31 dicembre 2014

Viale del tramonto (Billy Wilder, 1950)

Viale del tramonto (Sunset Boulevard)
di Billy Wilder – USA 1950
con William Holden, Gloria Swanson
****

Rivisto in DVD, con Paola, Marta, Esther, Beatrice, Giovanni, Rachele e Sabrina.

Joe Gillis (Holden), sceneggiatore cinematografico in bolletta, capita per caso nella lussuosa ma fatiscente villa di Norma Desmond (Swanson), nel Sunset Boulevard di Hollywood. Un tempo celebre diva del muto, Norma vive ora come una reclusa in un ambiente funereo e decadente, in compagnia del fedele maggiordomo Max, immersa nei ricordi del passato ("Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo!") e nei sogni di tornare a essere di nuovo una star del grande schermo. La donna (alla quale Max manda finte lettere di ammiratori per sostenere le sue illusioni di non essere stata dimenticata) assume Gillis per aiutarla a redigere il copione di quello che dovrebbe essere il suo ritorno sulle scene: un'ambiziosa e colossale "Salomè" da far dirigere al grande regista Cecil B. De Mille. Il disperato bisogno di denaro porta l'uomo ad accettare di trasferirsi nella villa, dove diviene il mantenuto e poi l'amante della stagionata diva. Ma il crollo delle illusioni sarà fatale ad entrambi. Dal folgorante incipit (con la voce narrante fuori campo che si rivelerà essere quella di un morto) all'esposizione dell'intera vicenda in flashback, dalle affascinanti e tetre scenografie della villa di Norma (che sembrano uscite da "Dracula") al cinico ritratto dello star system e di una Hollywood che procede a passo spedito, dimenticando le proprie fondamenta (da brividi la scena della partita a bridge, fra i cui giocatori si riconoscono celebri star del muto come Buster Keaton), dalla regia di un Billy Wilder a suo agio anche nel noir (come d'altronde aveva già dimostrato con "La fiamma del peccato"), peraltro contaminato da tocchi di horror e di commedia, alla fotografia impietosa di John F. Seitz, dalla sceneggiatura (dello stesso Wilder con Charles Brackett – fu la loro ultima collaborazione – e D. M. Marshman, Jr.) alle musiche di Franz Waxman, tutto concorre a rendere questo film uno dei capolavori (autoreferenziali o meno) della settima arte.

Dramma della follia, della vecchiaia e delle illusioni di grandezza, ma anche e soprattutto un potente e crudele omaggio al cinema stesso: non (solo) alla sua capacità di far sognare (si pensi alla giovane Betty, ma anche allo stesso Gillis, che si tuffano con entusiasmo e ingenuità nel tentativo di intraprendere una carriera dorata nella "fabbrica dei sogni") ma anche a quello di fissare e "imbalsamare" su pellicola le esistenze di attori e persone che invece, nel mondo reale, sono destinati a invecchiare e a svanire per sempre (la scena in cui Norma riguarda i suoi vecchi film, girati quando era ancora giovane, fa sorgere alla mente un inevitabile parallelo con "Il ritratto di Dorian Gray"). Gloria Swanson era stata un'autentica attrice del muto (gli spezzoni che vengono proiettati, così come le sue foto da giovane, appartengono davvero a quell'epoca), diretta in un occasione proprio da quell'Erich von Stroheim che qui dà vita all'inquietante figura del maggiordomo Max (suo "scopritore", regista e primo marito, che ha scelto di restare per tutta la vita al suo fianco come servitore). Nei panni di sé stessi compaiono anche la giornalista scandalistica Hedda Hopper ma soprattutto De Mille, all'epoca il regista più influente di Hollywood, ritratto mentre è impegnato a dirigere l'ennesimo kolossal biblico negli studi della Paramount ed evocato pure nella battuta conclusiva ("Mr. De Mille, sono pronta per il mio primo piano!"). La scelta dei due attori protagonisti non fu facile: per il ruolo di Norma Desmond (il personaggio, anche nel nome, è ispirato a Mabel Normand), i produttori pensarono a Mae West, Mary Pickford, Norma Shearer e Pola Negri; per quello di Gillis furono considerati Montgomery Clift (che rifiutò per timore di essere bollato come gerontofilo, anche se all'epoca frequentava proprio una donna più vecchia di lui), Fred MacMurray, Marlon Brando e Gene Kelly, prima di ripiegare su Holden (che con Wilder lavorerà poi in altre tre occasioni). Il film fu candidato a 11 premi Oscar, vincendo quelli per la sceneggiatura, la scenografia e la colonna sonora.

29 dicembre 2014

Love actually (Richard Curtis, 2003)

Love Actually - L'amore davvero (Love Actually)
di Richard Curtis – GB 2003
con Hugh Grant, Colin Firth
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Dalla penna di Richard Curtis (già sceneggiatore di successi come "Quattro matrimoni e un funerale" e "Notting Hill", qui alla sua prima regia), una pellicola corale a sfondo romantico-natalizio che segue in parallelo una decina di love story di vario genere che si dipanano a Londra sotto Natale: il film comincia infatti quando mancano cinque settimane alle festività e si conclude proprio la notte di Natale (con un'appendice collocata un mese più tardi, che tira le fila e mostra le conseguenze di tutte le vicende). Girato con un cast di stelle britanniche, il film ricorda certe pellicole corali di Robert Altman (e infatti Curtis ha dichiarato a più riprese come i riferimenti siano "Nashville" e "America Oggi"), anche se i collegamenti fra le varie storie sono molto tenui e di poca importanza per lo sviluppo delle singole vicende. Hugh Grant è il primo ministro inglese, appena eletto, che si scopre attratto della sua assistente Natalie (Martine McCutcheon). Colin Firth è uno scrittore divorziato che si trasferisce a lavorare in Francia, dove si innamora della domestica portoghese Aurelia (Lúcia Moniz), nonostante nessuno dei due conosca la lingua dell'altro. Bill Nighy è Billy, un attempato cantante rock che cerca di tornare sulla cresta dell'onda grazie a una melensa cover di una canzone natalizia. Harry (Alan Rickman), direttore di un'azienda di design, è sposato con Karen (Emma Thompson) ma ha la tentazione di una scappatella extraconiugale con una sua provocante dipendente (Heike Makatsch). La sua impiegata Sarah (Laura Linney) è attratta dal bel collega Karl (Rodrigo Santoro), ma deve anche badare al fratello ricoverato in un istituto psichiatrico. Mark (Andrew Lincoln) è innamorato della fresca sposina (Keira Knightley) del suo miglior amico. Daniel (Liam Neeson), che ha appena perso la moglie, aiuta il figlio undicenne a dichiararsi a una coetanea. Il giovane fattorino Colin (Kris Marshall) intende viaggiare in America perché è convinto che laggiù le ragazze siano più disinibite. I timidi John (Martin Freeman) e Judy (Joanna Page) si conoscono mentre lavorano come controfigure per le scene di sesso in un set cinematografico.

L'amore descritto da Curtis assume vari aspetti e varie facce, e non sempre si tratta di quello romantico: ci sono anche i valori dell'amicizia (Billy, che sceglie di trascorrere il Natale in compagnia del suo unico vero amico, ovvero il grasso manager che gli è sempre stato vicino) o degli affetti familiari (Sarah per il fratello, Daniel per il figlio). E se la maggior parte delle storie si concludono con l'inevitabile lieto fine (matrimoni, dichiarazioni, nascita di nuovi amori), altre lasciano il finale aperto o prevedono una rinuncia (Mark) o addirittura una separazione (Harry e Karen). Naturalmente, come in ogni pellicola corale, non tutte le storie sono interessanti in egual maniera: se alcuni segmenti sono davvero originali (quello con Martin Freeman e Joanna Page, per esempio), altri risultano più banali (quelli di Laura Linney o di Colin Firth). A restare più impressi sono comunque gli episodi con Hugh Grant (davvero azzeccato nel ruolo di un premier impacciato ma battagliero) e con Bill Nighy (il cantante che provoca scandalo in tv con le sue dichiarazioni senza peli sulla lingua), ma anche quello con Keira Knightley (forse il segmento scritto meglio, e di cui vanno ricordate almeno due sequenze: quando la ragazza scopre che Mark è innamorato di lei guardando il video delle nozze, un montaggio di primi piani del suo volto; e la "dichiarazione" finale dello stesso Mark, attraverso una serie di cartelli scritti a mano). Numerosi e onnipresenti i riferimenti pop, com'è consuetudine per Curtis, in campo musicale ma non solo: c'è persino un inserto da "Titanic". Nel cast anche Billy Bob Thornton (il presidente degli Stati Uniti, in visita a Downing Street: chissà che la scena in cui viene messo in riga da Grant non sia il motivo per cui il film non è particolarmente amato in America), Rowan Atkinson (il commesso della gioielleria: Curtis aveva lavorato proprio alla serie "Mr. Bean") e brevi cameo di Claudia Schiffer e Denise Richards. Il titolo è la contrazione della frase "Love actually is all around", ossia "L'amore è veramente ovunque", in riferimento alla canzone "Love is all around" (già presente in "Quattro matrimoni e un funerale" e qui parodiata da Bill Nighy che nella sua cover la trasforma in "Christmas is all around").

27 dicembre 2014

Big Hero 6 (D. Hall, C. Williams, 2014)

Big Hero 6 (id.)
di Don Hall, Chris Williams – USA 2014
animazione digitale
**

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Dopo l'acquisizione della Marvel da parte della Disney, prima o poi doveva succedere: un "classico" d'animazione disneyano tratto dai fumetti supereroistici della Casa delle Idee. Oggetto della pellicola sono un gruppo di personaggi molto marginali dell'universo Marvel, peraltro rivisitati a tal punto da dipartire notevolmente dal concetto originario. Ambientato in una futuristica "San Fransokyo" (una bizzarra fusione delle due metropoli ai lati del Pacifico: vediamo per esempio un Golden Gate con i tetti a pagoda o file di ciliegi che costeggiano le celebri salite percorse dai tram), il film ha come protagonista Hiro, quattordicenne genio della robotica, che riprogramma Beymax (robot-infermiere creato dal fratello maggiore Tadashi) come robot da combattimento per scoprire chi è il misterioso super-villain mascherato che ha provocato la morte di Tadashi. A Hiro e Beymax si uniscono quattro giovani ricercatori (Gogo, Wasabi, Honey Lemon e Fred) che assumono colorate identità da supereroi. La trama d'azione, che oltre ai comics si ispira ai manga e agli anime robotici del Sol Levante (l'ambientazione è dunque quanto mai appropriata) con echi di Osamu Tezuka, è addolcita dalla caratterizzazione dei personaggi e in particolare da quella di Beymax, tenero e pacioccone robot gonfiabile, la cui programmazione originale è rivolta soltanto alla cura e all'assistenza sanitaria, che vede Hiro prima di tutto come un suo "paziente" e che fa di tutto per assicurarne il benessere psico-fisico. Senza di lui, il film avrebbe sinceramente poco di originale o di memorabile da offrire agli spettatori, anche dal punto del coinvolgimento emotivo, nonostante l'ottima tecnica di animazione digitale (il "gap" fra Disney e Pixar è stato orami colmato da tempo, e d'altronde John Lasseter figura come produttore esecutivo anche dei lavori della casa di Burbank: questo, per di più, è già il secondo lungometraggio disneyano – dopo "Ralph Spaccatutto" – che uno spettatore distratto potrebbe facilmente scambiare con un prodotto Pixar anche dal punto di vista contenutistico). Naturalmente, trattandosi di una pellicola ispirata a personaggi Marvel (anche se la produzione è interamente Disney, senza coinvolgimento dei Marvel Studios), era inevitabile un cameo di Stan Lee: la sua versione digitale compare nella scena dopo i titoli di coda, nei panni del padre di Fred. Al film è abbinato un simpatico cortometraggio in animazione 2D, "Winston", su un cagnolino e il suo rapporto con il cibo.

24 dicembre 2014

Il miracolo della 34ª strada (G. Seaton, 1947)

Il miracolo della 34ª strada (Miracle on 34th Street)
di George Seaton – USA 1947
con Maureen O'Hara, Edmund Gwenn
***

Rivisto in divx.

In vista delle festività natalizie, Doris Walker (Maureen O'Hara), addetta alle pubbliche relazioni di un grande magazzino di New York, assume come Babbo Natale un arzillo vecchietto (Edmund Gwenn) che afferma di chiamarsi Kris Kringle e di essere l'unico, autentico, Santa Claus. Il suo bizzarro modo di interpretare il proprio lavoro (suggerendo ai clienti dove possono trovare i giocattoli che il negozio non ha a disposizione, ovvero rivolgendosi alla concorrenza) fa sensazione presso l'opinione pubblica e rende estremamente popolare il grande magazzino, tanto che l'iniziativa contagia presto altri negozianti, in una corsa (non del tutto disinteressata, sia chiaro) alla bontà e all'altruismo. Ma quando uno psichiatra lo denuncia, la sua sanità mentale diventa oggetto di un processo in tribunale. L'uomo sarà difeso da un giovane avvocato (John Payne) che intende far riconoscere ufficialmente con una sentenza l'esistenza di Babbo Natale. Uno dei primi e più celebri film "natalizi" hollywoodiani, rifatto più volte in seguito (in particolare nel 1994, con Richard Attenbourogh nei panni di Kris Kringle), è una commedia che ha fra i suoi molti pregi quello dell'ambiguità: la pellicola funziona ed è godibile allo stesso modo se si crede che Kris sia davvero Babbo Natale o, viceversa, se si interpreta la sua storia come quella di un folle vaneggiamento. Il "miracolo" del titolo, infatti, si riferisce allo spirito natalizio, all'altruismo e alla generosità che finiscono col permeare tutti i personaggi, dai proprietari dei grandi magazzini fino alla divorziata Doris, inizialmente scettica e contraria a tutto ciò che non è "realistico", al punto da rifiutarsi di leggere fiabe alla propria figlia (una giovanissima Natalie Wood): "altrimenti perderà il senso della realtà e aspetterà che un giorno si presenti il principe azzurro", afferma, dimostrando che il suo atteggiamento è frutto delle proprie delusioni sentimentali. La presenza di Kringle riporterà anche lei a sognare e a "credere, anche quando il buon senso afferma il contrario": ma il film non è mai retorico, lascia che ognuno si faccia la propria idea sulla reale natura di Babbo Natale, e fra le altre cose fa anche riflettere sul rapporto fra la festività e il consumismo, il commercio e la pubblicità, la giustizia e la politica (impagabili i personaggi del giudice, in estremo imbarazzo nel doversi esporre dichiarando davanti all'opinione pubblica che per la legge Babbo Natale non esiste; o del procuratore distrettuale, messo in difficoltà dal suo stesso figlioletto durante l'udienza). L'intera sequenza in tribunale richiama alcune celebri sequenze del fumetto americano, come quelle del processo a Poopdeck Pappy (il padre di Braccio di Ferro) o a Eta Beta, in cui le istituzioni tentano in qualche modo di mettere "fuori gioco" personaggi fuori dagli schemi e dalle regole, naturalmente finendo con il riconoscere che non sempre follia e sanità mentale sono facilmente delimitabili. In questo caso, al termine del film, l'identità di Kris Kringle come Babbo Natale sarà paradossalmente "provata" dal fatto che le Poste americane, diretta emanazione del governo degli Stati Uniti, lo riconoscono come tale perché consegnano a lui le missive che i bambini indirizzano a Santa Claus! Seaton, anche sceneggiatore, si ispirò a un racconto di Valentine Davies. Curiosamente, i produttori decisero di fare uscire il film a maggio (perché d'estate i cinema erano più affollati), addirittura celandone l'ambientazione natalizia nei trailer e nelle locandine. Nel cast anche Porter Hall (lo psichiatra) e Gene Lockhart (il giudice). Quattro premi Oscar, fra cui Gwenn come miglior attore non protagonista.

20 dicembre 2014

Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate (P. Jackson, 2014)

Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate
(The Hobbit: The Battle of the Five Armies)
di Peter Jackson – USA/Nuova Zelanda 2014
con Martin Freeman, Richard Armitage
**

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Risvegliato alla fine della pellicola precedente, il drago Smaug scatena la propria furia sulla città di Pontelagolungo, ma Bard l'arciere lo trafigge con una freccia, uccidendolo. I nani possono così prendere possesso di Erebor e del tesoro in essa contenuto, con Thorin Scudodiquercia che rifiuta però di spartirlo con gli uomini di Esgaroth e con gli elfi del Reame Boscoso. Quando una guerra fra le tre fazioni sembra imminente (in aiuto dei nani è giunto Dàin Piediferro, cugino di Thorin, dai Colli Ferrosi), ecco che gli orchi guidati da Azog e da Bolg affiorano nella vallata, costringendo uomini, nani ed elfi a unire le forze contro il nemico comune in una colossale battaglia (denominata "delle cinque armate" perché, sul finire, si aggiungono anche le aquile delle Montagne Nebbiose, condotte fin lì da Radagast; a proposito, perché non mantenere la denominazione classica, quella cui eravamo abituati grazie alla traduzione italiana del libro, ovvero “battaglia dei cinque eserciti”?). Il terzo e ultimo capitolo della trilogia de "Lo Hobbit" è dunque occupato quasi per intero da combattimenti. Smaug, che tanto timore incuteva e che era la cosa migliore del deludente secondo film, viene fatto fuori in pochi minuti, addirittura prima ancora che sullo schermo appaia il titolo dell'episodio (non era meglio a questo punto che morisse alla fine del capitolo precedente?); assistiamo poi al progredire dell'avidità di Thorin, che lo rende cieco e sordo di fronte alle richieste altrui, spingendo i nani sul ciglio della catastrofe e costringendo l'hobbit Bilbo a sottrargli l'Archengemma, la "pietra del re", per consegnarla a Bard e Thranduil affinché possano trattare con lui da una posizione più adeguata; e infine, battaglie, scontri e mazzate a tutto spiano, per quello che è un vero e proprio film bellico (sia pur fantasy), con il ritorno di Gandalf (fuggito da Dol Guldur grazie allo spettacolare intervento degli altri membri del "bianco consiglio": Elrond, Saruman e soprattutto una Galadriel potente come non mai, in grado di "esorcizzare" letteralmente il Negromante e i suoi Nazgul), le solite imprese da scavezzacollo di Legolas, e l'esplicitazione di alcuni eventi che nel libro venivano solo accennati (la morte di Kili e Fili, per esempio).

Pachidermico, ripetitivo e con diversi difetti di sceneggiatura (non tutti i fili vengono tirati – ma aspettiamo l'edizione estesa – e continuo a pensare che sussistano problemi di continuità con la trilogia del "Signore degli Anelli"), il capitolo conclusivo della trilogia non è certo esaltante ma comunque soddisfacente. I danni, purtroppo, erano stati fatti in precedenza: con la scelta di dilatare la storia su tre pellicole (ne sarebbe bastata una, o al massimo due se proprio si voleva dedicare tanto spazio alla battaglia finale), con l'introduzione di sottotrame spurie come quella di Tauriel (che quantomeno si conclude decentemente, dando maggior spessore anche al personaggio di Thranduil) e, diciamolo, con un casting non eccezionale. Nonostante il titolo "Lo Hobbit", nel terzo capitolo Bilbo Baggins rimane quasi un personaggio marginale, sicuramente meno al centro della storia rispetto a Thorin ma anche a Bard, per non parlare degli stessi Legolas o Tauriel. Qualcuno ha criticato il personaggio comico di Alfrid, lacché del governatore di Esgaroth: ma si tratta di una figura innocua, per quando banale e infantile, che ben si sposa con i toni più leggeri e fiabeschi che questa trilogia ha (o dovrebbe avere) rispetto alla sua sorella maggiore. Spettacolari le scene di battaglia e la resa di armi e armature, così come le varie creature e cavalcature (dal cinghiale di Dàin al cervo di Thranduil, dai "mangiaterra" degli orchi – sorta di vermoni in stile "Dune" – ai pipistrelli giganti), per non parlare del climax con il doppio scontro fra Thorin e Azog da un lato e fra Legolas (un Orlando Bloom un po' imbolsito rispetto a dieci anni prima) e Bolg dall'altro. Solo fugaci apparizioni per Beorn (che giunge insieme alle aquile) e lo stesso Radagast, mentre molti dei nani sono parecchio sacrificati (con le eccezioni, ancora una volta, di Balin, Dwalin, Kili e Fili). Il finale si ricollega alla scena iniziale de "La compagnia dell'anello", con l'arrivo di Gandalf a Casa Baggins per il centoundicesimo compleanno di Bilbo. Quando il progetto era quello di dividere "Lo Hobbit" in due soli film, il titolo di lavorazione dell'episodio conclusivo era "There and Back Again" ("Laggiù e di nuovo indietro"). La canzone finale è di Billy Boyd. Il film segna il probabile addio di uno stanco Peter Jackson (e, nell'imminente, del cinema hollywoodiano) alla Terra di Mezzo: a meno che, prima o poi, non si decida di realizzare nuove pellicole su alcune delle numerosissime storie contenute negli altri testi tolkieniani (per esempio a quelle del "Silmarillion": io punto sulle vicende di Beren e Lúthien o su quella di Túrin Turambar).

19 dicembre 2014

Come uccidere vostra moglie (R. Quine, 1965)

Come uccidere vostra moglie (How to Murder Your Wife)
di Richard Quine – USA 1965
con Jack Lemmon, Virna Lisi
***

Rivisto in divx, per ricordare Virna Lisi.

Il titolo può far pensare a una black comedy: in realtà la pellicola dell'esordio di Virna Lisi a Hollywood (dove fu chiamata con l'intento di farne la nuova Marilyn Monroe) è una spigliata commedia satirica, apparentemente sessista e misogina, ma che in realtà prende di mira tanto l'istituzione del matrimonio quanto un certo tipo di sciovinismo maschilista. Certo, la vicenda va contestualizzata per godersela al meglio, e non è assolutamente da prendere sul serio (era politically uncorrect già negli anni sessanta, ben prima dell'avvento del femminismo!). Lemmon interpreta Stanley Ford, agiato disegnatore di fumetti refrattario al matrimonio, il cui personaggio (Brash Brannigan, agente segreto) viene pubblicato su "463 quotidiani, da Bangor nel Maine fino ad Honolulu". Il mattino dopo una colossale sbronza, scopre di essersi incredibilmente sposato con una sexy bionda italiana (la Lisi, greca nella versione doppiata nel nostro paese) che non parla una parola di inglese ma che si trasferisce immediatamente a casa sua, cambiandone radicalmente la quotidianità e lo stile di vita: per cominciare, fa scappare via il suo fedele valletto (uno straordinario Terry-Thomas), che non tollera di lavorare per "gentiluomini sposati"; in secondo luogo, scombussola la sua routine e il suo equilibrio psico-fisico, trasformandolo da single atletico e metodico in un marito sovrappeso e frustrato; e questo si ripercuote anche sul personaggio delle sue strisce, che da spia ardita e avventurosa diventa a sua volta protagonista di comiche scenette quotidiane di vita coniugale. Al culmine dell'esasperazione, Ford decide di sopprimere la propria moglie... non nella realtà, naturalmente, ma solo nel fumetto. Ma quando la donna scompare anche nella vita reale, l'uomo è accusato di averla uccisa con le stesse modalità che ha riprodotto nelle vignette. Al processo, tuttavia, saprà cavarsela con un'arringa inaspettata e... "liberatoria". Scatenata farsa sul rapporto fra i sessi, o meglio fra mariti e mogli, dai toni surrealmente paradossali, che tuttavia è utile per comprendere come fossero percepiti i ruoli dei coniugi dell'alta borghesia nell'America di metà secolo. Memorabile la prova di una Lisi che a tratti sembra davvero una versione aggiornata di Marilyn Monroe (e del cui personaggio, curiosamente, in tutto il film non viene mai detto il nome), con scene cult come la fuoriuscita dalla torta nuziale (quando incontra per la prima volta Lemmon) o l'incursione nel "circolo" dove i mariti si rifugiano per stare lontani dalle proprie mogli. Nel cast anche gli ottimi caratteristi Eddie Mayehoff (l'amico avvocato di Ford) e Claire Trevor (la tirannica moglie del suddetto). Molto azzeccata anche la colonna sonora di Neal Hefti, che fornisce un impareggiabile commento musicale a tutte le scene, ma in particolare a quelle in cui Ford, nei panni di Brash Brannigan, impersona dal vivo le sequenze d'azione che riprodurrà poi nelle sue strisce a fumetti, debitamente fotografate a distanza dal valletto Charles. Indimenticabile "la macchina che fa gloppita gloppita", ovvero l'impastatrice di cemento con la quale Ford porta a termine il suo piano "omicida". L'imborghesimento di Brash Brannigan nei fumetti può ricordare quello che è effettivamente accaduto, nel dopoguerra, a tanti eroi delle comic strip avventurose (uno su tutti: Topolino!).

18 dicembre 2014

Primer (Shane Carruth, 2004)

Primer
di Shane Carruth – USA 2004
con Shane Carruth, David Sullivan
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Due giovani ingegneri, lavorando nel loro garage a un macchinario che riduca la gravità, costruiscono invece per caso una bizzarra macchina del tempo. Il suo funzionamento è particolare: al suo interno il tempo può scorrere al contrario, ma solo dal momento in cui la macchina viene attivata. Se viene accesa alle otto (ora A), per esempio, permette a chi vi entrasse alle dodici (ora B), e vi rimanesse per quattro ore (B-A), di uscire alle otto, ossia quando la macchina era stata accesa. I due inventori ne approfittano per rivivere interamente alcune giornate, stando naturalmente attenti a non incontrare mai i loro "doppi" che in quei momenti coesistono con loro: all'inizio lo fanno allo scopo di arricchirsi, giocando in borsa o alle scommesse sportive; poi, per rimediare ai propri errori o per rifarsi un'altra vita, creando però paradossi e futuri alternativi. Girato fra amici, senza effetti speciali e con un budget di soli 7000 dollari, questo piccolo lungometraggio indipendente ha fatto furore al Sundance Film Festival del 2004, vincendo il premio della giuria per il miglior film drammatico. Originale nell'impianto, un po' confuso nella sceneggiatura (a tratti cervellotica, visti i dialoghi tecnici e le implicazioni filosofiche), e decisamente poco lineare nello sviluppo: se non lo si segue con attenzione, è facile perdere il filo (e a dire il vero, la confusione può permanere anche dopo ripetute visioni). Ha però il pregio di non enfatizzare o iper-drammatizzare l'aspetto fantascientifico o quello della scoperta scientifica, grazie a un approccio quanto mai realistico e down-to-earth: probabilmente, se venisse davvero inventata una macchina del tempo, il contesto sarebbe più simile a questo che non a qualsiasi altro film sull'argomento. L'idea del funzionamento della macchina proviene dai diagrammi di Feynman che mostrano interazioni in cui la direzione in cui il tempo scorre è indifferente. Mai doppiato in italiano, a quanto ne so. Carruth, oltre che regista e protagonista, è anche sceneggiatore, produttore, montatore e autore della colonna sonora.

16 dicembre 2014

Nanuk l'eschimese (Robert J. Flaherty, 1922)

Nanuk l'eschimese (Nanook of the North)
di Robert J. Flaherty – USA 1922
con Allakariallak, Nyla, Cunayou
***

Visto su YouTube, con Sabrina.

Definito come il primo documentario di lunga durata della storia del cinema (escludendo dunque quanto prodotto nei primissimi anni della settima arte dagli operatori dei fratelli Lumière, quando di fatto quasi ogni pellicola era da considerarsi un documentario!), questo film seminale mostra la difficile vita di una famiglia di eschimesi (o, per la precisione, di inuit) fra le distese di ghiaccio del Canada artico. Sin dagli anni dieci Flaherty compì diversi viaggi attorno alla Baia di Hudson, alla ricerca di un buon soggetto per un film, finché non decise di unirsi alla famiglia in questione per riprenderne su pellicola gli spostamenti, le battute di caccia (alle foche, ai trichechi, ai pesci, alle volpi), le usanze tradizionali e le tecniche di sopravvivenza (celebre è la scena della costruzione dell'igloo). Protagonista è Nanuk (il cui vero nome era Allakariallak), capo di una numerosa famiglia che comprende la moglie Nyla e diversi figli. Il film fece scalpore, e contribuì a fondare un filone – quello del documentario antropologico – che lo stesso Flaherty continuò a frequentare con i suoi lavori successivi (tra cui "Moana", "L'uomo di Aran" e "Tabù"). E pazienza se alcune sequenze (come la visita all'emporio dell'uomo bianco, dove Nanuk finge stupore davanti a un grammofono) furono in realtà "messe in scena" dal regista a beneficio degli spettatori: erano tempi pionieristici, e il concetto di "cinema-verità" non era ancora stato inventato. Anche altri dettagli, se è per questo, sono stati piegati alle esigenze filmiche: Nanuk e i suoi, per esempio, conoscevano le armi da fuoco, eppure davanti all'obiettivo utilizzano soltanto i metodi tradizionali di caccia e di pesca con gli arpioni. Tutto ciò non va comunque a discapito del senso di autenticità, soprattutto se il lungometraggio è paragonato ai contemporanei film di finzione: e la pellicola resta un documento prezioso nel mostrare la dura vita nell'artico, i costumi, gli spostamenti e le arti necessarie per sopravvivere in luoghi così freddi e ostili. Nanuk – che in fondo è il progenitore di personaggi come Dersu Uzala – è stato definito dal critico Roger Ebert come "uno degli esseri umani più vitali e memorabili mai immortalato su pellicola".

15 dicembre 2014

Astro Boy (David Bowers, 2009)

Astro Boy (id.)
di David Bowers – USA/HK/Cina 2009
animazione digitale
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Dal celebre fumetto "Tetsuwan Atom" di Osamu Tezuka, una pellicola in animazione digitale di produzione statunitense (ma realizzata a Hong Kong) che, pur riprendendone lo stile grafico e l'ambientazione fantascientifica naïf, fallisce nel costruire una storia interessante e nel dare un'anima ai personaggi. Dopo la sequenza iniziale, quella che mostra le origini del protagonista (un bambino-robot che il professor Tenma, brillante scienziato della futuristica Metro City, ha costruito con le fattezze del defunto figlio Tobio), la vicenda assume pieghe poco accattivanti ma soprattutto poco originali, con l'esilio di Astro dall'utopica città volante fino alla superficie della Terra, dove si unisce a una banda di orfani che vivono fra i rottami dei robot abbandonati dagli abitanti di Metro City (si percepiscono echi di "Wall-e", ma senza la poesia del film Pixar, oltre che di "Robots" o del bel "Il gigante di ferro"). Il tutto sfocia nell'inevitabile scontro finale con il robottone cattivo, che ha assorbito dentro di sé il malvagio sindaco della città. Senza infamia e senza lode il comparto tecnico: a livello di character design, è da apprezzare la scelta di aver mantenuto i "personaggi stock" di Osamu Tezuka (Mustachio/Ban, Elefun/Ochanomizu, Hamegg; come assistente di Tenma compare lo stesso Tezuka!), così come gli accenni alle leggi asimoviane della robotica. Meno piacevoli sono i continui riferimenti culturali agli Stati Uniti (la bambina che cita il 4 luglio, per esempio) e poco memorabili i personaggi di contorno (tranne forse le "spalle comiche", come il cane robotico/pattumiera o i tre robot rivoluzionari comunisti). La pellicola è stata praticamente snobbata in Giappone, nonostante la grande popolarità del personaggio.

14 dicembre 2014

La prova (Jean-Claude Van Damme, 1996)

La prova (The quest)
di Jean-Claude Van Damme – USA 1996
con Jean-Claude Van Damme, Roger Moore
**1/2

Rivisto in TV.

Negli anni venti, in una città segreta nel cuore del Tibet, viene organizzato un grande torneo di arti marziali al quale partecipano sedici campioni provenienti da ogni parte del mondo. In sostituzione del rappresentante americano, il pugile Maxie Devine (James Remar), si presenta Christopher Dubois (Van Damme), saltimbanco di strada reduce da mille peripezie (fuggito dalla propria patria perché nei guai con i gangster e la polizia, viene imprigionato dai pirati e poi venduto come schiavo su un'isola del sud-est asiatico, dove è addestrato all'arte del muay thai). Il premio per il vincitore è un'enorme statua d'oro che rappresenta un drago: ma per conquistarla, Dubois dovrà sconfiggere numerosi avversari, ciascuno in rappresentanza di una diversa nazione e dotato di una tecnica differente (il cinese usa il wushu, il giapponese il sumo, il francese il savate, il russo il sambo, il brasiliano la capoeira, il greco il pancrazio, ecc.). L'esordio di Van Damme alla regia ricorda nella trama il suo primo successo da attore, "Senza esclusione di colpi", anch'esso incentrato su un torneo di combattimenti a tecnica libera, ma a differenza di quello può contare su una buona confezione (ottima la fotografia, suggestivi gli scenari esotici). Prima che cominci il torneo, c'è una parte (forse un po' troppo lunga) che introduce il personaggio nel setting della Grande Depressione e ci mostra come arriva in Tibet, in compagnia del trafficante-contrabbandiere Lord Dobbs (Roger Moore) e della bella giornalista Carrie Newton (Janet Gunn). Ma è solo dall'inizio dei vari scontri che la pellicola decolla veramente, ricordando a tratti videogiochi come "Street Fighter" (per la caratterizzazione dei diversi personaggi) o il torneo Tenkaichi di "Dragon Ball" (assistiamo qui a tutti gli incontri, non solo a quelli che coinvolgono il protagonista: gli ottavi di finale, i quarti, le due semifinali e la finale contro il campione mongolo). Per i fan di Van Damme, ma non solo.

13 dicembre 2014

Porgi l'altra guancia (Franco Rossi, 1974)

Porgi l'altra guancia
di Franco Rossi – Italia 1974
con Bud Spencer, Terence Hill
*1/2

Rivisto in TV.

Padre Pedro (Bud Spencer) e Padre G. (Terence Hill, in realtà un ex galeotto) sono due preti missionari che alla fine dell'ottocento difendono gli indigeni di una piccola località dell'America Latina dalle prepotenze del mercanti occidentali. Invisi al principale proprietario terriero della zona di Maracaibo, il marchese spagnolo Gonzaga (discendente dei conquistador!) perché si oppongono alle sue politiche di sfruttamento della popolazione, ma anche alle alte sfere della chiesa cattolica, perché tollerano le credenze locali e predicano l'uguaglianza, i due daranno vita a una comunità clandestina che vive sugli alberi e che si batte contro i colonialisti. Girato subito dopo il grande successo di "...Altrimenti ci arrabbiamo", ma più nello stile e nell'impronta di "Più forte ragazzi" (di cui recupera l'ambientazione sudamericana), è uno fra i film meno riusciti e meno popolari della coppia. A lungo, probabilmente a causa dell'attacco alla chiesa cattolica, è stato anche tra quelli trasmessi con meno frequenza in televisione. Naturalmente non mancano i classici marchi di fabbrica dei due attori (botte e sganassoni, grandi mangiate, l'immancabile sequenza davanti alla roulette), ma proprio per questo la sensazione è che l'ambientazione e gli insoliti panni che i nostri eroi si trovano a vestire non siano che un pretesto per mettere in scena, sotto diversa forma ma con molta meno verve ed efficacia, cose già viste e ripetute. Poche anche le battute e le gag da ricordare. Bud e Terence avevano già vestito (false) tonache in "Continuavano a chiamarlo Trinità". Fra i "cattivi" spiccano Jean-Pierre Aumont (monsignor Delgado) e Robert Loggia (il marchese Gonzaga).

11 dicembre 2014

Ombre malesi (William Wyler, 1940)

Ombre malesi (The letter)
di William Wyler – USA 1940
con Bette Davis, James Stephenson
***

Visto in TV.

A Singapore, la moglie inglese (Bette Davis) del proprietario di una piantagione di caucciù (Herbert Marshall) uccide a colpi di pistola un suo compatriota, accusandolo di essersi introdotto in casa mentre il marito era assente ed averle tentato violenza. L'avvocato che la difende (James Stephenson) è convinto di farla facilmente assolvere per legittima difesa; ma tutto cambia quando viene a conoscenza di una lettera, scritta quella sera stessa dalla donna all'uomo ucciso, con cui lo invitava a raggiungerlo in casa e che implica come i due fossero amanti. Da un dramma di William Somerset Maugham ("The letter", già trasposto al cinema nel 1929), un noir torbido e melodrammatico, che può contare sulla magistrale prova della Davis e su un'affascinante e morbosa atmosfera sinistra, esotica e coloniale, impreziosita dalla fotografia di Tony Gaudio ("tutta giocata di taglio sulla bianca luce diffusa dalla luna piena", commenta Mereghetti). Che la versione dei fatti fornita dalla Davis non sia veritiera è evidente da subito allo spettatore, eppure il film riesce a costruirci sopra una vicenda carica di ambiguità e di tensione, fra dilemmi morali e difficili scelte da compiere, che si sviluppa inesorabile fino al finale con la reale confessione della donna al marito. Peccato soltanto per il controfinale "punitivo" imposto dal codice Hays, che non poteva tollerare di lasciare in vita un'adultera omicida. È il secondo dei tre film girati da Wyler con la Davis nel giro di pochi anni (dopo "La figlia del vento" del 1938 e prima di "Piccole volpi" del 1941): ai tempi i due avevano una relazione, il che non impediva loro di litigare accanitamente su come rendere al meglio alcune scene. Marshall, che qui interpreta il marito, compariva anche nella versione del 1929, ma nei panni dell'uomo ucciso. Gale Sondergaard è la misteriosa vedova asiatica, Victor Sen Yung è l'ambiguo segretario dell'avvocato. Nominato a sette premi Oscar, fra cui quelli per il miglior film, la miglior regia e la miglior attrice.

10 dicembre 2014

La congiuntura (Ettore Scola, 1965)

La congiuntura
di Ettore Scola – Italia 1965
con Vittorio Gassman, Joan Collins
**1/2

Visto in divx.

Il principe Giuliano Maria Niccolai Burgos (Gassman) appartiene a una delle più nobili famiglie di Roma, ammanicata con il Vaticano e assistente presso la Santa Sede. A differenza del nonno e degli altri membri della famiglia, però, è più interessato a fare la corte (senza successo) alle ragazze nei locali notturni della città che a presenziare al soglio pontificio. Quando incontra l'affascinante inglesina Jane (Collins), accetta di buon grado di accompagnarla fino in Svizzera per "andare a trovare la zia": ma ignora che la ragazza è una truffatrice, che intende servirsi della sua auto (dotata di targa CD, ovvero Corpo Diplomatico) per varcare indisturbata la dogana e portare così a Lugano un milione di dollari da depositare nelle banche svizzere per conto di un misterioso evasore fiscale. Durante il tragitto vivranno numerose avventure (compreso il furto dell'auto, poi ritrovata, a Rapallo) e anche Jane comincerà a provare affetto per lui. Il secondo lungometraggio di Scola (come sempre scritto in coppia con Ruggero Maccari), è una spigliata commedia on the road che abbina una trama dichiaratamente da fumetto a fugaci riflessioni sulla società dell'epoca (con le prime avvisaglie di una crisi economica che si riflette non soltanto nelle grande fughe di capitali all'estero, ma anche più semplicemente nella scena che mostra gli italiani che vanno a comprare la benzina in Svizzera). Non particolarmente memorabile, nel complesso: ma è salvata dalla verve dei due protagonisti, un Gassman che aggiorna il suo personaggio ruspante e donnaiolo con una certa dose di ingenuità e di buone maniere (è pur sempre un principe!) e lo rende protagonista nel finale di sequenze d'azione e di inseguimento che sembrano uscire da un film americano (sia pur "italianizzate"), e una Joan Collins (doppiata da Maria Pia Di Meo) pulita e sbarazzina (anche se, pare, con i suoi capricci rese un inferno la lavorazione sul set). In una delle scene iniziali, Gassman canta nel night club la canzone "Ritornerai" di Bruno Lauzi.

9 dicembre 2014

The adventures of Dollie (D. W. Griffith, 1908)

The adventures of Dollie
di David Wark Griffith [e Billy Bitzer] – USA 1908
con Gladys Egan, Linda Arvidson
**

Visto su YouTube.

Durante una gita in campagna insieme a papà e mamma, la piccola Dollie viene rapita da una coppia di zingari. Ma il barile di legno in cui l'hanno rinchiusa cade nel fiume mentre il carro lo sta guadando; e la bambina, trasportata dalla corrente, riesce così a tornare dai suoi genitori. L'interesse per questo cortometraggio di dodici minuti sta tutto nel fatto che si tratta dell'esordio alla regia di David Wark Griffith, l'uomo che di lì a poco (con il colossale e controverso "Nascita di una nazione", nel 1915) inventerà il linguaggio del cinema moderno. Qui lo stile è ancora quello dei primordi, con inquadrature statiche e riprese in campo medio, anche se si può apprezzare una prima idea di montaggio e il senso dell'inquadratura. Sulla falsariga del "Rescued by Rover" dell'inglese Cecil M. Hepworth (e del "Rescued from an eagle's nest" con cui lo stesso Griffith aveva esordito come attore sei mesi prima), il film fu girato tutto in esterni, nell'arco di due giorni d'estate. Griffith, fino ad allora attore e sceneggiatore, era stato assunto dalla Biograph solo da pochi mesi: gli venne chiesto di cimentarsi alla regia in seguito a una grave malattia che aveva colpito il veterano Wallace McCutcheon, regista di punta della compagnia. In questo primo film fu affiancato da G. W. "Billy" Bitzer (non accreditato), suo futuro direttore della fotografia, col quale continuerà a collaborare fino al 1929 condividendo molte innovazioni tecnologiche. La piccola protagonista Gladys Egan, che non aveva nemmeno tre anni, divenne una "baby diva" e apparve in un centinaio di film (di cui 92 diretti dallo stesso Griffith). Linda Arvidson, che interpreta la madre, era invece la moglie del regista. Le condizioni della copia esistente non sono il massimo, ma almeno è stata conservata, come peraltro la maggior parte degli oltre 500 (!) film girati da Griffith in 24 anni di carriera (oltre 450 dei quali per la Biograph, con cui rimase fino al 1913): notevole, trattandosi di un'era pionieristica in cui la gran parte dei film realizzati sono andati perduti.

6 dicembre 2014

Il ritorno dello Jedi (Richard Marquand, 1983)

Star Wars Episodio VI: Il ritorno dello Jedi
(Star Wars Episode VI: The return of the Jedi)
di Richard Marquand – USA 1983
con Mark Hamill, Harrison Ford, Carrie Fisher
**1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

L'impero galattico sta costruendo una seconda "Morte Nera", la stazione spaziale in grado di distruggere interi pianeti, ancora più potente della prima: potrebbe essere l'arma risolutiva nel conflitto contro l'alleanza ribelle. Dopo aver salvato l'amico Ian Solo (che al termine del film precedente era stato "congelato" in un blocco di grafite e consegnato dal cacciatore di taglia Boba Fett al suo creditore, il mostruoso Jabba the Hutt) e essersi brevemente recato su Dagobah per dare l'ultimo saluto al maestro Yoda (che in punto di morte gli rivela come anche la principessa Leila sia con lui imparentata: si tratta infatti di sua sorella gemella), Luke Skywalker – divenuto ormai un cavaliere Jedi ma ancora scosso per la rivelazione che il malvagio Dart Fener è in realtà suo padre – si riunisce ai compagni per sferrare l'attacco decisivo contro il nemico. Mentre Ian, Leila, Chewbacca e i due droidi – aiutati dagli Ewok, una razza di orsetti combattenti che popolano la luna boscosa di Endor – hanno il compito di disattivare gli scudi che proteggono la Morte Nera, e Lando Calrissian guida l'attacco dei ribelli contro la stazione spaziale, Luke si troverà a confrontarsi direttamente con l'Imperatore, che tenterà di portare anche lui – come suo padre – dal "lato oscuro della Forza". La trilogia "classica" di Guerre Stellari (composta dagli Episodi IV, V e VI) si conclude con lo scontro finale fra il bene e il male. L'ago nella bilancia nel confronto fra Luke e l'Imperatore, a sorpresa (ma non troppo), è Dart Fener, ossia Anakin Skywalker (è qui che viene rivelato per la prima volta il suo vero nome), che all'ultimo istante utile ritorna improvvisamente dalla parte del figlio, rinnegando così il suo tradimento. In un certo senso, il titolo della pellicola si riferisce proprio ad Anakin e non a Luke: è lui che "torna" ad essere uno Jedi. E la successiva trilogia dei "prequel" (Episodi I, II, III), che George Lucas realizzerà una ventina di anni più tardi, lo cementerà come il personaggio centrale, il vero protagonista della saga di "Star Wars", che racconta di fatto, come lo stesso Lucas l'ha denominata, la "tragedia di Anakin Skywalker" (almeno fino ad ora: quello che la Disney farà con i capitoli che usciranno dal 2015 in poi è ancora tutto da vedere).

Se le prime due pellicole avevano ricevuto un'accoglienza unanimamente positiva, il terzo film della serie ha sempre diviso fan e critici ed è stato spesso considerato come il più debole della trilogia. Da un lato l'epico confronto finale fra Luke, Fener e l'Imperatore rappresenta di certo uno dei momenti chiave della saga; dall'altro è però indubbio che molto di ciò che lo precede, soprattutto a livello di sceneggiatura, è discutibile o manca di quel pathos e di quell'atmosfera che rendevano così speciali e "reali" le ambientazioni fantascientifiche e i rapporti fra i personaggi. Incentrare gran parte della trama sulla costruzione di una seconda Morte Nera (con tanto di attacco delle navi ribelli al suo punto critico), per cominciare, non fa altro che riproporre situazioni già viste nel primo film, mentre la trovata di rendere Leila la sorella di Luke non sembra servire alcuna reale necessità narrativa (se non quella, puramente extrafilmica, di dare il "via libera" alla sua love story con Ian Solo), visto che non sfocia in alcuno sviluppo concreto e, anzi, complica inutilmente l'albero genealogico degli Skywalker (in "Episodio III" bisognerà fare i salti mortali per spiegare come mai Fener ignorasse l'esistenza di una seconda figlia). Certo, si doveva giustificare in qualche modo la sibillina frase di Yoda nell'episodio precedente, quando rispondendo ad Obi-Wan ("Il ragazzo è la nostra ultima speranza") diceva "No, ce n'è un'altra": ma siamo sicuri che non ci fosse altro modo? Ulteriori lamentele sono dovute all'eccessivo spazio riservato agli Ewok, piccole e buffe creaturine che sembrano fatte apposta per catturare l'attenzione dei più piccoli. La serie di "Star Wars", è vero, ha sempre goduto di un certo appeal presso i bambini: ma i fan della prima ora erano ormai cresciuti, mentre i toni sembrano invece a tratti essere regrediti rispetto alle prime due pellicole. Lo stesso si può dire per la lunga sequenza iniziale ambientata nella fortezza di Jabba, che è tutto un proliferare di pupazzi, mostriciattoli e muppet di varia natura, molti dei quali dall'aria più ridicola che minacciosa (non a caso, la sequenza è oggi ricordata più per il costumino succinto di Leila in versione "schiava" che non per il senso di pericolo trasmesso dai suddetti mostri). E anche a livello di scenografie il film è meno ricco e aggiunge poco al vasto universo della saga (si torna su Tattoine e Dagobah, e si va sul satellite boscoso di Endor: le riprese furono effettuate nel parco nazionale di Redwood).

Molti di questi difetti sono dovuti ai mutamenti d'idee dello stesso Lucas nel periodo intercorso fra "L'impero colpisce ancora" (1980) e questo film. Problemi personali e famigliari, stanchezza e depressione lo portarono a voler concludere in fretta la saga e a fare un passo indietro rispetto alle atmosfere più cupe del capitolo precedente. Lo script (a un certo punto il titolo era "La vendetta dello Jedi", prima di essere cambiato perché "gli Jedi non si vendicano") attraversò diverse fasi di sviluppo, sin quando Lucas non impose al co-sceneggiatore Lawrence Kasdan il finale in cui Fener si redime completamente (nelle prime versioni si assisteva a uno scontro fra Fener e l'Imperatore, entrambi malvagi, per il possesso di Luke). Altri cambiamenti furono l'introduzione degli Ewok (in origine gli abitanti della luna erano i Wookie), il salvataggio di Ian (non avendo Harrison Ford sotto contratto, si pensava di farlo morire subito) e il ritorno su Dagobah (per consentire a Yoda di confermare a Luke che Fener era suo padre: "altrimenti i bambini avrebbero pensato che il cattivo mentiva"). Per la regia, dopo aver inutilmente contattato gli allora giovani talenti David Lynch e David Cronenberg (e chissà che film ne sarebbero venuti fuori!), Lucas scelse Richard Marquand, regista britannico allora reduce da "La cruna dell'ago" (1981) e che morirà pochi anni dopo, nel 1987, a soli 40 anni. La presenza sul set di Lucas (che comunque diresse la seconda unità) fu comunque costante, tanto che Marquand commentò così la propria esperienza con "Star Wars": "È come tentare di dirigere il Re Lear con Shakespeare nella stanza accanto!". La relativa inesperienza del regista con gli effetti speciali non gli impedì di realizzare comunque sequenze memorabili come quella del Sarlacc che fuoriesce dalla buca nel deserto (ispirata forse ai vermi di "Dune", che proprio David Lynch stava portando sullo schermo in quegli anni), la battaglia spaziale davanti alla Morte Nera, e soprattutto le scene di inseguimento con le moto volanti fra gli alberi della luna di Endor, girate con la Steadicam. Dal lato tecnico, è da segnalare che si tratta del primo film ad aver utilizzato la tecnologia audio THX. Cast e troupe sono in gran parte gli stessi dei capitoli precedenti: fra i nuovi ingressi spicca quello di Ian McDiarmid nei panni dell'Imperatore, mentre Sebastian Shaw dona le sue fattezze ad Anakin (nell'edizione modificata per l'uscita in dvd, però, il suo volto nella scena finale in cui appare a Luke come fantasma è stato sostituito con quello di Hayden Christensen, che interpreterà il personaggio da giovane nei prequel, provocando una certa confusione in chi oggi vede la serie per la prima volta in ordine di uscita).

5 dicembre 2014

Il papavero (Kenji Mizoguchi, 1935)

Il papavero (Gubijinsō)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1935
con Ichiro Tsukida, Daijiro Natsukawa
**

Rivisto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Ono, orfano ma brillante studente, è stato cresciuto a Kyoto come un figlio dall'anziano professor Inoue. Questi spera che il ragazzo, una volta laureato, sposi sua figlia Sayoko: e per questo motivo i due lo raggiungono a Tokyo, dove sta studiando per il dottorato. Ma Ono, nel frattempo, si sta lasciando tentare dalla prospettiva di sposare invece Fujio, ragazza ricca e di buona famiglia, alla quale dà lezioni private. Da un romanzo di Natsume Soseki, un melodramma sentimentale piuttosto didascalico e non troppo interessante, anche dal punto di vista stilistico. Come capita spesso nei film di Mizoguchi, la figura maschile risulta debole e indecisa, e a farne le spese sono le donne. Ma qui, contrariamente ad altre pellicole del regista, c'è spazio per un ravvedimento e per un lieto fine (più per merito di Hajime, compagno di studi che lo spinge a guardare dentro sé stesso e a capire qual è la cosa giusta da fare, che non dello stesso Ono, perennemente in crisi e combattutto fra la gratidudine verso il professore, l'amore per Sayoko e l'interesse per Fujio). Il contrasto fra Sayoko e Fujio non è solo quello fra povertà e ricchezza, ma anche fra tradizione (la prima, pudica e suonatrice di koto) e modernità (la seconda, alla moda e spregiudicata): quest'ultima, addirittura, ha la "pretesa" di scegliere da sé l'uomo che sarà suo marito (donandogli il suo orologio d'oro), anziché farselo imporre dal padre (che aveva scelto Hajime). Un tema che tornerà, con più sottigliezza, anche in molti film di Ozu. Registicamente sono da segnalare giusto le prime inquadrature (con Inoue che cancella dai muri le scritte di apprezzamento nei confronti della bellezza della figlia) e le ultime (con il confronto fra Fujio e Hajime di fronte al mare). Nella colonna sonora si sentono temi di Puccini (da "La Boheme"), Liszt ("Liebestraum") e Chopin.

3 dicembre 2014

Sfida nell'Alta Sierra (Sam Peckinpah, 1962)

Sfida nell'Alta Sierra (Ride the High Country)
di Sam Peckinpah – USA 1962
con Joel McCrea, Randolph Scott
***1/2

Rivisto in DVD.

L'anziano ex sceriffo Steve Judd (Joel McCrea), dopo una vita spesa al servizio della legge, sbarca il lunario come può. Insieme al suo vecchio amico Gil Westrum (Randolph Scott) e alla giovane testa calda Heck Longtree (Ron Starr), viene assoldato per trasportare un carico d'oro da un villaggio di minatori fra le montagne fino in città. Se Judd intende mantenere la parola data, i suoi due compagni progettano invece di filarsela con il prezioso bottino. Ma i loro piani sono complicati dalla presenza della giovane Elsa (Mariette Hartley), figlia di un agricoltore rigido e puritano, fuggita di casa per raggiungere il suo promesso sposo. Un western minore? Macché: il secondo lungometraggio di Peckinpah è un piccolo gioiello, il primo dei tanti capolavori nella filmografia del regista californiano. L'aver scelto come protagonisti due "vecchietti" come Scott e McCrea (veterani del western degli anni '40; per il primo si tratta addirittura dell'ultima apparizione sullo schermo) lo aiuta a veicolare nel migliore dei modi quei temi della nostalgia, della decadenza e della fine del vecchio West che sfoceranno, nelle sue opere successive, in quel western crepuscolare di cui sarà uno dei massimi rappresentanti. A questi si intrecciano il contrasto fra l'integrità morale e la tentazione di cedere alle circostanze (dopo anni di onorata carriera, Judd e Westrum si ritrovano vecchi e poveri: perché, allora, non ricompensarsi da soli?), l'amicizia virile (uno dei temi fondamentali del cinema di Peckinpah), la contrapposizione fra l'esperienza della vecchiaia e l'impulsività della gioventù (per il personaggio del giovane Heck l'intera avventura rappresenta un battesimo del fuoco, qualcosa che lo porta a maturare e ad assumersi quelle responsabilità che inizialmente evitava). Per non parlare dell'intera sottotrama del matrimonio di Elsa, che sfocia in sequenze drammatiche e grottesche come quella delle nozze della ragazza nel villaggio dei minatori (indimenticabili i cattivi, ovvero i cinque fratelli Hammond, pronti a dividersi la sposa come se il matrimonio con uno di loro si trasferisse a tutta la famiglia, una trasfigurazione cinica e realistica di "Sette spose per sette fratelli"). Con tanta carne al fuoco, la confezione passa in secondo piano. Il budget del film era esiguo, costumisti e scenografi hanno fatto i salti mortali, e soprattutto regia, fotografia e montaggio sono ancora di stampo classico: ma Peckinpah avrà tempo per sbizzarrirsi anche con questi aspetti nelle opere seguenti. La sceneggiatura è di N. B. Stone Jr. Una curiosità: inizialmente i due protagonisti erano stati scritturati l'uno per il ruolo dell'altro, e decisero di scambiarsi le parti di comune accordo.

2 dicembre 2014

Mr. Nice Guy (Sammo Hung, 1997)

Mr. Nice Guy (Jat goh ho yan)
di Sammo Hung – Hong Kong 1997
con Jackie Chan, Richard Norton
**

Rivisto in TV.

Jackie, cuoco cinese protagonista di una trasmissione tv in Australia, rimane coinvolto in una pericolosa avventura quando si imbatte in Diana (Gabrielle Fitzpatrick), una giornalista che ha registrato su una videocassetta l'incontro segreto fra Giancarlo (Norton), gangster maniaco della pulizia, e i Demoni, una banda di trafficanti di droga. Per recuperare la cassetta, finita per errore proprio nelle mani di Jackie, i cattivi non esitano a rapire la sua fidanzata Miki (Miki Lee): ma non hanno fatto i conti con il nostro eroe, che oltre a salvare le tre donzelle (c'è anche la sua assistente Lakeisha, interpretata da Karen McLymont) si farà giustizia da solo, demolendo nel finale l'intera villa del gangster con un gigantesco dumper. Ambientato interamente a Melbourne, il film vede Jackie tornare a farsi dirigere per l'ultima volta dal "fratello" Sammo Hung (che si concede un cameo nei panni del ciclista) e a recitare con Richard Norton (dopo "City Hunter"). Se il soggetto non è particolarmente degno di nota, a vivacizzare il tutto ci sono le acrobazie dell'attore cinese, protagonista per lo più di fughe e inseguimenti per le strade della città, ma anche di improvvisati combattimenti (come quello nel cantiere edile, con porte che si aprono un po' ovunque e persino sul vuoto), e naturalmente del finale distruttivo, a metà strada fra "Rumble in the Bronx" e "Zabriskie Point". Intrattenimento sufficiente, anche se siamo già lontani dai tempi d'oro.

30 novembre 2014

Scarface (Brian De Palma, 1983)

Scarface (id.)
di Brian De Palma – USA 1983
con Al Pacino, Michelle Pfeiffer
***1/2

Visto in divx.

Fuggito dalla Cuba di Castro e stabilitosi a Miami, l'esule Tony Montana (Al Pacino, in uno dei ruoli più celebri della sua carriera) comincia la sua "scalata" nel mondo della malavita lavorando per conto di un piccolo trafficante di droga. La sete di successo e di ricchezza lo porterà, passo dopo passo, ai vertici di un vero e proprio impero che gestisce l'importazione di droga dal Sud America. Ma l'eccesso di ambizione e l'esagerata gelosia per la propria sorella saranno la sua rovina. Remake dell'omonimo gangster movie di Howard Hawks, sceneggiato da un Oliver Stone che – a parte l'incipit che mostra l'arrivo di Tony e del suo amico Manny negli Stati Uniti, contestualizzando diversamente la storia e trasportandola dalla Chicago del proibizionismo (l'originale era di fatto una rilettura della vita di Al Capone) alla Miami degli agni ottanta – si rifà fedelmente allo script di Ben Hecht per il prototipo (tanto Hecht quanto Hawks sono ringraziati nei titoli di coda: la pellicola è dedicata a loro). Molte le scene riprese pari pari dal film del 1932: l'infatuazione di Tony per Elvira (Michelle Pfeiffer), la pupa del suo boss Frank (Robert Loggia); l'agguato organizzato da quest'ultimo ai suoi danni, colpevole di "allargarsi" troppo, e il modo in cui Tony lo smaschera (la finta telefonata) prima di ucciderlo; il turbolento rapporto con la madre e con la giovane sorella Gina (Mary Elizabeth Mastrantonio); quest'ultima che si sposa, all'insaputa di Tony, con il suo amico e braccio destro Manny (Steven Bauer), ucciso proprio da Tony in un impulso di gelosia; e l'assedio finale nella propria casa (qui non a opera della polizia, che per tutta la pellicola brilla per la sua assenza – se escludiamo la scena dell'agente corrotto – ma di una banda di trafficanti rivali). La maggior durata (oltre due ore e quaranta) rispetto al modello permette di approfondire meglio il personaggio principale e di trasformare la sua vicenda in una vera epopea; ma d'altro canto, alcuni snodi appaiono più meccanici e meno convincenti (in generale il rapporto di Tony con la sorella, che funzionava meglio nel prototipo). Memorabile comunque l'ultima sequenza, con Pacino crivellato di proiettili che piomba nella fontana nell'atrio della sua lussuosa villa, sotto l'insegna luminosa (con la frase "The World is Yours") che torna pari pari, anch'essa, dal film degli anni trenta. Se la cicatrice sul volto (da cui il termine "Scarface", che però nel film non viene mai usato) ha meno importanza – anche metaforica – rispetto alla versione di Hawks, la scelta di dargli un background "cubano" anziché italo-americano (un'idea, pare, di Sidney Lumet, che originariamente avrebbe dovuto dirigere il film e che avrebbe voluto mantenere i toni "politici" dell'originale) si può dire particolarmente indovinata, oltre che necessaria per calare la vicenda negli anni ottanta: è nel suo odio verso il regime di Castro ("I comunisti ti dicono sempre cosa fare!") che si trovano i semi del desiderio di rivalsa e di esasperata individualità che caratterizzano il personaggio. Grande successo di critica (con riserve per la violenza, all'epoca ritenuta eccessiva) e di pubblico, anche fra i veri (o aspiranti tali) malavitosi nostrani, come ha testimoniato Roberto Saviano, con boss mafiosi che si sono fatti costruire ville identiche a quella del film: Tony Montana è diventato il loro mito. Curiosa la colonna sonora "elettronica", figlia dei suoi tempi, di Giorgio Moroder. Nel cast anche F. Murray Abraham, Paul Shenar, Harris Yulin e Mark Margolis.

29 novembre 2014

Gli occhi della notte (Terence Young, 1967)

Gli occhi della notte (Wait until dark)
di Terence Young – USA 1967
con Audrey Hepburn, Alan Arkin
**1/2

Visto in divx.

Un trafficante di droga (Alan Arkin) assolda due truffatori (Richard Crenna e Jack Weston) per recuperare una bambola di pezza, segretamente "imbottita" con una partita di eroina, che è per errore finita nella casa di una coppia di coniugi. Approfittando dell'assenza del marito, i criminali si introducono nell'appartamento e cercano di ingannare la moglie (Audrey Hepburn): ma questa, pur essendo cieca, saprà tenergli testa. Thriller ambientato interamente – a parte l'incipit – fra le quattro mura di un appartamento seminterrato e costruito tutto sul contrasto fra l'handicap della protagonista e la sua abilità nel riconoscere gli inganni dei truffatori (le cui false identità cadono poco a poco per via di dettagli cui solo un cieco farebbe caso). E vedere una donna debole, impaurita e menomata, riuscire ad avere la meglio da sola (o con l'aiuto della piccola vicina di casa, una bambina impicciona ma esaltata nel partecipare a un'avventura "pericolosa") sui tre invasori (in particolare su Arkin, il più violento e spietato), è una bella soddisfazione per lo spettatore. Nel momento della resa dei conti, ovviamente, la Hepburn distruggerà tutte le fonti di luce in casa, in modo da affrontare il cattivo nell'ambiente a lei più congeniale: la totale oscurità. Forse più teatro che cinema (e infatti la sceneggiatura – non proprio a prova di bomba – è tratta da un dramma di Frederick Knott), ma comunque un buon intrattenimento, con echi da "La scala a chiocciola" e "Il terrore corre sul filo", e con una suspense a tratti hitchcockiana (nel senso che noi spettatori sappiamo quasi sempre più di quello che sanno i personaggi: l'unica cosa che ignoriamo, almeno all'inizio, è dove si trovi la bambola). Memorabile il villain interpretato da Arkin, vero e proprio contraltare dell'innocenza di Susy, che con gli occhiali a lenti scure sembra quasi farsi beffe del suo handicap: il confronto finale fra lui e la Hepburn terrorizzò e fece strillare di paura le audience del 1967. Una curiosità, data la cecità della donna: il marito lavora invece con la luce, visto che fa il fotografo. Per interpretare nel migliore dei modi il personaggio, Audrey Hepburn frequentò una scuola per ciechi: ottenne una nomination all'Oscar, ma perse la statuetta a favore della sua omonima Katharine.

28 novembre 2014

Rambo III (Peter MacDonald, 1988)

Rambo III (id.)
di Peter MacDonald – USA 1988
con Sylvester Stallone, Richard Crenna
*1/2

Rivisto in TV.

Ritiratosi a vivere in Thailandia per lavorare alla costruzione di un monastero, il reduce John Rambo afferma di avere definitivamente "smesso con la guerra". Eppure non può rifiutarsi di tornare in azione quando Trautman, il suo ex comandante, viene catturato dai russi durante una missione in Afghanistan. Dopo essersi introdotto clandestinamente nel paese e aver assistito alla violenza dei sovietici contro gli abitanti di un povero villaggio (anche se Gorbaciov aveva già lanciato le sue riforme e il muro di Berlino stava per crollare, qui siamo ancora in piena guerra fredda), Rambo penetra nella base dei nemici, la mette a ferro e fuoco e salva il suo amico sgominando (come al solito) da solo un intero esercito. Giunta al terzo capitolo, la saga del super-soldato ha ormai perso tutte le qualità che caratterizzavano la prima pellicola e si è trasformata in una scusa per mettere in scena sequenze d'azione e di combattimento a tutto spiano, oltre che per consentire a Stallone di sfoggiare un corpo sempre più muscoloso e coperto di cicatrici. Divisione assoluta fra buoni e cattivi, com'è consuetudine di questo tipo di film (c'è persino una ricorrente glorificazione dei mujaheddin, visto che combattendo contro i russi erano automaticamente dalla parte degli americani: il film è addirittura dedicato "al valoroso popolo afgano", e naturalmente non c'è il minimo accenno ai talebani o a questioni religiose e politiche), spari ed esplosioni (all'epoca il Guinness dei Primati lo nominò come la pellicola più violenta di sempre), sangue e sudore, più qualche frase lapidaria da mandare a memoria (ma la più celebre, "Chi sei?" - "Il tuo incubo peggiore", era più efficace e sintetica nella versione che si udiva nel trailer: "Sono il tuo incubo"), per un lungometraggio dall'impostazione assai semplice, che svolge certo il suo compito come pellicola d'azione, ma che alla resa dei conti risulta anche noioso e prevedibile. Avrebbe dovuto dirigerlo Russel Mulcahy, appena reduce dal successo di "Highlander": ma pochi giorni dopo l'inizio delle riprese venne sostituito dal direttore della fotografia Peter MacDonald, al suo esordio come regista. Da notare che anche negli Stati Uniti con questo film la saga assume semplicemente il titolo di "Rambo" (come già nel resto del mondo), abbandonando definitivamente quello originale "First blood".

26 novembre 2014

Scarface (Howard Hawks, 1932)

Scarface - Lo sfregiato (Scarface)
di Howard Hawks – USA 1932
con Paul Muni, Ann Dvorak
***1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

L'ascesa del gangster italo-americano Antonio "Tony" Camonte (Paul Muni) – detto "Lo sfregiato" per via della cicatrice a forma di croce sulla guancia – da semplice guardaspalla fino a capo indiscusso della malavita organizzata di Chicago nell'era del proibizionismo. Dopo aver eliminato il vecchio boss "Big" Louie Costillo per conto del rampante Johnny Lovo (Osgood Perkins), che assume così il controllo del lato sud della città, Camonte si sostituirà a quest'ultimo per iniziare una vera e propria guerra contro gli irlandesi del lato nord, guidati da Gaffney (Boris Karloff), che si concluderà con la vittoria degli italiani. Al culmine del potere, e dopo aver sottratto a Lovo anche la sua ragazza Poppy (Karen Morley), Tony verrà tradito dalla gelosia morbosa che prova per la sorella Francesca (Ann Dvorak): gli ucciderà il marito, che pure era il suo fedele braccio destro Rinaldo (George Raft), e verrà braccato dalla polizia, che lo eliminerà dopo un assedio alla sua casa blindata. Ispirato a personaggi reali (il protagonista è di fatto Al Capone) e a numerosi eventi di cronaca nera di quegli anni (fra gli altri, la strage di San Valentino), il film è considerato – insieme agli immediatamente precedenti "Piccolo Cesare" e "Nemico pubblico" (entrambi del 1931) – uno dei capostitipi di quel filone gangsteristico che avrebbe continuato a furoreggiare nel cinema americano negli anni a venire. Muni appare qui nel ruolo più celebre della sua carriera, e dà vita a un personaggio sfaccettato e carismatico, ambizioso e violento ma anche sarcastico e amante della bella vita (donne, abiti, auto, gioielli); ma la vera star divenne George Raft, alla sua seconda apparizione sullo schermo, che conquistò gli spettatori nel ruolo del fedele sottoposto Gino (in originale "Guino"), caratterizzato dall'abitudine di lanciare continuamente in aria una moneta per poi riafferrarla al volo. Nel comparto femminile, più della bionda Karen Morley rimane impressa la giovane Ann Dvorak nei panni di "Cesca", la sorella di Tony, a lui legata a filo doppio.

Lo sceneggiatore Ben Hecht adattò il romanzo di Armitage Trail in soli 11 giorni: al resto bastarono l'ottima prova degli interpreti, l'agile e dinamica regia di Hawks, l'affascinante fotografia che gioca con le ombre e il chiaroscuro, e il notevole sforzo produttivo di Howard Hughes (le scene degli inseguimenti e delle sparatorie sono decisamente energetiche e realistiche per l'epoca). Da sottolineare il tema ricorrente della croce: dallo sfregio sul volto di Tony, alle croci che compaiono sullo schermo quasi in ogni occasione in cui il protagonista commette un omicidio. In particolare, celebri sono le scene in cui uno dei gangster rivali rimane a terra sul selciato nel punto in cui l'ombra di un segnale stradale proietta una croce proprio sul suo corpo; le sette croci nel soffitto del garage in cui avviene la strage di San Valentino (con sette vittime, ovviamente); e la croce di luce sul muro alle spalle di Gino quando viene ucciso da Tony (dietro una porta la cui targhetta, naturalmente, reca una "X"). La censura, che temeva che il film celebrasse eccessivamente la vita dei gangster, obbligò Hawks e Hughes a modificare alcuni punti (nello script originale la madre di Tony non condannava lo stile di vita del figlio; ed era prevista una sequenza che mostrava chiaramente la complicità dei politici negli affari dei criminali) e il finale (la morte di Tony avrebbe dovuto essere molto più eroica), oltre a pretendere che fosse aggiunto il sottotitolo "The shame of the nation" ("La vergogna della nazione"). Forse anche per questo, alcuni cartelli a inizio pellicola – oltre ad avvisare che si tratta di una storia vera – invitano il pubblico a protestare contro un governo che non faceva abbastanza per combattere il crimine organizzato: un concetto ripetuto durante il film da un paio di "tirate" un po' retoriche, quella del capo della polizia e quella del direttore del giornale, che sembrano corpi estranei rispetto a tutto il resto. Memorabile il motto "The World is Yours", veicolato da un'insegna luminosa, che commenta cinicamente la morte di Tony nel finale. Jean-Luc Godard lo considerava il miglior film sonoro mai girato negli Stati Uniti. Rifatto nel 1983 da Brian De Palma con Al Pacino (con la vicenda trasportata nella Miami degli anni ottanta, fra esuli cubani e trafficanti di droga).

24 novembre 2014

The taste of tea (Katsuhito Ishii, 2004)

The taste of tea (Cha no aji)
di Katsuhito Ishii – Giappone 2004
con Takahiro Sato, Tadanobu Asano
***

Rivisto in DVD, con Sabrina, in originale con sottotitoli inglesi.

La famiglia Haruno vive in un villaggio fra le montagne, non molto distante dalla città. Il padre, Nobuo (Tomokazu Miura), è un terapeuta specializzato nell'ipnosi. La madre, Yoshiko (Satomi Tezuka), è una disegnatrice di cartoni animati, alla continua ricerca di "nuove pose" da far interpretare ai suoi personaggi durante i combattimenti. Lo zio, Ayano (Tananobu Asano), è un sound mixer, che di tanto in tanto fugge dalla città per ritrovare la quiete della casa di campagna. Il nonno, Akira (Tatsuya Gashuin), è un artista eccentrico e sensibile, con la passione per il disegno e la danza. Quanto ai due figli: la piccola Sachiko (Maya Banno) è perseguitata da una versione gigante di sé stessa, che solo lei può vedere e da cui è osservata in continuazione (per sbarazzarsi della quale, si convince che sia necessario compiere una giravolta completa attorno alla barra orizzontale di un vecchio parco giochi); mentre il giovane Hajime (Takahiro Sato), reduce da una delusione sentimentale, si innamora all'istante di Aoi (Anna Tsuchiya), una nuova ragazza appena arrivata in classe, e sfrutta la comune passione per il gioco del Go (fanno entrambi parte del club scolastico dedicato a questa disciplina) per vincere la timidezza e avvicinarla. Ah, dimenticavo: c'è anche un altro zio, Ikki Todoroki (sé stesso), capriccioso disegnatore di manga che si è messo in testa di incidere una canzone, dedicata alle montagne, per il proprio compleanno. Le vicende dei vari membri della famiglia si intrecciano in una narrazione calma e lineare, dove il quotidiano (le peripezie sentimentali di Hajime, per esempio, che sembrano provenire da un manga di ambientazione liceale) si alterna con il surreale (il "doppio" di Sachiko; alcune immagini metaforiche come il treno che "esce" dalla fronte di Hajime, portandogli via una porta di sé; il gigantesco girasole che nel finale si espande nell'intero sistema solare) o il bizzarro (la canzone di Ikki; le incursioni, nella quiete del villaggio, di buffi personaggi come due cosplayer, un gruppo di yakuza, o un ballerino che danza con il sole). Ne risulta un film altamente suggestivo, che mescola un setting assai tradizionale con situazioni oniriche o inaspettate, la poesia della natura (i ciliegi in fiore, il tramonto, le risaie, le montagne), con le stravaganze più spinte della cultura pop giapponese (manga, anime, modellismo, cosplay), immagini delicate (una pioggia primaverile, i treni che sfrecciano nel buio della notte) e altre decisamente irreali (la sequenza in animazione che mostra il frutto del lavoro di Yoshiko), le arti (la musica, il disegno, il ballo) e lo sport (il baseball, la ginnastica, lo stesso Go), i rapporti familiari e quelli sentimentali. Un lungometraggio insolito e unico, dunque, da apprezzare nel suo insieme e da osservare come se si trattasse di un quadro impressionista, con un po' di pazienza e magari anche da una certa distanza. Si verrà ripagati. Il titolo, "Il gusto del tè", sembra uscire da un film di Ozu.

23 novembre 2014

Una notte da leoni (Todd Phillips, 2009)

Una notte da leoni (The hangover)
di Todd Phillips – USA 2009
con Bradley Cooper, Zach Galifianakis
**

Visto in TV, con Sabrina.

Per festeggiare il suo addio al celibato, Doug (Justin Bartha) si concede un viaggio a Las Vegas in compagnia degli amici Phil (Bradley Cooper) e Stu (Ed Helms) e del futuro cognato Alan (Zach Galifianakis). Ma quando questi tre si risvegliano nella loro stanza d'albergo devastata dopo una notte di bagordi, scoprono di non ricordare assolutamente nulla di quanto è accaduto nelle ultime dodici ore. E avranno il loro bel da fare per scoprire dove è finito l'amico, misteriosamente scomparso, oltre a ricostruire tutti gli eventi della notte passata, spiegando così – fra le altre cose – che ci fa una tigre feroce nel bagno, un cinese nudo (Ken Jeong) nel portabagagli della loro auto, perché sono tornati in hotel con una macchina della polizia rubata e perché uno di loro ha sposato una spogliarellista (Heather Graham). Grande successo di pubblico per una commedia goliardica che, oltre a generare diversi sequel, ha dato vita a un vero e proprio filone: pellicole che seguono le disavventure di amici che si concedono per una notte un divertimento sfrenato oltre misura, con le cui conseguenze devono poi fare i conti. I protagonisti alloggiano al Caesar's Palace ("Cesare ha vissuto qui?"). Cameo per il pugile Mike Tyson e citazioni da "Rain Man" e "Casinò".

21 novembre 2014

Chi ha paura di Virginia Woolf? (Mike Nichols, 1966)

Chi ha paura di Virginia Woolf? (Who's afraid of Virginia Woolf?)
di Mike Nichols – USA 1966
con Richard Burton, Elizabeth Taylor
**1/2

Visto in divx, per ricordare Mike Nichols.

Reduci da una festa in casa del padre di lei, rettore di una prestigiosa università del New England, il professore di storia George (Richard Burton) e la moglie Martha (Liz Taylor) ricevono in casa, alle due di notte, una giovane coppia conosciuta poco prima: un aitante insegnante di biologia (George Segal) e la sua minuta compagna (Sandy Dennis). Il matrimonio fra George e Martha è un totale disastro, e i due non perdono occasione per litigare, offendersi, vomitarsi volgarità, rinfacciarsi i rispettivi fallimenti e umiliarsi a vicenda in pubblico, coinvolgendo lentamente – complice anche l'alcol – i due nuovi arrivati in una feroce e inesorabile autodistruzione. Impietoso, cinico e senza via di scampo, il film d'esordio di Nichols – tratto dall'omonima opera teatrale di Edward Albee – sembra anticipare diverse pellicole polanskiane (come "Luna di fiele" o "Carnage"). Ambientato tutto in una notte (si conclude con la mattina) ed essenzialmente con soli quattro personaggi, scava nel fallimento, nelle bugie, nelle illusioni (il figlio mai nato) e nel malessere di una coppia che riesce a sopravvivere soltanto perché legata da un forte rapporto di amore-odio (anche se nel finale il crollo delle ultime illusioni pare suggerire il raggiungimento di un nuovo equilibrio). Naturalmente, a interpretarla non potevano esserci attori più adatti di Burton e della Taylor, che anche nella vita reale passavano da un bisticcio all'altro, da un matrimonio a un divorzio (nel periodo in cui fu girata la pellicola, per la cronaca, erano sposati). Liz, allora al massimo del suo fulgore, venne qui ingrassata, invecchiata e imbruttita per esigenze di copione (inizialmente Albee avrebbe voluto Bette Davis, mentre Nichols aveva pensato a Marlene Dietrich). Sceneggiatura un po' troppo "gridata" per i miei gusti, ma all'epoca fece scalpore per i toni espliciti, le frasi volgari e le allusioni sessuali portate sullo schermo: è considerata una delle pellicole che maggiormente testimoniano il cambio di linguaggio di Hollywood negli anni sessanta (curiosamente, all'inizio la Taylor se la prende con i "polpettoni" prodotti fino ad allora dalla Warner Bros., che era proprio la casa produttrice del film). Il titolo fa riferimento a una canzoncina udita durante il party, che parodizza in chiave "intellettuale" la celebre "Who's afraid of the big bad wolf?" ("Chi ha paura del lupo cattivo?") dal cartone animato "I tre porcellini". Il debutto alla regia di Nichols si fa notare per la buona padronanza della macchina da presa, che incapsula i personaggi negli spazi e si sofferma in un paio di occasioni sui volti di Burton e della Taylor impegnati in lunghi monologhi. Nonostante i timori per la crudezza del linguaggio usato, il film riscosse un grande successo critico e venne nominato all'Oscar in ogni categoria possibile (all'epoca 13), comprese le quattro per gli interpreti. Vinse cinque statuette, fra cui le due per le attrici (Liz Taylor e Sandy Dennis) e quella per la fotografia in bianco e nero.

20 novembre 2014

Oyuki la vergine (Kenji Mizoguchi, 1935)

Oyuki la vergine (Maria no Oyuki)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1935
con Isuzu Yamada, Komako Hara
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Nel Giappone sud-occidentale, alla fine dell'ottocento, infuria la guerra civile fra i ribelli di Satsuma e le truppe del governo di Tokyo. Due prostitute (Okin e Oyuki, quest'ultima di fede cristiana) fuggono dal loro villaggio devastato a bordo di una carrozza che porta in salvo anche alcuni ricchi notabili con le loro famiglie. Questi non perdono occasione per manifestare il loro disprezzo nei confronti delle due donne, ma non si fanno scrupolo ad accettare il loro aiuto (e il loro cibo) nei momenti di maggior necessità. Catturati dai soldati dell'esercito, che li sospettano di essere delle spie, pur di salvarsi la vita gli aristocratici sarebbero disposti anche a consegnare una delle loro figlie al generale Asakura (Daijiro Natsukawa). A prendere il posto della giovane si offre però Oyuki, la cui gentilezza e bontà fa innamorare Asakura, che infine lascia liberi tutti i viaggiatori. Una volta in salvo, i ricchi tornano ad assumere un atteggiamento sprezzante e proibiscono a Okin e Oyuki di salire con loro sul traghetto che li condurrà via dall'isola; e così le due donne sono costrette a tornare al proprio villaggio, che nel frattempo è stato occupato dai ribelli. Qui scoprono che fra le macerie della loro casa si è rifugiato proprio Asakura, sconfitto in battaglia e rimasto da solo. Okin (ferita nell'onore perché il generale aveva preferito Oyuki a lei) minaccia di consegnarlo ai nemici, ma l'amica lo convince a lasciarlo andare, rinunciando così anche ai propri sogni d'amore, consapevole che il matrimonio fra un samurai e una prostituta di campagna è di fatto impossibile. Ispirandosi nella prima parte a un racconto di Maupassant ("Boule de suif", lo stesso che John Ford adattò per dare vita a "Ombre rosse"), Mizoguchi realizza un melodramma a sfondo storico-bellico che veicola i temi a lui più cari: il sacrificio femminile, l'amore fra diverse classi sociali, e il modo in cui la guerra e le difficoltà tirano fuori il peggio (o il meglio) dalle persone. Pur ancora grezzo da molti punti di vista, la fluidità dei movimenti di camera, le riprese in campo lungo e alcune inquadrature di struggente bellezza testimoniano il tentativo del grande regista di sperimentare in campo tecnico-stilistico. E l'interessante setting storico e l'intensa recitazione elevano comunque il film sopra la media del periodo. Da sottolineare i tanti e insistiti rimandi al cristianesimo, sin dal titolo: il portasigarette di uno dei passeggeri della carrozza, con l'immagine di un angelo; la preghiera di Oyuki alla vergine Maria nel momento in cui la spia Sadohara viene fucilata; l'attitudine al sacrificio ("Come Gesù", commenta Asakura) della stessa Oyuki; la melodia della "Ave Maria" di Gounod nella scena finale, in cui Oyuki contempla la luna piena.

19 novembre 2014

L'Asahi risplende (Kenji Mizoguchi, 1929)

L'Asahi risplende (Asahi wa kagayaku)
di Kenji Mizoguchi e Seiichi Ina – Giappone 1929
con Eiji Nakano, Hirotoshi Murata
*1/2

Visto su YouTube.

Commissionato in occasione del cinquantesimo anniversario del quotidiano "Asahi Shinbun" di Osaka, di questo film sopravvivono soltanto 25 minuti, frutto probabilmente di un rimontaggio che ha privilegiato le sequenze promozionali, le immagini di repertorio e quelle più prettamente documentaristiche (la redazione al lavoro, il processo di composizione e stampa delle pagine, la distribuzione del giornale) rispetto a quelle di finzione (non c'è traccia di attrici come Takako Irie e Ranko Sawa, che pure risultano aver partecipato alla pellicola). Di conseguenza, è difficile stabilire quale ruolo abbia realmente avuto Mizoguchi nella sua realizzazione (risulta comunque accreditato un secondo regista, Seiichi Ina). Evidenti, in ogni caso, i debiti al cinema sovietico (Dziga Vertov). Nella prima parte si alternano panoramiche aeree, alcune curiose animazioni, e soprattutto una sequenza che mostra persone di varie estrazioni alle prese con la lettura del quotidiano (nelle città, nelle campagne, nelle case, nei luoghi di lavoro, sui mezzi di trasporto). Nella seconda assistiamo invece a quello che probabilmente era il nucleo del film come originariamente concepito, una concitata vicenda che vede i cronisti del quotidiano accorrere sul luogo di un fatto di cronaca (nel caso specifico, un incendio scoppiato a bordo di una nave passeggeri), fra l'altro con gran sprezzo del pericolo (il giornalismo è raccontato come una professione audace ed eroica), per stendere l'articolo e telefonare la notizia in redazione affinché venga data in pasto alle rotative.

18 novembre 2014

Gioventù, amore e rabbia (Tony Richardson, 1962)

Gioventù, amore e rabbia (The loneliness of the long distance runner)
di Tony Richardson – GB 1962
con Tom Courtenay, Michael Redgrave
***1/2

Visto in divx.

Chiuso in riformatorio per aver rapinato un panificio, il giovane Colin Smith attira l'attenzione del direttore della struttura grazie alle sue doti di atleta. L'uomo punta infatti su di lui per conquistare la coppa destinata al vincitore di una corsa campestre organizzata da un vicino college e aperta, per la prima volta, anche ai ragazzi del centro di correzione: ma Colin, spirito libero e ribelle, farà a modo proprio. Fra i più significativi esponenti del Free Cinema britannico, debitore in parte alla lezione della Nouvelle Vague francese (evidenti gli echi de "I quattrocento colpi" e "Fino all'ultimo respiro") e legato a doppio filo al movimento culturale dei "Giovani arrabbiati", Richardson racconta la storia di un teenager di bassa estrazione in lotta con il mondo e refrattario a ogni forma di autorità, anche perché gli esempi che vede attorno a sé (la famiglia, i datori di lavoro, il governo, la polizia, e via dicendo) si dimostrano sordi ai suoi bisogni, incapaci di aprire un dialogo e interessati soltanto al proprio benessere (come la madre) e alla propria retorica stantia (si pensi alla scena del primo ministro che parla in televisione). La mancanza di un vero dialogo fra il mondo degli adulti e quello dei giovani (che sarebbe sfociata, di lì a poco, nell'epoca della contestazione) si riflette nelle dinamiche interne all'istituto di correzione, dove basta soddisfare apparentemente gli idealistici desideri del direttore per conquistare privilegi che agli altri detenuti sono preclusi. Anche per questo, il rifiuto finale di Colin di vincere la gara, fermandosi a pochi metri dal traguardo, rappresenta – più che una semplice sfida all'autorità – un potente atto di autostima e di determinazione della propria identità, un grido di libertà lanciato in un contesto di forte disciplina (e pagandone il prezzo). Tratto da un racconto di Allan Sillitoe – che lo ha sceneggiato – e girato anche stilisticamente con mano libera (vedi le occasionali e improvvise accelerazioni) e all'insegna di una narrazione "anarchica", il film alterna scene ambientate nel riformatorio con lunghi flashback che mostrano l'ultima settimana vissuta da Colin a Nottingham prima dell'arresto: la morte del padre, l'insediamento in casa dell'amante della madre, il bighellonaggio con l'amico Mike, l'amicizia con due ragazze, la rapina, le indagini della polizia (ma proprio in una grondaia doveva nascondere i soldi, visto che in Inghilterra piove ogni due giorni?). Il titolo originale (che significa "La solitudine del maratoneta"), oltre a rappresentare un'ovvia metafora esistenziale e sociale, è stato poi ripreso da una canzone degli Iron Maiden.

16 novembre 2014

Tirate sul pianista (François Truffaut, 1960)

Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste)
di François Truffaut – Francia 1960
con Charles Aznavour, Marie Dubois
**1/2

Rivisto in DVD.

Edouard, un tempo celebre concertista di musica classica, dopo il suicidio della moglie ha cambiato nome in Charlie e si esibisce come pianista in una bettola di periferia. Qui è raggiunto dal fratello Chico, piccolo delinquente in fuga da due gangster cui ha sottratto il bottino di una rapina, che lo coinvolge suo malgrado in una sanguinosa resa dei conti. Si dice che "il secondo film è sempre il più difficile nella carriera di un regista", e questa seconda fatica di Truffaut – incasellata com'è fra due capolavori quali "I 400 colpi" e "Jules e Jim" – ne è una sorta di conferma, anche se è comunque da apprezzare per la vena di libertà e di anarchia con cui il regista approccia un genere tipico e fondante del cinema americano. Tratto da un romanzetto giallo di David Goodis, il lungometraggio tenta infatti di aggiornare il linguaggio del noir con tocchi esistenzialisti, umoristici e personali, scavando in particolare nel passato e nella solitudine del protagonista (il lungo flashback centrale, che ci mostra come è giunto a trasformarsi da Edouard a Charlie) e divagando con frequenza (le riflessioni che quasi tutti i personaggi fanno a proposito del loro rapporto con le donne). Proprio i forti personaggi femminili donano vivacità all'insieme: Lena (Marie Dubois), la cameriera del locale dove Charlie suona e che, innamorata di lui, lo segue anche nel pericolo; Clarisse (Michèle Mercier), la prostituta amica e vicina di casa, che in una scena si mostra anche a seno nudo ("Queste cose non le fanno vedere al cinema"); e Therese (Nicole Berger), la moglie che sacrifica sé stessa per il successo dell'uomo che ama. Più tutte le altre, mostrate sullo schermo, intraviste, o di cui si discorre (tutti parlano di donne: dall'uomo incontrato da Chico nella scena iniziale, ai due gangster in macchina). Il protagonista, interpretato da un Charles Aznavour che alla carriera di cantante affiancava spesso e volentieri quella di attore, è anch'esso caratterizzato in maniera assai particolare: l'apparenza da duro, silenzioso e sicuro di sé, fa a pugni con la sua reale natura: in realtà è estremamente timido e indeciso, caratteristiche comunicate agli spettatori attraverso i suoi pensieri (espressi dalla voce in sovrimpressione, tipica del noir). Peccato che tutti questi spunti e queste intuizioni siano al servizio di una trama non particolarmente interessante (con un finale, però, velato di amarezza e disillusione). Ma in fondo la trama "gialla" era solo un pretesto: Truffaut voleva dimostrare che si poteva fare poesia e cinema "d'autore" anche all'interno delle convenzioni dei generi (memorabile il brevissimo inserto comico in cui, appena dopo che uno dei personaggi afferma: "Giuro sulla testa di mia madre, che possa morire", si vede la donna crollare a terra all'improvviso), oltre a spiazzare un pubblico che dopo il film d'esordio si aspettava da lui un'altra pellicola tipicamente "francese" e invece si ritrovò con un lungometraggio che mostrava un forte influsso della cinematografia americana. Albert Remy, che interpreta Chico, era già apparso ne "I 400 colpi" nel ruolo del padre. Boby Lapointe intona la canzone "Framboise" con il testo in sovrimpressione. Il titolo, ovviamente, capovolge ironicamente la scritta che campeggiava nei saloon del vecchio west, "Non sparate sul pianista".

14 novembre 2014

La fine del mondo (Edgar Wright, 2013)

La fine del mondo (The World's End)
di Edgar Wright – GB 2013
con Simon Pegg, Nick Frost
**1/2

Visto in TV.

Vent'anni prima, quando frequentavano il liceo, Gary King (Simon Pegg) e quattro suoi amici (Nick Frost, Martin Freeman, Paddy Considine ed Eddie Marsan) avevano provato a completare il "Miglio dorato", ovvero il tour dei dodici pub di Newton Haven, la cittadina in cui vivevano, bevendo una pinta di birra in ciascun locale. Ma non riuscirono a raggiungere il dodicesimo e ultimo pub, il leggendario "The World's End". Ora, sulla soglia dei quarant'anni e costretto a fare i conti col fallimento della propria vita, Gary raduna i vecchi compagni del liceo (che, a differenza sua, sembrano invece essersi fatti una famiglia e trovato un lavoro soddisfacente) e li sprona a tornare nella loro vecchia città per ritentare l'impresa. Ma quella che sembra soltanto un'innocua (e fallimentare) rimpatriata, sull'onda della nostalgia per il passato e per le sbruffonate di gioventù, si trasformerà in un'incredibile avventura quando si renderanno conto che quasi tutti gli abitanti del villaggio sono stati sostituiti da misteriosi cloni di origine aliena. Dopo un incipit che riecheggia pellicole come "Una notte da leoni" e temi come la crisi di mezza età e gli eterni ragazzi costretti a tracciare un bilancio della propria vita, il terzo film della coppia Wright-Pegg (co-sceneggiatori) cambia improvvisamente registro e torna ad atmosfere fanta-horror come il primo della serie, "L'alba dei morti dementi", ma ricordando anche un altro classico recente della Sci-Fi britannica ambientato nei pub, ovvero "FAQ about Time Travel". E si trasforma in una sgangherata (ma divertente) pellicola d'azione innestata su un canovaccio in stile "L'invasione degli ultracorpi" e, come quello, altamente metaforica (sui temi della responsabilità, dell'assimilazione e dell'autodeterminazione, da leggere ovviamente anche in chiave sociale e personale). Il buon cast è completato da Rosamund Pike (la sorella di uno degli amici di Gary) e dalla guest star Pierce Brosnan (l'ex insegnante dei cinque ragazzi).

13 novembre 2014

Cutie Honey (Hideaki Anno, 2004)

Cutie Honey (id.)
di Hideaki Anno – Giappone 2004
con Eriko Sato, Mikako Ichikawa
**

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Dal manga di Go Nagai, un film in live action comico e scatenato, diretto dal regista di "Evangelion", che esaspera all'ennesima potenza l'estetica da fumetto (o meglio, in questo caso, da anime) e, non prendendosi assolutamente sul serio, si tuffa a pieni polmoni in un mondo irreale fatto di combattimenti fra incredibili creature, magiche trasformazioni, personaggi stupidi, trame implausibili e siparietti infantili o comico-erotici (prima e dopo ogni trasformazione, Honey si ritrova sempre in biancheria intima). Per una volta Anno mette da parte le riflessioni esistenziali e i toni pessimisti che scorrono spesso sotterranei nelle altre sue opere (siamo lontano anni luce dal suo lungometraggio d'esordio, "Love & Pop") e sforna un film da incasellare nella categoria dei guilty pleasure: se non fosse per la presenza di attori in carne ed ossa, sembrerebbe davvero di guardare un cartone animato degli anni '60 o '70, colmo com'è di colori forti, inquadrature ardite e prospettive improbabili. D'altronde, realizzare un film "serio" sul personaggio nagaiano sarebbe stato un grave errore: Anno ne alleggerisce ulteriormente i toni (spingendo più sulla comicità ingenua o demenziale e meno sulla violenza) ma ne mantiene fedelmente molti elementi (le origini sono raccontate ma non mostrate). Honey (Eriko Sato) è la figlia di uno scienziato che questi, dopo un incidente stradale, ha riportato in vita trasformandola in un androide in grado di cambiare aspetto a proprio piacere. Nei panni di Cutie Honey, la "guerriera dell'amore", e con l'aiuto della poliziotta Natsuko (Mikako Ichikawa) e del giornalista/agente segreto Seiji (Jun Murakami), la ragazza affronta i variopinti membri di Panther Claw, un'organizzazione segreta guidata da una creatura soprannaturale e dalla vita eterna, Sister Jill. Fra i molti momenti eccentrici della pellicola, da ricordare la canzone di Black Claw, uno dei quattro sottoposti di Jill, prima dello scontro con Honey (durante il quale i suoi sgherri suonano al violino "Eine kleine Nachtmusik"). Difficile valutare la prova degli interpreti: sembra pessima, ma con ogni probabilità si sono adeguati allo stile kitsch richiesto dal film. Anche gli effetti speciali sono volutamente grezzi, per dare ai combattimenti un'aura da tokusatsu (i serial in costume tipo "Ultraman" o "Power Rangers"). Apprezzabili i titoli di testa in animazione, che ripropongono il tema della classica sigla d'apertura del cartone animato (la cover è interpretata dalla cantante Kumi Koda). Cameo di Go Nagai stesso nella scena in cui Honey, cadendo di sedere, gli incrina il parabrezza dell'auto.