31 ottobre 2011

Le avventure di Tintin (S. Spielberg, 2011)

Le avventure di Tintin: Il segreto dell'unicorno
(The adventures of Tintin)
di Steven Spielberg – USA/NZ 2011
con Jamie Bell, Andy Serkis
***

Visto al cinema Colosseo (in 3D), con Marisa.

Attraverso l'ormai collaudata tecnica del performance capture, con cui la recitazione degli attori viene utilizzata per dar vita a personaggi in animazione digitale (già sperimentata da Robert Zemeckis nei suoi ultimi lavori ma in questo caso ben più giustificata, visto che consente di mantenere lo stile caricaturale e stilizzato del fumetto originale senza sacrificare il realismo dell'azione e delle ambientazioni), la coppia Steven Spielberg-Peter Jackson (co-produttori, con il secondo che si è già candidato a dirigere il sequel) porta sul grande schermo uno dei più fortunati e popolari personaggi d'avventura del secolo scorso, il "Tintin" di Hergé, maestro della bande dessinée franco-belga, le cui pagine vengono integrate con due elementi che giocoforza gli mancavano, ovvero tridimensionalità e movimento. Trattandosi a tutti gli effetti di un film d'animazione, è difficile dunque riconoscere (e il discorso vale ancora di più per la versione doppiata in italiano) gli interpreti che si celano dietro le fattezze dei vari personaggi: Jamie Bell per l'intrepido reporter Tintin, Andy Serkis per l'alcolizzato capitano Haddock, Simon Pegg e Nick Frost per la coppia di detective pasticcioni Dupond e Dupont (grazie al cielo sono stati mantenuti i nomi francesi, al posto di quelli americani Thompson e Thomson), Daniel Craig per il malvagio Ivan Sakkarine, e così via. Il cane Milù, invece, è ovviamente del tutto digitale. Dopo una bella sigla di apertura, la pellicola si apre con un diretto omaggio a Hergé (è proprio lui, infatti, il pittore che fa un ritratto – in perfetta ligne claire! – a Tintin al mercato). Partendo dal mistero che circonda un modellino di veliero del diciassettesimo secolo, ci troviamo poi catapultati in piena avventura vecchio stile, fra viaggi per mare, per aria e per terra (fino al deserto del Marocco) alla ricerca degli indizi che rivelano l'ubicazione di un tesoro depredato quattro secoli prima dal pirata Rackham il rosso.

Dovendo selezionare un soggetto fra i 23 albi a fumetti che compongono la saga di Hergé, gli sceneggiatori hanno scelto una delle storie più belle, quella che a quanto pare era la preferita dello stesso disegnatore belga: "Il segreto del liocorno", prima parte di una storyline che prosegue (e proseguirà nel secondo film) nell'albo "Il tesoro di Rackham il rosso". L'hanno però fusa con un'avventura precedente, "Il granchio d'oro", in cui si celebra il primo incontro fra il giovane protagonista e quella straordinaria spalla che è il capitano Haddock. Il lavoro di adattamento dal fumetto al film mi è parso esemplare, e poco importa se alcuni dettagli delle storie originali sono stati modificati (su tutti il ruolo di Sakkarine, che si rivela essere addirittura un discendente del pirata Rackham): la pellicola funziona su più piani, da quello cinematografico (come molti hanno detto, la collaborazione con Jackson sembra aver ringiovanito Spielberg, riportandolo ai livelli dei primi Indiana Jones) a quello del divertimento e dell'azione (di questa, a dire il vero, ce n'è fin troppa: dopo la magnifica scena della fuga dal palazzo dello sceicco, realizzata con un lungo e spettacolare piano sequenza, si è talmente stremati che ci sarebbe voluto più tempo per riprendere fiato; e invece quasi subito comincia lo scontro finale al molo, con un combattimento a basi di gru che mi ha ricordato quello fra le scavatrici di una famosa storia di Carl Barks). Viene persino colta l'occasione per introdurre personaggi del corpus delle avventure di Hergé che non erano presenti nelle storie selezionate, come la cantante lirica Bianca Castafiore (che però non si esibisce nel pezzo che più l'ha resa celebre, l'aria dei gioielli dal "Faust" di Gounod, bensì intona "Je veux vivre" dal "Roméo et Juliette", un'altra opera del compositore francese, peraltro preceduta – chissà perché – dall'introduzione della cavatina di Rosina nel "Barbiere di Siviglia"), mentre altri (e penso al mitico scienziato Trifone Girasole) dovranno attendere la prossima pellicola, che visto il titolo annunciato – "Prisoners of the sun" – fonderà verosimilmente il già citato "Il tesoro di Rackham il rosso" con la saga de "Le sette sfere di cristallo".

30 ottobre 2011

FAQ about time travel (G. Carrivick, 2009)

Frequently Asked Questions about Time Travel
di Gareth Carrivick – GB 2009
con Chris O'Dowd, Marc Wootton, Dean Lennox Kelly
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Tre amici, appassionati di fantascienza, si ritrovano in un pub per discutere di cinema e di viaggi nel tempo. L’incontro con una strana ragazza (Anna Faris) che afferma di provenire dal futuro e la scoperta che nei bagni del locale si cela un varco temporale li coinvolgeranno in una assurda vicenda a base di viaggi nel futuro (e nel passato) e di paradossi (compreso l’incontro con altre versioni di loro stessi). Realizzato nella stessa vena comico-dissacratoria de "L'alba dei morti dementi", anche se con un budget decisamente più ridotto (prodotto dalla BBC, si tratta quasi di un tv movie) è al contempo una parodia e un sincero omaggio a un classico genere della science fiction. La scelta di ambientare un film sui viaggi nel tempo praticamente in un’unica location (il pub) mi ha ricordato il bel romanzo di Fritz Leiber “Il grande tempo”. Riferimenti nerdistici come se piovesse: ci sono citazioni più o meno esplicite, fra gli altri, per “Dr. Who”, “Star Trek”, “Star Wars”, “Stargate”, “Ritorno al futuro”, “Terminator”, “Le cronache di Narnia”; ma anche (più oscure e difficili da cogliere) per “Bill & Ted’s Excellent Adventure”, “Aliens”, “Flash Gordon”, “Il quinto elemento”. Fra i brani che si ascoltano all’interno del pub, spicca (cantata anche dai protagonisti) “Total Eclipse of the Heart” di Bonnie Tyler.

29 ottobre 2011

Operazione Spy Sitter (B. Levant, 2010)

Operazione Spy Sitter (The Spy Next Door)
di Brian Levant – USA 2010
con Jackie Chan, Amber Valletta
*

Visto in divx, con Albertino.

I tre figli della divorziata Gilliam vedono nel cinese Bob Ho, il nuovo fidanzato della madre, solo un vicino noioso e insignificante. Ma ignorano che si tratta invece di un agente segreto che sta collaborando con la CIA per dare la caccia a una pericolosa spia russa. Quando la donna è costretta a lasciare i bambini a Bob, affinché faccia loro da babysitter durante il weekend, questi verranno coinvolti nella sua missione e lo aiuteranno ad avere la meglio sui nemici. Film disneyano che mescola insieme "True lies", "Spy Kids", "Missione tata" e "Mamma ho perso l'aereo", è una delle peggiori pellicole – se non la peggiore in assoluto – della carriera di Jackie Chan. Vorrebbe fare la parodia dei film di spionaggio, ma fallisce su ogni fronte: per la pessima recitazione (insopportabili e impresentabili, su tutti, i bambini attori), per lo squallore delle battute, per gli imbarazzanti luoghi comuni o per gli sviluppi scontatissimi della trama; senza contare, poi, un Jackie ormai invecchiato e fuori forma, visibilmente incapace di ripetere le scene d'azione, gli stunt e le coreografie che lo hanno reso famoso nei decenni precedenti. Terminate le stagioni degli arabi e dei francesi, nel ruolo dei "cattivi" tornano i russi: e nella loro demenzialità, proprio gli antagonisti Magnús Scheving e Katherine Boecher sembrano gli unici a essersi divertiti sul set. Quanto al mediocre doppiaggio italiano, da anni non sentivo così tante volte la parola "ganzo" in un film.

27 ottobre 2011

Tomboy (Céline Sciamma, 2011)

Tomboy (id.)
di Céline Sciamma – Francia 2011
con Zoé Héran, Malonn Lévana
***

Visto al cinema Eliseo, con Costanza.

Il termine tomboy può essere tradotto con "maschiaccio", ed è proprio quello che è la giovane Laure: dieci anni, taglio di capelli corti, canottiera e scarpe da tennis, alle bambole preferisce il calcio e la lotta con gli altri maschietti, e ai nuovi amici – si è appena trasferita con la famiglia in un altro quartiere – dice appunto di chiamarsi Michaël. In questa sorta di "gioco di ruolo", giunge addirittura al punto di infilarsi nel costume da bagno un finto pene, fatto di plastilina, per ingannare meglio gli altri bambini. Tutt'altro che scabrosa, questa pellicola delicata e minimalista affronta il tema dell'ambiguità sessuale da un punto di vista decisamente infantile (gli adulti, a parte l'intervento della madre della protagonista nel finale, sono quasi assenti – come nei "Peanuts" – o non si rendono conto della situazione: eppure i genitori di Laure vedono bene come si veste e come si comporta! Ma in fondo sono loro stessi ad avallarla, come il padre che – forse spinto dal desiderio di trovare nella figlia quel figlio maschio che non ha – beve con lei la birra e vorrebbe insegnarle a giocare a poker). In questo tipo di film si corre sempre il rischio di ritrarre bambini che sembrano più maturi della loro età: ma la trappola è schivata per merito dell'approccio leggero e dalla nonchalance con cui gli argomenti sono trattati. Oltre all'androgina Zoé Héran, convincono un po' tutti i piccoli attori: a cominciare dalla simpatica sorellina minore, la furbissima Jeanne (Malonn Lévana; sei anni), che a sua volta si diverte a partecipare al "gioco", ma anche l'intensa Lisa (Jeanne Disson), unica compagna di giochi di sesso femminile di Laure/Michaël, di cui si innamora e alla quale nel bel finale spetta il compito di far ripartire la relazione su basi più solide e sincere ("Allora, qual è il tuo vero nome?"). La regista è al suo secondo lungometraggio: anche il primo ("Naissance des pieuvres" del 2007, mai uscito in Italia) affrontava temi simili, anche se in quel caso la maggiore età delle protagoniste favoriva una più approfondita analisi psicologica.

24 ottobre 2011

This must be the place (P. Sorrentino, 2011)

This must be the place
di Paolo Sorrentino – Italia/Francia/Irlanda 2011
con Sean Penn, Frances McDormand
**

Visto al cinema Colosseo.

Dopo i successi de "Le conseguenze dell'amore" (che a mio parere resta il suo lavoro migliore) e "Il divo", Sorrentino goes international e va a girare un film in inglese negli Stati Uniti (ma non di produzione americana), come molti registi europei prima di lui hanno sentito l'esigenza di fare (i paragoni che sorgono subito in mente, anche per via dei temi e dei toni da road movie, sono quelli con il Wenders di "Paris, Texas" e l'Antonioni di "Zabriskie Point"). Protagonista assoluto è un sorprendente Sean Penn nei grotteschi e ingombranti panni di Cheyenne, rock star invecchiata, annoiata e depressa, che fatica a uscire dal "personaggio" che gli aveva dato la notorietà negli anni ottanta, prima di ritirarsi dalle scene per chiudersi in un esilio dorato in Irlanda. Punk, dark (il look è ispirato a quello di Robert Smith dei Cure), infantile ("solo i bambini non sentono mai il bisogno di fumare"), effemminato (evidente il contrasto con la moglie, interpretata da Frances McDormand, che invece è fin troppo "maschile", al punto da lavorare come vigile del fuoco e da battere regolarmente il marito a pelota) e in perenne crisi artistica (come confessa a un David Byrne che, oltre a realizzare la colonna sonora del film, interpreta sé stesso in una delle scene registicamente più interessanti, quella del suo concerto a New York), eppure intellettualmente lucido e capace di improvvisi scatti di di umorismo cinico e sarcastico, Cheyenne si mette in viaggio per gli States in occasione del funerale di un padre con cui non parlava da molti anni; e per espiare il senso di colpa per la distanza che lo ha tenuto lontano da lui, si getta sulle tracce di un criminale nazista che ora vive in America e che il genitore, da questi umiliato mentre era prigioniero ad Auschwitz, aveva cercato invano di scovare. Se i temi del viaggio come metafora della ricerca di sé stesso, del rapporto con il padre da ricucire dopo la morte, e del superamento dei traumi del passato (solo nel finale Cheyenne saprà uscire dalla "maschera" che ha indossato per trent'anni, riacquistando la propria identità da adulto, chiudendo i conti con una tragedia che lo opprimeva – il suicidio di due suoi giovani fan – e permettendo a quelle che scopriamo nell'ultimissima scena essere sua madre e sua sorella di "ritrovare" il proprio caro perduto) non sono in fondo così originali, la cura nella caratterizzazione del personaggio dà i suoi frutti e proprio il finale aggiunge significato all'intera operazione. Nulla da dire invece sullo stile: sono convinto – come ho già scritto altrove – che Sorrentino sia attualmente il più dotato, dal punto di vista della tecnica, fra i registi italiani. La struttura in acciaio e vetro che si vede dietro le case nelle scene ambientate in Irlanda è il nuovo Aviva Stadium di Dublino. Il titolo del film, invece, è quello della canzone dei Talking Heads che lo stesso Cheyenne suona alla chitarra in casa di Rachel (Kerry Condon), la figlia americana dell'uomo che sta cercando. Cameo per Harry Dean Stanton (già protagonista del citato "Paris, Texas") nel ruolo dell'inventore del trolley, mentre Judd Hirsch è Mordecai Midler, il cacciatore professionista di nazisti.

22 ottobre 2011

Donne sull'orlo di una crisi di nervi (P. Almodóvar, 1988)

Donne sull'orlo di una crisi di nervi
(Mujeres al borde de un ataque de nervios)
di Pedro Almodóvar – Spagna 1988
con Carmen Maura, Julieta Serrano
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Ilaria, Paola ed Eleonora.

L'attrice e doppiatrice cinematografica Pepa (una strepitosa Carmen Maura) è stata lasciata dal suo amante Ivan (Fernando Guillén), che sta per partire per l'estero con un'altra donna. Ma non si tratta della sua ex moglie Lucia (Julieta Serrano), uscita da poco dall'ospedale psichiatrico e che a sua volta sospetta di Pepa, bensì dell'avvocatessa femminista Paulina (Kiti Manver). In crisi e in depressione, anche perché ha scoperto da poco di essere incinta, Pepa cerca inutilmente di contattare Ivan, con il quale riesce a comunicare soltanto attraverso messaggi registrati (e proprio la voce dell'uomo, a sua volta doppiatore – all'inizio del film vediamo lui e Pepa incidere, su tracce separate, una scena di "Johnny Guitar" con Sterling Hayden e Joan Crawford – è il segreto che gli permette di conquistare così tante donne). La situazione si complica a dismisura quando nell'appartamento di Pepa si ritrovano anche la sua amica Candela (Maria Barranco), in fuga dalla polizia dopo aver ospitato in casa un terrorista sciita di cui si era innamorata; e il figlio di Ivan e Lucia, Carlos (Antonio Banderas), in cerca di un attico da affittare insieme alla sua fidanzata Marisa (Rossy De Palma). Commedia screwball, femminista (il pavido e fedifrago Ivan non ci fa certo una bella figura), cinica e soprattutto divertentissima, caratterizzata da personaggi frizzanti e imprevedibili, da continui colpi di scena e da una scenografia colorata e vivace che diventerà un marchio di fabbrica del regista, è probabilmente la più popolare e la più fortunata fra le prime pellicole di Almodóvar (è stata persino adattata più volte in forma di musical e di spettacolo teatrale), nonché quella che lo ha portato definitivamente alla ribalta internazionale, forse anche perché più leggera e meno "estrema" di lavori precedenti come "Pepi, Luci e Bom", "Labirinto di passioni" e "Matador". Molte le citazioni che guardano, parodizzandolo, al cinema classico (il gazpacho con il sonnifero ricorda il latte de "Il sospetto" di Hitchcock, mentre l'inseguimento finale fra il "mambo taxi" e il motorino sembra prendere in giro le scene d'azione viste in tanti film hollywoodiani). Brillante la colonna sonora di Bernardo Bonezzi, con la canzone "Soy infeliz" di Lola Beltrán.

21 ottobre 2011

Fata morgana (Werner Herzog, 1971)

Fata morgana (id.)
di Werner Herzog – Germania 1971
con attori non professionisti
***

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Riorganizzando e montando il materiale filmato in una serie di viaggi in Africa fra il 1968 e il 1969 (nel Sahara algerino, in Nigeria, Alto Volta, Mali, Costa d'Avorio, Kenya, Tanzania e a Lanzarote nelle Canarie, dove il regista aveva girato "Anche i nani hanno cominciato da piccoli"), Werner Herzog realizza un affascinante e insolito documentario che alle immagini abbina una voce fuori campo (nella versione originale è quella di Lotte Eisner) che racconta "un'altra storia", lasciando allo spettatore il compito di riannodare le fila e di interpretare quello che sta vedendo. È comunque consigliata una seconda visione accompagnata dall'interessante commento di Herzog presente sul DVD, che per ogni sequenza spiega di cosa si tratta veramente, dove è stata girata e quali sono gli aneddoti al riguardo. La pellicola è divisa nettamente in tre parti: nella prima, "La creazione", sulle sequenze del deserto sono recitati brani dal "Popol Vuh", il racconto della creazione del mondo secondo i Maya (curiosamente, "Popol Vuh" è anche il nome di un gruppo musicale che scriverà le colonne sonore di diversi film di Herzog); nella seconda e nella terza, rispettivamente "Il paradiso" e "L'età dell'oro", i testi – in gran parte improvvisati – sono invece dello stesso Herzog e del suo amico poeta Manfred Eigendorf. L'idea iniziale era quella di presentare le immagini in chiave fantascientifica, come se si trattasse della descrizione di un altro pianeta, oppure del nostro ma da parte di una civiltà aliena: venne scartata, ma Herzog la riutilizzò poi in "Apocalisse nel deserto" e "L'ignoto spazio profondo", che con questo film formano un'ideale trilogia. Gran parte delle immagini sono state riprese dall'operatore Jörg Schmidt-Reitwein a bordo di un furgoncino Volkswagen guidato dallo stesso Herzog: per questo si tratta di lunghe carrellate laterali che "amplificano" a dismisura la dimensione orizzontale del paesaggio. Il resto lo fa la musica: nel primo atto, in gran parte classica (a partire dal Kyrie della "Messa dell'incoronazione" di Mozart); nel secondo, spiccano alcune canzoni di Leonard Cohen ("Suzanne", "So long Marianne", "Hey, that's no way to say good-bye"); nel terzo, c'è la surreale esibizione al piano della tenutaria di un bordello a Lanzarote, accompagnata da un protettore che suona la batteria e canta in spagnolo). Fra le sequenze che rimangono maggiormente impresse, quella iniziale in cui si mostra più volte un aereo in fase di atterraggio (e ogni volta, sembra di assistere sempre di più a un miraggio); le carcasse e le pelli dei bovini presso un pozzo reso secco dalla siccità; un bambino che mostra la sua volpe albina domestica e, parimenti, un ricercatore che tiene in mano un varano di Komodo. Gran parte delle persone che compaiono nella pellicola sono abitanti del luogo o turisti incontrati per caso. Molti gli incidenti capitati durante la lavorazione: ci fu anche il rischio di finire in galera perché il nome del cameraman era identico a quello di un mercenario tedesco ricercato dalla polizia e condannato a morte. Il titolo, naturalmente, si riferisce al celebre miraggio che dà l'impressione di osservare l'acqua nel deserto.

18 ottobre 2011

Bright future (Kiyoshi Kurosawa, 2003)

Bright future (Akarui mirai)
di Kiyoshi Kurosawa – Giappone 2003
con Joe Odagiri, Tadanobu Asano
**

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Il giovane Juji Nimura sogna spesso un futuro “luminoso”, ma la sua realtà presente è ben diversa: una vita piatta e noiosa, priva di stimoli e di passioni (a parte ascoltare musica e frequentare le sale giochi), e un lavoro in fabbrica che porta avanti senza alcun entusiasmo, alle dipendenze di un capo invadente e fastidioso, reso più piacevole soltanto dall’amicizia con il collega Mamoru, l’unico con cui senta una certa affinità. Ma quando quest’ultimo, inspiegabilmente, massacra il capo e la sua famiglia e viene condannato all’ergastolo, Juji si ritrova da solo, intrappolato in un'esistenza vuota e senza via d'uscita. L’unico legame che gli rimane con l’amico è la medusa tropicale che Mamoru teneva nel proprio acquario e che, prima di compiere il suo folle gesto, ha affidato proprio a Juji. Tuttavia il ragazzo, in preda a uno scatto d’ira, rovescia la vasca facendo finire l’animale nelle acque che scorrono sotto la città. Dopo il suicidio di Mamoru in cella, Juji sembra destinato allo sbando, e a nulla servono i tentativi della sorella di trovargli un lavoro in ufficio: il ragazzo, anzi, devasta nottetempo il palazzo in compagnia di un gruppo di teppisti incontrati per caso in strada. Ma alla fine troverà un punto di riferimento nel padre di Mamoru, che lo accoglie con sé e lo assume come assistente nel proprio negozio di riparazione di vecchi elettrodomestici, meditando persino di adottarlo per sostuituire il figlio perduto (che comunque continua a frequentare il negozio sotto forma di fantasma invisibile). Nel frattempo, le meduse velenose proliferano nei fiumi e nei canali di Tokyo, fino a quando decidono di abbandonare la città e gli esseri umani al loro destino, dirigendosi verso il mare. Girata con una fotografia fredda, quasi monocromatica e spesso sgranata nelle scene notturne, quella di Kiyoshi Kurosawa è una pellicola ostica e spigolosa (anche se questa seconda visione mi ha dato qualcosa in più rispetto alla prima), che da un lato affronta temi interessanti come quelli del disagio giovanile (emblematica la scena finale, fra le migliori del film, che mostra la banda di teppisti annoiati e biancovestiti mentre percorre un viale, circondata da un alone bianco e luminoso che finisce col sommergerli tutti, mentre scorrono i titoli di coda e si intravede persino la troupe del regista al lavoro) e dall’altro sguazza in metafore sfuggenti e non sempre limpidissime (su tutte la presenza continua della medusa, animale marino adattatosi gradualmente al nuovo ambiente, che si aggira luminosa e minacciosa per le vie d’acqua della città e la cui iridescenza sembra l'unico faro che illumina la notte di personaggi sperduti come Juji e il padre di Mamoru).

17 ottobre 2011

I tre moschettieri (Paul W.S. Anderson, 2011)

I tre moschettieri (The Three Musketeers)
di Paul W. S. Anderson – USA 2011
con Logan Lerman, Milla Jovovich
**

Visto al cinema Colosseo (in 3D), con Elena.

Nuovo adattamento cinematografico di uno dei più classici romanzi d’avventura di tutti i tempi, girato dal regista di “Resident Evil” (nonché fortunato marito di Milla Jovovich) nello stesso stile del recente “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie, ovvero aggiornando il soggetto al moderno gusto hollywoodiano e agli stilemi del popcorn movie e condendo la vicenda con una profusione di scene d’azione e un ritmo ipercinetico. In più c’è il 3D, che proprio in questi film di puro intrattenimento trova forse la sua unica ragione d’essere (e riesce effettivamente, almeno in parte, ad arricchire di nuove profondità gli ambienti e le scenografie). Naturalmente i puristi storceranno il naso, perché se è vero che la trama di base è stata rispettata (l’incontro di D’Artagnan con i tre moschettieri, gli scontri con Jussac e Rochefort, la missione a Londra per recuperare i gioielli della regina, ecc.), non poche e non lievi sono le modifiche e i rimaneggiamenti al testo di Dumas. Su tutte, il notevole ampliamento del ruolo di Milady (interpretata da una Milla più splendida che mai): nell’incipit, ambientato a Venezia, la vediamo addirittura agire come un “quarto moschettiere”, in missione al fianco di Athos, Porthos e Aramis (caratterizzati come una via di mezzo fra ninja e agenti segreti), che naturalmente tradirà alla prima occasione per mettersi dapprima al servizio del duca di Buckingham e poi del cardinale Richelieu; ma le modifiche apportate al suo personaggio si ripercuotono su tutto il film, dando origine a scene di spionaggio in stile “Mission Impossibile” e sfociando in un finale alquanto differente da quello del romanzo originale, con un duello in cielo fra aeronavi tanto spettacolare quanto improbabile, seguito da un cliffhanger che ricorda proprio quelli che caratterizzano la serie di “Resident Evil”. Eppure, non me la sento di gridare al tradimento o alla lesa maestà: in fondo lo scopo principale del feuilleton di Dumas era quello di divertire i lettori e stuzzicare il loro desiderio di azione e avventura, e da questo punto di vista il film di Anderson non si comporta molto peggio dei suoi numerosi predecessori cinematografici. In più c’è Milla, che da sola è – come sempre – un motivo sufficiente per vedere la pellicola. Se gli attori che interpretano i quattro moschettieri sono semisconosciuti (il giovane Logan Lerman, nei panni di D’Artagnan, in qualche modo se la cava, mentre ben poca impressione destano gli altri tre), più interessante è il cast di contorno: oltre a Milla ci sono anche Christoph Waltz (Richelieu), Orlando Bloom (Buckingham), Freddie Fox (Luigi XIII) e Juno Temple (la regina Anna).

14 ottobre 2011

L'amore che resta (Gus Van Sant, 2011)

L'amore che resta (Restless)
di Gus Van Sant – USA 2011
con Henry Hopper, Mia Wasikowska
**

Visto al cinema Eliseo.

Il giovane e irrequieto Enoch, orfano di entrambi i genitori a causa di un incidente stradale, è ossessionato dalla morte, ha tendenze suicide, si imbuca ai funerali degli sconosciuti (come il protagonista di “Harold e Maude”) e ha come unico amico il fantasma di un pilota kamikaze giapponese (che lo batte sempre a battaglia navale). La coetanea Annabel, dolce ed estroversa, ha un forte interesse per la vita e la natura, una passione per gli insetti e gli uccelli acquatici e una sconfinata ammirazione per Darwin, ma è malata terminale di tumore al cervello e le restano solo tre mesi di vita. L’incontro fra i due, con conseguente storia d’amore, farà del bene a entrambi: Enoch renderà felici gli ultimi mesi della ragazza e imparerà a convivere anche con il proprio dolore. Dopo “Elephant” e “Paranoid Park”, Gus Van Sant continua a sfornare teen movie dall’approccio insolito, stavolta portando sullo schermo un testo dello sceneggiatore esordiente Jason Lew, tratto da un dramma teatrale da lui stesso scritto durante l’università e segnalato al regista dalla sua compagna di corso Bryce Dallas Howard (anche produttrice, insieme con il padre Ron Howard). Ma le presenze di “figli d’arte” non si fermano qui: Enoch è interpretato da Henry Hopper, figlio di Dennis Hopper (alla cui memoria è dedicata la pellicola), al suo primo ruolo da protagonista, mentre la sorella di Annabel è Shuyler Fisk, la figlia di Sissy Spacek. La pellicola, nonostante i temi trattati, è leggera e delicata, anche se un po’ scontata e semplicistica: alla resa dei conti, ci si commuove relativamente. Visto come tutto il film giri intorno al tema della morte, è inevitabile che alcune sequenze vengano ambientate durante Halloween (e che la colonna sonora sia firmata da Danny Elfman, il compositore di fiducia di Tim Burton nonché autore delle musiche di “Nightmare before Christmas”).

12 ottobre 2011

West Side Story (Robert Wise, 1961)

West Side Story (id.)
di Robert Wise, Jerome Robbins – USA 1961
con Natalie Wood, Richard Beymer
***

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Paola, Eleonora e Ginevra, in originale con sottotitoli.

Tratto dal celebre musical di Leonard Bernstein e Stephen Sondheim, è una versione moderna del “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, ambientata nell’Upper West Side di New York. Qui è in corso una vera e propria guerra fra due bande di ragazzi di strada: i Jets, composti da americani bianchi (anche se poi, a ben vedere, sono tutti di origine più o meno varia: chi svedese, chi polacca, eccetera), e gli Sharks, immigrati portoricani. I primi sono guidati da Riff, fondatore del gruppo insieme all’amico Tony, che ora ha messo la testa a posto e si è anche trovato un lavoro; i secondi da Bernardo, che ha appena fatto arrivare da Porto Rico la sorella minore Maria. Naturalmente fra Tony e Maria sarà amore a prima vista, ma il loro idillio sarà contrastato dall’odio che scorre fra le due fazioni e che finirà con l’insanguinare il quartiere. Il film vede l’eclettico regista Robert Wise (scelto dai produttori per via della sua “familiarità con i drammi urbani newyorkesi”) collaborare con il coreografo della versione teatrale, Jerome Robbins. Quest’ultimo, a dire il vero, abbandonò il set a metà lavorazione, ma Wise volle che venisse comunque accreditato al suo fianco come co-regista. La pellicola ebbe un successo enorme, tanto da vincere ben 10 statuette (su 11 nomination) agli Oscar, comprese quelle per il miglior film, la regia, la fotografia, la colonna sonora e gli attori non protagonisti (George Chakiris e Rita Moreno, che interpretano Bernardo e la sua ragazza Anita). Diverse le curiosità legate al cast: la parte di Tony venne proposta a Elvis Presley, il quale rifiutò su suggerimento del suo manager, mentre per il ruolo di Maria si pensò ad Audrey Hepburn, che rinunciò perché incinta. Molti degli attori che si vedono sullo schermo avevano recitato anche nella versione teatrale, ma in ruoli differenti (George Chakiris, per esempio, era stato Riff nell’allestimento londinese). Quasi tutti gli attori cantano anche i propri brani, ma questo non vale per i due protagonisti, che durante i numeri musicali sono doppiati: la voce di Natalie Wood è di Marni Nixon, quella di Richard Beymer è di Jimmy Bryant. Quattro anni dopo Wise ripeterà l’esperienza musicale con un altro titolo leggendario, “Tutti insieme appassionatamente”.

Ai tempi considerato assai innovativo e acclamato, oltre che per i temi sociali, soprattutto per le scenografie, i colori, le coreografie dei balletti e la messa in scena molto stilizzata, oggi il film può forse apparire un po’ datato (soprattutto perché, purtroppo, da allora il fenomeno della violenza nelle strade e in generale la cultura della trasgressione giovanile hanno fatto passi da gigante, evolvendosi in più direzioni): ma la bellezza delle canzoni e l’universalità degli argomenti trattati lo rendono ancora una visione di forte impatto. Quasi ogni scena e ogni numero musicale meriterebbe di essere ricordato: dai titoli di testa disegnati (come la locandina) da Saul Bass, dove i tratteggi vanno a formare la coastline dell’isola di Manhattan, alla sequenza iniziale con gli inseguimenti e i dispetti reciproci fra i Jets e gli Sharks al campo da basket e per le strade del quartiere; dall’introduzione di Tony, che canta “Something’s coming”, al ballo in palestra in cui il ragazzo incontra per la prima volta Maria (che sfocia in uno dei brani più noti dell’opera, “Maria”, appunto); dalla vivace “America” con cui Anita e gli Sharks mettono a confronto la vita a Porto Rico e quella negli Stati Uniti, non risparmiando strali e frecciate a sfondo sociale (da notare che il testo venne notevolmente cambiato rispetto alla versione teatrale originale), al duetto d’amore “Tonight” fra Tony e Maria, più tardi ripreso in versione ensemble e cantato da tutto il cast al culmine della tensione del secondo atto; dalla divertente “Gee, Officer Krupke”, in cui i ragazzi prendono in giro le autorità che vorrebbero “correggere” il loro comportamento senza minimamente comprendere le reali ragioni del loro disagio, alla graziosa “I feel pretty”, che illustra magnificamente la felicità di Maria; dal toccante duetto “One Hand, One Heart”, che accompagna il matrimonio immaginario fra Tony e Maria, alla sublime melodia di “Somewhere”, un inno alla speranza e contro la cattiveria del mondo; dal ritmico brano “Cool”, con cui i Jets meditano vendetta contro i rivali, al ruvido “A Boy Like That”, con cui Anita cerca inutilmente di convincere l’amica Maria a rinunciare all’amore impossibile per Tony. Un remake, inferiore sotto ogni aspetto, firmato da Spielberg nel 2021.

10 ottobre 2011

La leggenda della fortezza di Suram (S. Paradžanov, 1984)

La leggenda della fortezza di Suram (Ambavi Suramis tsikhitsa)
di Sergej Paradžanov – URSS 1984
con Zura Kipshidze, Sofiko Chiaureli
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

A sedici anni dal suo film precedente, e dopo aver sofferto lunghi periodi di ostracismo (e persino di prigionia) da parte delle autorità sovietiche, Paradzanov torna al cinema con una pellicola ispirata a un'antica leggenda georgiana (resa celebre nell'ottocento dallo scrittore Daniel Chonkadze) e girata nello stesso stile dei suoi lavori immediatamente precedenti, "Le ombre degli avi dimenticati" e "Il colore del melograno". La fortezza del titolo è una delle molte fortificazioni che il re di Georgia fa erigere per proteggere il paese dalle invasioni nemiche. Ma le sue mura continuano a crollare, e ogni tentativo di ricostruirle si rivela vano, fino a quando – su suggerimento di una veggente – nelle sue fondamenta non sarà murato vivo un giovane ragazzo. Il prescelto, che sceglierà liberamente di sacrificare sé stesso, è Zurab, il cui padre Durmishkhan era stato un tempo un servitore proprio del re georgiano. Dopo aver ottenuto la libertà Durmishkhan era partito per fare fortuna, abbandonando dietro di sé l'amata Vardo, e si era messo al servizio di un ricco mercante (che a sua volta, in gioventù, era fuggito dalla propria patria dopo aver ucciso il suo precedente padrone). Col tempo, Durmishkhan dimentica il proprio popolo e sposa un'altra donna, che dà alla luce suo figlio Zurab. Nel frattempo Vardo, disperata per essere stata abbandonata, diventerà una veggente: e sarà proprio lei a suggerire come rendere stabili le mura della fortezza, ovvero murando al suo interno quello che "avrebbe potuto essere suo figlio". La commistione fra eventi storici (la vicenda si svolge sullo sfondo delle guerre fra cristiani e islamici) e fiabeschi (la narrazione è continuamente interrotta da sogni, presagi, racconti e flashback), oltre alla messa in scena che estremizza il ruolo di scenografie, ambienti e oggetti (molte sequenze sono veri e propri tableaux vivants, dove personaggi in costume – santi, mercanti, contadini, veggenti, guerrieri – posano fra animali, tappeti, vasi, mappe, carovane, o sono protagonisti di feste popolari, preghiere, riti e cerimone), anche se ne ostacolano la linearità narrativa, lo rendono un film visivamente affascinante e assai ricco dal punto di vista estetico.

9 ottobre 2011

Fantasy mission force (Chu Yen-ping, 1982)

Fantasy mission force (Mi ni te gong dui)
di Chu Yen-ping – Hong Kong 1982
con Jackie Chan, Brigitte Lin
**

Rivisto in VHS, in inglese.

Durante la seconda guerra mondiale (più o meno: l’ambientazione è assai confusa), i giapponesi catturano i generali in capo delle forze alleate, fra i quali c’è anche Abramo Lincoln (!), e li nascondono in Lussemburgo (!!). Per liberarli, il capitano Don Wen (Jimmy Wang Yu) – prescelto dopo che sono stati scartati, fra gli altri, l’agente 007, “Iena” Plissken e Rocky Balboa (!!!) – viene incaricato di allestire un’eterogenea squadra di rinnegati e mercenari, in stile “Quella sporca dozzina”, ai quali è promessa una generosa ricompensa in denaro se riusciranno nel loro intento. Del gruppo fanno parte un vagabondo ubriacone, un artista della fuga, un cantante biancovestito e la sua amante, e infine due soldati cinesi in kilt scozzese. Durante il lungo viaggio, i nostri eroi dovranno battersi contro una tribù di amazzoni guerriere in pelli di leopardo, pernottare in una casa infestata da fantasmi, e infine sconfiggere una banda di gladiatori nazisti motorizzati (a bordo di automobili anni ’70) che sembrano usciti da “Mad Max”. Uno dei film più sconclusionati e assurdi che mi sia mai capitato di vedere, un B-movie talmente privo di senso da strappare ben più di una risata e meritevole, proprio per questo, di essere ricordato con affetto. Una trama idiota, un’ambientazione colma di anacronismi di ogni tipo, uno sviluppo incoerente e ricco di non sequitur (nonché pieno di errori di continuità: per dirne una, i generali rapiti passano, senza motivo, da quattro a tre), un montaggio deficitario, personaggi improbabili e sviluppi totalmente inaspettati (nel senso peggiore del termine). Dal punto di vista del ritmo, comunque, la pellicola non ha un attimo di pausa, e nella sua folle corsa attraversa senza pudore davvero tutti i generi: il bellico, l’avventura, l’horror (gli spettri che giocano a mahjong), il western (Brigitte Lin è la cavallerizza con il bazooka e gli stivali rossi, che si presenta mentre è impegnata in una gara di bevute in stile “I predatori dell’arca perduta”), lo sportivo (l’incontro di wrestling fra Jackie Chan e un lottatore di sumo), il wuxiapian (l’attacco delle amazzoni ninja con i tessuti colorati), il carcerario (l’evasione dal campo di lavoro), il fantascientifico post-apocalittico (lo scontro con i nazisti), la commedia demenziale e slapstick, la comica alla Benny Hill (le gag con i soldati in kilt), il musical (la canzoncina imbecille al ristorante) e naturalmente le arti marziali. E nel finale c’è anche un colpo di scena sull’identità del cattivo. Jackie Chan, che ha partecipato alla pellicola soltanto per fare un favore all’amico Wang Yu, non è nemmeno il protagonista e non fa parte del gruppo impegnato nella missione: lo segue da lontano e compare solo di tanto in tanto, lasciando spazio sullo schermo al nutrito gruppo di comprimari.

7 ottobre 2011

Arca russa (A. Sokurov, 2002)

Arca russa (Russkiy kovcheg)
di Aleksandr Sokurov – Russia 2002
con Sergei Dontsov, Mariya Kuznetsova
***1/2

Rivisto in DVD con Eleonora, Ginevra, Paola e Rachele.

In compagnia di un misterioso viaggiatore spazio-temporale, un uomo (che non vediamo mai in volto – l’intero film è in soggettiva, come se guardassimo attraverso i suoi occhi – e la cui voce nella versione originale è quella del regista stesso) si sposta attraverso le varie sale del Palazzo d’Inverno del museo Hermitage di San Pietroburgo, trasformato in una ‘arca’ (come ci sarà rivelato nell’ultima inquadratura, l’unica che ha richiesto un intervento digitale in post produzione, raffigurante il mare che circonda l’edificio) che trasporta al proprio interno, custodendoli e preservandoli, tre secoli di arte e di storia del palazzo, della città e della Russia. Girato con straordinaria maestria tecnica in un unico piano sequenza di 90 minuti, il film di Sokurov – la cui visione è un’esperienza davvero unica nel suo genere – offre contemporaneamente una visita virtuale a uno dei musei più belli del mondo (ci vengono mostrati quadri, sculture, oggetti e arredamenti, oltre che i corridoi, i pavimenti, i soffitti, i cortili, le scalinate e le sale stesse del museo) e un’affascinante immersione fra gli episodi, gli eventi e i personaggi più salienti del periodo in esame (da Pietro il Grande a Caterina II, dallo zar Nicola I fino agli ultimi Romanov), con riflessioni sull’arte e la vita, il potere e lo sfarzo, la guerra e la caducità, il divertimento e la melanconia, lo “spirito russo” e il continuo confronto con l’Europa (rappresentata dal compagno di viaggio del protagonista, ispirato a una figura realmente esistita: il marchese de Custine, aristocratico francese che nella prima metà dell’ottocento scrisse un celebre resoconto del suo viaggio alla corte degli zar).

Già nel 1948 Alfred Hitchcock aveva avuto l’idea di realizzare un film che consistesse in un solo e ininterrotto piano sequenza, senza alcuno stacco di montaggio: ma ai tempi di “Nodo alla gola” c’erano limitazioni tecnologiche (la durata dei rulli di pellicola impose a Hitch di “oscurare” lo schermo a intervalli regolari per permettere il cambio di bobina) che le videocamere digitali permettono invece di superare. La macchina da presa si sposta alternando primissimi piani a campi larghi, mostra scene in interni come in esterni, indugia su piccoli dettagli delle opere d’arte e si libra dinamicamente attraverso un salone ricolmo di comparse e persino tra le fila di un'orchestra, diretta da Valery Gergiev: memorabili, in particolare, la scena del ballo e la lunga discesa della scalinata con cui si conclude il film. L’identificazione del protagonista del film con il regista, o magari con lo spettatore stesso, talvolta ribadisce le regole cinematografiche (ci aggiriamo fra gli attori, invisibili ai loro occhi, osservandone le azioni e spiandone i dialoghi) e talvolta le ribalta clamorosamente (quando alcune comparse sono colte a lanciare uno sguardo in camera – atto spiegato diegeticamente con la presenza di “sensitivi” alla corte dello zar – è come se per una volta fossero gli attori a osservare noi spettatori, e a rendersi conto della nostra presenza). Grandiosi i costumi e, ovviamente, le scenografie. Fra le oltre duemila comparse (!) figurano anche alcuni dei direttori passati e presenti del museo. Per curiosità, va segnalato che il film venne girato solo al terzo e ultimo ‘ciak’ utile, dopo che i primi due tentativi furono interrotti per problemi tecnici. L’operatore della Steadycam, nonché direttore della fotografia, è Tilman Büttner.

6 ottobre 2011

Vero come la finzione (M. Forster, 2006)

Vero come la finzione (Stranger than fiction)
di Marc Forster – USA 2006
con Will Ferrell, Emma Thompson
**1/2

Visto in divx, con Marisa.

Harold Crick, metodico agente delle tasse dall'esistenza vuota e monotona, comincia a sentire nella propria testa una voce narrante che descrive in terza persona tutto quello che lui fa. Ben presto si rende conto di essere il protagonista di un romanzo, e che la voce onnisciente è quella della scrittrice che sta scrivendo la storia della sua vita... Quando poi scopre che la trama prevede la sua morte imminente, cerca di rintracciare l'autrice per convincerla a non ucciderlo. Dal regista di "Neverland" (che evidentemente ama raccontare vicende di scrittori, veri o reali che siano), una pellicola tutta incentrata su uno spunto bizzarro e fantastico, quello del personaggio di una narrazione che diventa consapevole di essere tale e cerca di cambiare il proprio destino. Da confrontare con altri lungometraggi basati su trovate simili: dal mediocre "Fuori di testa" con John Candy (dove però il protagonista era lo scrittore, che prendeva coscienza della sua capacità di alterare la realtà) al ben più significativo "The Truman Show" (che trattava di una trasmissione tv e non di un romanzo: ma la figura del demiurgo era presente anche lì; anzi, a parte le differenze caratteriali, il personaggio di Emma Thompson – che decide il destino altrui, lavorando da uno studio del tutto bianco, vuoto e asettico – mi ha ricordato a tratti proprio quello interpretato da Ed Harris nel film di Peter Weir). Ottimo il cast, che oltre allo spaesato Ferrell e alla nevrotica Emma Thompson (nei panni della scrittrice Kay Eiffel), comprende anche Dustin Hoffman (il professore di letteratura, nonché bagnino a tempo perso, che aiuta Harold a identificare il tipo di storia di cui è protagonista e a rintracciare la sua autrice), Queen Latifah (l'assistente e segretaria di Kay) e Maggie Gyllenhaal (la giovane fornaia di cui Harold si innamora). Peccato per qualche concessione di troppo al gusto hollywoodiano: la storia d'amore ha uno spazio eccessivo rispetto alla trama principale, e del lieto fine sembra proprio che non si possa fare a meno (anche se, a onor del vero, gli stessi personaggi riconoscono che il finale "tragico" sarebbe stato migliore). Brutto il titolo italiano.

5 ottobre 2011

Walk all over me (R. Cuffley, 2007)

Walk all over me (id.)
di Robert Cuffley – Canada 2007
con Leelee Sobieski, Tricia Helfer
*

Visto in divx.

Fuggita dal suo paesino, la giovane Alberta si rifugia a Vancouver nella casa della sua ex babysitter, Celene, che ora si guadagna da vivere lavorando come "dominatrix" sadomaso. Pur di racimolare qualche soldo, Alberta decide di spacciarsi per lei, e come tale si reca all'incontro con un nuovo cliente: ma ignora che questi è ricercato dalla malavita perché accusato di essersi impadronito di una forte somma di denaro... Il tema delle pratiche BDSM, che poteva fornire qualche spunto interessante, viene sviluppato con superficialità e sufficienza, e presto è anche abbandonato in favore di una più convenzionale trama da thriller postmoderno, con personaggi improbabili e goffi tentativi di umorismo che passano per lo più inosservati. Se ci aggiungiamo una sceneggiatura dozzinale e una recitazione pessima (si salva in parte soltanto Tricia Helfer nei panni di Celene), ecco servito un film da dimenticare in fretta.

3 ottobre 2011

Scarpette rosse (Powell e Pressburger, 1948)

Scarpette rosse (The red shoes)
di Michael Powell, Emeric Pressburger – GB 1948
con Moira Shearer, Anton Walbrook, Marius Goring
***1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa, Giovanni e Rachele.

L'impresario teatrale Boris Lermontov (Walbrook) scrittura a Londra i giovani e brillanti Julian Craster (Goring) e Victoria Page (Shearer) rispettivamente come compositore e come protagonista del suo nuovo balletto "Scarpette rosse", ispirato alla favola di Hans Christian Andersen, nella quale una ragazza innamorata della danza è costretta da un paio di magiche calzature a ballare fino alla morte. Lo spettacolo, che va in scena a Montecarlo, riscuote un enorme successo e trasforma rapidamente la bella Vicky in una grande star. Ma quando Lermontov, che per principio è contrario alla commistione fra lavoro e amore (aveva allontanato la precedente prima ballerina della sua compagnia dopo che questa aveva annunciato il proprio matrimonio), le impone di rinunciare alla relazione sentimentale che nel frattempo ha instaurato con Julian, la ragazza entra in crisi. Costretta a scegliere fra l'arte e l'amore, non troverà altra strada che il suicidio. Fra colori sgargianti (il film è passato alla storia per l'utilizzo espressivo del Technicolor, in particolare nella lunga sequenza del balletto), scenografie barocche, effetti speciali surrealisti e temi basilari, si tratta di una delle pellicole più celebri sul mondo del teatro e sul binomio arte-amore. Il personaggio di Boris Lermontov è ispirato a un impresario realmente esistito, il russo Sergei Diaghilev, quello che commissionò a Igor Stravinski "L'uccello di fuoco" e altri celebri lavori. Proprio Lermontov, scostante ma carismatico, è a tratti il vero protagonista della pellicola, naturalmente alla pari con Vicky. Moira Shearer, a proposito di quest'ultima, era una vera ballerina: Powell e Pressburger vollero infatti scegliere un'attrice che potesse interpretare senza controfigure la lunga sequenza (quindici minuti) del balletto delle "Scarpette rosse" (coreografato da Robert Helpmann e Léonide Massine, gli altri due ballerini che si vedono in scena; le musiche sono invece composte da Brian Easdale, che per questo lavoro vinse l'Oscar). Difficile pensare che il lungometraggio non abbia influenzato, almeno in parte, il recente "Il cigno nero" di Aronofsky: a parte il tema trattato, basterebbe il finale per legare con un filo rosso i due film. La pellicola (così come la fiaba di Andersen) ha ispirato anche, fra le altre cose, una canzone e un album di Kate Bush, intitolato per l'appunto "The red shoes".