30 gennaio 2015

The Blues Brothers (John Landis, 1980)

The Blues Brothers (id.)
di John Landis – USA 1980
con John Belushi, Dan Aykroyd
****

Rivisto in DVD, con Sabrina, Giovanni, Rachele ed Alessandro.

I fratelli Elwood e Jake "Joliet" Blues (quest'ultimo appena uscito di prigione dopo tre anni), interpretati rispettivamente da Dan Aykroyd e John Belushi, decidono di rimettere insieme il loro vecchio gruppo musicale ("La bbanda!") per raggranellare il denaro necessario a salvare l'orfanotrofio cattolico in cui sono cresciuti da un forte debito con il fisco ("Siamo in missione per conto di Dio", affermano, riferendosi al fatto che l'ispirazione a buttarsi nell'impresa gli è giunta durante una funzione religiosa, sia pur non del tutto ortodossa). I due dovranno rintracciare gli altri membri del gruppo e convincerli a rimettersi insieme (e non sarà facile, visto che ora "hanno tutti lavori rispettabili"), procurarsi gli strumenti, un contratto e un locale sufficientemente grande, attirare un pubblico cospicuo e infine, dopo il concerto, portare il denaro all'ufficio delle tasse della contea entro la scadenza fissata, evitando al contempo non solo tutta la polizia dell'Illinois che dà loro la caccia (per tutta una serie di infrazioni al codice stradale) ma anche altri ostacoli di varia natura. Uno dei capolavori del cinema comico-musicale di tutti i tempi, con una colonna sonora eccezionale (che può contare su una lista di guest star di prim'ordine) e una sequenza ininterrotta di scene esilaranti, da vedere e rivedere infinite volte con immutato godimento: degno testamento cinematografico di John Belushi, scomparso purtroppo due anni più tardi. E dire che alla sua prima uscita, soprattutto in patria, il film non fu accolto benissimo dalla critica, forse per via della comicità percepita come "bassa" e demenziale (figlia dello show televisivo "Saturday Night Fever", da cui provenivano i due protagonisti nonché diversi comprimari): soltanto con il passare del tempo la pellicola ha acquisito l'attuale status di cult movie, trasformando fra le altre cose i suoi protagonisti (vestiti interamente di nero, con tanto di occhiali scuri che indossano anche di notte e persino quando dormono!) in due delle icone più riconoscibili del cinema.

La band dei Blues Brothers era nata proprio in uno sketch realizzato da Aykroyd e Belushi per lo show televisivo, nel 1978, e da allora si era esibita realmente in diversi occasioni, incidendo anche un album (la vita della band proseguirà poi in seguito, anche senza i due leader, fra concerti, dischi ed esibizioni di vario genere). Alle voci di Belushi e Aykroyd (quest'ultimo anche all'armonica) si aggiungono i vari strumentisti: Matt "Guitar" Murphy, Steve "The Colonel" Cropper, Donald "Duck" Dunn, Murphy "Murph" Dunne, Willie "Too Big" Hall, Tom "Bones" Malone, Lou "Blue" Marini e Alan "Mr. Fabulous" Rubin. Memorabili le sequenze in cui tutti questi vengono "riarruolati" dai due fratelli: Murph e la sezione ritmica mentre si esibiscono in scialbe cover di canzoni italiane ("Quando quando quando"), Fabulous mentre è maître in un sofisticato ristorante francese (in una scena che ricorda quella analoga con Bud Spencer e Terence Hill in "Continuavano a chiamarlo Trinità"), e infine il chitarrista Matt Murphy e il sassofonista Lou Marini nella tavola calda gestita dalla moglie del primo dei due (Aretha Franklin), riluttante a lasciarli andare. A proposito della Franklin: il suo brano "Think!" è solo uno dei tanti momenti in cui grandi nomi della musica soul e rhythm and blues apportano il proprio contributo all'esaltante colonna sonora: ci sono anche Ray Charles (nei panni del venditore di strumenti musicali) con "Shake Your Tailfeather", James Brown (nel ruolo di un insolito reverendo) con "The Old Landmark", John Lee Hooker ("Boom Boom") e Cab Calloway ("Minnie the moocher"). Quanto ai Blues Brothers veri e propri, nel corso del film si esibiscono in classici come "Gimme Some Lovin'", "Everybody Needs Somebody to Love" (la loro canzone più famosa), "Sweet Home Chicago", "Jailhouse Rock" (nel finale, in prigione), nonché – nel locale country – il tema della serie tv "Rawhide" (quella che lanciò un giovane Clint Eastwood) e "Stand by Your Man". Extradiegeticamente parlando, la ricchissima e trascinante colonna sonora è infine completata da canzoni come "She Caught the Katy" (di fatto l'incipit del film) e da brani strumentali come il "Peter Gunn theme" di Henry Mancini o "Can't Turn You Loose".

Se dal lato musicale la pellicola è senza pari, da quello comico e cinematografico non è certo da meno. Landis (che a causa di difficoltà varie superò di parecchio il budget previsto) trasforma la scalcinata vicenda (basata su una sceneggiatura scritta da Aykroyd e rimaneggiata poi dallo stesso regista) in una vera epopea: innanzitutto frapponendo fra i suoi eroi e il loro obiettivo una serie davvero esagerata di ostacoli, in un crescendo irresistibile che nelle scene finali raggiunge vette di tale implausibilità (i due sono inseguiti letteralmente da un esercito di auto della polizia, militari, truppe speciali di ogni genere) da rendere assolutamente indispensabile la sospensione dell'incredulità. Non che nelle scene precedenti ci fosse il rischio di scambiare le loro vicissitudini per "realistiche": che si trattasse di saltare da un estremo all'altro di un ponte mobile mentre è aperto, di sfasciare un centro commerciale durante un inseguimento in macchina, o di sopravvivere ad attentati di varia natura (missili terra-aria che distruggono il loro albergo, lanciafiamme che fanno saltare in aria la cabina telefonica in cui si trovano, e così via). Le leggi della fisica non sembrano avere valore per i due fratelli o per la loro "bluesmobile" (una Dodge Monaco del 1974, truccatissima e usata in precedenza dalla polizia locale), così come per altri personaggi (la "Pinguina", ovvero la suora a capo dell'orfanotrofio, le cui porte si aprono e chiudono magicamente, senza bisogno di toccarle), come se ci trovassimo in un cartone animato (la scena in cui un auto precipita da un'altezza stratosferica, scavando un buco nell'asfalto, sembra provenire direttamente da un cartoon di Wile E. Coyote!). E naturalmente in tutto questo i due protagonisti si pongono poche domande e vanno dritti alla meta, quasi indifferenti a coloro che si frappongono sul loro cammino. Fra questi: i membri del partito nazista dell'Illinois, che vogliono vendicarsi di un'umiliazione ("Io li odio, i nazisti dell'Illinois", commenta Jake); il gruppo country "The Good Ole Boys", ai quali hanno soffiato un contratto; una misteriosa ragazza (interpretata da Carrie Fischer, la principessa Leila di "Guerre Stellari", all'epoca fidanzata con Dan Aykroyd) che organizza attentati su attentati contro di loro, e solo nel finale si scoprirà il perché. A lei è legata la scena forse più celebre e divertente del film (per quanto sia difficile individuarne una sola, in un lungometraggio così ricco di momenti esilaranti), quella in cui Jake si scusa così: "Ero rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C'era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione!! Le cavallette!! Non è stata colpa mia!!!".

L'inseguimento finale della polizia alla bluesmobile (nel corso del quale vengono distrutte un numero elevatissimo di vetture: all'epoca il film deteneva il record di "maggior numero di auto distrutte in una sola pellicola", prima di essere superato nel 1998 dal suo stesso sequel, "Blues Brothers 2000") è solo il vertice spettacolare di un lungometraggio di cui non si contano i momenti comici e le battute da citare ma pure le trovate registiche (a partire dall'inquadratura del sole che sorge attraverso il cancello della prigione, quando Jake esce). Dietro le risate, la musica e il divertimento, comunque, si toccano tanti temi sociali e impegnati: l'urbanizzazione con i relativi effetti della crisi economica (la prima inquadratura è quella della zona industriale di Chicago, fra fabbriche, ciminiere e zone disagiate), la religione, la società multirazziale (l'universo dei Blues Brothers – viste anche le loro radici musicali – è abitato in gran parte da neri; e non a caso fra i nemici ci sono nazisti e poliziotti), l'intolleranza (anche culturale: vedi i pregiudizi della comunità country contro il blues e il soul), la prepotenza della legge (che come sempre si scatena contro i più deboli). Nel cast anche John Candy (il paffuto comandante della polizia, da ricordare per battute come "Un'aranciata? Un'aranciata? Tre aranciate!" o "Siamo a cavallo!"), la modella Twiggy (la donna che Elwood corteggia alla pompa di benzina), Charles Napier (il leader dei Good Ole Boys) e Henry Gibson (il capo dei nazisti dell'Illinois). Fra i cameo sono da ricordare quelli dei registi Frank Oz (l'addetto del carcere che restituisce a Jake i suoi effetti personali: "Un profilattico non usato... Uno usato..."), Steven Spielberg (l'impiegato dell'ufficio delle imposte) e lo stesso Landis (il poliziotto che, alla testa dell'esercito, chiede informazioni alla guardia del grattacielo). L'enorme successo arriso alla pellicola nel corso degli anni successivi, anche in seguito alla morte di John Belushi (che durante le riprese, almeno così si dice, nascondeva dietro gli occhiali neri i segni del consumo di droga e di alcol), ha portato quasi vent'anni dopo – come già accennato – alla realizzazione di un sequel, sempre per opera di Landis e Aykroyd e con John Goodman al posto di Belushi: di buona qualità tecnica, certo, ma senza l'anima e lo spirito che fanno di questo film uno dei massimi capolavori del cinema comico americano.

28 gennaio 2015

The imitation game (Morten Tyldum, 2014)

The imitation game (id.)
di Morten Tyldum – GB/USA 2014
con Benedict Cumberbatch, Keira Knightley
**

Visto al cinema Eliseo, con Paola e Marta.

Biopic su Alan Turing, genio della matematica e della crittografia, nonché inventore e pioniere del calcolo elettronico, delle intelligenze artificiali e dei computer. Gran parte della pellicola si sofferma sul suo lavoro durante la seconda guerra mondiale, in un centro di ricerca segreto, allo scopo di decrittare i codici della macchina "Enigma" con cui i tedeschi cifravano tutte le loro comunicazioni. In alternanza, qualche flashback sugli anni della sua gioventù (in cui scopre di essere gay) e qualche flashforward sui primi anni cinquanta (quando, in seguito a una rapina in casa sua, la sua omosessualità viene alla luce e il governo lo costringe a una terapia ormonale, a seguito della quale si suiciderà). La sua morte, tuttavia, è narrata fuori scena, con una didascalia: ed è un peccato, visto che le circostanze bizzarre ed iconiche dell'evento (Turing mangiò una mela avvelenata: e proprio da questo "simbolo della conoscenza" morsicato nacque poi il logo della Apple) avrebbero aggiunto strati e riferimenti simbolici a quella che, così narrata, rimane soltanto una storia di spionaggio, sia pure avvincente e – soprattutto – reale. Adattato da una biografia di Turing scritta da Andrew Hodges, il film offre francamente poco dal punto di vista puramente cinematografico: oltre alla sceneggiatura (a lungo rimasta nel limbo, in attesa di un interessamento delle case di produzione) e alla recitazione degli attori non c'è molto. E soprattutto, a parte il personaggio di Turing stesso (introverso, arrogante, antisociale, privo di sense of humour, quasi una sorta di Sheldon Cooper), tutto il resto – compresi i character che lo affiancano, interpretati fra gli altri da Keira Knightley, Matthew Goode e Mark Strong – è accessorio e fondamentalmente inutile, al punto che la rimozione di tali personaggi dal film (o la loro sostituzione con figure di origine o caratteristiche completamente diverse) non danneggerebbe in alcun modo la storia raccontata. Un difetto, ahimè, di parecchi film britannici di ambito storico-biografico (come "Il discorso del re", qui citato in apertura quando si odono proprio le parole che Giorgio VI pronunciava alla radio in quell'occasione): non sanno, o non vogliono, spaziare al di là del loro monotematico argomento. In questo caso particolare, sarebbe stato francamente preferibile dedicare maggior spazio ai tormenti cui Turing fu sottoposto negli anni cinquanta, che invece sullo schermo scivolano via in un attimo. Nonostante i limiti e le eccessive semplificazioni, tuttavia, a tratti la pellicola riesce ad emozionare, soprattutto nel finale quando comprendiamo l'importanza che il ricordo del primo amico dello scienziato, il compagno di scuola Christopher, ha avuto nel prosieguo del suo lavoro, nonché il vero messaggio del film: l'elogio della diversità. Il titolo si riferisce naturalmente al celebre "test di Turing", quello che si propone di distinguere fra un essere umano e un'intelligenza artificiale: peccato che l'argomento abbia ben poco a che vedere con gli esperimenti di decrittazione tramite computer che occupano quasi la totalità della pellicola.

26 gennaio 2015

I'm a cyborg, but that's OK (Park Chan-wook, 2006)

I'm a cyborg, but that's OK (Saibogujiman kwenchana)
di Park Chan-wook – Corea del Sud 2006
con Im Soo-jung, Rain [Jung Hi-hoon]
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La giovane Young-goon, rinchiusa in un istituto di igiene mentale dopo aver tentato il suicidio, è convinta di essere un cyborg e di avere l'incarico di uccidere tutti i "camici bianchi" (ovvero i medici) perché anni prima avevano portato via sua nonna, cui era tanto affezionata e che a sua volta mostrava segni di pazzia. In manicomio chiederà l'aiuto di un altro ricoverato, il ladruncolo Il-soon, affinché le sottragga la compassione che le impedisce di portare a termine il proprio compito. Fra i due scatterà l'amore, e Il-soon si darà da fare per spingere la ragazza (convinta che il cibo normale possa danneggiare il proprio corpo cibernetico) a nutrirsi, fingendo di innestarle nel corpo un convertitore di riso in energia. Dopo la "trilogia della vendetta", Park realizza una pellicola bizzarra e surreale, a suo modo romantica, che privilegia il punto di vista di personaggi eccentrici e schizofrenici. Sontuoso come sempre nella regia e nella messa in scena (dagli interessanti titoli di testa, alle sequenze che mostrano le fantasie dei vari degenti dell'istituto come se fossero reali), si trascina forse un po' stancamente nella parte centrale, per risollevarsi in un finale in fondo pieno di speranza e ottimismo (con tanto di arcobaleno alla fine della tempesta). A tratti esuberante e umoristico nel presentare le varie ossessioni e illusioni dei personaggi ricoverati nell'istituto, nonostante alcune sfumature inquietanti il film ha toni nel complesso leggeri: non c'è traccia della drammaticità o della denuncia di pellicole come "Qualcuno volò sul nido del cuculo" o "Ragazze interrotte"; siamo semmai dalle parti della folle poesia di "Big fish", del surrealismo di Michel Gondry o di certi film dell'estremo oriente che fondono temi esistenziali con l'assurdità del mondo che circonda i personaggi (e che qui li permea anche dall'interno). L'ironia e la leggerezza con cui viene raccontata la loro storia finiscono col farci affezionare ai personaggi e alle loro ingenue ossessioni, tanto che alla fine pare del tutto coerente e naturale poter raggiungere la felicità attraverso la follia e l'immaginazione.

24 gennaio 2015

Il postino suona sempre due volte (Tay Garnett, 1946)

Il postino suona sempre due volte (The Postman Always Rings Twice)
di Tay Garnett – USA 1946
con John Garfield, Lana Turner
***

Visto in divx.

Da un romanzo di James M. Cain (lo stesso che tre anni prima era stato alla base di "Ossessione" di Visconti), uno dei più celebri noir degli anni quaranta. Garfield è Frank Chambers, autostoppista irrequieto e giramondo, che viene assunto per lavorare presso un locale (tavola calda e stazione di servizio lungo la strada) gestito da Nick (Cecil Kellaway) e Cora Smith (una Turner forse nel suo ruolo più celebre). Lei, giovane e bella, sposata con un marito più anziano di lei e che non ama, fa ben presto perdere la testa a Frank: e insieme i due progettano di uccidere Nick, mascherando l'omicidio come un incidente. Ma il procuratore distrettuale sospetta di loro e fa in modo di metterli l'uno contro l'altro: anche se riescono a evitare la prigione, grazie ai maneggi di un astuto avvocato, i due sono costretti a una convivenza piena di tensioni, dubbi e rancori, incatenati l'uno all'altra da un rapporto di amore/odio che, unito ai sensi di colpa per l'omicidio commesso, non li lascerà per un attimo. Il titolo, spiegato nel finale, si riferisce al destino al quale non si può sfuggire, e alle conseguenze delle proprie azioni, che prima o poi bisogna pagare. I due sono personaggi reali e patetici, non veramente cattivi ma naturalmente nemmeno buoni: al di là del bene e del male, riflettono nel migliore dei modi le inquietudini e le contraddizioni di un'America che, dopo la seconda guerra mondiale, era ormai priva di ideali e di linee guida (il "sogno americano" era ormai tramontato da più di un decennio). Produttivamente parlando, la pellicola ebbe una lunga gestazione: appena dopo l'uscita del romanzo, nel 1934, a Hollywood entrò infatti in vigore il codice Hays di autocensura, che fece desistere i produttori dal realizzare una storia così incentrata su temi quali l'adulterio e l'omicidio. L'uscita, nel 1945, de "La fiamma del peccato" di Billy Wilder (con cui ha diversi spunti in comune, a partire dalla femme fatale che chiede a un uomo di uccidere il proprio marito) convinse infine la MGM che era giunto il momento per un adattamento del libro. Hume Cronyn è l'avvocato Keats, Leon Ames il procuratore Sackett. Nel cast anche Audrey Totter (la ragazza con cui Frank trascorre alcuni giorni in Messico) e Alan Reed (l'aiutante di Keats). Remake a colori nel 1981, con Jack Nicholson e Jessica Lange.

22 gennaio 2015

School of Rock (Richard Linklater, 2003)

School of Rock (id.)
di Richard Linklater – USA 2003
con Jack Black, Joan Cusack
**1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Dewey (Black), rockettaro fallito, per rimediare qualche soldo si sostituisce all'amico Ned (Mike White, anche sceneggiatore del film) e si fa assumere come supplente di una classe in una prestigiosa scuola elementare privata. Qui, resosi conto del talento dei piccoli alunni, li spinge a creare una rock band – all'insaputa di preside (Cusack), genitori e altri insegnanti – e li iscrive alla "guerra delle bande", competizione cittadina fra gruppi rock con un ricco premio in denaro. Scatenata commedia scritta e costruita su misura per l'estroso Jack Black, affiancato da una serie di sorprendenti piccoli attori (alcuni dei quali, come Miranda Cosgrove, che intepreta la capoclasse – e band manager – Summer, faranno carriera). Per una volta il regista Linklater mette da parte le velleità autoriali e si pone al servizio di una pellicola commerciale sì, ma con un certo appeal underground e fuori dagli schemi. Lasciando da parte la verosimiglianza e il lieto fine, il film funziona come una sorta di "Attimo fuggente" paradossale e ribelle, con un professore egocentrico, imbroglione e monomaniaco che pure riesce a stimolare e a tirar fuori la creatività, l'autostima e lo spirito anticonformista dai propri alunni. Che questi abbiano solo dieci anni, aggiunge divertimento e (stranamente) non appiattisce il target: non siamo dalle parti di pellicole per bambini come quelle con Macaulay Culkin, per fortuna. Innumerevoli i gruppi citati e le canzoni celebri presenti nella colonna sonora, dai Led Zeppelin (è uno dei rari casi in cui hanno concesso il permesso di usare un loro brano in un film) ai Pink Floyd, dagli AC/DC (di cui i bambini interpretano "It's a Long Way to the Top (If You Wanna Rock 'n' Roll)") ai Ramones. Esilarante e indovinata la tagline dei manifesti del film: "We don't need no education". In anni seguenti la pellicola ha dato vita a una serie tv ma soprattutto a un musical teatrale di Andrew Lloyd Webber.

21 gennaio 2015

Battleship (Peter Berg, 2012)

Battleship (id.)
di Peter Berg – USA 2012
con Taylor Kitsch, Tadanobu Asano
*1/2

Visto in TV.

Mentre una flotta congiunta di navi militari (americane e giapponesi, fra le altre) sta effettuando un'esercitazione al largo delle isole Hawaii, nella zona ammarano alcune astronavi aliene che intendono invadere la Terra. Inevitabile che scoppi una guerra senza esclusione di colpi. Nella vena fracassona e belligerante di "Independence Day" e "Transformers", un film che si ispira nientemeno che a... Battaglia Navale (sì, proprio il gioco da tavolo, quello con la griglia e i vari "C3, mancato", "D5, affondato"!). Gli sceneggiatori avranno fatto i salti mortali per inventarsi una trama che giustificasse, sia pure in misura minima, il meccanismo del gioco: e tutto sommato non me la sento di dire che abbiano fatto un cattivo lavoro. Se la caratterizzazione dei personaggi è risibile e dei buchi logici o scientifici nella trama è meglio non parlarne nemmeno, è anche vero che l'improbabile setting sci-fi (fra ufo rotanti, lucertoloni umanoidi in armatura, botti ed esplosioni) contribuisce, con la necessaria sospensione dell'incredulità, a derubricare il tutto al livello del puro intrattenimento, senza secondi fini o messaggi nascosti. O meglio, il messaggio politico se vogliamo c'è, e rappresenta il solito approccio americano nei rapporti con il resto del mondo: mandiamo avanti i marines, e che sparino a tutto quello che si muove! Nel comparto attoriale, a fianco del poco interessante protagonista Taylor Kitsch (l'indisciplinato e giovane tenente che si ritrova al comando della flotta nel momento sbagliato) troviamo il collaudato Tadanobu Asano (il suo "rivale" giapponese), alcuni volti noti nei ruoli di supporto (Alexander Skarsgård, Liam Neeson) e soprattutto la modella Brooklyn Decker (che da sola giustifica la visione del film) e la cantante Rihanna (all'esordio come attrice). Gregory D. Gadson, che interpreta il soldato con le gambe amputate, è un vero veterano dell'esercito americano. Una pellicola che non passerà alla storia, ma che in fondo non si prende sul serio e non promette più di quello che poi effettivamente offre.

20 gennaio 2015

Prestami la tua mano (Eric Lartigau, 2006)

Prestami la tua mano (Prête-moi ta main)
di Eric Lartigau – Francia 2006
con Alain Chabat, Charlotte Gainsbourg
*1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Unico maschio di una famiglia tutta al femminile, il quarantatreenne Luis (Alain Chabat), ideatore di profumi, è stressato dalla madre (Bernadette Lafont) e dalle cinque sorelle affinché si decida a prendere moglie. Per metterle a tacere una volta per tutte, decide di organizzare un finto fidanzamento con Emma (Charlotte Gainsbourg), sorella di un collega di lavoro: nelle intenzioni la donna dovrà abbandonarlo davanti all'altare, ma naturalmente la finzione non reggerà e i due finiranno con l'innamorarsi davvero... Un canovaccio che ricorda tanti altri film del genere (da "Green Card" a "Il banchetto di nozze"), ravvivato da due interpreti sopra le righe – il comico dei "Les Nuls" e la musa di Lars von Trier – che formano una coppia insolita ma affiatata. Proprio il comparto attoriale è la ragione per cui ho deciso di vedere il film, nonché l'unico reale motivo di interesse. Divertenti comunque le scene in cui Emma, alternativamente a seconda dei momenti, deve cercare di ingraziarsi oppure di alienarsi i favori della famiglia di Luis.

17 gennaio 2015

Exodus – Dei e re (Ridley Scott, 2014)

Exodus - Dei e re (Exodus: Gods and Kings)
di Ridley Scott – USA 2014
con Christian Bale, Joel Edgerton
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca.

Il filone del kolossal biblico, che sembrava tramontato dopo il periodo d'oro degli anni cinquanta, pare essere tornato in auge a Hollywood. A differenza del "Noah" di Darren Aronofsky, uscito pochi mesi prima, questo "Exodus" di Ridley Scott (che torna a calcare la strada del peplum-storico dopo i fasti de "Il gladiatore") sceglie però un approccio meno fantasy e assai più realistico, lasciando in secondo piano (per quanto è possibile) l'elemento soprannaturale e concentrandosi sulla coerenza interna e la verosimiglianza storica (libertà artistiche a parte, ovviamente). Certo, il soggetto resta quello dell'Esodo, il libro della Bibbia che racconta della fuga degli schiavi ebrei dall'Egitto, guidati da Mosé: ma la sceneggiatura rinuncia a una lettura pedissequa del testo sacro, e più che sul popolo ebraico si concentra (in un certo senso anche tradendo il titolo) sulla figura di Mosé stesso, ritratto come un uomo pieno di contraddizioni (è al tempo stesso un energico eroe d'azione e un pacifista; un miscredente e un devoto; un padre di famiglia e un avventuriero). Figlio adottivo del faraone Seti, si vede mandato in esilio quando sul trono sale Ramses, che nel frattempo è venuto a conoscenza della sua origine ebrea. L'incontro con Dio sul monte Sinai lo spingerà a mettersi alla testa del suo popolo, a liberarlo dalle catene e a condurlo fino alla terra di Canaan. Se non manca quasi nulla del racconto biblico tradizionale (le dieci piaghe d'Egitto, le acque del Mar Rosso che si aprono, per finire con la dettatura dei dieci comandamenti), per ogni intervento soprannaturale è però suggerita una spiegazione – per quanto eccezionale o improbabile – anche perfettamente naturale: i dialoghi di Mosè con Dio (che gli appare sotto forma di un bambino) come il frutto di una botta in testa (!); le piaghe come rari eventi catastrofici ambientali; l'apertura del Mar Rosso come conseguenza delle forze della natura; e così via. La teologia è del tutto assente, e lo spazio alla dimensione simbolico-religiosa è molto sacrificato: ma forse è meglio questo approccio (che peraltro consente di superare alcune ingenuità dei vecchi film di Cecil B. De Mille) che non il kitsch del suddetto "Noah". In ogni caso lo spettacolo è garantito, e Scott e lo sceneggiatore Steven Zaillian riescono a tenere desta l'attenzione dello spettatore con sequenze (su tutte quelle delle piaghe d'Egitto) non prive di tensione ed emozione. Pensavo decisamente peggio. Anche il rischio di una lettura all'insegna dell'integralismo religioso è prudentemente evitato (Mosé si trova talvolta in disaccordo con Dio, mentre il bene e il male non vengono divisi nettamente in due parti): il che non ha impedito – anzi, forse ne è stato la causa – che il film venisse messo al bando in diversi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Bale svetta nel cast, Edgerton è un Ramses con luci e ombre, mentre in ruoli minori si riconoscono John Turturro, Sigourney Weaver, Ben Kingsley, Aaron Paul e Golshifteh Farahani. Il film è dedicato da Ridley "a mio fratello, Tony Scott", suicidatosi nel 2012: e forse non a caso mi è parso il più "sentito" (o, se vogliamo, il meno svogliato) fra gli ultimi lavori del regista.

15 gennaio 2015

L'amore bugiardo (David Fincher, 2014)

L'amore bugiardo - Gone girl (Gone girl)
di David Fincher – USA 2014
con Ben Affleck, Rosamund Pike
**

Visto al cinema Uci Bicocca.

Nel giorno del loro quinto anniversario di matrimonio, Nick Dunne (Affleck) scopre che la moglie Amy (Pike) è misteriosamente scomparsa di casa. Segni di un'effrazione e tracce di sangue fanno pensare al peggio, e proprio il marito appare come il principale indiziato, quantomeno davanti all'opinione pubblica: soprattutto quando si scopre che il matrimonio non era felice, che l'uomo aveva una relazione con una studentessa, che la donna era incinta e che lui era spesso violento nei suoi confronti. Peccato che si tratti solo di una messinscena, abilmente studiata da Amy per incastrare il marito, e che dietro l'aspetto angelico e "perfetto" (sin dall'infanzia, fra l'altro, la ragazza è stata il modello di una serie di libri scritti dai suoi genitori, "Mitica Amy", e come tale ha stuoli di fan e di ammiratori che ne seguono le vicende con il fiato sospeso) la donna sia una subdola manipolatrice, come ben sa chi l'aveva già incontrata sulla sua strada... Da un romanzo di Gillian Flynn, adattato dalla stessa autrice, Fincher trae un thriller "glaciale" e ambiguo, che scava con cinismo nel rapporto malato fra i due protagonisti e demolisce pezzo dopo pezzo il loro "matrimonio felice", cambiando più volte le carte in tavola. La prima metà del film sembra seminare dubbi anche nello spettatore riguardo la possibile colpevolezza di Nick, a tratti ritratto come un sociopatico, mentre il colpo di scena a metà pellicola inverte del tutto la prospettiva, a costo di alcune svolte narrative inverosimili. Poco più che un contorno l'ambientazione nella provincia del profondo sud degli Stati Uniti (siamo in Missouri), mentre prominente è il contesto mediatico, con talk show e opinione pubblica a dare giudizi e a fare processi in base a "sensazioni" e simpatie, ancor prima che agisca la polizia. Il risultato è una pellicola non guidata dai personaggi (quanto mai irreali o improbabili, nel loro lucido cinismo e nella mancanza di empatia) ma dalle loro storie: e dunque il meccanismo della sceneggiatura – come spesso capita nel cinema di Fincher – risulta a posteriori fin troppo evidente allo spettatore. Gli attori fanno quello che possono (meglio la Pike di Affleck, comunque) nel dare vita a caratteri che non hanno scopo né altra esistenza al di fuori della vicenda in cui sono intrappolati. Pessimo il doppiaggio italiano, a livelli di serie tv.

12 gennaio 2015

Le mani sulla città (Francesco Rosi, 1963)

Le mani sulla città
di Francesco Rosi – Italia 1963
con Rod Steiger, Carlo Fermariello
***

Visto in divx, per ricordare Francesco Rosi.

Il crollo di una palazzina in un quartiere povero di una grande città del Sud (siamo a Napoli, anche se non viene quasi mai citata espressamente) è la scintilla che fa scoppiare uno scandalo edilizio di grandi proporzioni, in cui costruttori senza scrupoli approfittano dei loro appoggi politici per far cambiare i piani regolatori, acquistare a poco presso terreni pubblici destinati ad altri usi, e spingere l'urbanizzazione del territorio nelle direzioni a loro più favorevoli. Uno dei primi e dei più famosi lungometraggi di denuncia sociale del cosiddetto "cinema impegnato" italiano: come recita la didascalia finale, "i personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari; è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce". Nel corso della pellicola vediamo come una commissione d'inchiesta, istituita senza troppa convinzione dal consiglio comunale su richiesta delle opposizioni (e solo perché siamo sotto elezioni), porti alla luce – nonostante i molti tentativi di insabbiamento – una rete di complicità e interessi fra costruttori edili, rappresentanti politici e istituzioni. Ma il "palazzinaro" in questione, Edoardo Nottola (uno Steiger al suo primo film italiano, doppiato da Aldo Giuffré), saprà tirarsi fuori dallo scandalo addirittura presentandosi alle elezioni e facendosi eleggere come assessore (dopo aver cambiato partito e aver "sacrificato" persino il figlio). Il film si conclude con l'inaugurazione dei nuovi appalti edilizi di cui si era parlato all'inizio della pellicola: i "cattivi" hanno vinto. A parte un pugno di attori professionisti (Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo D'Alessandro), la maggior parte degli interpreti è costituita da veri giornalisti o sindacalisti dell'epoca (compreso Carlo Fermariello, in seguito senatore, nei panni dell'agguerrito consigliere di sinistra De Vita). Forse un po' demagogico, e con i limiti del film a tesi che non nasconde da che parte politica vuole stare, ma anche coraggioso per l'epoca nel denunciare una classe imprenditoriale interessata solo ai soldi ("Questo è l’oro, oggi", spiega Nottola parlando dell'edilizia) e una classe politica che pone la conquista del potere al di sopra di ogni questione morale ("In politica l'indignazione non serve a niente. L'unico grave peccato è quello di essere sconfitti alle elezioni"). Leone d'Oro al Festival di Venezia, nonostante le inevitabili polemiche.

10 gennaio 2015

Detour (Edgar G. Ulmer, 1945)

Detour - Deviazione per l'inferno (Detour)
di Edgar G. Ulmer – USA 1945
con Tom Neal, Ann Savage
***1/2

Rivisto in divx.

Il viaggio in autostop da New York a Los Angeles dello squattrinato pianista Albert (Tom Neal) si trasforma in un incubo quando l'automobilista che lo ha preso a bordo, l'allibratore Charles Haskell Jr., muore all'improvviso per una tragica fatalità. Nel timore di essere accusato di omicidio, Al nasconde il cadavere dell'uomo e ne assume temporaneamente l'identità, ma questo non farà altro che ficcarlo in guai sempre più grossi... Girato in pochi giorni (secondo alcune fonti, solo 6; in realtà almeno una ventina), con un budget irrisorio e con mezzi di fortuna, questo thriller ad alta tensione ha acquisito nel corso degli anni una fama da cult movie, tanto che alcuni critici lo hanno definito come "il B-movie più famoso di sempre". Per Wim Wenders, addirittura, si tratta di una pellicola in anticipo di quindici anni sui suoi tempi, grazie alla cinica e fatalista riflessione sul caso e sul destino. "Qualcosa si frappose sul mio cammino, mi spinse in una direzione che non era quella che volevo", commenta la voce off del protagonista, che rievoca l'intera vicenda in un flashback a uso degli spettatori (e chissà che gli eventi raccontati non siano stati deformati dallo stesso narratore, che spesso commenta "Non mi aspetto che mi crediate"). L'atmosfera di ineluttabilità, l'impossibilità di scampare al proprio fato, si esplica attraverso una serie di eventi improbabili che si accaniscono in maniera quasi surreale sul personaggio principale (celebre, per esempio, la scena in cui Al strangola involontariamente Vera, la donna che minacciava di denunciarlo alla polizia, tirando il cavo del telefono che le si attorciglia attorno al collo). La regia stilizzata di Ulmer (esule dalla Cecoslovacchia e già assistente di Murnau), così come la fotografia, la scenografia (pochi set senza particolari, più alcune scarne scene girate in esterni) e in generale tutto il comparto tecnico non nascondono la povertà dei mezzi a disposizione, che tuttavia non è un limite ma un punto di forza; così come la prova dei due attori (l'ex pugile Neal e l'ex modella Savage), dalla carriera anonima e oscura ma decisamente vivi ed espressivi. Anche per questo, mentre tante altre pellicole della cosiddetta "poverty row" (gli studi più piccoli e indipendenti di Hollywood) – girate per sopravvivere non più di qualche settimana nelle sale cinematografiche – sono ormai finite del dimenticatoio, "Detour" si è ritagliato uno spazio come uno dei modelli più significativi del cinema noir degli anni quaranta. D'altronde gli ingredienti ci sono tutti: il peccato, la colpa, la sconfitta, il viaggio senza speranza e la torbida figura della femme fatale.

8 gennaio 2015

Pensavo fosse amore... invece era un calesse (M. Troisi, 1991)

Pensavo fosse amore... invece era un calesse
di Massimo Troisi – Italia 1991
con Massimo Troisi, Francesca Neri
**

Visto in divx, con Sabrina.

Alla vigilia del matrimonio con Cecilia (Neri), dopo due anni di fidanzamento, Tommaso (Troisi) viene improvvisamente lasciato dalla capricciosa ragazza. Non se ne farà una ragione e cercherà in ogni modo di riconquistarne l'amore, anche ricorrendo a una "fattucchiera". Alla fine Cecilia, che nel frattempo si era messa con l'esuberante Enea (Marco Messeri), tornerà da lui e sarà pronta a sposarlo. Ma a questo punto sarà Tommaso ad accorgersi di non amarla più come una volta... Il quarto e ultimo film diretto e interpretato da Troisi (quinto se contiamo anche "Non ci resta che piangere", realizzato in coppia con Roberto Benigni) ruota tutto intorno all'amore, sentimento difficile da definire e da comprendere. Amedeo (Angelo Orlando), l'amico libraio ultrareligioso di Tommaso, ha addirittura il compito di scrivere una breve "dispensa" sull'argomento, trovando non poche difficoltà, mentre attorno alla vicenda principale si dipanano diverse trame secondarie relative ad amici che si lasciano (Giorgio e Flora), che cominciano nuove relazioni (lo stesso Amedeo, proprio con Flora), che si fidanzano (il giovane pescatore, consigliato da Tommaso di ispirarsi a Shakespeare per convincere il riottoso padre di lei), che sperimentano (l'adolescente Chiara, sorella di Amedeo, che ricorre addirittura al veleno o al voodoo pur di legare a sé i vari uomini di cui si innamora),che ignorano le differenze di età (oltre a Chiara, c'è la madre di Cecilia, che si fidanza sempre con uomini più giovani di lei). Non a caso, visto il tema, il ristorante gestito da Tommaso si chiama "Giulietta e Romeo". E l'amore, lungi dall'essere descritto come uno stato idilliaco, mette in mostra anche le sue altre facce: i bisticci, le gelosie, le incomprensioni, i ricatti, i tradimenti... Ma di fronte a un argomento tanto vasto, il film non riesce ad andare oltre la banalità e nel complesso è il meno bello e memorabile fra tutti i lavori di Troisi, quello che fa meno ridere (le gag o semplicemente le frasi da ricordare si contano sulle dita di una mano: "Perché siete tutti così sinceri con me? Che cosa vi ho fatto di male?") o riflettere. Preziosa, come sempre, l'ambientazione napoletana (qui, in particolare, siamo nel Borgo Marinari, accanto a Castel dell'Ovo). Musiche (con la canzone "Quando") di Pino Daniele. Metaforico l'incipit (la rottura della statua che rappresenta uno sposo) come il finale (con il bar pieno di coppie felici, oltre a Tommaso che siede a un tavolo da solo). Quanto al significato di quel "calesse" nel titolo, lo stesso Troisi lo ha spiegato in un'intervista: «Perché calesse?... Per spiegare al meglio la delusione di un qualcosa le cui aspettative non sono state mantenute poteva essere usato un qualsiasi altro oggetto, una sedia o un tavolo, che si contrappone come oggetto materiale all'amore spirituale che non c'è più. Mi piaceva e poi si possono trovare tante cose con il calesse: si va piano, si va in uno, si va in due, ci sta pure il cavallo... Quando non è più amore ma "calesse", bisogna avere il coraggio della fine, piano piano, con dolcezza, senza fare male... Ci vuole lo stesso impegno e la stessa intensità dell'inizio. Le storie d'amore non mancano mai nei film, quindi farne un'altra mi sembrava una cosa né stupida, né eccezionale ma raccontata in questi termini mi incuriosiva».

6 gennaio 2015

Il diritto di uccidere (Nicholas Ray, 1950)

Il diritto di uccidere, aka Paura senza perché (In a lonely place)
di Nicholas Ray – USA 1950
con Humphrey Bogart, Gloria Grahame
***

Visto in divx.

Il cinico Dixon Steele (Bogart), sceneggiatore cinematografico di scarso successo, è sospettato di essere l'assassino di una giovane guardarobiera che la sera prima di morire aveva trascorso qualche ora a casa sua per raccontargli la trama di un possibile copione. L'uomo viene scagionato grazie all'alibi che gli fornisce una vicina di casa, Laurel Gray (Grahame), che aveva visto la ragazza uscire dall'appartamento e allontanarsi da sola; ma la polizia non è del tutto convinta e prosegue le indagini su di lui. Nel frattempo Laurel e Dixon cominciano a frequentarsi, e fra i due scoppia l'amore. Ma lentamente, a causa del carattere impulsivo e violento dell'uomo, soggetto a frequenti sbalzi d'umore e ad improvvisi scoppi d'ira con tanto di istinti omicidi, Laurel inizia a essere colta da dubbi e sospetti: e se l'assassino fosse davvero lui? Un Bogey mai così borderline, ambiguo e "negativo", è protagonista di un noir anti-romantico ambientato nel sottobosco di Hollywood e che un Nicholas Ray a inizio carriera diresse per conto della casa di produzione indipendente dello stesso Bogart (Santana Productions). L'attore avrebbe voluto come partner sullo schermo Lauren Bacall, ma l'attrice era sotto contratto con la Warner Bros. e così si ripiegò su Gloria Grahame, all'epoca moglie del regista (ma i due stavano già trattando il divorzio). Alla fine, la trama gialla corre quasi sullo sfondo del tema principale, quello della relazione fra i due protagonisti, che da idilliaca si riempie man mano di sospetti, angoscie e paranoie. Pur nelle ristrettezze del budget, tipiche dei noir degli anni cinquanta, il film è ottimo da tutti i punti di vista: regia, recitazione, sceneggiatura (da un romanzo di Dorothy B. Hughes) e fotografia. Fra i comprimari si riconoscono Frank Lovejoy (il detective Nicolai, vecchio amico di Dixon), Art Smith (il manager) e Martha Stewart (Mildred, la guardarobiera).

5 gennaio 2015

Il solitario di Rio Grande (H. Hathaway, 1971)

Il solitario di Rio Grande (Shoot Out)
di Henry Hathaway – USA 1971
con Gregory Peck, Robert F. Lyons
*1/2

Visto in TV.

Appena uscito di prigione, l'ex rapinatore di banche Clay Lomax (Peck) intende vendicarsi dell'amico che durante il colpo lo tradì sparandogli alle spalle per poi fuggirsene con il bottino. Costui, per controllarne le mosse, gli mette alle calcagne tre giovani mercenari, guidati dalla "testa calda" Bobby Jay Jones (Lyons). Ma Lomax ha anche altro cui pensare: si ritrova infatti fra i piedi una bambina di sei anni, Decky, rimasta orfana e che potrebbe essere sua figlia. Il team de "Il grinta" (il regista Hathaway al suo penultimo film, la sceneggiatrice Marguerite Roberts e il produttore Hal B. Wallis) si riunisce per dar vita a un altro western di stampo classico ma dagli intenti revisionisti. Però fallisce: la storia non decolla mai, i personaggi (il cui passato non è approfondito) non risultano interessanti, gli sviluppi della vicenda seguono binari prevedibili, e lo scontro finale è decisamente anticlimatico. Ne risulta un western di pura routine se non sotto la media, che giunge in ritardo anche sui suoi tempi. Peck voleva rilanciare la propria carriera con un successo, ma non ebbe fortuna. Patricia Quinn è la donna che offre ospitalità a Lomax e alla bambina, mentre la piccola Decky è interpretata da Dawn Lyn.

3 gennaio 2015

La sindrome del lago Saimaa (A. e M. Kaurismäki, 1981)

La sindrome del lago Saimaa (Saimaa-ilmiö)
di Aki e Mika Kaurismäki – Finlandia 1981
con attori non professionisti
**

Visto in divx, in lingua originale.

Il film d'esordio dei fratelli Kaurismäki (anche se Mika, il maggiore, aveva già girato l'anno prima un film studentesco, "Il bugiardo") è un documentario che segue il viaggio e le esibizioni di alcuni musicisti rock presso il Saimaa, il più grande lago della Finlandia, nel corso di un tour tenutosi nella prima settimana di giugno di quell'anno. Senza voce narrante, le immagini mostrano i musicisti (appartenenti a tre gruppi diversi: Eppu Normaali, Hassisen Kone e Juice Leskinen Slam) che navigano sul lago a bordo di un battello a vapore, che scherzano e interagiscono fra loro (quasi sempre davanti a una o più bottiglie di birra), che provano le varie canzoni e infine che si esibiscono davanti al pubblico. Look e musica degli interpreti sono indiscutibilmente anni ottanta e tipicamente scandinavi: capelli lunghi, torso nudo, rock duro. La mano dei registi non è invadente, e lascia che i protagonisti siano soltanto i musicisti e il mondo che recano con sé. Il titolo del documentario fa riferimento ironico al thriller "La sindrome cinese" (in finlandese "Kiina-ilmiö"). Aki debutterà nel film di finzione solo due anni dopo, con "Delitto e castigo" (prodotto da Mika), ma non abbandonerà mai l'amore per il rock (come dimostreranno i numerosi video musicali – per non parlare dei due lungometraggi e del film-concerto "Total Balalaika Show" – girati per la band dei Leningrad Cowboys).