14 giugno 2013

La vita di Adèle (Abdellatif Kechiche, 2013)

La vita di Adèle (La vie d'Adèle)
di Abdellatif Kechiche – Francia 2013
con Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux
***

Visto al cinema Anteo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

La liceale Adèle, pur corteggiata da un compagno di scuola, scopre di essere attratta da una misteriosa ragazza dai capelli blu, più grande di lei, che ha incrociato di sfuggita per la strada. Si tratta di Emma, studentessa di belle arti e lesbica dichiarata: quando si rincontrano, fra le due nasce l'amore; e qualche anno dopo le ritroviamo a vivere insieme. Emma è diventata un'artista e gallerista, mentre Adéle insegna in una scuola per l'infanzia. Ma non tutto sarà rose e fiori... La pellicola che ha vinto la Palma d'Oro di questa edizione del Festival di Cannes è un delicato racconto di "coming of age" al femminile, una storia di educazione sentimentale e di risveglio sessuale tratta da un fumetto ("Le bleu est une couleur chaude" di Julie Maroh), il cui titolo originale è anche quello usato per la distribuzione del film sui mercati esteri, e dal quale si discosta nell'impianto (il romanzo grafico era tutto narrato in flashback, man mano che Emma leggeva il diario dell'amica) e soprattutto nel finale. Il sottotitolo ("La vie d'Adèle - Chapitre 1 e 2") indica la divisione della pellicola in due parti, ambientate a qualche anno di distanza l'una dall'altra (la prima in cui Adèle è ancora al liceo, e la seconda in cui dopo essersi diplomata comincia a lavorare come educatrice), e – come lasciato intendere dallo stesso Kechiche – suggerisce un possibile seguito con i capitoli 3 e 4 che ci mostreranno le successive evoluzioni della protagonista. I sentimenti, le emozioni, la passione, l'amore, il sesso, l'amicizia, le aspirazioni sgorgano in maniera naturale da un flusso ininterrotto di narrazione, dove anche il tema della sessualità (e dell'omosessualità) è letto puramente in chiave intima ed esistenzialista, non militante o provocatoria. Come consuetudine per Kechiche, i tempi sono lunghi e le scene dilatate (il film dura tre ore), ma stavolta non lo si percepisce come un difetto (come invece avveniva in "Cous cous"). Sarà per l'impostazione naturalistica della pellicola, per l'intensità della recitazione delle protagoniste, per l'atmosfera in cui il regista riesce a immergere lo spettatore sin dalla prima inquadratura, sta di fatto che il ritmo coinvolge e i tempi narrativi risultano perfettamente dosati; anzi, quando la pellicola termina ci si ritrova quasi smarriti nel dover abbandonare Adèle al suo destino: si vorrebbe continuare a seguirne le vicende ancora a lungo. Non danno quindi fastidio sequenze prolungate di gente che mangia, che parla o che piange (quei primi piani di Adèle in lacrime mi hanno ricordato il sublime finale di "Vive l'amour" di Tsai Ming-liang), perché si ha l'impressione di assistere a frammenti di "vita vera". Certo, proprio in questa sua naturalezza e nel suo realismo sta forse anche il limite del film: tutto ciò che ha da offrire viene mostrato direttamente sullo schermo, senza dare spazio a simboli o visionarietà, e senza lasciare nulla di "non detto" allo spettatore. E infatti ogni cosa viene esplicitata, a partire dalle lunghe scene di sesso (che potrebbero essere sforbiciate quando la pellicola verrà distribuita in sala: quella della rassegna era infatti una "copia di lavorazione", ancora priva di titoli di testa e di coda). Come ne "La schivata" (il film di Kechiche che finora mi era piaciuto di più, e anche quello con cui questo ha più cose in comune, soprattutto nella prima parte), tutto ha origine da Marivaux, segnatamente da "La vita di Marianne", testo che Adèle legge in classe e che ama particolarmente: in un certo senso il racconto della sua vita rispecchia quella del personaggio del drammaturgo francese. Ma non mancano altri spunti e riferimenti culturali, da Louise Brooks a Egon Schiele. Eccezionali le due attrici: se Léa Seydoux – qui in versione mascolina – era già stata apprezzata in precedenza ("Lourdes", "Sister", e persino alcuni film hollywoodiani), Adèle Exarchopoulos è invece al suo primo film importante (con il personaggio principale, che nel fumetto si chiamava Clementine, ribattezzato in suo onore).

4 commenti:

persogiàdisuo ha detto...

BEato te che sei già riuscito a vederlo! io dovrò aspettare ancora un bel po' mi sa! la mia adorata Léa Seydoux a quanto pare non sbaglia un colpo!

Christian ha detto...

In questo film Léa ti sorprenderà: come detto, è in versione "maschiaccio", molto diversa dalla bionda bambolina vista in altri film (e nel recente spot pubblicitario del profumo Candy di Prada). Comunque bravissima! ^^

Marisa ha detto...

Il limite del film, come tu stesso hai fatto notare, è proprio nell'eccessiva esplicitazione, soprattutto nelle scene di sesso. Manca infatti l'immaginario e il rimando al fantastico, necessario alla vera arte. In questo senso Marivaux è completamente tradito e al gioco degli occhi e della magia dell'anima si sostituisce il linguaggio del corpo.
Anche la storia tra le due ragazze si consuma solo nell'attrazione fisica e non in un vero rapporto capace di trasformarle. La distanza culturale e sociale ne esce aumentata e Adèle rimane ancora più sola.

Christian ha detto...

Infatti: il motivo per cui Kechiche non riesce mai a entusiasmarmi del tutto (tranne forse ne "La schivata", che non a caso era il suo film più "piccolo" e meno ambizioso) è questo suo bisogno di mostrare ogni cosa, di non lasciare mai nulla all'immaginazione dello spettatore, il che sfocia necessariamente in pellicole lunghissime e composte da scene lunghissime. Se ogni cosa è esplicita, significa che quello che il film ha da dire è equipollente a ciò che si vede sullo schermo, e dunque non si richiede nulla allo spettatore se non guardare lo schermo stesso (niente riflessioni, niente immaginazione, niente indagini private...). Detto ciò, il film è bello e recitato benissimo. Ma personalmente non lo ritengo così memorabile. Non mi stupisco che abbia vinto la Palma d'Oro a scapito de "La grande bellezza", visto che si tratta di due film agli antipodi (quello di Sorrentino richiede invece tanti sforzi allo spettatore e in cambio gli offre solo brevi lampi o bagliori di consapevolezza).