30 aprile 2014

Ran (Akira Kurosawa, 1985)

Ran (id.)
di Akira Kurosawa – Giappone/Francia 1985
con Tatsuya Nakadai, Mieko Harada
****

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Giappone, sedicesimo secolo. Giunto in tarda età, il potente signore della guerra Hidetora sente il desiderio di ritirarsi a vita privata e decide di lasciare il proprio regno, ormai in pace, ai tre figli. Il comando del clan degli Ichimonji passa così nelle mani del primogenito Taro, mentre agli altri due eredi, Jiro e Saburo, vengono assegnati altri castelli e territori. Ben presto però, nonostante le raccomandazioni del patriarca di sostenersi a vicenda, nascono rancori, invidie e tradimenti. E la sete di potere e le lotte intestine portano i tre eserciti alla guerra e il clan alla rovina. Il secondo (dopo "Kagemusha") dei grandiosi film epici del tardo Kurosawa è una spettacolare cronaca della dissoluzione di un impero a causa dell'orgoglio, della follia e della vendetta, nonché una superba rilettura in chiave nipponica del "Re Lear" di William Shakespeare (con le tre figlie di Lear che diventano figli maschi). Il regista si è anche ispirato al personaggio storico di Mori Monotari, daimyo dell'epoca Sengoku che divise il proprio regno fra i suoi eredi (a lui è attribuita la parabola delle tre frecce che, se unite, non possono essere spezzate). Nella realtà i figli di Mori collaborarono fra di loro per difendere il clan: Kurosawa si chiese cosa sarebbe accaduto se invece si fossero battuti l'uno contro l'altro, e da questa riflessione è nato il punto di partenza del film. Come in una fiaba, al terzo figlio – il più piccolo e il preferito – spetta il ruolo del "buono": è lui che, parlando con sfrontata sincerità, mette in guardia il padre dalle possibili conseguenze delle sue azioni, con il risultato di farsi ripudiare, mentre i servili Taro e Jiro, che tanto si mostrano (a parole) affezionati e accondiscendenti con il genitore, sono poi subito pronti a cacciarlo dai propri castelli e addirittura a muovere guerra contro di lui, figura ormai "scomoda", anche se priva di poteri, e da eliminare.

Le scene dell'assalto delle truppe congiunte di Taro e Jiro contro la fortezza in cui si è rifugiato Hidetora, che scorrono mute sullo schermo, accompagnate soltanto dall'eccezionale colonna sonora (di impronta quasi mahleriana) di Toru Takemitsu, rappresentano uno dei vertici figurativi dell'intera filmografia di Kurosawa (e non è dir poco!). Se c'è un film che meriterebbe di essere visto sul grande schermo, è questo. Fenomentale la fotografia e straordinario – ma non è una novità – anche l'uso del colore, un aspetto che Kurosawa curava particolarmente (come dimostrano gli storyboard da lui dipinti di persona per la pellicola). Come in "Kagemusha", ogni armata è caratterizzata da una cromaticità distinta: giallo per i soldati di Taro, rosso per quelli di Jiro, azzurro per quelli di Saburo (le stesse tinte degli abiti indossati dai tre nella scena di apertura), mentre il bianco (la somma dei tre colori primari) è riservato a Hidetora e il nero ai daimyo rivali Ayabe e Fujimaki, presso cui si rifugia Saburo dopo essere stato ripudiato. Se per gran parte del film a fare da sfondo alle vicende ci sono le tinte "vive" della natura (il verde dei prati e delle colline, il blu del cielo), durante la succitata battaglia sembra invece che lo scenario – il castello avvolto dalla nebbia e dai fumi, e illuminato dalla Luna piena – sia dipinto in un pallido bianco e nero, facendo risultare ancora di più le cromie dei vessilli al vento e soprattutto il rosso del sangue che sgorga copioso dai cadaveri. E allo stesso modo, il terreno nero e bruciato attorno alla fortezza distrutta dove Hidetora si rifugia dopo la sconfitta, ormai in preda alla pazzia, riflette la desolazione del suo animo e il nichilismo di fondo della pellicola. Fondamentali, al riguardo, le location: la maggior parte delle scene furono girate alle pendici del Monte Aso, il più largo vulcano attivo del Giappone, oppure presso il Monte Fuji, mentre i castelli sono quelli celebri di Kumamoto e di Himeji (e quello diroccato di Azusa).

Coprodotto dal francese Serge Silberman, già finanziatore di Luis Buñuel, il film richiese oltre due anni di lavoro e alla sua uscita – con dodici milioni di dollari – segnò il record come pellicola giapponese più costosa di sempre. La sontuosità della messa in scena, le scene di battaglia con centinaia di cavalli e di vessilli, i magnifici costumi (per i quali la costumista Emi Wada vinse l'Oscar, anche se pare che Kurosawa stesso contribuì a disegnare abiti e armature) non fanno però mai passare in secondo piano la sceneggiatura, leggibile su vari livelli, e l'ottima direzione degli attori. Scritto avendo Toshiro Mifune in mente, il ruolo di Hidetora è affidato a Tatsuya Nakadai (già protagonista di "Kagemusha"), opportunamente invecchiato con un pesante trucco che lo trasforma in una vera e propria "maschera", a volte persino spettrale. Anche il suo stile di recitazione, secco e astratto ma tuttavia emotivamente espressivo, si ispira agli stilemi del teatro Noh ed enfatizza la natura passionale e primordiale di un personaggio che, strano a dirsi, è stato descritto da Kurosawa come autobiografico ("Hidetora sono io", avrebbe dichiarato l'Imperatore). In effetti "Ran" può essere considerato come il capitolo finale di un periodo di vent'anni (cominciato con "Barbarossa" nel 1965) in cui il regista ha dovuto fare i conti con l'ostracismo dei produttori, con "l'esilio" (fu costretto a cercare finanziamenti all'estero, andò a girare un film in Russia) e perino con la morte (il tentativo di suicidio nel 1971), mentre molti giovani registi della nuova generazione lo davano pubblicamente per "finito". Non stupisce dunque che la pellicola abbia un tono di fondo decisamente pessimista (il titolo stesso, che significa "rivolta" o "ribellione", può essere letto come "caos"). E rispetto a "Kagemusha", che si concentrava di più sulle vicende del personaggio principale, il dramma è stavolta più universale, e da Hidetora si allarga all'umanità intera, come suggerisce l'invettiva finale di Tango: "Non piangere, il mondo è fatto così. Gli uomini cercano il dolore, non la gioia. Preferiscono la sofferenza alla pace. Guardali, questi stupidi esseri umani, che si battono per il dolore, si esaltano per la sofferenza e si compiacciono dell'assassinio!".

Hidetora, nella sua commistione fra Re Lear e Mori Monotari, è comunque un personaggio assai stratificato e direi più complesso di entrambi. Rispetto al sovrano shakesperiano, infatti, Kurosawa gli dona un passato non privo di ombre e di lati oscuri, in qualche modo "giustificando" la sua sofferenza e la sua pazzia, che sembrano punire non solo il suo orgoglio e la sua ostinazione, ma anche le molte "imprese" di gioventù, quando forse non si sarà comportato in maniera tanto diversa dai figli. Se all'inizio del film il suo regno ci appare idilliaco e unificato, nel corso della pellicola scopriamo quanto dolore e quanta violenza abbia sparso per giungere fin lì, distruggendo senza pietà i clan rivali e piantando egli stesso i semi della sua futura rovina (è il desiderio di vendetta che spingerà la moglie di Taro, Kaede, la cui famiglia è stata sterminata da Hidetora, a mettere uno contro l'altro i membri del clan Ichimonji). Forse dunque è anche per i sensi di colpa, e non solo per il tradimento da parte dei figli, che il vegliardo imbocca la strada della pazzia. A ricordargli le sue malefatte ci sono soprattutto Sue, la moglie del secondo figlio Jiro, e suo fratello Tsurumaru, il cieco suonatore di flauto, anch'essi discendenti di una delle famiglie che Hidetora ha sterminato e che a differenza di Kaede scelgono la via del perdono. Un'altra fonte di sensi di colpa per Hidetora è data dalla sua decisione di cacciare il terzogenito Saburo, del quale per testardaggine e vanità ha rifiutato i consigli, allontanando da sé l'unico di cui avrebbe potuto fidarsi (e proprio quello che, per sua stessa ammissione, prima di allora era il figlio preferito). Quanto al cieco Tsurumaru, proprio a lui è riservata l'ultima e significativa inquadratura del film, che ce lo mostra solo, senza guida (la sorella è stata uccisa, e persino la pergamena con l'effige di Amida Buddha – che avrebbe dovuto proteggerlo – è andata perduta) sul ciglio di un precipizio: una metafora dell'umanità allo sbando, che la guerra ha portato sull'orlo della distruzione e che nemmeno Dio può salvare.

Kaede (interpretata da una straordinaria Mieko Harada), con la sua fredda crudeltà e le sue astute macchinazioni, è quasi una parente di Lady Macbeth. A differenza di quest'ultima, però, non è mossa da avidità o sete di potere bensì da un esplicito e comprensibile desiderio di vendetta. Interessante, a questo proposito, un parallelo con Sue: entrambe principesse la cui famiglia fu distrutta da Hidetora e il cui regno fu annesso a quello degli Ichimonji, sono state costrette a sposarne un figlio e a vivere nello stesso castello che un tempo era di loro proprietà. Ma se Kaede ha sempre bramato vendetta, Sue ha invece scelto la via del perdono e ha abbracciato la religione: forse anche per questo Kaede non può tollerare che sopravviva e ne chiede la testa: Sue le ricorda l'esistenza di una via alternativa, una via che lei assolutamente non intende percorrere. Fra le scene migliori del film c'è senza dubbio quella in cui Kaede fronteggia Jiro, che ha appena preso il posto di suo marito Taro, minacciandolo con un coltello e rivelandogli i propri propositi, appena prima di sedurlo e di trasformarlo nel suo nuovo burattino. Non meno caratterizzati, e anch'essi tasselli fondamentali dell'affresco generale, sono altre figure "minori". Per esempio Kurogane (Hisashi Igawa), il braccio destro di Jiro: astuto, orgoglioso, capace di criticare apertamente il proprio padrone (a fin di bene) e protagonista di indimenticabili schermaglie con Kaede (la scena in cui, incaricato da lei di uccidere Sue, le porta invece la testa di una statua di volpe – animale che nel folklore giapponese ha connotazioni soprannaturali, in grado di mutarsi in essere umano, di solito in donna, per condurre gli uomini alla rovina – fonde in maniera sublime ironia e dramma). E ancora Tango (Masayuki Yui), il vassallo più fedele di Hidetora e a sua volta scacciato – come Saburo – per esser stato troppo sincero, che segue il suo anziano padrone a distanza ed è l'unico a soccorrerlo nel momento del bisogno.

E naturalmente c'è poi il "buffone" Kyoami, personaggio che può forse sembrare fuori luogo in un setting solenne e austero come quello nipponico del sedicesimo secolo, ma presente nell'opera di Shakespeare e comunque assai kurosawiano (ci ricorda, per esempio, l'Enoken de "Gli uomini che camminano sulla coda della tigre"). Rimane lui, alla fine, l'ultimo compagno del vecchio Hidetora sconfitto, tradito, abbandonato da tutti e in preda alla follia. "Un tempo il pazzo ero io, ora è lui", commenta Kyoami, per poi ribadire il concetto "Il mondo è pazzo! Siate folli per essere saggi!". Come dimenticare quando danza per prendersi gioco di Taro, o quando intreccia un elmo di erba e di fiori per Hidetora? Curiose anche le sue fattezze, che a tratti sembrano quasi femminili e che gli donano un aspetto androgino così distante dalla virilità e dalla solennità delle altri figure maschili della pellicola (se la si guarda in lingua originale, poi, anche il diverso tono della voce spicca particolarmente). Kyoami è interpretato dal comico Shinnosuke "Peter" Ikehata (già protagonista de "Il funerale delle rose"), mentre un altro comico (Hitoshi Ueki) è scritturato per il ruolo del daimyo rivale (ma alleato di Saburo) Fujimaki. Di fronte a questi personaggi passano quasi in secondo piano, come pedine essenziali per lo sviluppo della vicenda ma caratterizzati in maniera più schematica, i tre figli di Hidetora: Taro (Akira Terao), Jiro (Jinpachi Nezu, quello cui forse è concesso maggior approfondimento) e Saburo (Daisuke Ryu), calati in un gioco delle parti che lascia loro poco spazio per brillare come figure a tutto tondo (con la parziale eccezione di Jiro, cui è dedicato più tempo sullo schermo e maggiori possibilità di interazione con gli altri comprimari). In chiusura, giusto il tempo di ricordare che, come in "Kagemusha", Ishiro Honda (il regista di "Godzilla") ha collaborato dirigendo la seconda unità. E di chiedermi se la sequenza iniziale, con la caccia al cinghiale dei cavalieri fra le colline verdi, possa aver ispirato Hayao Miyazaki per le immagini analoghe presenti ne "La principessa Mononoke" (il più kurosawiano, in effetti, dei film dello Studio Ghibli).

28 aprile 2014

A proposito di Schmidt (A. Payne, 2002)

A proposito di Schmidt (About Schmidt)
di Alexander Payne – USA 2002
con Jack Nicholson, Hope Davis
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Visto in divx.

Dopo aver lavorato per tutta la vita in una grigia agenzia di assicurazioni di Omaha, il quasi settantenne Warren Schmidt si ritrova in pensione e, nel giro di pochi giorni, anche vedovo. È quanto basta per mandare in crisi un uomo che già di suo aveva forti problemi a relazionarsi con gli altri. Come se non bastasse, la sua unica figlia sta per sposarsi con un perfetto imbecille, mentre quello che doveva essere un viaggio alla ricerca di sé stesso, in camper fino a Denver, lo porterà a tracciare il bilancio di una vita fallimentare. Frustrazione, rabbia, solitudine e il senso di futilità troveranno una valvola di sfogo soltanto nelle lettere che Schmidt scrive a un bambino africano di sei anni, "adottato a distanza" attraverso un'ente di beneficenza. Il terzo film di Payne, adattato da un romanzo di Louis Begley, è il ritratto senza sconti di un personaggio misantropo, solo e infelice, pieno di rimpianti per il passato e senza prospettive per il futuro. Narrata più con condiscendenza che con reale cinismo, la pellicola ha il pregio di concentrarsi sul protagonista e di scavare a fondo nel suo vuoto interiore ed esistenziale senza perdersi in rivoli inutili, ma corre il rischio di bearsi troppo di quel che racconta, risultando a tratti un po' ruffiana (vedi la scena della stella cadente), anche perché la sceneggiatura tende a sottolineare ogni cosa. Qualche perplessità pure sul finale, fra il consolatorio e il ricattatorio, in cui il protagonista si commuove alla vista del disegno che Ndugu gli ha spedito, come a dimostrargli che la sua vita ha in realtà fatto la differenza per qualcuno. La parte migliore del film, comunque, è senza dubbio la seconda, ravvivata da punte di umorismo grottesco e sarcastico, dapprima con la lunga sezione on the road e poi con il tragicomico incontro con la famiglia del futuro genero (elementi che torneranno in un successivo film di Payne, "Nebraska"). Nicholson mattatore (il film è un vero e proprio one-man-show), nonostante un personaggio così lontano dalle sue corde sardoniche e luciferine. In ruoli minori compaiono anche Dermot Mulroney (il fidanzato della figlia) e la solita grande Kathy Bates (la sua sciroccata madre).

26 aprile 2014

Une histoire d'eau (Truffaut, Godard, 1958)

Une histoire d'eau
di François Truffaut, Jean-Luc Godard – Francia 1958
con Caroline Dim, Jean-Claude Brialy
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Visto su YouTube, in lingua originale.

Cortometraggio (di 12 minuti) dall'origine tanto improvvisata quanto insolita: in seguito a un'inondazione nelle campagne attorno a Parigi, nel 1958, Truffaut decise di approfittare delle località allagate per usarle come scenografie naturali di un film da girare nell'arco di un weekend. Si recò così in macchina fuori città con due attori e un cameraman per effettuare le riprese, ma il risultato non lo convinse. Fu allora che intervenne l'amico Godard, che rimontò in maniera diversa il materiale girato, eliminando i dialoghi, aggiungendo un commento sonoro incessante a base di percussioni e una voce fuori campo (farcita di riferimenti letterari e filosofici: Poe, Petrarca, Baudelaire, Balzac, e molti altri) che sostituiva i pensieri e i dialoghi dei personaggi. Nasce così la storia di una giovane studentessa che deve raggiungere Parigi per assistere a una lezione all'Università: a questo scopo accetta un passaggio in auto da parte di uno sconosciuto. Ben presto l'alluvione costringe i due a proseguire a piedi, e il ragazzo le chiede di poterla baciare... Poco più che un divertissement, il risultato finale è sicuramente più godardiano che truffautiano. Il corto venne proiettato in pubblico soltanto tre anni dopo, nel 1961, quando i due registi avevano già esordito nel lungometraggio (con "I 400 colpi" e "Fino all'ultimo respiro", rispettivamente). Il titolo, ovviamente, scimmiotta quello di "Histoire d'O".

25 aprile 2014

L'età difficile (François Truffaut, 1957)

L'età difficile (Les mistons)
di François Truffaut – Francia 1957
con Bernadette Lafont, Gérard Blain
**1/2

Rivisto su YouTube.

Un gruppo di ragazzini (il titolo originale significa "I monelli"), invaghiti della bella Bernadette, ne spia gli incontri amorosi con il fidanzato Gérard, mettendo di continuo i bastoni fra le ruote ai due giovani. Con questo cortometraggio di 17 minuti, girato a Nîmes nel 1957 e che rappresenta la prima vera esperienza professionale per Truffaut (il precedente "Une visite", del 1955, era poco più che un film fra amici), il regista mette in pratica per la prima volta le sue idee di cinema, quelle che lui e i suoi colleghi andavano predicando sulla rivista "Cahiers du cinéma" e che avrebbero dato vita alla Nouvelle Vague: girare per le strade e fuori dagli studios, raccontare storie di vita vera e oltre le convenzioni, ispirarsi al cinema degli esordi (fra le tante citazioni cinefile, viene persino riproposta la gag dell'"innaffiatore innaffiato" dei fratelli Lumière!) e alle proprie esperienze autobiografiche. In effetti il tema è subito uno di quelli più cari a Truffaut (tanto che due anni dopo sarà alla base anche del suo primo lungometraggio, "I quattrocento colpi"): l'infanzia e l'adolescenza, età delle prime esperienze e dei primi turbamenti amorosi, vista però senza lenti deformanti nostalgiche o sentimentali. Bernadette Lafont, sposata a Gérard Blain nella vita reale, era alla sua prima apparizione sullo schermo: indimenticabili le inquadrature che ne mostrano tutta la sensualità, per esempio quando gira in bicicletta o gioca a tennis con le gambe scoperte. Ma i veri protagonisti sono i cinque bambini, di cui si mostrano giochi, scherzi, marachelle e scampagnate, con ingenua spontaneità, fino alla scoperta improvvisa dei fatti della vita e della morte. Nella sua brevità, a tratti è quasi da paragonare a "Stand by me"! Il soggetto proviene da un racconto di Maurice Pons del 1955. Il film segna anche il debutto della casa di produzione Les Films du Carrosse (un omaggio a "La carrozza d'oro" di Jean Renoir), presieduta dello stesso Truffaut, che produrrà poi gran parte dei suoi lavori.

23 aprile 2014

Nessuna pietà per Ulzana (R. Aldrich, 1972)

Nessuna pietà per Ulzana (Ulzana's raid)
di Robert Aldrich – USA 1972
con Burt Lancaster, Bruce Davison
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Visto in TV.

Il feroce apache Ulzana fugge dalla riserva con un pugno di guerrieri. Al suo inseguimento si getta un plotone di cavalleria guidato dal giovane e inesperto tenente Garnett DeBuin (Davison), coadiuvato dallo scout dell'esercito McIntosh (Lancaster), che spera di catturare i fuggitivi prima che compiano eccidi fra i coloni della regione. Western semi-revisionista e dai toni cupi e pessimisti, letto da alcuni critici come una metafora sulla partecipazione degli Stati Uniti alla guerra del Vietnam (un combattimento contro un nemico elusivo e percepito come malvagio e crudele a prescindere, senza prestare attenzione alle sue ragioni). Se infatti il punto di vista, come in "Ombre rosse", è tutto dei bianchi (gli indiani si vedono poco e, quando sono sullo schermo, parlano nella loro lingua), rispetto ai western classici la prospettiva è ben diversa. Nonostante le stragi e i morti che seminano lungo il loro cammino, Ulzana e i suoi uomini cercano semplicemente la libertà (nelle scene iniziali vediamo bene come siano dure le condizioni di vita nella riserva, tanto che lo stesso McIntosh è costretto a farsi portavoce delle richieste di razioni di carne più abbondanti). E anche gli eccidi, a ben vedere, sono motivati da esigenze primarie (procurarsi cibo o cavalli, depistare gli inseguitori), quando addirittura non sono nemmeno compiuti da loro (vedi il soldato che uccide la donna e poi si suicida per paura di cadere nelle mani degli apache). Come spiega Ke-Ni-Tay, l'enigmatica guida indiana che affianca l'esercito, vivere rinchiusi nella riserva ed essere limitati nelle percezioni e nelle sensazioni è la vera molla che ha prodotto la fuga di Ulzana: altro che lotta fra bene e male! Persino le torture inflitte ai nemici non sono fini a sé stesse, ma fanno parte di un rito sacro per trasferire la forza del vinto al vincitore. Al giovane tenente (figlio di un sacerdote, dettaglio importante) che si domanda perché gli apache siano così crudeli (e al quale McIntosh spiega: "Io non li odio. Sarebbe come odiare il deserto perché non c'è acqua"), il viaggio aprirà gli occhi: innanzitutto sulla natura violenta degli uomini in generale (i suoi soldati, in determinate occasioni, si dimostreranno non meno "selvaggi" degli apache, tanto che toccherà a lui impedirgli di sfogarsi sui cadaveri dei nemici per seppellirli invece con carità cristiana) ma anche sulle difficoltà e le responsabilità del comando di una missione che, all'inizio, gli sembrava come una splendida occasione per mostrare il proprio valore, e che invece costerà inutilmente molte vite. In mezzo a tutto questo, quella interpretata da Lancaster (cui pure è dedicato il maggior tempo sullo schermo) è quasi una figura marginale, un personaggio che ha solo il compito di guidare il tenente verso una consapevolezza del mondo meno idealizzata e più fatalista. La vittoria per DeBuin è amara, perché reca con sé la fine delle illusioni: sembra davvero conclusa l'epopea del western classico, dove a sconfiggere gli indiani ci si copriva di gloria e si tornava sorridenti e felici. Certo, in quelle pellicole nessun bianco si domandava "Perché gli apache si comportano così?": proprio nell'inedito tentativo di comprendere il nemico risiede la chiave di lettura del lungometraggio. Nota: esistono due versioni del film, una montata sotto la supervisione di Aldrich e l'altra da Lancaster (che, in quanto coproduttore, volle metterci le mani), ma le differenze sono minime.

19 aprile 2014

Il palloncino bianco (Jafar Panahi, 1995)

Il palloncino bianco (Badkonake sefid)
di Jafar Panahi – Iran 1995
con Aida Mohammadkhani, Mohsen Kafili
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Rivisto in divx.

La piccola Razieh vorrebbe comprare al mercato di Teheran un pesciolino rosso in occasione delle festività per il nuovo anno iraniano (corrispondente al primo giorno di primavera: i pesci rossi sono considerati portafortuna). Ma smarrisce la banconota consegnatale dalla mamma, che finisce in un tombino: riuscirà a recuperarla? La pellicola d'esordio di Jafar Panahi, dopo alcuni corti e mediometraggi per la tv, si appoggia su una sceneggiatura di Abbas Kiarostami – di cui Panahi era stato assistente – e racconta una vicenda minimalistica con bambini come protagonisti, una sorta di "favola morale" che dietro l'apparente esilità della trama nasconde interessanti riflessioni socio-politiche (quella di mascherare tali riflessioni nei film con bambini, considerati più innocui e dunque in grado di sfuggire alla censura, è una consuetudine di molti registi iraniani). In effetti non pochi sono i punti in comune con le prime pellicole dello stesso Kiarostami, a partire da quelli formali: il tono delicato e poetico, la grande attenzione alla psicologia dei bambini (che devono fare i conti con adulti che non li comprendono, li ignorano o, nei casi peggiori, approfittano della loro ingenuità), l'importanza dell'ambiente circostante, l'uso di lunghi piani sequenza (in quello iniziale, fra l'altro, ci vengono mostrati tutti i personaggi che poi ritroveremo nel corso del film). La vicenda di Razieh è la rappresentazione di una piccola "tragedia" (piccola in sé, ma grande agli occhi di una bambina di sette anni!), che fa passare ogni altra cosa in secondo piano: le difficoltà familiari (è suggerito implicitamente che il padre sia un violento, ed esplicitamente che ha un "lavoro segreto" e forse illegale) come i problemi economici delle altre persone che la bambina incontra (i mendicanti, il negoziante, il soldato, il venditore di palloncini). Di più: Panahi rappresenta, attraverso i vari personaggi, le differenti etnie del paese: e così nell'incipit troviamo due suonatori ambulanti con la pelle scura; la donna che aiuta Razieh è armena (l'attrice, Anna Borkowska, è di origine polacca!); il soldato proviene da Nishapur, nell'estremo nord-est del paese; e soprattutto il ragazzo che vende i palloncini è afgano, quasi sicuramente un rifugiato. Inizialmente Razieh e soprattutto suo fratello Ali lo trattano con sufficienza (Ali gli sottrae il bastone senza nemmeno chiedergli il permesso), e alla fine – recuperata la banconota e acquistato il pesce – se ne vanno lasciandolo lì da solo, con il palloncino bianco che dà il titolo al film ancora invenduto: è come se i bambini ricchi di Teheran fossero insensibili ai problemi dei ragazzi più poveri, proprio come gli adulti, così presi dai propri problemi, sono invece indifferenti a quelli dei bambini. Al riguardo è bella, perciò, la scena in cui i tre ragazzini si dividono la gomma da masticare. A livello registico, il realismo è filtrato da una grande cura per la messa in scena, con inquadrature ristrette e anti-panoramiche (che rispecchiano lo sguardo di un bambino) e un montaggio assai meditato (da notare che l'intera pellicola si svolge in tempo reale, con la radio che scandisce i minuti che mancano al capodanno). Indimenticabile, in ogni caso, la protagonista: tenera, simpatica, ostinata, capricciosa ma onesta. Il titolo di lavorazione era "Buon anno nuovo", poi mutato nel più poetico "Il palloncino bianco", forse in riferimento al classico francese "Le ballon rouge".

16 aprile 2014

Il mistero di Sleepy Hollow (Tim Burton, 1999)

Il mistero di Sleepy Hollow (Sleepy Hollow)
di Tim Burton – USA 1999
con Johnny Depp, Christina Ricci
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Rivisto in TV.

Nel 1799 l'agente di polizia Ichabod Crane (Johnny Depp) è inviato da New York in un villaggio nell'entroterra, Sleepy Hollow, dove tre persone sono state recentemente uccise in circostanze misteriose, decapitate da quello che gli abitanti del paese descrivono come lo spettro di un "cavaliere senza testa". Convinto che occorra indagare con razionalità e con metodi scientifici, Crane si ritroverà però ad avere a che fare non solo con le superstizioni e il puritanesimo del New England del diciottesimo secolo, ma anche e soprattutto con la stregoneria e con creature resuscitate dall'inferno. Ispirandosi al celebre racconto "The legend of Sleepy Hollow" di Washington Irving (già portato al cinema diverse volte: c'è anche una versione a cartoni animati della Disney, "Le avventure di Ichabod e Mr. Toad", del 1949), Tim Burton ne prende solo lo spunto di partenza (in origine Crane era un superstizioso maestro di scuola, non un razionale detective) e ci costruisce sopra una sorta di giallo ammantato di toni gotici e horror. Paradossalmente, nello spingere il pedale sugli elementi fantastici, il regista elimina ogni ambiguità presente nel racconto di Irving (che – pur trattandosi di una ghost story – lasciava il lettore nel dubbio sulla reale presenza di elementi soprannaturali o meno) e rende dunque la vicenda meno spaventosa e più innocua, con una struttura convenzionale e noiosetta (c'è persino lo "spiegone" finale, dove si chiarisce ogni cosa) e l'immancabile lieto fine. Ciò nonostante, anche se la trama non è certo memorabile (a distanza di tempo dalla prima visione ne avevo praticamente dimenticato la risoluzione e mi erano rimaste in mente solo le scenografie), la pellicola risulta comunque piacevole grazie alle atmosfere dark tipiche del regista (da sempre quello visivo è l'aspetto migliore delle sue opere), al ritmo spigliato, ai tocchi di humour nero e all'ottimo cast (oltre a Depp ci sono Christina Ricci, Miranda Richardson, Christopher Walken e tutta una serie di caratteristi di valore: Michael Gambon, Christopher Lee, Jeffrey Jones, Richard Griffiths, Ian McDiarmid, Michael Gough, più brevi apparizioni per gli habitué burtoniani Martin Landau e Lisa Marie). La sceneggiatura, attribuita ad Andrew Kevin Walker, sarebbe in realtà opera in gran parte di Tom Stoppard, non accreditato. La musica è del solito Danny Elfman, la fotografia di Emmanuel Lubezki. Da ricordare l'attrezzatura "scientifica" (occhiali, pinze e vari strumenti) che Crane utlizza nelle sue indagini.

14 aprile 2014

Noah (Darren Aronofksy, 2014)

Noah (id.)
di Darren Aronofsky – USA 2014
con Russell Crowe, Emma Watson
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Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Versione "spettacolare" e hollywoodiana del mito biblico dell'arca di Noè (anche se il titolo del film – per ragioni di marketing, suppongo – reca la grafia inglese, "Noah"), che Aronofsky trasforma in una saga fantasy alla "Signore degli Anelli" (la scena dell'assalto all'arca, protetta dai rocciosi Vigilanti, è quasi un plagio della battaglia di Isengard con gli Ent al termine de "Le due torri"). Pur prendendosi parecchie libertà, la storia è a grandi linee quella narrata nell'Antico Testamento: l'umanità è corrotta dal male e Noè, ultimo discendente di Set (il terzo figlio di Adamo ed Eva), riceve in sogno dal Creatore l'incarico di costruire un'arca per salvare gli animali innocenti dall'imminente diluvio che purificherà la Terra. Aiutato dai Vigilanti, angeli caduti e imprigionati in corpi di pietra, dovrà però difenderla dai malvagi discendenti di Caino, guidati dal guerrafondaio Tubal-cain. Assente del tutto la dimensione religiosa e sacrale, sostituita da una mitologia barbarica e sciamanica (Matusalemme è in tutto e per tutto un mago), la pellicola – ovviamente uscita anche in 3D – punta, almeno inizialmente, gran parte delle sue carte sull'azione: lunghe scene di combattimenti, profluvio di effetti digitali, caratterizzazioni psicologiche di grana grossa, background storico-sociale (volutamente?) confuso e fuori dal tempo. Più interessante la seconda parte, quella successiva al diluvio, quando Noè si convince che il Creatore non voglia risparmiare il genere umano, e che toccherà dunque a lui assicurarsi che la sua stessa famiglia non abbia un futuro. In effetti, è proprio il tema della famiglia a essere al centro dell'intera pellicola: è essa – al di là del bene e del male – l'unico valore, l'unico legame, l'unico punto di riferimento dei personaggi, persino l'unica origine dei loro dilemmi morali (Noè e la sua famiglia di vegetariani non sembrano particolarmente scossi dalla scomparsa dell'umanità, ma guai se sono in pericolo alcuni di loro!). Al fianco del mattatore Crowe, che dà vita a un personaggio con sfumature in ogni caso non banali (come può un uomo farsi interprete di Dio?), un cast eterogeneo: Jennifer Connelly torna a essere sua moglie dopo "A beautiful mind"; Ray Winstone è un cattivo solido, seppur stereotipato; Anthony Hopkins gigioneggia nei panni di Matusalemme; e fra i giovani, più che l'harrypotteriana Emma Watson (Ila) o il belloccio Douglas Booth (Sem), va ricordato Logan Lerman nel ruolo del tormentato Cam. Buono il comparto tecnico. Nel complesso però un film del genere, non distante da tante pellicole d'azione tratte da fumetti o videogiochi e pensate per il pubblico adolescente dei blockbuster, rappresenta un deciso passo indietro di Aronofsky (che in passato si era sempre dimostrato un regista anticonvenzionale, sia pure non particolarmente raffinato) dopo i due ottimi film precedenti, "The wrestler" e "Il cigno nero". Da notare la sequenza in cui Noè racconta ai figli la storia della creazione com'è narrata nella Genesi. Sulle sue parole scorrono immagini "scientifiche" sulla formazione della Terra e l'evoluzione degli esseri viventi: una furbata, da parte dei cineasti, per tenere il piede in due scarpe, considerato che negli Stati Uniti il dibattito sul creazionismo è, ahimè, ancora aperto? Basti pensare che c'è stato chi ha criticato questo film perché "romanzerebbe" eventi reali!

11 aprile 2014

Love & Pop (Hideaki Anno, 1998)

Love & Pop (id.)
di Hideaki Anno – Giappone 1998
con Asumi Miwa, Yukie Nakama
***

Rivisto in divx, con Sabrina, in originale con sottotitoli.

Il regista di "Evangelion" esordisce nel lungometraggio dal vivo con un adattamento del romanzo "Topaz II" di Ryu Murakami (da "Topaz I", ricordo, Murakami stesso trasse il famigerato "Tokyo decadence"). Il film tratta del fenomeno dell'enjo kōsai, ovvero gli "appuntamenti a pagamento" con cui le studentesse giapponesi accettano di uscire con uomini adulti in cambio di denaro o di regali (il sesso non sempre è previsto: a volte si tratta solo di fare compagnia, di cenare insieme o di andare al karaoke). Ambientata a Tokyo nel luglio del 1997, appena prima delle vacanze scolastiche estive, la pellicola segue per una giornata intera il personaggio di Hiromi, liceale sedicenne che decide improvvisamente di dedicarsi all'enjo kōsai per poter acquistare un anello adocchiato in un centro commerciale. Dapprima insieme alle tre amiche del cuore Nao (Hirono Kudo), Chie (Yukie Nakama) e Chisa (Kirari), e poi avventurandosi da sola, entra così in contatto con una serie di personaggi via via più bizzarri, e le cui richieste si fanno da stravaganti a sempre più "spinte". La crudezza degli eventi è accompagnata da uno sguardo empatico, a tratti delicato e onirico, da riflessioni esistenziali (tutto parte da un sogno e dai progetti sul futuro delle ragazze), che il regista "filtra" con un approccio vivivo particolare: girato interamente in digitale, spesso con microcamere che consentono inquadrature in soggettiva o da posizioni inusuali (sotto i tavoli, a bordo del modellino di un treno che corre sulle rotaie), il film fa un ampio uso di lenti e filtri (grandangolo, distorsioni...) e sfrutta il continuo cambio di formato (per la maggior parte del tempo lo schermo è in 4:3, ma non mancano sequenze widescreen oppure, al contrario, incredibilmente ristrette) per veicolare le emozioni confuse del personaggio, una ragazzina che ancora non sa cosa fare del proprio corpo e della propria sessualità, e che alla fine avrà imparato una lezione. Buono il cast: oltre alle quattro attrici, giovani e spontanee, si riconoscono, fra i "clienti" di Hiromi, Mitsuru Fukikoshi e Tadanobu Asano. Da rimarcare la colonna sonora, che utilizza in maniera insolita e con effetti stranianti tutta una serie di brani classici della musica romantica (il "Sogno d'amore" di Liszt, il notturno n. 2 di Chopin, il "Chiaro di luna" di Debussy... ma anche Satie, Mozart, Vivaldi), mentre sui bei titoli di coda è la protagonista stessa a intonare, come al karaoke, la cover di una canzone nostalgica nipponica degli anni '70 ("Ano subarashii ai wo mouichido").

9 aprile 2014

A prova di errore (Sidney Lumet, 1964)

A prova di errore (Fail-safe)
di Sidney Lumet – USA 1964
con Henry Fonda, Dan O'Herlihy
***1/2

Visto in divx, con Sabrina.

In piena Guerra Fredda, il sistema automatizzato che gestisce la difesa degli Stati Uniti e le procedure per una rappresaglia in caso di attacco termonucleare da parte dei russi sembra davvero essere "a prova di errore". Eppure, qualcosa va storto: e uno stormo di sei bombardieri americani di stanza in Alaska, dotati ciascuno di due testate atomiche, riceve l'ordine irrevocabile di andare a bombardare Mosca. Dopo frenetiche consultazioni fra politici, scienziati e militari, il presidente degli Stati Uniti (Henry Fonda) telefona al suo omologo sovietico, offrendosi di aiutare i russi ad abbattere gli aerei americani. Ma quando uno dei bombardieri riuscirà ad eludere ogni difesa e raggiungere Mosca, al presidente non resterà che compiere un ultimo e terribile sacrificio pur di dimostrare la propria buona fede ed evitare lo scoppio della guerra. Thriller di fantapolitica tratto da un romanzo di Eugene Burdick ed Harvey Wheeler e uscito nello stesso anno de "Il dottor Stranamore" di Stanley Kubrick, ne propone praticamente la stessa storia (c'è persino un accenno a un ordigno "fine di mondo", in grado di contrattaccare anche dopo un'eventuale sconfitta) e ne affronta gli stessi temi, sia pure trattandoli in chiave drammatica e realistica anziché satirica e grottesca, al punto che ci furono cause incrociate: Peter George, autore del romanzo "Red Alert" da cui era stato tratto "Il dottor Stranamore", accusò Burdick e Wheeler di averlo plagiato, mentre Kubrick riuscì a convincere i produttori a ritardare l'uscita del film di Lumet, inizialmente prevista prima del suo (entrambe le pellicole erano curiosamente state messe in cantiere dalla Columbia Pictures). Eclissato, sia al momento della sua uscita che nel corso degli anni successivi, dalla fama del film di Kubrick, "A prova di errore" merita invece un convinto recupero, tanto come documento della tensione e della paranoia di quegli anni, di poco successivi alla crisi dei missili cubani (la descrizione dell'evolversi di una crisi nucleare lascia con il fiato sospeso), quanto per le sue qualità cinematografiche: merito del taglio teatrale della messinscena, della regia lucida di Lumet, delle scenografie asettiche, della recitazione intensa, e soprattutto della contrastata fotografia in bianco e nero di Gerald Hirschfeld, che si esalta nelle inquadrature claustrofobiche e nei primi piani ravvicinatissimi dei volti dei personaggi. Perdonabili alcune inaccuratezze dal punto di vista tecnico e militare, visto che il film venne girato con un budget assai limitato e senza alcuna assistenza da parte del dipartimento della difesa o dell'aviazione statunitense, che rifiutarono di collaborare per il timore di possibili ricadute negative.

La sceneggiatura di Walter Bernstein (sulla lista nera di McCarthy negli anni cinquanta per le sue simpatie di sinistra), che intende mostrare tutta la follia di una possibile guerra termonucleare, non mette a confronto le differenti ideologie fra russi e americani ma, anzi, le comuni paure, il desiderio di "fidarsi" e di fare di tutto pur di evitare una guerra. Eppure, e questo è il messaggio del film, la fiducia e il buon senso degli uomini potrebbero non bastare quando ci si affida troppo alle macchine e a un'organizzazione dove basta un piccolo errore (voluto o meno) per mettere in moto un meccanismo irrevocabile e fuori controllo. Quasi tutta l'azione si svolge in interni e in soli tre ambienti (il bunker sotterraneo della Casa Bianca, la sala conferenze del Pentagono e il quartier generale del comando strategico dell'aviazione militare), dai quali i personaggi si parlano attraverso telefoni e interfoni, e sui cui grandi schermi osservano (sembra un videogioco!) la posizione dei bombardieri e dei caccia su una mappa. I russi, al contrario, non si vedono mai sullo schermo, anche se si odono al telefono le voci del premier, di un ambasciatore e di alcuni generali. Fonda aveva recitato per Lumet già nel suo film d'esordio, "La parola ai giurati". Walter Matthau è lo scienziato (civile) guerrafondaio, Larry Hagman (il futuro J.R. di "Dallas") è il giovane interprete del presidente, mentre un quasi esordiente Dom DeLuise ha una piccola parte nei panni del sergente che viene costretto a rivelare ai russi le informazioni necessarie ad abbattere gli aerei americani. Completano il cast Dan O'Herlihy (il generale che apre e chiude la pellicola con il suo sogno "metaforico" sul matador), Frank Overton, Ed Binns e un eccellente Fritz Weaver alla sua prima apparizione sullo schermo nei panni di Cascio, il colonnello che a un certo punto rifiuta di obbedire agli ordini. Autoironica, e non certo rassicurante, la dicitura nei titoli di coda, con cui il ministero della difesa e l'aviazione degli Stati Uniti assicurano che un "rigido sistema di sicurezza e di controlli impedirebbe il verificarsi di eventi come quelli descritti nel film". Nella realtà, comunque, un ordine di attacco non sarebbe mai stato eseguito se non confermato a voce. Nel 2000 Stephen Frears ne ha fatto un remake per la televisione, trasmesso in diretta e sempre in bianco e nero, con George Clooney, Richard Dreyfuss e Harvey Keitel.

8 aprile 2014

Nymphomaniac - Vol. 1 (Lars von Trier, 2013)

Nymphomaniac (id.)
di Lars von Trier – Danimarca/UK/D/B 2013
con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård
[voto in sospeso]

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Avevo scritto una lunga recensione di "Nymphomaniac - Vol. 1" ma, dopo alcuni ripensamenti, ho deciso di non pubblicarla. Non ha senso, infatti, dare un giudizio su quella che è solo la prima metà di un film, peraltro distribuito nelle sale in versione "ridotta e censurata". Terrò da parte le mie riflessioni e le posterò, eventualmente modificate o integrate, solo quando avrò la possibilità di vedere il film nella sua versione completa (oltre cinque ore, anziché le quattro ore divise in due parti che sono state proposte nei cinema italiani).

Aggiornamento: Qui la recensione completa.

5 aprile 2014

Cave of forgotten dreams (Werner Herzog, 2010)

Cave of Forgotten Dreams (id.)
di Werner Herzog – Francia/Can/USA/GB/Ger 2010
***

Visto in TV, in originale con sottotitoli.


Affascinante documentario sulla grotta di Chauvet (scoperta da alcuni speleologi dilettanti nel 1994, in Francia, nella regione del Rhône-Alpes) e sui meravigliosi dipinti rupestri che contiene. Non soltanto essi rivestono un inestimabile valore storico e archeologico (alcuni dei disegni – datati fino a 32.000 anni fa – sono i più antichi che si conoscano fra quelli prodotti dall'uomo), ma sono anche vere e proprie opere d'arte: scene di animali (cavalli, leoni, rinoceronti e altri ancora) ritratti con precisione, sensibilità artistica e religiosa. A tratti sembra di ammirare schizzi a carboncino o ad acquarello di artisti contemporanei, o addirittura scene d'insieme nello stile di Picasso. L'accesso alla grotta è vietato al pubblico, per preservare i preziosi ritrovamenti (non solo i dipinti, ma anche resti fossili, impronte, ossa e scheletri, per non parlare delle magnifiche formazioni calcaree) ma anche perché i pericolosi gas tossici che essa contiene (radon e biossido di carbonio) non permettono una permanenza prolungata al proprio interno. Herzog ha ottenuto il raro permesso di girare all'interno della caverna dal ministero della cultura francese, sotto strette condizioni: poche ore di lavoro al giorno per una sola settimana, una troupe ridotta ai minimi termini (lo stesso regista era responsabile dell'illuminazione), il divieto di toccare o di avvicinarsi troppo alle pareti, l'utilizzo di speciali macchine da ripresa costruite appositamente. Il fascino delle immagini (che spesso "parlano da sole", nonostante l'immancabile voce off del nostro regista) si sposa con la percezione di essere testimoni di un momento fondamentale dello sviluppo del genere umano, quando l'Homo sapiens coabitava ancora con il cugino Neanderthal ma si differenziava da lui proprio per le rappresentazioni simboliche, l'arte, le cerimonie religiose e animiste. "È quasi una forma primitiva di cinema", commenta a un certo punto Herzog, riflettendo su come i disegni, già di per sé estremamente fluidi, dinamici ed espressivamente potenti, dovevano apparire illuminati dalle torce degli uomini preistorici che si muovevano nella caverna buia. Alla fine, il documentario è una sorta di viaggio nel tempo: consente di guardare noi stessi nel passato e le tracce che abbiamo lasciato. Oltre alla grotta, il film mostra alcuni scienziati al lavoro e indaga sull'ambiente circostante (siamo a pochi chilometri dal celebre Pont d'Arc, spettacolare formazione naturale sul fiume Ardèche) e su altri ritrovamenti archeologici legati al Paleolitico superiore. Inizialmente scettico sul valore artistico del 3D (che considerava solo un "trucco per il cinema commerciale"), Herzog è stato convinto a girare in tre dimensioni dal direttore della fotografia Peter Zeitlinger: dopo aver visitato la caverna si è reso conto infatti che solo il 3D avrebbe permesso di rendere sullo schermo lo stesso effetto voluto dagli autori dei dipinti, che avevano incorporato le rientranze e le rotondità delle pareti nei loro disegni. Tuttavia il regista ha dichiarato di non aver intenzione di usare nuovamente il 3D in futuro.

4 aprile 2014

The big shave (Martin Scorsese, 1967)

La grande rasatura (The big shave)
di Martin Scorsese – USA 1967
con Peter Bernuth
***

Visto su YouTube.

Un uomo, nel suo bagno, si appresta a radersi davanti allo specchio. Ma taglio dopo taglio, asporta via non solo barba e peli ma anche interi lembi di pelle, mutilandosi sanguinosamente. Il terzo e il più celebre dei cortometraggi girati da Scorsese quando era studente di cinema alla New York University è una surreale e grottesca metafora del coinvolgimento militare americano in Vietnam (il titolo di lavorazione, che figura anche al termine del film, era infatti "Viet '67"). A questo proposito il regista ha dichiarato che il protagonista è "un simbolo dell'americano medio di quei tempi. Avevo anche pensato di chiudere con immagini d'archivio del Vietnam, ma erano inutili". Nella sua brevità (poco più di 5 minuti) il film – completamente muto, ma accompagnato da una canzone del 1939, "I Can't Get Started" di Bunny Berigan – è caratterizzato da un montaggio vario e vivace, che culmina in sequenze da grand guignol particolarmente scioccanti (da notare che si tratta della prima opera a colori di Scorsese). Nello stesso anno, il 1967, il regista italo-americano avrebbe debuttato nel lungometraggio con "Chi sta bussando alla mia porta?".

It's not just you, Murray! (M. Scorsese, 1964)

Non sei proprio tu, Murray (It's Not Just You, Murray!)
di Martin Scorsese – USA 1964
con Ira Rubin, Sam De Fazio
**1/2

Visto su YouTube, in originale.

Giunto in tarda età, il gangster Murray racconta in video la sua vita: dagli inizi poveri e umili negli anni trenta, al lucroso mestiere di distillatore clandestino di gin, alla prigione, al successo come scrittore di musical a Broadway, a varie attività più o meno lecite, al matrimonio e alla famiglia, sempre con il fidato amico Joe al suo fianco (fidato... ma non troppo, visto che a sua insaputa lo tradisce in continuazione, tanto in "affari" quanto in amore). Non scevro di un'ironia sopra le righe (a tratti alla Woody Allen) che ne costituisce la chiave principale, il corto (15 minuti) accatasta temi che diverranno tipicamente scorsesiani – il crimine, l'amicizia, la famiglia, il successo, il tradimento – nell'ambiente urbano italo-americano (impagabile la mamma italiana che gli offre in continuazione gli spaghetti, interpretata da Catherine Scorsese, la vera madre di Martin) e si conclude con un surreale e metacinematografico girotondo felliniano. Dei tre brevi film girati da studente di cinema, questo (scritto insieme al compagno di corso Mardik Martin, con cui collaborerà anche in "Mean streets", "New York, New York" e "Toro scatenato") è quello che più sembra anticipare i contenuti dei grandi lungometraggi successivi.

What's a nice girl like you doing in a place like this? (M. Scorsese, 1963)

What's a nice girl like you doing in a place like this?
di Martin Scorsese – USA 1963
con Zeph Michaelis, Mimi Stark
**

Visto su YouTube, in originale.

Harry, giovane scrittore newyorkese, non riesce a concentrarsi sul proprio lavoro (né su nient'altro) perché ossessionato da un quadro, appeso nel proprio appartamento, che raffigura un uomo in barca. Lo "salverà" una ragazza conosciuta durante una festa, che diverrà sua moglie. Vera e propria commedia dell'assurdo, questo cortometraggio (di 9 minuti) girato quando era studente alla scuola di cinema della New York University, rappresenta il debutto di Martin Scorsese ed è fortemente debitore (fra le altre cose) ai lavori di Godard, Truffaut e della Nouvelle Vague francese (il regista stesso lo avrebbe definito "una variazione sull'ultima sequenza di Jules e Jim"). Completamente in bianco e nero, è caratterizzato dalla voce fuori campo, da tocchi di ironia alla Mel Brooks (vedi "l'amico" di Harry, che quando è chiamato in causa dal narratore ripete le sue stesse parole) ma soprattutto da un montaggio che mescola rapidamente immagini fisse, primissimi piani e persino brevi animazioni o rudimentali effetti speciali. Lo stesso Scorsese, non accreditato, interpreta l'uomo nel quadro. Contenutisticamente, è già Scorsese al 100%, con il suo ritratto di un uomo in preda alle proprie ossessioni all'interno di un ambiente che funge da cornice. Prima del lungometraggio d'esordio (nel 1967), seguiranno altri due corti.