31 dicembre 2011

Scandalo a Filadelfia (G. Cukor, 1940)

Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story)
di George Cukor – USA 1940
con Katharine Hepburn, Cary Grant, James Stewart
****

Rivisto in DVD con Giovanni, Rachele, Paola, Eleonora e Ginevra.

Due anni dopo il divorzio dal precedente marito C. K. Dexter Haven (Cary Grant), la bella e ricca ereditiera Tracy Lord (Katherine Hepburn) se lo ritrova in casa proprio alla vigilia delle sue seconde nozze con l'aspirante politico George Kittredge (John Howard). E con lui arriva anche il giornalista Mike Connor (James Stewart), incaricato di realizzare un servizio sulla cerimonia per una rivista scandalistica. Fra un risveglio di fiamma per Dexter, l'insorgere dei primi dubbi su George e la scoperta degli insospettati lati positivi di Mike, Tracy si ritroverà con i sentimenti parecchio confusi e in preda a una crisi personale (tutti la vedono come una "divinità" da adorare a distanza, mentre lei vorrebbe essere amata come un normale essere umano). Capolavoro della commedia sofisticata del periodo d'oro di Hollywood, di cui fonde gli elementi romantici, brillanti e screwball, il film valse a James Stewart il suo unico premio Oscar come miglior attore, oltre a conquistare quello per la sceneggiatura (di Donald Ogden Stewart, da una commedia teatrale di Philip Barry scritta appositamente per la Hepburn). Appartiene a un sottogenere che il filosofo Stanley Cavell, nel suo libro "Alla ricerca della felicità", ha battezzato la commedia del rimatrimonio, particolarmente frequentato dal cinema statunitense negli anni trenta e quaranta (si pensi, fra gli altri, ad "Accadde una notte" di Capra, "La signora del venerdì" di Hawks, "Lady Eva" di Sturges e "La costola di Adamo" dello stesso Cukor): poiché all'epoca il codice Hays proibiva categoricamente di affrontare il tema dell'adulterio, gli sceneggiatori erano obbligati a mettere in scena un divorzio per consentire ai protagonisti di vivere storie sentimentali con altre persone e, infine, di sposarsi nuovamente. Oltre alla regia elegante e alle grandi prove degli attori, proprio la sceneggiatura è il punto di forza della pellicola, perfetta nel caratterizzare i protagonisti (Tracy, altera ed altezzosa ma in realtà fragile e sensibile, punto di riferimento con cui si misurano tutti gli altri personaggi; Mike, che dietro l'atteggiamento cinico e disilluso nasconde un animo da poeta e da gentleman; Dexter, ex alcolizzato, un tempo incapace di venire incontro alle aspettative troppo elevate dell'intransigente Tracy ma ora pronto a ricominciare la relazione su basi nuove e paritarie), nel mettere alla berlina le eccentricità e i difetti dell'alta società, nell'accusare la stampa scandalistica di invadere con mezzi leciti e illeciti la privacy dei personaggi pubblici (settant'anni prima dei tabloid di Murdoch!), nel dare vita a situazioni esilaranti (a partire dal breve e impareggiabile incipit muto con la rottura della mazza da golf di Grant da parte della Hepburn, senza dimenticare l'ubriacatura alla festa e il tuffo notturno in piscina) e soprattutto a dialoghi brillanti e battute memorabili ("Tu sei di gran lunga la tua persona preferita"; "Avrei dovuto restare con te tutta la vita, ma poi il giudice mi ha fatto la grazia"; "Pensavo che gli scrittori bevessero tutti e picchiassero le mogli: una volta anch'io volevo fare lo scrittore"). Prodotto dal futuro regista Joseph L. Mankiewicz, il film rilanciò in particolare la carriera di Katharine Hepburn, reduce da diversi flop al botteghino: fu proprio l'attrice a scegliere come regista George Cukor, che l'aveva già diretta in "Febbre di vivere" e "Piccole donne". Per i ruoli maschili, Grant e Stewart rimpiazzarono all'ultimo momento quelli che erano le prime scelte, ovvero Clark Gable e Spencer Tracy. Da segnalare, nel meraviglioso cast, anche la fotografa Liz Imbrie (Ruth Hussey), i genitori di Tracy (John Halliday e Mary Nash), l'impicciona sorellina Dinah (Virginia Weidler) e il gaudente zio Willie (Roland Young). Rifatto in chiave di musical nel 1956 ("Alta società", con Bing Crosy, Grace Kelly e Frank Sinatra).

29 dicembre 2011

Novecento (Bernardo Bertolucci, 1976)

Novecento
di Bernardo Bertolucci – Italia 1976
con Robert De Niro, Gérard Depardieu
***1/2

Rivisto in DVD, con Marisa, Giovanni e Rachele.

Alfredo Berlinghieri (De Niro), figlio dei proprietari di una grande azienda agricola, e Olmo Dalcò (Depardieu), figlio dei braccianti che ci lavorano, nascono lo stesso giorno, il 27 gennaio 1901 (la data della morte di Giuseppe Verdi: il film è ambientato proprio nei luoghi verdiani, in una fattoria nel comune di Busseto e nella "Bassa", fra le province di Parma, Cremona, Reggio Emilia e Mantova). Nonostante le differenze di classe sociale, i due ragazzi diventeranno grandi amici e cresceranno insieme. Ma il loro rapporto sarà messo a dura prova dagli eventi storici che segneranno l'Italia nella prima metà del secolo: dall'avvento del fascismo alle tragedie della seconda guerra mondiale (la pellicola si conclude – a parte un breve controfinale – proprio nel giorno della liberazione, il 25 aprile 1945). Per tutta la vita Olmo porterà avanti le proprie idee socialiste, mentre Alfredo – che pure in gioventù le guardava con una certa simpatia – lascerà che le prepotenze e la violenza dei fascisti si facciano strada anche nel microcosmo della tenuta di famiglia. Se non il capolavoro, di certo il film più celebre, ambizioso e personale di Bertolucci, una pellicola epica e lunghissima (dura oltre cinque ore, divise in due parti che uscirono separatamente al cinema – proprio come farà Marco Tullio Giordana con quello che può essere considerato un suo seguito ideale, "La meglio gioventù") che conquista lo spettatore per la sua natura di grande affresco corale, per la maestria tecnica (la fotografia è di Vittorio Storaro, il montaggio di Franco Arcalli, le scenografie di Ezio Frigerio e Gianni Quaranta, la musica di Ennio Morricone), per il realismo e l'attenzione ai particolari (nella messa in scena della vita contadina – dal lavoro nei campi ai riti e ai canti popolari – ma anche di quella borghese, come nelle sequenze che mostrano la vita "oziosa" di Alfredo in compagnia dello zio Ottavio) e soprattutto per l'ampio respiro storico della vicenda, abbinato però a uno sguardo che rimane sempre focalizzato su un piccolo territorio (i grandi eventi della storia del ventesimo secolo – da cui il titolo della pellicola – sono filtrati da una prospettiva intima e locale, in maniera non dissimile da quello che farà il tedesco Edgar Reitz nell'ancora più monumentale "Heimat").

Detto questo, il film – forse in parte ispirato a "Il mulino del Po" – è tutt'altro che equilibrato e ha anche i suoi bravi difetti: in particolare il manicheismo che – in nome dell'antifascismo e dell'apologia del socialismo – porta a idealizzare il popolo contadino e a demonizzare i borghesi e i "padroni", conducendo a sequenze un po' troppo sopra le righe (come quelle legate ai personaggi di Attila e di Regina, per esempio quando uccidono un bambino senza motivo). Poco convincente anche il trattamento riservato ai due protagonisti principali, Alfredo e Olmo, che man mano che la trama procede perdono importanza e restano sempre più ai margini degli eventi. Nella seconda metà del film, più che a narrare la loro storia, il regista sembra interessato soprattutto a mettere in scena una vicenda collettiva: significativa la lunghezza che viene riservata alla sequenza finale della liberazione nel cortile della fattoria. Grandioso il cast: erano anni in cui il nostro cinema poteva permettersi di ricorrere a grandi attori stranieri anche per i ruoli principali (e non per semplici comparsate), e poco importa se dovevano interpretare personaggi così permeati di italianità. Certo, nel 1976 De Niro e Depardieu – che appaiono anche in una scena di nudo frontale – erano giovani e a inizio carriera, ancora lontani dalla fama che avrebbero conquistato in seguito, ma tutto ciò non fa che valorizzare l'intuizione di Bertolucci e la sua decisione di scritturarli per il film. E comunque, anche il resto del cast non scherza: nei panni delle due donne amate da Olmo e Alfredo ci sono Stefania Sandrelli e Dominique Sanda (che avevano recitato già insieme ne "Il conformista"), in quelli dei nonni ci sono mostri sacri come Burt Lancaster e Sterling Hayden, per non parlare poi della coppia di cattivi formata da Donald Sutherland (Attila) e Laura Betti (Regina), di Romolo Valli (il padre di Alfredo), di Werner Bruhns (lo zio Ottavio), di Alida Valli (la vedova Pioppi) e dei tanti altri comprimari (fra cui vorrei ricordare Stefania Casini, la prostituta epilettica, e Pippo Campanini, il prete del paese). Nota di merito, infine, per i giovanissimi Roberto Maccanti e Paolo Pavesi che interpretano rispettivamente Olmo e Alfredo da bambini nella prima ora di film. Il film si apre con un'immagine de "Il quarto stato" di Pellizza da Volpedo, dipinto realizzato nel 1901 e dunque anch'esso un simbolo del ventesimo secolo: non a caso era stato collocato all'ingresso del Museo del Novecento recentemente inaugurato a Milano.

28 dicembre 2011

Sherlock Holmes: Gioco di ombre (Guy Ritchie, 2011)

Sherlock Holmes: Gioco di ombre (Sherlock Holmes: A Game of Shadows)
di Guy Ritchie – GB/USA 2011
con Robert Downey jr., Jude Law
**

Visto al cinema Colosseo, con Marisa.

Secondo episodio della nuova franchise cinematografica che rilegge il personaggio creato da Conan Doyle in chiave action e post-moderna, ovvero con l'enfasi rivolta più all'azione e ai combattimenti che non al giallo e dell'indagine psicologica. Come risultato, sembra quasi di assistere a un'avventura dell'agente 007 ambientata a fine ottocento anziché a un tradizionale "caso" del più celebre detective vittoriano (non c'è nessun mistero da risolvere, per esempio: sappiamo già dall'inizio chi è il colpevole!). Come nella prima pellicola del ciclo, il punto di forza sono gli interpreti: la coppia Holmes-Watson sorregge tutto il film, fra bizze, frecciate e slanci di amicizia che adombrano una relazione omoerotica (basti vedere come l'investigatore reagisce al matrimonio del fedele compagno di mille avventure). Questa volta i due se la devono vedere apertamente con il loro avversario per eccellenza, il professor Moriarty, che – attraverso una serie di attentati attribuiti agli anarchici e il sabotaggio di una conferenza di pace – complotta per alterare gli equilibri del delicato scacchiere politico europeo e far scoppiare una “guerra mondiale”, allo scopo di arricchirsi attraverso il commercio di armi e di materie prime. Naturalmente fallirà: ma la guerra – come spiega nel finale lo stesso “Napoleone del crimine” – è soltanto rimandata, visto che prima o poi si scatenerà anche senza il suo intervento. A parte il bel finale, con il confronto e lo scontro fra Holmes e Moriarty in Svizzera, il film non fa segnare molti progressi rispetto al capitolo precedente, anzi ne è un'involuzione, catalogabile senza troppi rimorsi sotto la voce del puro intrattenimento. E a tratti addirittura annoia per via del ritmo senza respiro, della successione di botti e inseguimenti, e dell'eccesso di ralenti e di effetti speciali che lasciano poco spazio alla riflessione e all'approfondimento di trama e ambientazione. Di Conan Doyle stavolta non rimane granché, anche se lo scontro finale alle cascate di Reichenbach è ovviamente tratto dal celeberrimo racconto "L'ultima avventura", quello con cui lo scrittore cercò – senza successo – di disfarsi del suo personaggio più famoso. Quanto al resto del cast, da segnalare Stephen Fry (che con Jude Law aveva già avuto a che fare in “Wilde”) nei panni del fratello di Holmes, Mycroft, e Jared Harris in quelli di Moriarty. Di ritorno dal primo film, Rachel McAdams rimane in scena solo per pochi minuti prima che il suo personaggio venga inutilmente ucciso: nel principale ruolo femminile le subentra la “zingara” Noomi Rapace, ma nel cambio direi che ci si perde. L'anonima colonna sonora è nobilitata dalle note di Mozart (il finale del “Don Giovanni”) e Schubert (“La trota”).

27 dicembre 2011

Fandango (Kevin Reynolds, 1985)

Fandango (id.)
di Kevin Reynolds – USA 1985
con Kevin Costner, Judd Nelson
***

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Ginevra e Costanza.

Texas, 1971. Cinque amici appena diplomati al college – due dei quali hanno da poco ricevuto la cartolina di leva e dovranno dunque partire per il Vietnam – intraprendono un ultimo e spensierato viaggio on the road verso il confine messicano, che comincia come un tuffo nei ricordi e nel disimpegno dei loro giorni di adolescenti, ma strada facendo si trasforma in una presa di coscienza delle responsabilità e dei doveri dell'età adulta. E così Kenneth (Sam Roberts) decide di sposare la sua ragazza Debbie prima di partire per la guerra, mentre Gardner (Kevin Costner) – dopo aver organizzato per l'amico una cerimonia improvvisata in un paese sul confine, nonostante proprio Debbie fosse stata la ragazza che aveva amato e che tuttora ritorna nei suoi sogni (e come dice lui stesso, "se tu pensi a una donna, allora la ami") – preferisce farsi da parte (il finale non rivela se diserterà, attraversando il confine con il Messico come aveva dichiarato di voler fare, oppure se andrà ad arruolarsi). Film d'esordio del giovane regista Kevin Reynolds, ispirato a un suo precedente lungometraggio e prodotto dalla Amblin Entertainment di Steven Spielberg (che però, insoddisfatto del risultato finale, volle togliere il proprio nome dalla pellicola), è un piccolo "cult" che – come molti road movie – si snoda attraverso una serie di sequenze slegate l'una dall'altra ma di grande impatto: la battaglia al cimitero con i fuochi artificiali (che nel giro di pochi istanti si trasforma da un gioco divertente a un inquietante presagio sugli orrori della guerra); il delirante salto dall'aereo di Phil (Judd Nelson), costretto dagli amici a prendere una lezione di paracadutismo dallo scalcinato istruttore hippie Truman (Marvin McIntyre), per dimostrare di avere quel coraggio che a parole pretendeva dagli altri; e infine il matrimonio, durante il quale Gardner ballerà con Debbie il fandango del titolo (un ballo spagnolo che, come dichiarano i titoli di testa, può essere usato come metafora per indicare "un gesto folle e bizzarro"). Il bizzarro roster di personaggi è completato dal massiccio e taciturno seminarista Dorman (Chuck Bush), che legge Hesse, Sartre, Gibram e... l'incredibile Hulk, e dal comatoso Lester (Brian Cesak), che dorme per quasi tutta la pellicola e si sveglierà solo nel finale, rivelando di lavorare alla Arthur Andersen di Dallas. Tema importante è quello dell'amicizia, che dietro le goliardate, le risate e il ricordo delle imprese passate è il collante che tiene insieme i personaggi negli anni della gioventù: nell'età adulta prenderanno strade diverse, e chissà se si rivedranno mai. Gli attori Sam Robards (figlio di Jason e di Lauren Bacall) e Suzy Amis si sposarono lo stesso anno anche nella vita reale. Costner, amico di lunga data di Reynolds, ai tempi era ancora sconosciuto (proprio nel 1985 aveva recitato nel film che lo ha portato per la prima volta alla ribalta, "Silverado"): il regista lo dirigerà altre due volte, in "Robin Hood: principe dei ladri" e "Waterworld".

24 dicembre 2011

Una separazione (A. Farhadi, 2011)

Una separazione (Jodaeiye Nader az Simin)
di Asghar Farhadi – Iran 2011
con Peyman Maadi, Leila Hatami
***1/2

Visto al cinema Centrale.

Simin e Nader, sposati da quattordici anni e con una figlia di undici, sono una coppia dell'alta borghesia di Teheran. La donna ha ottenuto i visti per l'espatrio e vorrebbe lasciare il paese per garantire alla figlia un futuro migliore, mentre il marito intende restare in Iran per accudire l'anziano padre, malato di Alzheimer. Per spingerlo a seguirla, Nader minaccia di chiedere il divorzio e abbandona il tetto coniugale tornando dalla propria famiglia, mentre la figlia Termeh sceglie di rimanere con il padre, consapevole che si tratta dell'unico modo a sua disposizione per impedire la separazione definitiva. Nel frattempo Nader è costretto ad assumere una badante per l'anziano genitore: la scelta ricade su Razieh, una ragazza incinta e profondamente religiosa, il cui marito Houjat – che ignora che la moglie fa questo lavoro – è disoccupato e pieno di debiti. In seguito a un litigio (Razieh si assenta per andare dal ginecologo, e Nader la accusa di aver lasciato da solo il padre oltre che di aver rubato una somma di denaro da un cassetto), Nader spintona la ragazza, che cade dalle scale e perde il bambino. La questione finisce in tribunale, dove si rivela però assai più complessa di quanto sembra, fra menzogne (quelle di Nader, che afferma di non essere stato al corrente della gravidanza di Razieh) e insicurezze (Razieh potrebbe aver perso il figlio per un incidente avvenuto in precedenza), mentre alle colpe che devono essere stabilite dalla giustizia si sovrappongono quelle morali. E nemmeno il tentativo di Simin di porre fine alla diatriba offrendo un risarcimento alla famiglia di Razieh andrà a buon fine.

La cinematografia iraniana, più vivace che mai nonostante le difficoltà e le imposizioni del regime, continua a stupire. Questa eccellente pellicola, con cui Farhadi ha vinto l'Orso d'Oro all'ultimo Festival di Berlino, mette in scena – attraverso una complessa vicenda di drammi personali e familiari – il grande dilemma dell'Iran moderno, con le nuove generazioni (rappresentate qui dalla figlia dei due protagonisti) costrette a scegliere fra due stili di vita diametralmente opposti: quello filo-occidentale e votato al cambiamento (che molti vedono come una fuga dalle proprie responsabilità e dai propri diritti) e quello più tradizionale e legato a un passato (rappresentato dal nonno malato di Alzheimer) dal quale non ci si riesce a staccare. L'ottima sceneggiatura porta sullo schermo uno spaccato di società in cui tutti hanno i loro torti e le loro ragioni, e che tira in ballo, fra le varie cose, anche la religione, la morale, la giustizia e il senso di colpa. I personaggi sono caratterizzati in maniera esemplare: il diverso atteggiamento di moglie e marito davanti alle difficoltà della vita, per esempio, viene mostrato anche attraverso alcuni episodi minori, come quello in cui Simin accetta di pagare un extra di tasca propria ai traslocatori che stanno trasportando il pianoforte per le scale pur di non discutere ulteriormente, o quello in cui Nader intima alla figlia di farsi restituire la mancia dal benzinaio perché non aveva effettuato lui il rifornimento. La scelta che la figlia è costretta a prendere davanti al giudice, nel finale, non è dunque semplicemente fra i due genitori o fra l'espatriare e il rimanere (anche perché, come suggeriscono gli abiti dei personaggi, ormai è inverno e i visti – che avevano una durata di quaranta giorni – sono probabilmente già scaduti) ma, più simbolicamente, fra le due facce contrapposte di un paese giunto al bivio. Che tutto questo venga detto senza ricorrere – almeno apertamente – al solito cinema di denuncia politica (e infatti il regime non ha apprezzato, ma non ha nemmeno vietato la pellicola) è un ulteriore punto a favore del film. Un plauso a tutti gli interpreti, intensi e convincenti (in particolare mi è piaciuta Sarina Farhadi, che interpreta la figlia Termeh).

21 dicembre 2011

Viaggio a Tokyo (Yasujiro Ozu, 1953)

Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1953
con Chishu Ryu, Chieko Higashiyama
****

Rivisto in DVD, con Paola, Eleonora, Ginevra e Andrea.

Una coppia di anziani coniugi (Chishu Ryu e Chieko Higashiyama) intraprende un lungo viaggio dal proprio villaggio nel sud-est del Giappone per andare a trovare i figli che vivono a Tokyo: ma questi, indaffarati e presi da mille impegni, non hanno praticamente mai tempo da trascorrere con loro e se li "rimpallano" a vicenda. Soltanto Noriko (Setsuko Hara), la vedova del figlio minore (scomparso in guerra otto anni prima), si dimostrerà affettuosa, sensibile e disponibile. Durante il viaggio di ritorno, la madre si ammala e muore. Stavolta saranno i figli ad accorrere per il funerale: ma anche in questo caso, dopo la cerimonia tutti si affrettano a tornare a casa, e solo Noriko si tratterrà ancora per qualche giorno. Il film più celebre di Ozu (nonché – purtroppo – l’unico che gode di una certa notorietà in occidente presso il grande pubblico) è un’amara riflessione sull’inevitabile deterioramento del rapporto fra genitori e figli, man mano che questi si costruiscono una propria vita e una propria famiglia. Senza voler condannare il comportamento di Koichi (So Yamamura), di Shige (Haruko Sugimura), e di Keizo (Shiro Osaka), impediti a stare vicino ai genitori dal lavoro e dalla vita (e infatti la pellicola non raggiunge mai la dimensione di un conflitto vero e proprio: non si va oltre una vaga manifestazione di “delusione” da parte dei genitori per l’allentamento dei legami, cui segue la riflessione che “i nostri figli sono comunque migliori della media”), Ozu riprende temi che aveva già trattato in alcune pellicole precedenti (la dissoluzione della famiglia, in “Fratelli e sorelle della famiglia Toda”; la delusione delle aspettative sui figli, in “Figlio unico”) ma stavolta con una maggior consapevolezza e soprattutto una più completa accettazione dell’ineluttabilità di tali dinamiche, che sfocia addirittura nella serenità che si legge sempre – anche nel finale, quando rimane solo – sul volto dell’anziano padre. L’unica a manifestare apertamente una certa insofferenza nei confronti dell’egoismo dei fratelli maggiori è la giovane Kyoko (Kyoko Kagawa), che proprio perché è la più piccola è anche quella che ancora non ha compreso, come le spiega Noriko, che tutti cambiano. “La vita è deludente”, commenta la ragazza. Le stesse parole che il suocero rivolge a Noriko nel finale, quando la invita a dimenticare il marito scomparso e a pensare a un nuovo matrimonio, sono un ulteriore segno dell’accettazione di come ogni cosa sia destinata a mutare, senza caricare questo fenomeno di una connotazione negativa (cosa che l’anziano padre ha ormai metabolizzato, mentre Noriko la sta comprendendo – il suo pianto nasce da questo – e Kyoko invece ancora la rifiuta).

In secondo piano rispetto al tema principale (il distacco fra genitori e figli), il film affronta anche quello del contrasto fra la campagna e la grande città, ovvero fra il Giappone prima e dopo la guerra (contadino, tradizionale e riflessivo il primo; industriale, frenetico e in continuo movimento il secondo): è infatti questa, più che semplicemente quella fra vecchiaia e gioventù, la barriera che separa irrimediabilmente le due generazioni. Stilisticamente il film mostra un Ozu al suo apice: l’essenzialità ormai consolidata (nessun movimento di macchina, se si eccettua la scena in cui Noriko porta i suoceri in giro per Tokyo a bordo di un autobus ballonzolante; la macchina da presa ormai stabilmente "ad altezza tatami"); l’equilibrio nella composizione delle inquadrature, nella disposizione dei personaggi, nei loro movimenti di entrata e uscita di scena; un ampio uso di inserti, ossia di inquadrature di esterni (panorami, ferrovie, ciminiere), per staccare da una sequenza all’altra, per mettere in ellisse i momenti topici del racconto (il viaggio in treno dei genitori, la morte della madre) o anche solo per ripresentare velocemente agli spettatori l’ambiente in cui si svolgerà la scena successiva, come il corridoio esterno all’appartamento di Noriko; continui sguardi in macchina degli attori per evitare l’effetto campo/controcampo tipico invece del cinema occidentale; la precisione dei dialoghi – e l’intensa recitazione, su tutti quella della Hara – per comunicare mille concetti con poche parole, in maniera spesso più allusiva che esplicita; una cura senza pari nell’approfondire le psicologie e le dinamiche dei personaggi attraverso eventi minori o di poco conto (il broncio dei bambini quando scoprono che non possono fare la gita domenicale; la rimpatriata del padre con i suoi commilitoni; la faticosa vacanza alle terme dei due coniugi, infastiditi dal chiasso degli ospiti più giovani); la mirabile caratterizzazione anche degli “ambienti” più piccoli (il bar dove il padre si ubriaca, l’appartamento della vicina di Noriko, l’ufficio dove la stessa Noriko lavora). Il titolo originale significa “Una storia di Tokyo”. Lo sceneggiatore Kogo Noda si sarebbe ispirato per il soggetto (che peraltro, come abbiamo visto, è perfettamente in linea con il cinema precedente di Ozu) a un film americano del 1952, “Cupo tramonto” di Leo McCarey, e forse al "Re Lear" di Shakespeare.

20 dicembre 2011

Look for a star (Andrew Lau, 2009)

Look for a star (Yau lung hei fung)
di Andrew Lau – Hong Kong 2009
con Andy Lau, Shu Qi
*1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Ispirata alla vera storia d'amore fra il milionario Stanley Ho (proprietario, fra le altre cose, di alberghi e sale da gioco a Macao, dove il film è ambientato) e la sua quarta moglie, Angela Leong, la pellicola si presenta come la tipica commedia romantica hongkonghese, dalla trama esile e basata soltanto sulle star (mai titolo fu più indovinato!). L'unica particolarità è che in questo caso le love story raccontate sono ben tre, che procedono in parallelo fino alla risoluzione finale. Alla vicenda principale, in cui il milionario Sam Ching (Andy Lau) si innamora della bella Milan (Shu Qi), ballerina in un cabaret e croupier nell'albergo di cui lo stesso Sam è proprietario, si intrecciano anche quella – la più interessante delle tre – fra Jo (Denise Ho), l'elegante e androgina segretaria dello stesso Sam, e Lin Jiu, un operaio cinese (Zhang Hanyu); e quella – che invece è la meno significativa – fra Tim (Lam Kar Wah), l'autista di Sam, e la ragazza-madre Shannon (Zhang Xinyi). Anche gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento del lieto fine sono sempre gli stessi, le differenze di classe sociale e il fatto di provenire da mondi separati e distinti: Sam è ricco e Milan è povera; Jo è educata e in carriera, Jiu è grezzo e disoccupato; Tim è indipendente, Shannon ha un figlio a carico. La risoluzione (almeno per due conflitti su tre) avverrà negli studi di una pacchiana trasmissione televisiva. Se il sorriso della bellissima Shu Qi resta comunque un buon motivo per vedere il film, per il resto la pellicola non offre molti elementi memorabili, se non la resa romantica e colorata di Macao by night e certi momenti comici con Denise Ho.

18 dicembre 2011

The artist (M. Hazanavicius, 2011)

The artist (id.)
di Michel Hazanavicius – Francia/Belgio 2011
con Jean Dujardin, Bérénice Bejo
***

Visto al cinema Apollo, con Marisa.

Il divo del cinema muto George Valentin (modellato probabilmente su Douglas Fairbanks) cade in disgrazia con l'avvento del sonoro, mentre contemporaneamente la giovane Peppy Miller (una fan che proprio lui aveva incoraggiato a sfondare come attrice) diventa una nuova star. Ma la ragazza, di lui innamorata, gli rimarrà riconoscente, se ne prenderà cura e saprà aiutarlo a risollevarsi. Con una trama dai toni fiabeschi, forse ispirata al classico di Cukor "A che prezzo Hollywood?" (del 1932!), questo appassionante omaggio a un'epoca primordiale del cinema e di Hollywood ha la particolarità di essere a sua volta muto, oltre che in 4:3 e in bianco e nero. E il fatto che riesca così facilmente a coinvolgere, divertire ed emozionare gli spettatori dimostra – a chi se lo fosse dimenticato – che in fondo il sonoro (e il colore) non sono così indispensabili per fare un buon film (e dunque figuriamoci il 3D o l'alta definizione!). Certo, non è il primo caso di pellicola "moderna" che sceglie di ricorrere a un linguaggio ormai datato per rendere omaggio all'epoca del muto: basti pensare ai lavori di Mel Brooks ("L'ultima follia di Mel Brooks"), di Hou Hsiao-Hsien ("Three Times") e di Aki Kaurismäki ("Juha"). Ma mai come in questo caso la ricostruzione è davvero curata: ogni elemento – dalla fotografia alla colonna sonora, dai costumi alle scenografie – la fa apparire come se fosse davvero uscita dagli anni venti o trenta (con l'unica eccezione, forse, dei volti e delle fisionomie degli attori, a partire da Bérénice Bejo, il cui fisico asciutto ricorda più le modelle odierne che le dive di allora, ben più "rotondette"). Ottimo Dujardin, premiato a Cannes come miglior attore. E un premio è andato anche allo straordinario cagnolino che lo segue in tutta la pellicola, un Jack Russell di nome Uggy, che ha ricevuto la "Palm Dog" destinata al miglior attore canino del Festival. Fra i comprimari, da segnalare John Goodman (il produttore) e James Cromwell (il fedele autista). Molti gli in-jokes: la pellicola si apre con Valentin che sullo schermo recita "Non parlerò! Non dirò una parola!"; a un certo punto la moglie gli dice "George, dobbiamo parlare! Perché non vuoi parlare?"; e il film si chiude con un regista che, prima di girare, intima alla troupe: "Silenzio, per favore!". Evocativo l'uso del silenzio (nelle brevi scene in cui anche la colonna sonora – che fra le altre cose saccheggia Bernard Herrmann e include la canzone "Pennies from Heaven" – tace) e la scena dell'incubo del protagonista, in cui tutto il mondo sembra in grado di produrre suoni tranne lui. Il momento in cui Valentin, rimasto solo e caduto in disgrazia, riguarda i suoi successi precedenti può invece far pensare a "Viale del tramonto". Per un film muto, l'uso di cartelli è comunque abbastanza limitato (ma alcuni sono geniali, come quello che recita "BANG!"). Soltanto negli ultimissimi secondi di pellicola, infine, si odono le voci dei personaggi (e le uniche parole che pronuncia Valentin – con uno scompaginato accento francese – fanno capire come mai l'attore non avrebbe mai potuto sfondare in ruoli parlati: ai tempi del muto, infatti, molti divi di Hollywood erano di origine europea e al bell'aspetto non abbinavano un'adeguata capacità vocale o una buona pronuncia dell'inglese). Nel finale George e Peppy diventano una coppia di ballerini (in modo da poter usare il linguaggio corporeo – anziché la parola – anche al tempo del sonoro, un po' come Fred Astaire e Ginger Rogers).

17 dicembre 2011

Nothing (Vincenzo Natali, 2003)

Nothing
di Vincenzo Natali – Canada 2003
con David Hewlett, Andrew Miller
**1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Amici fin dall'infanzia, Andrew e Dave sono due loser che condividono una forte repulsione per il resto del mondo. Il primo è complessato, agorafobico e ha paura di tutto, al punto da non uscire mai dalla propria casa, un edificio vetusto e diroccato che sorge nei pressi di un trafficatissimo svincolo autostradale; il secondo è un egocentrico ed eterno fallito, perennemente sfruttato e maltrattato da chi gli sta attorno. Quando i due non ne possono più delle ingiustizie, della confusione, delle angherie e dell'invadenza delle altre persone, esprimono il desiderio che tutto scompaia: ed è proprio quello che avviene! In qualche modo, a parte loro e la loro casa, non rimane più nulla. Unici abitanti di un limbo completamente bianco (lo scenario ricorda la "dimensione Delta" di una celebre storia disneyana di Romano Scarpa), i due amici si ritrovano a vivere un'esistenza finalmente libera da fastidi e preoccupazioni: persino la mancanza di cibo non è un problema, visto che scoprono di avere il potere di far sparire – ma non riapparire – qualsiasi cosa detestino, compresa la fame! Ma naturalmente anche fra loro non tarderanno a sorgere insofferenze e incomprensioni. Surreale, grottesco (nella stessa vena di pellicole come "Essere John Malkovich") e condito da interessanti spunti sociologici e psicologici (Andrew e Dave possono far sparire non solo gli oggetti fisici ma anche i ricordi sgradevoli, i complessi, le emozioni come la rabbia o la paura), il film del canadese Vincenzo Natali – già autore del primo "Cube" – affascina per l'idea di fondo ma dimostra forse di avere le gambe un po' corte già dopo una mezz'oretta: probabilmente sarebbe stato meglio limitarsi a un cortometraggio. È reso gradevole, comunque, anche da un umorismo di stampo britannico, sullo stile di Douglas Adams o dei Monty Python.

15 dicembre 2011

3 Idiots (Rajkumar Hirani, 2009)

3 Idiots
di Rajkumar Hirani – India 2009
con Aamir Khan, Kareena Kapoor
***

Visto in divx, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Il più grande successo di pubblico del cinema indiano recente (vanta a oggi il maggior incasso di sempre per un film di Bollywood) è una pellicola che – dietro la sua natura di commedia "di massa" – non ha soltanto divertito ed emozionato gli spettatori, ma li ha fatti discutere sulle distorsioni di un sistema scolastico (che pure riesce a produrre, soprattutto in campo scientifico e ingegneristico, alcune delle più brillanti menti al mondo) basato sulla competizione, sulla ricerca dell'eccellenza a ogni costo e sulle continue pressioni che vengono esercitate sugli studenti da parte di genitori, insegnanti e della società in generale. Il protagonista Rancho (il super-divo Aamir Khan, già visto in "Lagaan", che qui interpreta un ventenne nonostante i suoi 44 anni), geniale e anticonformista, studia al prestigiosissimo Imperial College of Engineering (ICE) non per conseguire la laurea o per fare carriera in un'importante azienda, ma per il puro gusto di imparare: e durante i movimentati quattro anni di corso (raccontati in una serie di flashback, mentre l'incipit e la conclusione del film si svolgono cinque anni più tardi) riesce a cambiare la vita e le prospettive di compagni e amici, insegnando per esempio a Farhan (R. Madhavan), che studia ingegneria – per cui non è portato – solo per esaudire i desideri del padre, a seguire invece le proprie passioni e le proprie inclinazioni, diventando fotografo naturalista; e a Raju (Sharman Joshi), che studia per sollevare le fortune della sua famiglia povera, a fare affidamento su sé stesso e a vincere le proprie paure anziché affidarsi ad amuleti, superstizioni e aiuti esterni. Esilaranti, in particolare, i continui scontri con il professor "Virus" (Boman Irani), il direttore del college, incapace di riconoscere le vere qualità degli studenti e ostinato nel seguire schemi di insegnamento preconfezionati. A differenza de "L'attimo fuggente", qui è l'allievo ad aprire gli occhi all'insegnante e non il contrario.

Forse la filosofia umanista del film è un po' semplicistica ("Aal izz well", ovvero "tutto va bene", cantano i protagonisti di fronte a ogni difficoltà) e certe sequenze vanno decisamente sopra le righe (quella del parto, per esempio), ma dietro le gag comiche e gli immancabili momenti musicali (i consueti balletti kitsch e colorati, caratteristica di tanti film di Bollywood: molto bella, in particolare, la sequenza "romantica" che mostra l'innamoramento fra Rancho e Pia, la figlia del professor Virus), il film non ha paura di affrontare temi scottanti e delicati come l'alto tasso di suicidi fra gli studenti (pare che in questo campo l'India sia addirittura davanti al Giappone!), lo sfrenato consumismo delle classi sociali più elevate (il fidanzato di Pia che "etichetta" ogni cosa con un prezzo; l'altro compagno Chatur che misura il proprio successo sul valore della macchina o sulla grandezza della casa che è riuscito a comprarsi dopo la laurea) e in generale il mito del successo materiale, che dall'occidente sembra essersi fatto strada anche in una cultura, come quella indiana, che tradizionalmente si basava invece sui valori spirituali (ma anche su rigide gerarchie sociali e sui ruoli familiari). Il divertimento non manca, anche se molte gag non sono nuove ma vengono riciclate da più fonti: dalla barzelletta sulla penna per gli astronauti dello Space Shuttle alla scena del compito d'esame consegnato in ritardo (che proviene da questo spot neozelandese). Splendidi i paesaggi dell'India settentrionale, come il lago fra le montagne del Ladakh dove si conclude il film. Le "invenzioni" che si vedono nella pellicola (dal mini-elicottero con telecamera allo scooter alimentato a farina) sono tutte reali!

13 dicembre 2011

La commare secca (B. Bertolucci, 1962)

La commare secca
di Bernardo Bertolucci – Italia 1962
con Francesco Ruiu, Alfredo Leggi
**

Visto in divx, con Marisa.

L'esordio di Bernardo Bertolucci alla regia (a soli 22 anni!) è tutto nel segno di Pasolini: dopo aver già collaborato ad "Accattone" come aiuto regista, l'autore emiliano porta qui sullo schermo un soggetto originale di PPP, sceneggiato insieme a Franco Citti, che in un primo momento avrebbe dovuto essere diretto dallo stesso Pasolini. Un maresciallo di polizia (che non vediamo mai sullo schermo: ne sentiamo soltanto la voce fuori campo, come in "Rashomon" di Kurosawa) indaga sull'omicidio di una prostituta, il cui corpo è stato trovato sotto un ponte del Tevere, e interroga diverse persone che la sera prima sono passate dal parco dove la donna lavorava, ricostruendone la giornata (tutti i sospettati mentono, per un motivo o per l'altro, ma sullo schermo vediamo quello che è successo realmente): un giovane ladruncolo che si guadagna da vivere derubando le coppiette; un ex galeotto che ha appena lasciato l'amante che lo manteneva; un militare che ha trascorso la giornata girovagando per la città dietro alle ragazze; un eccentrico friulano (come PPP!) che va in giro in zoccoli e che ha qualcosa da nascondere; due adolescenti che, per trovare il denaro necessario a offrire il pranzo alle loro fidanzatine, derubano l'omosessuale che li aveva adescati; sarà proprio quest'ultimo, testimone oculare del delitto, a rivelare alla polizia chi è il vero colpevole. Se la ricostruzione di una Roma che non ha ancora compiuto la transizione verso la modernità è piuttosto convincente, e la descrizione di un'umanità emarginata, povera e variopinta è coerente con la visione pasoliniana (molti personaggi e ambienti ricordano quelli di "Accattone" e "Mamma Roma"), rispetto ai lavori di PPP il film soffre per uno stile troppo ricercato (vedi alcuni inutili movimenti di macchina) e per una struttura narrativa piuttosto sfilacciata (le varie storie scorrono in parallelo ma senza un reale legame che le metta in relazione, e il ricorso a inquadrature delle stesse situazioni da diversi punti di vista sembra un esercizio fine a sé stesso, benché trovate come l'improvviso scroscio di pioggia – cui segue immancabilmente una scena che mostra la prostituta che si prepara a uscire di casa – siano efficaci per collocare le diverse sequenze sugli stessi binari cronologici). E anche la trama "gialla", la cui risoluzione è calata dal nulla, lascia un po' il tempo che trova. Nonostante tutto, però, il talento visivo del regista è già evidente da numerosi squarci e inquadrature. Il titolo, che si riferisce alla morte, proviene da un verso di Gioacchino Belli: "... e già la commaraccia secca de strada Giulia arza er rampino". Le due canzoni della colonna sonora, di Claudio Villa e di Nico Fidenco, sono successi dell'epoca.

11 dicembre 2011

Parole, parole, parole... (A. Resnais, 1997)

Parole, parole, parole... (On connaît la chanson)
di Alain Resnais – Francia 1997
con Sabine Azema, Pierre Arditi
***1/2

Rivisto in DVD, con Ginevra, Eleonora e Federica.

Odile (Sabine Azéma), donna in carriera che accusa il marito Claude (Pierre Arditi) di essere debole e incapace di prendere iniziative, sta per acquistare un nuovo appartamento – con una spettacolare vista su Parigi – propostole dal disonesto agente immobiliare Marc Duveyrier (Lambert Wilson). Di questi, credendo che soffra per una delusione amorosa (quando invece piangeva soltanto per un raffreddore!), si invaghisce la sorella minore di Odile, Camille (Agnes Jaoui), complessata guida turistica che si sta laureando in storia con una tesi il cui argomento non interessa a nessuno ("I cavalieri contadini dell'anno mille del lago di Paladru"). Ma della ragazza è innamorato a sua volta un dipendente di Marc, Simon (André Dussolier), scrittore part-time di commedie radiofoniche che, incapace di dichiararle il proprio affetto, si confessa invece con l'ipocondriaco Nicolas (Jean-Pierre Bacri), un vecchio amico di Odile, ritornato da poco in città per cercare un appartamento e anch'egli in crisi coniugale con la moglie Jane (Jane Birkin). Fra menzogne e tradimenti, attacchi di depressione e disperati tentativi di mantenere il controllo della propria vita, tutti i personaggi si ritroveranno insieme nel nuovo appartamento di Odile la sera dell'inaugurazione, come tante meduse in un acquario (come suggerisce la metafora alla quale il regista ricorre con un'ardita sovraimpressione), quando i nodi di tutti i fili narrativi – decisamente intrecciati fra di loro – verranno finalmente al pettine. Sceneggiato dalla coppia Jaoui/Bacri (già attori teatrali e poi autori di quell'altro magnifico film che è "Il gusto degli altri"), diretto con gran piglio dall'allora settantacinquenne Resnais e recitato da un gruppo di bravissimi intepreti (molti dei quali sono presenze ricorrenti nel cinema del regista francese), questo bel film corale si caratterizza per l'originale trovata di lasciar talvolta esprimere i personaggi attraverso frasi ed estratti da celebri canzoni francesi. Non siamo però di fronte a un musical, o almeno non a uno di tipo tradizionale, perché gli attori non cantano con la propria voce ma sono "doppiati" da quella dei cantanti originali: e così può capitare che un uomo intoni un brano con una voce femminile (e viceversa) o che qua e là si odano i fruscii e le imperfezioni di una registrazione d'epoca. In un omaggio a un secolo di musica francofona che ricorda in parte quello che farà François Ozon nel suo "Otto donne e un mistero", si passa da canzoni impegnate a brani più leggeri. Fra i tanti brani e i tanti interpreti che si possono ascoltare – da Josephine Baker ("J'ai deux amours") a Charles Aznavour, da Edith Piaf ad Arletty, da Jacques Dutronc ("J'aime les filles") a Maurice Chevalier, da France Gall ("Résiste!") a Sylvie Vartan, passando per la stessa Jane Birkin ("Quoi"), Serge Gainsbourg ("Je suis venu te dire que je m'en vais"), Eddy Mitchell, Johnny Hallyday e tanti altri – c'è anche "Parole, parole" di Mina (da cui il titolo italiano del film), nella versione in francese di Dalida e Alain Delon ma con il ritornello in italiano. In un contesto melodrammatico ma comunque realista, con un approfondito studio psicologico dei vari character, fanno capolino alcuni impagabili momenti surreali (il flashback iniziale con i nazisti che ricevono l'ordine di distruggere Parigi, o l'incubo di Camille in cui si ritrova proprio sulle rive del lago medievale su cui sta scrivendo la tesi).

9 dicembre 2011

Ma che siamo tutti matti? (Jamie Uys, 1980)

Ma che siamo tutti matti? (The gods must be crazy)
di Jamie Uys – Sudafrica/Botswana 1980
con Marius Weyers, Sandra Prinsloo, N!xau
**1/2

Visto in divx, con Marisa.

La caduta di una bottiglietta vuota di Coca-Cola, lanciata da un aereo che stava sorvolando il deserto del Kalahari, porta scompiglio in una tribù di boscimani che non aveva mai visto prima un oggetto del genere. Per sbarazzarsi di quella "cosa del demonio" e restituirla agli dèi che l'hanno inviata sulla terra, il guerriero Xi abbandona il villaggio per incamminarsi verso la "fine del mondo". La sua vicenda si intreccerà con quella del timido microbiologo Andrew, innamorato della bella Kate (che ha lasciato il suo lavoro di giornalista in città per fare la maestra), e di un gruppo di ribelli armati e in fuga dall'esercito. Girato in Sudafrica e in Botswana, è una bizzarra pellicola naïf, ingenua, simpatica e divertente, che ha avuto un grande successo di pubblico in tutto il mondo – dall'America al Giappone – e ha generato una serie di sequel (uno diretto dallo stesso Uys, "Lassù qualcuno è impazzito", e altri tre girati a Hong Kong!). Pur sfiorando il tema del "buon selvaggio" e la critica alla frenesia della vita moderna, la pellicola si mantiene sul registro comico e della farsa, senza appesantirlo con pedanti moralismi. Molte scene, come quelle con l'automobile di Andrew che non può essere fermata, si rifanno direttamente al cinema slapstick e delle comiche mute (ci sono persino sequenze visibilmente accelerate, per non parlare di capitomboli e scivolate sulle bucce di banana!). L'attore che interpreta Xi è un vero boscimano, chiamato N!xau (il punto esclamativo indica un "click" da produrre facendo schioccare la lingua) e, proprio come il suo personaggio, a sua volta non aveva mai visto un uomo bianco prima di incontrare il regista. Nella versione italiana, la voce fuori campo è di Paolo Villaggio.

8 dicembre 2011

Chi tocca il giallo muore (R. Clouse, 1980)

Chi tocca il giallo muore (The big brawl, aka Battle Creek Brawl)
di Robert Clouse – USA 1980
con Jackie Chan, Kristine DeBell
**

Rivisto in DVD.

Nella Chicago degli anni trenta, il giovane immigrato cinese Jerry Kwak si batte per difendere il ristorante del padre dal racket della mafia: per proteggere i suoi cari e restituire la libertà alla fidanzata del fratello, rapita dai gangster, accetta di prendere parte a un torneo di lotta libera che si terrà nelle strade di Battle Creek, in Texas. Diretto dallo stesso regista che aveva portato Bruce Lee al successo in occidente con "I tre dell'operazione drago", il film rappresenta il primo tentativo di esportare Jackie Chan e le sue arti marziali comico-funamboliche in America. La pellicola, però, passò sostanzialmente inosservata. Negli anni seguenti Jackie – che nel frattempo proseguiva in patria una carriera sensazionale – si limitò a fare alcune comparsate in occidente come comprimario (per esempio nei due "Cannonball Run") prima di riprovarci nel 1985 con "The protector", che fu un altro flop. Soltanto nel 1995, con "Terremoto nel bronx", e poi in maniera più regolare a partire dal 1998, con "Rush hour", riuscì finalmente a conquistare il box office statunitense. La pellicola, in ogni caso, non è poi malvagia: il ritmo è buono, i combattimenti (ma anche le sequenze degli allenamenti) nella prima metà sono ben fatti e lasciano spazio all'estro di Jackie, mentre la parte finale – quella del torneo – è più ingessata e non si discosta dallo stile tradizionale dei film d'azione americani dell'epoca: siamo più dalle parti del wrestling (e infatti molti dei variopinti lottatori di varie nazionalità che partecipano al "big brawl" sono interpretati proprio da wrestler) che da quelle delle arti marziali. Da segnalare la lunga sequenza della corsa sui pattini a rotelle, così come la partecipazione, in ruoli minori, di attori come José Ferrer (il boss mafioso Dominici), Mako (lo zio chiropratico di Jerry, nonché suo istruttore di arti marziali) e Rosalind Chao (la ragazza rapita). Kristine DeBell, che interpreta la fidanzata di Jerry, era una modella, apparsa anche sulla copertina di "Playboy".

5 dicembre 2011

Miracolo a Le Havre (Aki Kaurismäki, 2011)

Miracolo a Le Havre (le Havre)
di Aki Kaurismäki – Finlandia/Francia/Germania 2011
con André Wilms, Kati Outinen
***

Visto al cinema Apollo.

L'anziano Marcel Marx è un ex scrittore ed artista (il personaggio, il cui nome è ispirato a quello di Karl Marx, era già apparso in un precedente film di Kaurismäki, "Vita da Bohème") che ora si guadagna da vivere come lustrascarpe nella città portuale di Le Havre, in Normandia. In un momento di crisi, alle prese con una grave malattia della moglie, Marcel accoglie in casa propria il piccolo Idrissa, immigrato clandestino ricercato dalla polizia, e lo aiuta a raggiungere la madre a Londra, grazie anche alla solidarietà degli altri abitanti del quartiere. Descritto dallo stesso regista come "una storia universale che poteva essere ambientata in qualsiasi paese d’Europa" (tant'è che inizialmente la sua idea era quella di girare la pellicola in una città del Mediterraneo, in Italia o in Spagna: ma poi ha scelto Le Havre, la città dove Marcel Carné aveva ambientato "Il porto delle nebbie" con Jean Gabin), il film ha i toni della favola (da qui il finale lieto, anzi "miracoloso" come suggerisce il titolo italiano; e a dire il vero i miracoli sono tre: a quelli che riguardano il bambino e la moglie del protagonista si aggiunge la fioritura del ciliegio fuori stagione) e affronta in maniera delicata e poetica i temi della solidarietà, dell'amore, dell'amicizia e della vecchiaia. A un nucleo realistico, incentrato su un tema di forte attualità come l'immigrazione clandestina in Europa (si pensi alle amare riflessioni del giovane vietnamita che vive sotto falso nome), il regista finlandese innesta come suo solito una caratterizzazione dei personaggi sensibile e poetica, piccoli tocchi di humour surreale (l'ispettore con l'ananas), ingredienti conviviali come cibo, alcool e musica, e la capacità di rendere vivo l'ambiente nel quale si svolge la storia. Come sempre, i suoi personaggi sono laconici e non lasciano trasparire le emozioni in volto (la più espressiva di tutti è la cagnetta Laika!). Fra gli attori, oltre agli habitué kaurismäkiani André Wilms e Kati Outinen, da segnalare Jean-Pierre Léaud nell'ingrato ruolo del vicino delatore e Jean-Pierre Darroussin in quello dell'ispettore Monet, forse ispirato all'investigatore Petrovič di "Delitto e castigo". Ma gli omaggi non finiscono qui: i nomi di molti personaggi fanno riferimento alla cinematografia francese del passato (Marcel Carné, Arletty, Jacques Becker): e in effetti, pur se ambientato ai giorni nostri, l'atmosfera del film è particolarmente retrò (abiti, automobili, oggetti sembrano risalire a parecchi decenni fa). A questo contribuisce anche l'ottima fotorgafia di Timo Salminen, che dona una qualità quasi pittorica a parecchie scene. Il cantante Roberto Piazza, alias "Little Bob" è una celebrità locale: Le Havre ha infatti conquistato Kaurismäki anche per la sua vivace scena musicale ("È come la Memphis francese", ha dichiarato, "e Little Bob è il suo Elvis").

3 dicembre 2011

Segnalazione

Segnalo l'esordio di una curiosa (e spero interessante) rubrica cine-musicale sul mio altro blog, Il club di Groucho.

Primo episodio: Da Al Bano a Kitano.

2 dicembre 2011

Pina (Wim Wenders, 2011)

Pina (id.)
di Wim Wenders – Germania/Francia/GB 2011
***1/2

Visto al cinema Apollo (in 3D), con Eleonora e Anna, in originale con sottotitoli.

Quando la grande danzatrice e coreografa Pina Bausch è morta nel 2009, proprio mentre Wenders stava apprestandosi a dirigere un documentario su di lei, in un primo momento il regista aveva pensato di rinunciare al progetto. Furono i collaboratori e i membri del Tanztheater di Wuppertal, il corpo di ballo di Pina, a convincerlo a realizzare comunque il film, che è diventato così sia un documentario sugli stessi ballerini che un tributo postumo alla grande artista (che compare solo brevemente, attraverso alcune immagini di repertorio). La pellicola alterna sequenze di alcune delle più celebri opere di teatro-danza messe in scena dalla Bausch (la "Sagra della primavera" con le musiche di Stravinsky, "Caffè Müller", "Kontakthof" e "Vollmond") a interviste ai vari componenti del Tanztheater (le cui voci fuori campo – in una moltitudine di diverse lingue: tedesco, inglese, francese, spagnolo, russo, italiano, cinese... – si sovrappongono ai loro volti, ritratti espressivamente a bocca chiusa). Più che il linguaggio delle parole, però, è quello del corpo ad affascinare lo spettatore: le brevi performance di cui ciascuno dei danzatori si rende a turno protagonista mettono in mostra le grandi capacità della danza contemporanea di trasmettere emozioni pure. Non è importante infatti conoscere il soggetto o la trama dello spettacolo: ognuno può leggere, nei movimenti dei personaggi, la storia che vuole. Eccezionale, poi, l'utilizzo che Wenders fa degli ambienti e degli spazi che circondano i ballerini, che si tratti di interni (il palcoscenico) o di esterni (il parco, le strade della città, una vecchia fabbrica, una piscina comunale, una cava). Per la prima volta anche il 3D mi è parso avere un senso: credo che si tratti del primo film che vedo in cui lo spazio a tre dimensioni è davvero integrato nel linguaggio filmico ed è funzionale a quanto il regista vuole narrare, rappresentando così un valore aggiunto all'esperienza sensoriale dello spettatore. Non credo che dipenda solo dal fatto che siamo di fronte a un documentario (che in quanto tale beneficia di un maggiore realismo molto più di un film di finzione, che invece per sua natura descrive un mondo artificiale), quanto dalla natura stessa dell'argomento trattato – il ballo e la "spazialità" delle coreografie – che si sposano particolarmente bene con la tecnologia stereoscopica: mi chiedo, a questo proposito, che effetto farebbe rivedere in 3D film che puntavano proprio su questi elementi, come "Dogville" o "West Side Story". In certi momenti sembrava davvero di trovarsi a teatro, ad ammirare uno spettacolo dal vivo: effetto amplificato anche dalla scelta di Wenders di lasciare, in certe inquadrature, una prima fila di poltrone, come ad "allungare" la sala cinematografica fin dentro allo schermo. Una riflessione a margine, infine, sulla sopraelevata di Wuppertal: perché non costruiscono linee di trasporti pubblici come quella anche nelle nostre città, anziché perdere tempo e denaro con le metropolitane sotterranee?

1 dicembre 2011

Ortone e il mondo dei Chi (Hayward, Martino, 2008)

Ortone e il mondo dei Chi (Horton Hears a Who!)
di Jimmy Hayward, Steve Martino – USA 2008
animazione digitale
**

Visto in divx.

Ortone, elefante curioso, anticonformista e pieno di immaginazione che vive nella felice giungla di Nullo, ode una flebile voce provenire da un granello di polvere che si è depositato su un fiore: si tratta dei Non-so-chi, gli abitanti della minuscola città di Chi-non-so: ma quando prova a spiegare agli altri animali della giungla che su quel granello c'è un'intero mondo (e che, di conseguenza, anche il loro mondo potrebbe trovarsi su un granello dal punto di vista di qualcun altro), non soltanto non viene creduto ma rischia di essere ostracizzato e persino imprigionato. Nel frattempo, anche il "sindachì" di Chi-non-so ha lo stesso problema, visto che i suoi concittadini non credono all'esistenza di un mondo più grande... Tratto da un libro per bambini scritto negli anni cinquanta dal Dr. Seuss (lo stesso autore de "Il grinch"), da cui eredita il narratore in rima, il film offre diversi spunti curiosi ma mi ha infastidito per il pronunciato moralismo, per il buonismo di fondo (vedi l'abusatissimo tema del rapporto padre/figlio fra il sindachì e il piccolo JoJo) ma soprattutto per il tentativo di mantenere il piede in due scarpe: da un lato la vicenda è un apologo fideistico e antirazionalistico (la cattiva Cangura, che afferma che "se una cosa non si può vedere, udire o toccare, allora non esiste", è chiaramente una propugnatrice dell'ateismo, e addirittura accusa Ortone di diffondere false credenze tra i bambini), dall'altro però caratterizza l'elefante e il sindachì come novelli Galileo che lottano contro l'establishment e le concezioni del mondo tramandate ottusamente di generazione in generazione e mai messe in discussione. Ma forse è meglio mettere da parte la contraddizione di queste letture teologiche/filosofiche/scientifiche e godersi il film come puro escapismo: e allora si apprezza la simpatia di alcuni personaggi (non di tutti, però), la buona fattura tecnica (con un character design e una resa dei personaggi assai "plastica": siamo quasi dalle parti dell'animazione in plastilina) e – in originale – il doppiaggio ricco di voci eccellenti (Jim Carrey, Steve Carell, Seth Rogen: in italiano, invece, Ortone parla in romanesco con la voce di Christian De Sica).