3 aprile 2015

L'altra Heimat (Edgar Reitz, 2013)

L'altra Heimat - Cronaca di un sogno
(Die andere Heimat - Chronik einer Sehnsucht)
di Edgar Reitz – Germania 2013
***1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, in originale con sottotitoli.

Con Jan Dieter Schneider (Jakob), Antonia Bill (Jettchen), Maximilian Scheidt (Gustav), Marita Breuer (Margarethe), Rüdiger Kriese (Johann), Philine Lembeck (Florinchen), Mélanie Fouché (Lena), Eva Zeidler (la nonna Mathilda), Reinhard Paulus (lo zio), Martin Haberscheidt (Fürchtegott Niem), Barbara Philipp (Frau Niem), Christoph Luser (Franz Olm), Rainer Kühn (Dr. Zwirner), Konstantin Buchholz (il giovane Barone), Andreas Külzer (il reverendo Wiegand), Julia Prochnow (Sophie), Werner Herzog (Alexander von Humboldt), Jeroen Perceval (l'agente della compagnia Delrue).

Oggi in Germania abbiamo molta difficoltà ad immaginare cosa significhi davvero “emigrazione”, perché conosciamo solo l’altro lato del problema: siamo diventati noi stessi un paese di immigrazione. È possibile che una storia che descrive il modo in cui la gente lasciava la propria patria non contribuisca a capire meglio gli immigranti di oggi? Che cosa significava un addio allora? Per quanto tempo le persone si portavano addosso, nelle loro nuove case, il dolore di questa partenza?
(Edgar Reitz)

Dopo aver esplorato in lungo in largo, nelle tre saghe precedenti, il concetto di patria e la storia della Germania nel corso del ventesimo secolo, con questo film di quattro ore (tante per una pellicola cinematografica, ma un'inezia rispetto ai primi tre "Heimat"), primo episodio della serie realizzato specificatamente per il cinema e non per la televisione, Edgar Reitz fa un balzo indietro nel tempo e ci porta nel 1842, un periodo di grande difficoltà sociali ed economiche, in cui molti abitanti della Renania (allora parte della Prussia) e di tutta l'Europa prendevano in considerazione l'ipotesi di emigrare nel Nuovo Mondo in cerca di miglior fortuna. Una sorta di prequel, dunque, o di viaggio alla ricerca delle "radici": ritorniamo nell'Hunsrück, e precisamente nel villaggio di Schabbach (di cui riconosciamo case e luoghi, a partire dalla dimora dei Simon, con annessa la bottega del fabbro, che sembra attraversare i secoli quasi immutata), a seguire le vicende del giovane Jakob Adam Simon. Già, perché la caratteristica della saga di "Heimat" è sempre stata quella di fondere i grandi temi sociali e storici con le vicende personali e intime dei suoi personaggi. Jakob è un sognatore ("è sempre stato diverso, fin da bambino", dicono di lui), poco interessato al lavoro nei campi o a portare avanti l'attività di famiglia – quella di fabbro del villaggio, appunto. E il suo sogno (quello di cui il sottotitolo del film ci preannuncia la "cronaca") è di viaggiare. Se altri emigrano per necessità, per sfuggire alla povertà o alle disgrazie, lui invece vuole farlo per espandere i propri orizzonti, per esplorare il mondo (non solo con l'immaginazione e la fantasia), in poche parole per spiccare il volo come un uccello e non rimanere imprigionato "da chi mantiene i piedi per terra" (e la terra la lavora, ovvero praticamente l'intera comunità contadina e artigiana cui appartiene). A differenza di chi lo circonda (a cominciare dal padre Johann, il cui mondo è irrimediabilmente ristretto, e che considera il figlio soltanto come un pigrone), Jakob è colto e curioso: studia le lingue e le usanze delle popolazioni indios del Brasile (tanto che il suo soprannome nel villaggio diventa presto "l'indiano"), e affida quotidianamente al suo diario i pensieri più intimi e i propositi di cambiamento. Schabbach e l'Hunsrück gli stanno stretti, non sente un legame con la Heimat (il luogo natio): per paradosso, invece, alla fine sarà proprio lui l'unico membro della famiglia a non partire, a rimanere nella casa dove è nato, e a tramandare il nome Simon alle prossime generazioni (è probabilmente il bisnonno del Paul Simon con cui si apriva il primo "Heimat"). Innamorato della giovane Henriette (detta Jettchen), figlia degli abitanti del "mulino che leviga le gemme", la perderà quando questa sposerà giocoforza suo fratello maggiore Gustav Simon, da poco tornato da soldato, in un "matrimonio riparatore". Gustav finirà con l'impadronirsi involontariamente di tutti i sogni di Jakob: non soltanto la ragazza, ma anche il viaggio nelle Americhe, dove si trasferirà per sfuggire alla miseria e alle tragedie come la morte della primogenita Mathildche (ironicamente, proprio la bimba il cui concepimento era stato la causa delle nozze). Jakob deve invece rimanere in patria per fungere da sostegno ai suoi genitori, sempre più vecchi e malati. Ma questo è un pretesto: Jakob è come quegli intellettuali che si aprono mentalmente al mondo ma non lasciano mai fisicamente il proprio luogo di origine, è l'alter ego dello stesso Edgar Reitz, posto ironicamente in contrapposizione con un altro grande regista tedesco suo coetaneo (e con il quale ha condiviso la stagione del Nuovo Cinema Tedesco negli anni settanta), ovvero Werner Herzog: se Herzog è andato in giro per il mondo, a realizzare film e documentari in ogni angolo della Terra (e segnatamente proprio in Brasile: chi non ricorda, fra gli altri, "Fitzcarraldo"?), Reitz è rimasto in patria, a raccontare la "Heimat". Non è certo un caso che proprio Herzog sia stato scelto per interpretare il grande scienziato, esploratore e naturalista Alexander Von Humboldt, con il quale Jakob è in corrispondenza. E chi è il contadino al quale Humboldt chiede indicazioni su dove si trovi Schabbach?: lo stesso Reitz, che si concede un auto-cameo dal forte valore simbolico.

"Ogni cosa a suo tempo", dice Mathilda, la nonna di Jakob (ben nove generazioni prima di Lukas, il figlio di Lulu!). Il film si conclude con l'arrivo di una lettera dal Brasile, nella quale Gustav e Jettchen comunicano di essersi insediati in quel paese, che le cose cominciano ad andare bene, e che la famiglia Simon sta mettendo radici anche lì (senza dubbio i "cugini brasiliani" della famiglia Simon, citati più volte nel primo "Heimat" e che nel 1982 torneranno in patria per il funerale di Maria, non sono altro che i discendenti di Gustav o forse addirittura dello stesso Jakob, visto che Jettchen concede a questi una notte d'amore prima della partenza). La nascita di una figlia brasiliana chiude su una nota di speranza una pellicola che ha mostrato o narrato spesso di bambini che muoiono poco dopo la nascita: Margarethe, la madre di Jakob e Gustav (e dell'altra sorella Lena), afferma di aver dovuto seppellire altri sei figli; una delle scene più tremende è quella del funerale dei tanti piccoli non sopravvissuti al rigido inverno del 1843. Il contesto sociale e storico che fa da sfondo al film, in momenti come questo, sorge in primo piano e diventa uno dei punti di forza della narrazione di Reitz, che è sempre abile a inserire in maniera naturale tanti piccoli accenni e dettagli, frutto indubbiamente di ricerca e documentazione, nelle storie private e personali dei suoi personaggi. I rappresentanti della compagnia commerciale Delrue, che reclutano artigiani e contadini da mandare in Brasile, ne sono solo un esempio. Un altro è dato dalla sottotrama del Barone di Gemünden e dei suoi privilegi feudali (come il "diritto di mescita"), che scatenano la rabbia degli abitanti del villaggio durante la Sagra della Composta. "È sempre stato così", si difendono gli uomini del Barone, proteggendosi dall'ira rivoluzionaria dietro una facciata di immobilismo. Naturalmente Jakob non può che mettersi dalla parte di chi invoca il cambiamento e la liberté, come il giovane incisore Franz Olm con cui condividerà un breve periodo in prigione (uscirà di galera proprio nel giorno in cui si celebrano le nozze di Jettchen e Gustav). E ancora: la breve citazione di un missionario sul Rio Grande, tale Paulino Reitz, realmente esistito e magari – chissà – antenato dello stesso Edgar. Al tempo stesso è fondamentale il momento storico, un periodo di passaggio in cui la modernità era ancora da venire (Gustav e il padre provano a costruire, nella loro bottega, un prototipo di motore a vapore, sotto gli occhi curiosi degli compaesani) e in cui la vita, il lavoro e la sopravvivenza dipendevano ancora quasi esclusivamente dai favori della natura e dal clima: una natura che poteva rivelarsi crudele e tremendamente ostile (numerose sono le scene in cui il forte vento, le piogge o le nevicate si accaniscono contro gli uomini e i raccolti), e in cui il susseguirsi delle stagioni scandisce le attività della comunità (la vendemmia, la semina, la raccolta del lino...). Spesso si cita il Brasile come il luogo dove "non c'è mai l'inverno", perché è questo in fondo che allora contava di più. L'emigrazione diventa una via di fuga da un contesto di difficoltà e una speranza per un mondo migliore ma anche e soprattutto diverso (la scena nel finale in cui i lunghi convogli di carri, carichi di persone e oggetti, attraversano il paesaggio rurale dell'Hunsrück per recarsi verso il porto per imbarcarsi, è forse una delle immagini che rimangono più impresse durante la visione). Nel corso delle quattro ore della pellicola, le nascite, le morti, le tragedie della vita si susseguono senza sosta con un ritmo quasi accelerato. A uscire arricchiti sono anche i tanti personaggi minori, per la cui caratterizzazione spesso bastano a Reitz pochissime scene o linee di dialogo: dai genitori di Jakob agli altri parenti (la saggia nonna, il simpatetico zio); la sorella Lena, che ha sposato un cattolico e per questo motivo è stata ripudiata da Johann ("Le religioni le ha inventate il diavolo. Portano solo discordie", commenta il marito), anche se nel finale ci sarà spazio per la riconciliazione; i bizzarri genitori di Jettchen, in particolare il padre Fürchtegott che non parla da 12 anni (e si suicida il giorno delle nozze della figlia, "l'unica che lo capiva"); e ovviamente Florinchen, l'inseparabile amica di Jettchen, piena di ottimismo e di vitalità, che finirà col diventare la moglie di Jakob (e dunque la bisnonna di Paul), mentre i suoi combattivi fratelli emigreranno a loro volta in Brasile.

Non mancano qua e là echi e riflessi delle saghe precedenti (ma cronologicamente successive). L'irrequietezza di Jakob, il suo desiderio di partire e di cercare una nuova "patria" lontano da Schabbach, ricordano naturalmente personaggi come Paul e Hermann Simon. Il ritorno di Gustav da soldato, dopo due anni di servizio militare nei dragoni, riecheggia quelli dello stesso Paul (dopo la prima guerra mondiale) e di Anton (dopo la seconda). Margot, la bimba zoppa, fa venire in mente Hans, il bimbo privo di un occhio. La scena della cometa del 1843 suscita un parallelo con l'eclissi di sole del 1999. L'ingegnosità della famiglia Simon, che qui traspare dalla costruzione del motore a vapore da parte di Gustav, Johann e poi Jakob, prefigura quella dei membri successivi della famiglia (Paul e Eduard con la radio e la fotografia, Anton con la Simon Optik). La scena dei rilevamenti topografici ci ricorda Otto Wohlleben e il suo assistente Pieritz. E anche il viaggio di Humboldt da Parigi a Berlino, con tanto di sosta a Schabbach (l'esatto punto intermedio del tragitto), ci fa tornare in mente la cavallerizza francese del primo "Heimat". A tutto questo, aggiungiamo l'effetto che fa il vedere i luoghi tante volte apparsi nelle saghe successive, filtrati stavolta da una lente deformante che li mostra proiettati di cento e più anni nel passato: come le strade di Schabbach, la casa dei Simon, il sentiero nei campi, la collina boscosa, la torre di Baldenau in rovina; e l'udire nomi più o meno famigliari (il prete del villaggio si chiama Wiegand: probabilmente è un antenato di Maria). La ricostruzione storica è affascinante e funzionale nel rendere così reale e tangibile il diciannovesimo secolo. Da segnalare che lo scenografo Anton "Toni" Gerg è morto durante le riprese, ed è stato omaggiato in un paio di scene: nel cimitero di Schabbach si vede una croce con il suo nome; e Margarethe, ricordando uno dei figli defunti, lo chiama "Toni, che è morto nel suo letto". L'utilizzo del colore all'interno di una fotografia essenzialmente in bianco e nero (e dai toni plumbei) è sfruttato, grazie al digitale, in maniera più sottile rispetto alla semplice alternanza sfoggiata nei lavori precedenti. Qui appaiono a colori soltanto piccoli particolari e oggetti (i fiori, una lastra di agata, un ferro di cavallo incandescente), che proiettano la loro cromia sul resto del mondo, illuminando per un attimo l'esistenza dei nostri personaggi. La bellezza delle immagini e l'espressività dei volti è accompagnata da una colonna sonora ricca di ritmo e di tonalità basse, decisamente azzeccata. Il compositore è Michael Riessler. Oltre al co-sceneggiatore Gert Heidenreich, ad affiancare l'ormai ottantenne Reitz nella lavorazione del film – e non poteva essere altrimenti – c'è la sua famiglia: il figlio Christian, che ha curato la produzione; e la moglie Salome Kammer (sì, proprio l'interprete di Clarissa in "Heimat 2" e "Heimat 3"), accreditata come aiuto regista. La pellicola è dedicata alla memoria del fratello di Edgar, Guido Reitz, scomparso nel 2008. Nel cast, oltre a tanti giovani esordienti, ci sono alcuni volti già apparsi nelle saghe precedenti: in particolare a interpretare Margarethe, la madre di Jakob, è stata chiamata Marita Breuer, che del primo "Heimat" era la protagonista Maria. Andreas Külzer, nel ruolo del reverendo Wiegand, era Dieter Simon in "Heimat 3". E Julia Prochnow, qui l'ostetrica Sophie, era Moni, sempre in "Heimat 3".

2 commenti:

Marisa ha detto...

Bellissimo commento. Aggiungerei l'importanza data agli uccelli come simbologia del desiderio di evasione e libertà. Compaiono infatti all'inizio come un bellissimo stormo che con le sue evoluzioni sta preparandosi alla migrazione e la significativa e suggestiva sequenza in cui un rapace ( un'aquila?) lascia cadere una piuma che Jakob lega ai suoi capelli, come un vero indiano...

Christian ha detto...

Nei film di "Heimat" ci sono sempre tantissimi spunti... l'uno tira l'altro! ^^