16 settembre 2012

Pietà (Kim Ki-duk, 2012)

Pietà (Pieta)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2012
con Lee Jung-jin, Jo Min-soo
***

Visto al cinema Anteo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Il trentenne Lee Kang-do si guadagna da vivere riscuotendo denaro per conto di alcuni strozzini. Quando il debitore non è in grado di pagare, Kang-do provoca un "incidente" e lo rende storpio, in modo che il denaro incassato dall'assicurazione possa ripianare il prestito. Freddo e spietato, non si cura dell'odio e del desiderio di vendetta che le sue azioni generano nei propri confronti. Ma un giorno un'esile donna si presenta alla sua porta, dichiarando di essere la madre che lo aveva abbandonato alla nascita. Inizialmente il ragazzo non le crede e la tratta in malo modo, sottoponendola anche a una serie di prove sempre più dure e umilianti, fino alla violenza. Ma lentamente l'idea di avere finalmente qualcuno da amare e da cui essere amato si fra breccia in lui; e la presenza della madre arriva a cambiare i suoi modi, dandogli compassione per le sue vittime. Il male che ha compiuto in passato tornerà tuttavia a tormentarlo in maniera sorprendente e inaspettata. Dopo una serie di pellicole poco convincenti e una profonda crisi personale (che lo ha portato a non girare film per tre anni, lui che era solito realizzarne a getto continuo), Kim Ki-duk abbandona le derive zen e torna alla cupa durezza dei suoi primi lavori, ottenendo a Venezia un meritato Leone d'Oro. Il titolo internazionale, "Pietà", fa riferimento all'iconografia della madonna che regge il figlio morto sulla croce (la locandina ricostruisce addirittura, con le immagini dei due attori, la Pietà di Michelangelo), ma la pietà nel film è affrontata su più livelli: quella che Kang-do arriva a provare verso le proprie vittime e quella della donna, nel finale, verso di lui. Tuttavia, prima ancora della compassione e della vendetta, il vero tema del film è il denaro, di cui l'uomo finisce per diventare schiavo e per il quale è disposto a tutto, anche a perdere una parte di sé. In Corea, come da noi, di fronte alla crisi economica sono aumentati in maniera impressionante coloro che ricorrono ai prestiti: Kang-do giustifica le proprie azioni accusando le sue vittime di chiedere denaro senza pensare alle conseguenze e al modo di ripagarlo; si tratta per lo più di operai, artigiani e proprietari di piccole officine meccaniche di uno squallido quartiere destinato comunque a sparire e a soccombere all'avanzata dei grattacieli, che per sopravvivere al duro presente non si curano del futuro. Lo stesso fa il giovane padre che progetta addirittura di amputarsi le mani in occasione della nascita del figlio (personaggio che è fra l'altro l'unica figura "paterna" in un film fatto soprattutto di madri, anziane e passive così come irose e vendicative). "Il denaro è il terzo personaggio del film", ha spiegato il regista. E la pietà diventa un "sentimento quanto mai necessario vista la crisi profonda che il mondo attraversa proprio a causa di un sistema economico degenerato, che crea tanta sofferenza e assenza di umanità". Ma nonostante un quadro tanto cupo (che si riflette nella fotografia oscura e nelle scenografie squallide ma efficaci della pellicola, cui non mancano squarci di genio pittorico: indimenticabile, per esempio, la scena finale, con quella lunga pennellata sull'asfalto), la pietà produce anche speranza. "E se non credessi alla speranza", ha detto Kim Ki-duk, "non avrei mai girato questo film".

7 commenti:

Sabrina ha detto...

"Non nella presenza,ma nell'assenza si comprende il valore e la natura delle cose".Seguendo questo apoftegma,Kim Ki-Duk prova a definire il concetto di pietà per negazione.Non c'è pietá nella sua regia,non c'è pietá nella sceneggiatura ,non c'è pietà negli attori,vittime o carnefici che siano.Quest'assenza incombe sullo spettatore fino a soffocarne ogni speranza catartica.Uno girato plumbeo e cupo imprime nello sguardo  violenza,denaro,famiglia,vendetta, in modo così marcato e crudo da raggiungere, per i canoni occidentali, l'inverosimiglianza.Il genio figurativo di Kim Ki-Duk rimane così impigliato in questa spirale parossistica non riuscendo ad esprimersi sui massimi raggiunti in passato pur restando su un ottimo livello.Ottime anche le interpretazioni,la trama e l'uso dei simbolismi.Un film che si ferma sulla soglia del capolavoro.

Marisa ha detto...

Bella recensione ( sono d'accordo su tutto) per un film capace di tenerti inchiodato alla sedia per tutto il tempo, anche se a volte vorresti chiudere gli occhi.
Mi ha colpito come la ormai famosa immagine usata nella locandina e costruita perfettamente sulla Pietà di Michelangelo non compaia mai nel film e me ne sono chiesta il possibile significato. Secondo me il grande Kim Ki-duk fa lavorare questa icona, simbolo della Pietà e del dolore universale , in modo subliminare perchè essa non è mai esplicitata, eppure è il motore perchè tutto il film si regge proprio sul lento trasformarsi del cinismo (quello di Kang-do)e della sete di vendetta (quella della madre) in autentica pietà. Il simbolo che è al centro di questa trasformazione è il maglione, un vero sudario, che appartiene a tutti e due i figli: quello amato che si è suicidato e quello odiato che però viene redento fino al sacrificio e all'autoimmolazione, proprio come Cristo. Il vero significato di Maria che riprende sulle sue ginocchia il Cristo morto è proprio nel considerare tutti gli infelici "suoi figli" e perciò è il simbolo dell'amore incondizionato e universale.

marco c. ha detto...

Come è possibile che l'Occidentale cada sempre nella trappolona zen di Kim? I suoi film sono aria fritta!!!! Era meglio Bellocchio.

Christian ha detto...

Sabrina: Grazie del commento. Sono d'accordo nel ritenerlo un ottimo film, ma anche che in passato abbia fatto di meglio (i miei preferiti restano "L'isola" e "Bad guy"). In effetti un velo di inverosimiglianza c'è: per questo è meglio leggerlo in maniera simbolica (come d'altronde è la volontà dell'autore) che analizzare la plausibilità della vicenda e dei personaggi.

Marisa: Grazie anche a te. Hai ragione, la figura della madre che si fa carico del dolore dei figli è esemplar come simbolo dell'amore e della pietà. Tanto più che nel film non è la sola, visto che, come abbiamo già osservato, la pellicola è piena di madri. E ora che ci penso, il cinema coreano in generale è spesso focalizzato sulla figura materna, assai più che su quella paterna: pensiamo a "Mother", a "Poetry"...

Marco c.: Sai bene che la penso come te sui film di KKD più recenti. Ma in questo caso mi sembra tornato ai livelli degli inizi, non è solo estetismo fine a sé stesso o vuoti messaggi che ciascuno può interpretare a proprio modo.

CINEMAeVIAGGI ha detto...

Opinabile sì... ma addirittura "aria fritta"... no!

Fabio ha detto...

Finalmente l'ho visto. Mi ha lasciato disorientato, perché da una parte è un vero bel film di Kim Ki Duk, dall'altra cade nel genere film-di-vendetta come se fosse un Confessions. Solo che lì c'era il piacere tutto intellettuale del piano vendicativo, qui ti si strappa il cuore.

[SPOILER SPOILER]

Dal punto di vista della trama si sarebbe potuto scegliere di rappresentare in questa donna vendicativa anche la vera madre, e nel suicida il fratello sconosciuto del protagonista. Così l'autenticità della prima parte del film è salva, abbiamo l'ennesima eco biblica (Caino), e anche una circostanza altamente simbolica (coloro a cui fai del male sono sempre tuoi "fratelli").

Ma siamo sicuri che non è così che lo intendeva Kim?

Christian ha detto...

In un certo senso è proprio così, e questo motiva anche il titolo e la locandina del film. Come suggerisce anche il commento di Marisa (vedi sopra), nell'iconografia della Pietà la Madonna è la madre "di tutti". Alla resa dei conti, dunque, simbolicamente è come i personaggi del film fossero davvero madre e figlio (anche se in realtà non lo sono).