31 luglio 2013

Les enfants du paradis (Marcel Carné, 1945)

Amanti perduti (Les enfants du paradis)
di Marcel Carné – Francia 1945
con Jean-Louis Barrault, Arletty
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Rivisto allo Spazio Oberdan, con Marco, Eleonora e Sabrina.

Nella Parigi della prima meta dell'ottocento, l'affollatissimo e malfamato Boulevard du Crime (nome "popolare" del Boulevard du Temple) è sede di moltissimi teatri, fra cui quello dei Funambules che ospita le pantomime del mimo Baptiste Debureau (Jean-Louis Barrault). Questi si innamora di Garance (Arletty), cortigiana e artista di strada che si lascia trasportare con noncuranza e leggerezza dalle circostanze della vita. Ma il loro amore, anche a causa della sua timidezza, non è destinato a un lieto fine; e nel frattempo Garance è amata e corteggiata anche da altri uomini: l'istrionico attore Frédérick Lemaître (Pierre Brasseur), amico di Baptiste, che sogna di recitare l'Otello; il poeta Pierre-François Lacenaire (Marcel Herrand), misantropo senza scrupoli e con una propensione per il crimine; e il ricco conte Édouard de Montray (Louis Salou), che la prende sotto la sua protezione. Vero e proprio feuilleton moderno, questo poetico e romantico affresco della vita teatrale, degli amori e delle avventure di un variopinto gruppo di personaggi sullo sfondo della Francia di Luigi Filippo è l'apice della collaborazione fra il poeta Jacques Prévert (autore di soggetto e sceneggiatura) e il regista Marcel Carné ed è considerato dai critici una delle opere più importanti del cinema transalpino (si contende con "La regola del gioco" di Jean Renoir il titolo di miglior film francese di tutti i tempi). I suoi punti di forza, più che la regia di Carné (comunque abile a tenere sotto controllo i numerosi rivoli narrativi che si intrecciano, e particolarmente ispirato nella cura delle inquadrature) e la recitazione (ma almeno i tre principali attori maschili – Barrault, Brasseur ed Herrand – meritano un plauso: i primi due, in particolare, anche per le scene in cui recitano sul palco), sono la ricostruzione ambientale e scenografica (tutto il film è girato in studio), i dialoghi mai banali di Prévert (anche quando ci si limita a "filosofeggiare" sulla vita e i sentimenti; frase simbolo, ripetuta più volte: "È talmente semplice, l'amore") e la profonda caratterizzazione dei personaggi, non solo i protagonisti (su tutti Baptiste, un "Pierrot" tenero, sensibile ed espressivo) ma anche le numerose e ricorrenti figure di contorno: si pensi a Jericho, cenciaiolo e confidente dai mille nomi (interpretato da Pierre Renoir, figlio del pittore Pierre-Auguste e fratello maggiore del regista Jean) o a Nathalie, l'attrice innamorata di Baptiste (María Casares, futura protagonista dell'Orfeo di Jean Cocteau); ma anche ad Avril (Fabien Loris), il giovane complice di Lacenaire; all'estroverso direttore dei Funambules (Marcel Pérès); al subdolo Fil de soie, il falso cieco (Gaston Modot); e alla prorompente affittacamere Madame Hermine (Jane Marken).

L'idea del film nacque quando Carné e Prévert, alla ricerca di un soggetto che potesse passare il vaglio della censura tedesca nella Francia occupata (ambientazioni contemporanee e temi realistici come quelli delle loro opere precedenti, in particolare "Alba tragica" e "Il porto delle nebbie", erano rigorosamente vietati), vennero a conoscenza della storia di Baptiste, celebre mimo dell'ottocento: come lui, anche altri personaggi (segnatamente il dandy criminale Lacenaire e l'attore Lemaître, ma non solo) sono ispirati a figure realmente esistite. La pellicola – con un grosso budget a disposizione, addirittura eccezionale visto il momento storico, e dovuto in parte alla statura degli artisti coinvolti – fu girata principalmente a Nizza, dove il Boulevard du Crime era stato ricostruito in studio all'aperto: ma gli eventi della guerra causarono ulteriori difficoltà e numerose interruzioni, tanto che la produzione venne poi spostata a Parigi. Alcuni collaboratori (come il musicista Joseph Kosma e lo scenografo Alexandre Trauner) dovettero lavorare sotto falso nome, perché ebrei o sulla "lista nera" degli nazisti. Terminato nel 1944, il film dovette attendere il marzo del 1945 per essere distribuito in sala, diviso in due parti (intitolate rispettivamente "Le Boulevard du Crime" e "L'homme blanc") a causa dell'eccessiva lunghezza (oltre tre ore). Il successo fu enorme, nonostante Carné dovette affrontare le critiche di chi gli rimproverava di aver continuato a lavorare anche durante l'occupazione tedesca mentre altri suoi colleghi si erano riparati all'estero. In Italia, come in altri paesi, la pellicola fu tagliata (eliminando per lo più le performance teatrali di Baptiste e di Frédérick) e condensata in una versione da un'ora e mezza. Il titolo originale ("I ragazzi del paradiso") fa riferimento agli spettatori che in teatro sedevano nel loggione (detto appunto "paradis", perché si trovava in alto), ovvero al pubblico più squattrinato ma anche più rumoroso e affezionato. L'amore per il teatro e le sue varie forme permea tutta la pellicola, a tratti una vera meta-narrazione che mette in scena, appunto, la "messa in scena": a partire dal "sipario" che si alza e si abbassa in apertura e in chiusura di film, spiccano le esibizioni mute di Baptiste, ma anche la strepitosa verve di Frédérick (irresistibile quando trasforma un mediocre dramma sulla criminalità – anch'esso realmente esistente, peraltro – in una sua farsesca autoparodia). Di contro, la descrizione dei bassifondi, della vita dei poveri artisti, dei criminali e dei mendicanti (si pensi a tutta la sequenza che parte dall'incontro di Baptiste con il cieco, prosegue nel locale malfamato e termina con la prima notte trascorsa da Garance con Frédérick) si iscrive a pieno titolo nel filone del "realismo poetico" di cui Carné e Prévert erano stati figure centrali; ma il film va oltre, aggiungendovi una complessità monumentale, una ricchezza di elementi e una stratificazione dei caratteri che erano assenti nelle opere precedenti.

2 commenti:

marco c. ha detto...

Visto ieri sera appena prima della Regola di Renoir. Assolutamente non mi è piaciuto. E' più recente del secondo che ho visto ma sembra più vecchio di 20 anni. Sembra un film muto di Murnau. Tipo Aurora. Anzi Aurora rimane più diretto e sincero. Veramente un film mediocre. Non c'è stato un momento in cui ho pensato che fosse un grande film, sarà anche perché ho visto la versione accorciata di una oretta. Comunque, nulla di ché: noiosetto, trito e ritrito, poco credibile come realismo ed estremamente commerciale. Ma molto commerciale. Non mi dire di no, se lo giravo io come minimo ci mettevo un paio di tette della "artista di strada". Quella sì che faceva arte di strada. In questo film non si vede nulla, manco l'omicidio, né una scena di sesso, anzi manco un bacio decente. Era pietoso, soprattutto con riferimento alla moglie di pierrot che agiva in una maniera assolutamente irrealistica. Ti pare realistico. Ma dove? Mai visto un film più scontato di questo. Sarà anche per la censura nazista, non lo nego, ma piuttosto fattelo censurare e fai uscire la copia completa dopo il '45. Tieni della copie nascoste come Murnau. Vai a lavorare all'estero. Ma veramente, dò ragione ai detrattori. Cmq un filmetto. Alcuni passaggi sembravano quei film anni '50 americani, dove la protagonista piangendo mentre tiene stretto un fazzolettino chiede al suo amato di non lasciarla. Mi veniva la nausea. Orrendo. Era tutto irrealistico. Compresa la figura dell'assassino nel bagno turco che rimane immobile ad aspettare la gendarmeria. Un film che nasce già vecchio. Ed infatti non è sopravvissuto allo scorrere degli anni.

Christian ha detto...

Fermo restando che i gusti sono gusti (e comunque anche a me in generale Renoir piace più di Carné, i cui altri film – a parte questo – non hanno mai detto nulla di particolare), forse il problema è proprio che non hai visto la versione integrale. In effetti la versione tagliata, senza parecchi personaggi minori, senza sottotrame e senza le scene "recitate" sul palco, perde molto di valore e di significato, perché priva di quella "monumentalità" e di quella "universalità" che lo rende un affresco a 360 gradi o meglio un feuilleton moderno. Per me questo film è quanto di più "francese" ci sia, da paragonare ai capolavori della letteratura popolare (sottolineo "popolare", perché è di questo che stiamo parlando) ma al contempo con tocchi d'autore (i dialoghi di Prevert). Però, ripeto, bisogna vedere la versione integrale. Due appunti: non si parla di "realismo" tout court, ma di "realismo poetico", che è tutta un'altra cosa. E non è corretto dire che non è sopravvissuto al passare degli anni: tant'è che viene regolarmente restaurato e rimandato nei cinema (l'ultima volta proprio l'anno scorso, anche qui in Italia!). Per me è superiore alla "Regola", che comunque completa il podio dei miglior film francesi della prima metà del secolo (il terzo è probabilmente "L'Atalante").