21 dicembre 2011

Viaggio a Tokyo (Yasujiro Ozu, 1953)

Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1953
con Chishu Ryu, Chieko Higashiyama
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Rivisto in DVD, con Paola, Eleonora, Ginevra e Andrea.

Una coppia di anziani coniugi (Chishu Ryu e Chieko Higashiyama) intraprende un lungo viaggio dal proprio villaggio nel sud-est del Giappone per andare a trovare i figli che vivono a Tokyo: ma questi, indaffarati e presi da mille impegni, non hanno praticamente mai tempo da trascorrere con loro e se li "rimpallano" a vicenda. Soltanto Noriko (Setsuko Hara), la vedova del figlio minore (scomparso in guerra otto anni prima), si dimostrerà affettuosa, sensibile e disponibile. Durante il viaggio di ritorno, la madre si ammala e muore. Stavolta saranno i figli ad accorrere per il funerale: ma anche in questo caso, dopo la cerimonia tutti si affrettano a tornare a casa, e solo Noriko si tratterrà ancora per qualche giorno. Il film più celebre di Ozu (nonché – purtroppo – l’unico che gode di una certa notorietà in occidente presso il grande pubblico) è un’amara riflessione sull’inevitabile deterioramento del rapporto fra genitori e figli, man mano che questi si costruiscono una propria vita e una propria famiglia. Senza voler condannare il comportamento di Koichi (So Yamamura), di Shige (Haruko Sugimura), e di Keizo (Shiro Osaka), impediti a stare vicino ai genitori dal lavoro e dalla vita (e infatti la pellicola non raggiunge mai la dimensione di un conflitto vero e proprio: non si va oltre una vaga manifestazione di “delusione” da parte dei genitori per l’allentamento dei legami, cui segue la riflessione che “i nostri figli sono comunque migliori della media”), Ozu riprende temi che aveva già trattato in alcune pellicole precedenti (la dissoluzione della famiglia, in “Fratelli e sorelle della famiglia Toda”; la delusione delle aspettative sui figli, in “Figlio unico”) ma stavolta con una maggior consapevolezza e soprattutto una più completa accettazione dell’ineluttabilità di tali dinamiche, che sfocia addirittura nella serenità che si legge sempre – anche nel finale, quando rimane solo – sul volto dell’anziano padre. L’unica a manifestare apertamente una certa insofferenza nei confronti dell’egoismo dei fratelli maggiori è la giovane Kyoko (Kyoko Kagawa), che proprio perché è la più piccola è anche quella che ancora non ha compreso, come le spiega Noriko, che tutti cambiano. “La vita è deludente”, commenta la ragazza. Le stesse parole che il suocero rivolge a Noriko nel finale, quando la invita a dimenticare il marito scomparso e a pensare a un nuovo matrimonio, sono un ulteriore segno dell’accettazione di come ogni cosa sia destinata a mutare, senza caricare questo fenomeno di una connotazione negativa (cosa che l’anziano padre ha ormai metabolizzato, mentre Noriko la sta comprendendo – il suo pianto nasce da questo – e Kyoko invece ancora la rifiuta).

In secondo piano rispetto al tema principale (il distacco fra genitori e figli), il film affronta anche quello del contrasto fra la campagna e la grande città, ovvero fra il Giappone prima e dopo la guerra (contadino, tradizionale e riflessivo il primo; industriale, frenetico e in continuo movimento il secondo): è infatti questa, più che semplicemente quella fra vecchiaia e gioventù, la barriera che separa irrimediabilmente le due generazioni. Stilisticamente il film mostra un Ozu al suo apice: l’essenzialità ormai consolidata (nessun movimento di macchina, se si eccettua la scena in cui Noriko porta i suoceri in giro per Tokyo a bordo di un autobus ballonzolante; la macchina da presa ormai stabilmente "ad altezza tatami"); l’equilibrio nella composizione delle inquadrature, nella disposizione dei personaggi, nei loro movimenti di entrata e uscita di scena; un ampio uso di inserti, ossia di inquadrature di esterni (panorami, ferrovie, ciminiere), per staccare da una sequenza all’altra, per mettere in ellisse i momenti topici del racconto (il viaggio in treno dei genitori, la morte della madre) o anche solo per ripresentare velocemente agli spettatori l’ambiente in cui si svolgerà la scena successiva, come il corridoio esterno all’appartamento di Noriko; continui sguardi in macchina degli attori per evitare l’effetto campo/controcampo tipico invece del cinema occidentale; la precisione dei dialoghi – e l’intensa recitazione, su tutti quella della Hara – per comunicare mille concetti con poche parole, in maniera spesso più allusiva che esplicita; una cura senza pari nell’approfondire le psicologie e le dinamiche dei personaggi attraverso eventi minori o di poco conto (il broncio dei bambini quando scoprono che non possono fare la gita domenicale; la rimpatriata del padre con i suoi commilitoni; la faticosa vacanza alle terme dei due coniugi, infastiditi dal chiasso degli ospiti più giovani); la mirabile caratterizzazione anche degli “ambienti” più piccoli (il bar dove il padre si ubriaca, l’appartamento della vicina di Noriko, l’ufficio dove la stessa Noriko lavora). Il titolo originale significa “Una storia di Tokyo”. Lo sceneggiatore Kogo Noda si sarebbe ispirato per il soggetto (che peraltro, come abbiamo visto, è perfettamente in linea con il cinema precedente di Ozu) a un film americano del 1952, “Cupo tramonto” di Leo McCarey, e forse al "Re Lear" di Shakespeare.

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