28 febbraio 2013

La parola ai giurati (Sidney Lumet, 1957)

La parola ai giurati (12 angry men)
di Sidney Lumet – USA 1957
con Henry Fonda, Lee J. Cobb
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Visto in TV, con Sabrina.

In un’afosa giornata estiva, al termine di un dibattimento, una giuria popolare si ritira in una piccola aula privata del tribunale di New York per deliberare su un caso di parricidio. Gli indizi e le testimonianze sembrerebbero non lasciare dubbi, e infatti undici dei dodici giurati sono subito pronti, senza alcuna esitazione, a dichiarare colpevole il diciottenne dei bassifondi che è accusato di aver pugnalato il padre che lo maltrattava. Ma uno dei giurati vota invece per l’assoluzione: non perché sia convinto al cento per cento che il ragazzo sia innocente, ma perché ritiene che sussista ancora un “ragionevole dubbio” (di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza) e soprattutto perché, essendoci una vita in gioco (l’imputato, se giudicato colpevole, andrebbe sulla sedia elettrica), pensa che sia giusto discuterne almeno un po’ prima di prendere una decisione frettolosa. Poiché in un caso del genere è necessaria l’unanimità, gli altri undici giurati cercano di convincere il loro compagno delle proprie ragioni: ma durante la discussione, inaspettatamente, sono invece loro che, uno a uno, finiscono col rendersi conto della superficialità, dei pregiudizi o delle ambiguità che potrebbero aver offuscato le proprie conclusioni. A parte le brevi sequenze iniziali e finali, il film si svolge tutto in una stanza, e può dunque essere iscritto a quel particolare genere di “cinema da camera” (che rispetta le unità di luogo, azione e tempo) cui appartengono pellicole come “Nodo alla gola” di Hitchcock o “Carnage” di Polanski. Oltre che una perfetta descrizione delle dinamiche del dibattito, della psicologia sociale e dei meccanismi di “costruzione del consenso” all’interno di un gruppo di persone di età, cultura e origine differente, è anche un caposaldo del cinema giudiziario, sebbene non mostri il processo in sé ma solo la discussione della giuria popolare (che negli Stati Uniti è formata da cittadini comuni, estratti a sorte): la vicenda viene ricostruita pezzo a pezzo, a beneficio dello spettatore, proprio attraverso i commenti dei giurati, che – fra liti, conflitti e ragionamenti vari – fanno emergere pian piano nuovi particolari. Memorabile la caratterizzazione dei dodici personaggi (nessuno dei quali identificato da un nome, a parte quelli interpretati da Fonda e da Sweeney che si scambiano le presentazioni nel finale, ma solo da un numero): si va dal bigotto razzista e pieno di pregiudizi (Ed Begley) al rappresentante che spera solo di concludere la discussione in fretta perché ha in tasca un biglietto per una partita di baseball (Jack Warden), dall’immigrato dell’Europa dell’Est che nutre un’appassionata fiducia nel sistema giudiziario americano (George Voskovec) all’agente pubblicitario che si lascia influenzare continuamente dalle opinioni altrui (Robert Webber), dal presidente della giuria, allenatore di una squadra di football liceale, che cerca a fatica di gestire con equilibrio la discussione (Martin Balsam), al timido impiegato di banca che inizialmente è messo in soggezione dagli altri ma trova poi il coraggio delle proprie idee (John Fiedler), dal freddo e analitico agente di borsa che cerca di considerare i fatti con razionalità (E. G. Marshall), al “tifoso del Baltimora” che proviene a sua volta dai bassifondi e dunque empatizza con il ragazzo (Jack Klugman), dall’imbianchino paziente e rispettoso (Edward Binns) all’anziano saggio e riflessivo (Joseph Sweeney), per finire con le due figure principali, l’antagonista e il protagonista del film: l’esagitato uomo d’affari che – come si scoprirà alla fine – intende condannare il ragazzo per “punire” in qualche modo il suo stesso figlio, fuggito da casa e con il quale aveva un rapporto difficile (Lee J. Cobb), e il coscienzioso architetto (Henry Fonda) che è il primo a nutrire qualche dubbio su come i fatti sono stati ricostruiti e portati in tribunale. Da notare che il film si conclude senza rivelare se il ragazzo imputato sia effettivamente innocente: anzi, probabilmente è colpevole, solo che gli indizi contro di lui non permettono di affermarlo “oltre ogni ragionevole dubbio”, appunto. Tratto da una magistrale sceneggiatura di Reginald Rose, inizialmente pensata per un adattamento televisivo, il film segna il debutto alla regia cinematografica di Sidney Lumet, autore in seguito di altri capolavori (come “Quel pomeriggio di un giorno da cani”). Verrà rifatto quarant'anni dopo, nel 1997, da William Friedkin, con Jack Lemmon e George C. Scott nelle due parti principali.

2 commenti:

Giovanni ha detto...

Ebbbbravo Cri, sunto magistrale.
Da parte mia essere ancor più consapevoli di quanto sia facile vedere la pagliuzza negli occhi degli altri (il condannato - anche se condivido con te che forse è effettivamente colpevole) piuttosto che la trave nei nostri occhi: che viene ovviamente proiettata...!
Insomma, che bestia strana che è l'uomo, ancor più se la vedi in una stanza affollata di 12 persone a dibattere di vita e di morte, come se discutessero di come scambiarsi le figurine (nessun accenno "tragico", lacrime, ecc.).
Bello e spietato.
G.

Christian ha detto...

Grazie, Gio. È un film ancora attualissimo e quasi perfetto nella sua capacità di sintetizzare tanti temi attraverso i discorsi di un pugno di personaggi chiusi in una stanza (è perfetto per un adattamento teatrale!).