24 gennaio 2012

Il buono, il brutto, il cattivo (S. Leone, 1966)

Il buono, il brutto, il cattivo
di Sergio Leone – Italia 1966
con Clint Eastwood, Eli Wallach, Lee Van Cleef
****

Rivisto in Blu-ray con Giovanni, Rachele, Paola, Ilaria, Ginevra, Eleonora e Costanza.

Sullo sfondo della sanguinosa guerra di secessione americana, tre uomini che vivono ai margini della legge (un giustiziere senza nome soprannominato "il Biondo"; il fuorilegge messicano Tuco; e il killer a pagamento chiamato "Sentenza") si mettono sulle tracce di una cassa con duecentomila dollari in oro, sottratta all'esercito sudista e nascosta in un cimitero. La "trilogia del dollaro" di Sergio Leone, che ha dato il via alla stagione dei western all'italiana, si conclude con il film forse più celebre e importante dell'intero filone, una pellicola epica e avventurosa, ambiziosa e divertente, ironica e spettacolare. Se Clint Eastwood era stato il protagonista assoluto del primo film ("Per un pugno di dollari"), affiancato poi da Lee Van Cleef nel secondo ("Per qualche dollaro in più"), qui i personaggi centrali diventano tre (come indica già il titolo della pellicola, fra l'altro ben più azzeccato e significativo di quelli dei due film precedenti, che in fondo avrebbero potuto essere appioppati a qualsiasi spaghetti western): il terzo incomodo è il formidabile Eli Wallach, nel ruolo più celebre di una carriera che pure lo ha visto recitare in compagnia di divi come Marilyn Monroe ("Gli spostati") e in pellicole come "I magnifici sette" e "La conquista del west". Proprio il suo personaggio, "il brutto" Tuco, è il più simpatico e "umano" dei tre protagonisti, non solo perché gli sono riservati i momenti più tipicamente comici ma anche e soprattutto perché è quello meglio caratterizzato (basti pensare al background che gli forniscono sequenze come quella dell'incontro con il fratello prete). Clint Eastwood, che naturalmente è "il buono", interpreta ancora una volta il ruolo dell'eroe senza nome (il fatto che soltanto nel finale giunga a indossare il celebre poncho che vestiva nei film precedenti suggerisce che questo possa essere – almeno idealmente – il prequel degli altri due). Van Cleef, invece, stavolta è "il cattivo" (e per ringiovanirlo rispetto al colonnello Mortimer, Leone gli ha fatto tingere i baffi e i capelli di nero): al contrario degli antagonisti nevrotici e spietati interpretati in precedenza da Gian Maria Volontè, però, la sua non è una cattiveria pura, bensì sempre controllata e finalizzata a un obiettivo.

Nonostante la monumentale durata (quasi tre ore), la storia che il film racconta è piuttosto semplice e il canovaccio è quello della caccia al tesoro, con ciascuno dei tre personaggi in possesso di solo una parte delle informazioni che consentono di trovare il bottino, il che li costringe a dar vita ad alleanze forzate che si formano e si disfano a seconda degli eventi. Sullo sfondo, come detto, c’è uno scenario storico preciso, quello della guerra civile americana, che non solo dona a tutta la vicenda un maggior respiro epico e quell’universalità che mancavano nei film precedenti ma ne accentua il continuo senso di morte imminente (che accompagna i personaggi dalla prima all'ultima sequenza: non a caso il climax del film si svolge in un cimitero). E di fronte agli orrori di un conflitto insensato ("Non ho mai visto morire tanta gente, tanto male", commenta il Biondo osservando una battaglia), anche gli inganni e le violenze dei tre protagonisti si fanno più piccoli e passano quasi in secondo piano, lasciandoli impegnati a battersi fra loro nella più totale indifferenza del resto del mondo, comprese le autorità o la legge. Pare che quest’idea sia stata suggerita a Leone da "Monsieur Verdoux", in cui Chaplin si chiedeva quanto contino i delitti "artigianali" di un singolo di fronte ai massacri voluti dai potenti del mondo. Il lungo viaggio dei tre personaggi incrocia dunque più volte la guerra, dalla quale entrano ed escono in continuazione: sono costretti a vestire divise, a interagire con i soldati, a evitare cannonate e battaglie, a superare trincee e linee nemiche, a evadere dai campi di prigionia... Non prendono posizione: che indossino o meno una divisa, rimangono del tutto indifferenti alle ragioni e agli ideali della guerra e non parteggiano per una parte o per l'altra: ma d'altronde lo stesso sembra valere per i soldati e i loro comandanti, ritratti come disperati o fatalisti (esemplare la toccante sequenza di Aldo Giuffrè, il capitano nordista che sogna di far saltare il ponte che è stato incaricato di proteggere), che reputano la guerra qualcosa di sporco e di inutile a prescindere dalle parti in causa. E non contiamo quanti di loro sono mutilati, senza arti o con cicatrici.

Girato come i precedenti in Almeria (la regione della Spagna che storicamente ha sempre fornito le ambientazioni per gli spaghetti western: un debito riconosciuto in pellicole-omaggio come "800 bullets" di Alex de la Iglesia), con la partecipazione dell'esercito franchista (che ha fornito i soldati per le scene di massa) e prodotto ancora da Alberto Grimaldi (con un ricco finanziamento della United Artists, che lasciò però carta bianca agli italiani), il film è il primo western ad alto budget di Leone, visto che le due pellicole precedenti – soprattutto la prima – erano state girate in economia. Recitato in una babele di lingue (inglese per i tre protagonisti, italiano per gli attori secondari, spagnolo per le comparse), venne poi doppiato in occasione delle varie uscite in sala. Non esiste dunque una vera e propria versione originale: alcuni attori (come Al Mulock) sul set recitavano addirittura parole senza senso o sequenze di numeri, sapendo che comunque sarebbero stati doppiati. Troppe sono le scene significative per ricordarle tutte: si dovrebbe raccontare, sequenza per sequenza, l’intero film. Vorrei però sottolinearne un paio che sono legate agli oggetti più iconici del western, le pistole. Innanzitutto la sequenza in cui Tuco, appena uscito dall’inferno del deserto, si presenta nel negozio di un venditore di armi e si "assembla" una pistola personalizzata scegliendo gli elementi ideali di ciascun modello che il commesso gli propone (la scena si conclude poi con uno sberleffo, la rapina al negoziante); e poi quella in cui il Biondo, dopo aver sconfitto Sentenza, avrà cura di farlo raggiungere nella tomba proprio dalla pistola e dal cappello: come scrive Francesco Minnini, si tratta di "accessori simbiotici del cowboy, che neppure un nemico oserebbe separare dal padrone, anche se morto". Quanto al "triello" finale, un celebre enigma di logica basato sulla teoria dei giochi suggerisce che al più "scarso" dei tre tiratori convenga sparare a vuoto: qui per Tuco ci pensa il Biondo, scaricandogli la pistola prima dello scontro (il che gli consente di vincere il duello con Sentenza perché a differenza del rivale sa già di doversi concentrare su un solo avversario).

Tornando al titolo (che pare sia stato ideato da Luciano Vincenzoni, co-sceneggiatore del film), non manca in esso una punta di ironia. I tre soprannomi, "il buono", "il brutto" e "il cattivo" (che compaiono scritti sullo schermo – a fianco dei rispettivi personaggi – sia all'inizio che alla conclusione del film) sembrano etichettare i personaggi in maniera netta e manichea, il che è naturalmente fuorviante: il Biondo è sì "buono", nel senso che "salva la vita" a Tuco sparando alla corda che lo sta impiccando (i due sono in realtà d'accordo: il primo consegna il secondo alle autorità per riscuotere la taglia, e poi lo libera) e dimostra più volte una spiccata sensibilità nei confronti di chi soffre (esaudisce l'ultimo desiderio del capitano nordista, offre il proprio sigaro al soldato sudista morente, e così via), ma in fondo anche lui è mosso dal desiderio di mettere le mani sull'oro e non certo da nobili ideali come quelli degli eroi del western classico; Sentenza è sì "cattivo", nel senso che non sembra porsi alcuno scrupolo nel tradire e uccidere pur di raggiungere i propri scopi, ma segue comunque un proprio codice d'onore ("Quando uno mi paga gli porto sempre a termine il lavoro"), non uccide se non è davvero necessario (risparmia la prostituta Maria, nonché la moglie e il figlio minore dell'uomo che rintraccia all'inizio: ne uccide invece il figlio maggiore, ma solo perché questi aveva tentato di aggredirlo con un fucile; dona una bottiglia al soldato ferito nell'ospedale di campo, e due monete a quello menomato che gli fornisce informazioni) e anche nel duello finale si batte secondo le regole; e Tuco, "brutto" sì ma fino a un certo punto (i suoi rivali, come i bounty killer che gli danno la caccia a inizio film – uno dei quali, quello che lo rintraccerà a metà pellicola, è interpretato dallo stesso Al Mulock che rivedremo nell'incipit di "C'era una volta il west" – hanno volti molto più sgradevoli del suo!), è un character talmente vivo e stratificato da non poter essere facilmente inquadrato nello stereotipo della macchietta comica, nonostante l'aspetto sia quello del messicano sporco, basso e grassottello, agli antipodi rispetto all'iconografia dell'eroe alto, bello e muscoloso.

Oltre a segnare un punto d'arrivo fondamentale nello stile di Sergio Leone (i tempi ampi e dilatati, i primissimi piani, l’attenzione ai dettagli, l’integrazione con il paesaggio, la cura nell’inquadratura e nel montaggio) – il film trascende il genere western e presenta molti chiavi di lettura: di quella della storia e della violenza abbiamo detto; abbiamo poi una connotazione fiabesca, evidente da scene come quella in cui Tuco segue – come Pollicino! – le tracce del Biondo che ha disseminato il suo cammino di sigari sempre più caldi (l’ultimo, infatti, è ancora acceso), o da elementi surreali come il vezzoso ombrellino rosa nel deserto; c’è il tema della religione: quello di Leone è un west senza Dio, dove un frate può essere meno misericordioso di un bandito (vedi ancora una volta l’incontro di Tuco e suo fratello) e un bounty killer è "l'angelo custode" di un fuorilegge, dove i riti religiosi sono caricaturizzati (il buffo segno della croce che si fa Tuco) e i valori cristiani distorti (Sentenza che divide la cena con l’uomo che sta per uccidere, e che in seguito fa lo stesso con Tuco prima di torturarlo); c’è poi il tema del gioco (la caccia al tesoro è una sorta di gioco dell’oca, con i tre personaggi come pedine e il cimitero finale – che Tuco percorre in una folle corsa circolare, fino a ritrovarsi nello spiazzo centrale – come tabellone; e come nel tiro dei dadi, è spesso il caso o il destino a decidere le sorti dei giocatori: si pensi alle cannonate che cadono dal cielo e che in un paio di occasioni, come veri deus ex machina, consentono ai personaggi di scampare alla morte o agli agguati). La natura ludica della vicenda è sottolineata anche dal diffuso sense of humour che sfocia in un autentico florilegio di frasi memorabili. Solo per citarne qualcuna:

– "La tua faccia somiglia a quella di uno che vale duemila dollari." – "Già, ma tu non somigli a quello che li incassa."
– "Quando si spara si spara, non si parla!"
– "Sei... il numero perfetto" – "Non era tre il numero perfetto?" – "Sì, ma io ho sei colpi qui dentro."
– "Dormirò tranquillo, perché so che il mio peggior nemico veglia su di me."
– "Dio è con noi, perché anche lui odia gli yankee!" – "No, Dio non è con noi, perché anche lui odia gli imbecilli."
– "Levati la pistola e mettiti le mutande."
– "Vado, l'ammazzo e torno."
– "Il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi."
– "Ehi Biondo, lo sai di chi sei figlio tu? Sei figlio di una grandissima puttaaa-aaa-aaa..."
(da sfumare sul tema musicale di Ennio Morricone)

E a proposito di Morricone, raramente una colonna sonora (diretta da Bruno Nicolai) si è rivelata così fondamentale per la buona riuscita della pellicola (una delle poche accoppiate regista/compositore che mi sentirei di paragonare a quella formata da Leone e Morricone – per la qualità del risultato filmico – è quella di Takeshi Kitano e Joe Hisaishi). Oltre al celeberrimo e riconoscibilissimo tema principale (con gli "ululati dei coyote"), i brani indimenticabili comprendono la ballata "La storia di un soldato" (che a dire il vero è un po’ troppo lenta per risultare credibile con l'utilizzo che ne fa Sentenza nel film, ossia quello di "coprire" le grida dei prigionieri che sta torturando), la musica quasi spettrale che accompagna la traversata nel deserto, il tema trascinante che fa da sfondo alla folle corsa di Tuco nel cimitero ("L'estasi dell'oro") e naturalmente quello del "triello" finale (che in parte riecheggia il carillon di "Per qualche dollaro in più"). Quest’ultima scena è un capolavoro anche di regia e di montaggio, con i suoi tempi dilatati che sembrano prolungare all’infinito l’attesa e la tensione, prima che i personaggi mettano finalmente mano alle pistole (Leone spesso regolava la durata delle scene proprio in base a quella dei brani musicali che Morricone componeva in anticipo). Ma il merito dell'eccezionale resa visiva di quella e di altre sequenze è anche dello spettacolare widescreen (e pensare che un tempo il film veniva proposto in tv in versione pan & scan: un vero delitto!) e della superba fotografia di Tonino Delli Colli. Al di là ai tre protagonisti, il cast offre poco spazio ad altri personaggi, ma comprende comunque buone e intense prove di Aldo Giuffré (il capitano nordista di cui si è detto), Luigi Pistilli (padre Ramirez, il fratello di Tuco), Mario Brega (il caporale Wallace, con una vistosa cicatrice che passa da un occhio all’altro!). Spicca invece la quasi totale assenza di figure femminili (se ne ricordano essenzialmente due, la moglie di Stevens e la prostituta Maria, che compaiono soltanto in una manciata di inquadrature), mancanza cui Leone rimedierà nel film successivo, "C'era una volta il west", dove Claudia Cardinale avrà un ruolo centrale.

6 commenti:

Giuliano ha detto...

bella l'idea di pensare alle colonne sonore che fanno parte integrante del film! visto che hai già messo due titoli, ti dò il terzo: Picnic ad Hanging Rock, con il flauto di Pan di Gheorghe Zamfir. Si potrebbe continuare, però Kubrick è fuori classifica...(anche Zamfir, a pensarci bene, non è una musica originale per il film di Weir: siamo più dalle parti delle colonne sonore di Herzog)
Per il resto, tutto ottimo ma fai attenzione che se continui così i tuoi post diventano lunghi come i miei!
:-)

Christian ha detto...

Personalmente amo molto quando una colonna sonora si rivela così importante per un film (i musical, naturalmente, sono un caso a parte), e quelli di Sergio Leone ne sono esempi perfetti. In generale ogni elemento di un film (comprese le scelte di fotografia o di montaggio), secondo me, deve risultare in qualche modo essenziale, altrimenti non è un valore aggiunto ma soltanto una distrazione: in questo Kubrick era un vero maestro, visto che nei suoi lavori non c'era un solo dettaglio inutile...

D'accordo sul film di Weir: anche lì la colonna sonora è fondamentale.

Quanto alla lunghezza dei post, tendenzialmente cerco di limitarla... ma per certi film mi piace lasciarmi andare (il mio record, se si trascura il caso particolare dei tre "Heimat", finora è quello de "I sette samurai"). ^^

marco46 ha detto...

un gran film, che solo alcuni difetti (ma chi non ne fa?) impediscono di premiare come il migliore di Leone
ad esempio la parte del comandante nordista la dovevano dare proprio a un napoletano (Aldo Giuffrè)?
e il ponte conteso tra nordisti e sudisti non ha alcun valore strategico (il fiume è quasi senz'acqua); assurdo poi che ci siano contemporaneamente due cariche in senso opposto: quando gli altri attaccano tu difendi e viceversa...

Christian ha detto...

Dettagli... ^^

Comunque concordo con te sul fatto che, pur essendo un capolavoro, non è il migliore di Leone. Il mio preferito è "C'era una volta il west".

Fabrizio ha detto...

Giuffè non è generale è un Capitano

Christian ha detto...

"Che facevate qui intorno?"
"Siamo venuti ad arruolarci, generale!"
"E allora impara a distinguere i gradi... Io sono capitano".


Ho corretto, grazie.