattempo Obi-Wan, indagando sul misterioso attentatore, scopre l'esistenza di un sistema stellare del tutto sconosciuto agli archivi e alle mappe della Repubblica: Kamino, sede dei "clonatori", una razza di alieni che da anni stanno creando un intero esercito di cloni, apparentemente su ordine degli Jedi stessi e della Repubblica.

Le famose "guerre dei quoti", citate di sfuggita in una sola frase nel primo "Guerre stellari" (quello del 1977), hanno sempre stimolato l'immaginazione dei fan della saga. Nella versione originale erano "clone wars", "guerre dei cloni", ma l'adattamento italiano dell'epoca scelse di modificare il termine, forse perché il pubblico generalista non aveva ben chiaro cosa fosse un clone (ma gli appassionati di fantascienza sicuramente sì). Probabilmente la frase era stata scritta da Lucas soltanto per dare un background ai suoi personaggi, senza avere in mente con precisione cosa fossero queste famigerate guerre cui i cavalieri Jedi (e segnatamente Obi-Wan Kenobi e Anakin Skywalker, il padre di Luke appunto) avevano partecipato. Ma ora, giunti al quinto film della serie (ovvero al secondo dei tre prequel), il regista-demiurgo della saga sceglie finalmente di svelarne i retroscena, forse (e inevitabilmente) deludendo un po' le aspettative che si erano accumulate in venticinque anni di tempo. Da un lato, l'esercito di droidi dei separatisti (ci risiamo: le battaglie fra robot sono il modo migliore per ridurre al minimo il sangue sullo schermo, in una saga sempre più rivolta a un pubblico adolescente); dall'altro, un'armata appunto di cloni del cacciatore di taglie Jango Fett (padre del Boba Fett che si vedrà nella trilogia classica), fatti creare in segreto da Dooku stesso (sotto l'identità di Darth Tyranus) e utilizzati incautamente dagli Jedi. Volute da Palpatine/Darth Sidious per destabilizzare la Repubblica, le guerre dei cloni non sono altro che una scusa per accentrare sempre più potere su di sé, nella strada che lo condurrà a diventare imperatore. Ma tutto questo si vedrà nel lungometraggio successivo. In questo, le guerre non occupano che le ultime sequenze, peraltro le migliori del film, che dunque decolla soltanto dalla scena nell'arena su Geonosis (un omaggio ai peplum ma anche, visti i mostroni, al cinema di Ray Harryhausen). In precedenza siamo di fronte forse al punto più basso dell'intera saga di "Star Wars", in particolare con lo sviluppo della love story fra Anakin e Padme, fra dialoghi di una banalità estrema e paesaggi da cartolina (le scene sono state girate in Italia, sul lago di Como).

La caratterizzazione dei personaggi è eccessivamente semplice e prettamente funzionale alla storia. Anakin, in particolare, anche per la recitazione non certo esaltante di Hayden Christensen, è del tutto privo di quel carisma che ci si attenderebbe da colui che diventerà Darth Vader: un ragazzino arrogante e stupido, i cui dialoghi lasciano qua e là anticipare le mosse future (come quando esprime la sua simpatia per Palpatine ed elogia la possibilità di una dittatura). Il peggio lo si ha, oltre che nelle melense scene del corteggiamento a Padme, nella sequenza in cui torna su Tattoine per salvare la madre. A parte che non si spiega come mai per dieci anni l'abbia lasciata in schiavitù (cosa ci voleva a tornare brevemente a riscattarla, magari subito dopo la fine della pellicola precedente?), l'intera sezione appare artificialmente scritta per costituire uno dei "momenti di passaggio" di Anakin verso il lato oscuro. L'essersi fatto dominare dalle emozioni, dalla rabbia e dal desiderio di vendetta, al punto di sterminare (fuori scena, ovviamente!) un'intera tribù di Tusken (i vecchi "Sabbipodi"), viene però rapidamente fatto passare in secondo piano dallo svolgersi degli eventi (nel resto della pellicola non se ne fa più menzione), in linea con una sceneggiatura che non si ferma quasi mai ad approfondire i passaggi chiave, preferendo saltare direttamente al momento successivo. Cosa resta? L'inseguimento fra auto voltanti nella moderna città di Coruscant (più che "Guerre stellari", sembra di guardare "Il quinto elemento"); il fascinoso pianeta oceanico di Kamino; e i consueti momenti di fan service di Lucas agli spettatori della trilogia classica: il ritorno dei droidi R2-D2 e C-3P0 (con quest'ultimo protagonista di scenette – come la sostituzione della sua testa con quella di un droide da combattimento, e viceversa – del tutto inutili ai fini della storia; ma evidentemente, "cassato" Jar Jar, serviva un'altra spalla comica); l'introduzione di Jango Fett e di suo "figlio" Boba (e pensare che ne "L'impero colpisce ancora" questi era soltanto uno dei tanti cacciatori di taglie assoldati da Vader: nessun accenno al fatto che le prime truppe imperiali fossero cloni di suo padre, come d'altronde lui stesso); l'apparizione degli giovani "zii" (di Luke) Owen e Beru; persino un riferimento ai piani della Morte Nera!

Non che gli altri personaggi, oltre ad Anakin, brillino per acume o personalità. I buoni, gli Jedi in testa (fra cui – a parte uno Yoda protagonista nel finale di un inatteso e spettacolare combattimento con la spada laser – spicca il Mace Windu interpretato da Samuel L. Jackson), sono sempre un passo indietro rispetto agli schemi di Palpatine, e alla fine decidono di portare in guerra l'esercito di cloni pur non conoscendo affatto i retroscena della sua creazione (fra parentesi, l'aspetto delle armature dei cloni è una perfetta via di mezzo fra l'armatura di Jango/Boba Fett e quella che avranno i futuri Stormtroopers imperiali). Dooku, interpretato da uno svogliato Christopher Lee, è cattivo ma non se ne capisce il motivo (tranne perché ce lo dice Lucas); Jar Jar, pur apparendo poco, riesce comunque a fare danno (ironicamente è proprio lui a chiedere al Senato della Repubblica di concedere "poteri speciali" a Palpatine). I migliori, a livello di cast, sono indubbiamente Ewan McGregor (che fa quello che può nei panni di Obi-Wan Kenobi) e Natalie Portman (impeccabile e affascinante come Padme Amidala). Il resto del film è sommerso in un eccesso di grafica digitale, con esplosioni, robot, alieni, mezzi e scenari digitali che lo rendono a tratti quasi un cartoon. La grafica è fin troppo pulita, lontana dallo stile "sporco" che aveva sempre caratterizzato la saga: è vero che siamo in una fase storica ancora precedente al crollo della Repubblica, ma è altrettanto vero che la Repubblica stessa è in crisi, e che di questa crisi nulla si intravede nella ricca città luminosa, colorata, trafficata e piena di locali notturni e di schermi pubblicitari di Coruscant. Detto già che il film diventa interessante solo nell'ultima mezz'ora, segnalo infine che nel finale Anakin perde un braccio in combattimento (proprio come accadeva con la mano di Luke nel capitolo centrale della vecchia trilogia), cominciando dunque a diventare Darth Vader anche fisicamente e non solo spiritualmente, e che la pellicola ha un finale cupo, anche in questo caso in analogia con "L'impero colpisce ancora". Nelle ultime scene si ode persino la marcia imperiale, prodromo alla catastrofe che verrà.

2 maggio 2015

Carmen (Cecil B. DeMille, 1915)

Carmen (id.)
di Cecil B. DeMille – USA 1915
con Geraldine Farrar, Wallace Reid
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Visto su YouTube.

La zingara Carmen, in accordo con un gruppo di contrabbandieri, seduce l'incorruttibile ufficiale dei "dragoni" José in modo da permettere ai suoi compagni di far entrare la merce in città. Dopo aver costretto l'uomo al tradimento, lo abbandona perché innamorata del torero Escamillo. José si vendicherà pugnalandola fuori dalla plaza de toros. Liberamente tratta dall'opera di Bizet (più che dal romanzo di Mérimée) e interpretata da una celebre soprano dell'epoca (che però, essendo un film muto, non può cantare!), una pellicola che semplifica la vicenda riducendo il numero di personaggi e le loro motivazioni. Al centro c'è lo spirito libero e proto-femminista di Carmen ("Non appartengo a nessuno! Il mio amore è mio, da dare o negare a chi voglio"), vittima della gelosia di un José senza particolari qualità morali. Buono il ritmo, parecchio intenso, così come la regia "moderna" che sfrutta bene gli scenari e gli esterni (vedi per esempio la scena della corrida) e approfondisce le emozioni dei personaggi grazie ai tanti primi piani. La "Carmen" era già stata adattata più volte dal cinema muto, sin dal 1907 (fra le tante pellicole, è da citare quella italiana di Giovanni Doria del 1914), ma è proprio nel 1915 che ebbe il suo momento di gloria: nello stesso anno del film di DeMille, infatti, uscì anche un'altra versione diretta da Raoul Walsh con Theda Bara come protagonista. I due registi furono in feroce competizione per giungere nelle sale prima del rivale: la spuntò Walsh, il cui film (giudicato inferiore dalla critica, anche se ebbe più successo di pubblico) è però oggi andato perduto. Del clamore suscitato dalla diatriba ne approfittò Charlie Chaplin, che l'anno dopo ne realizzò una parodia. E nel 1918 arriverà la versione di Lubitsch con Pola Negri, "Sangue gitano".