7 settembre 2011

Nazarin (Luis Buñuel, 1958)

Nazarin (id.)
di Luis Buñuel – Messico 1958
con Francisco Rabal, Marga López
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Rivisto in DVD alla Fogona, con Giovanni e Marisa.

Padre Nazarin, un giovane prete, vive in povertà in uno squallido tugurio di Città del Messico (siamo ai tempi della dittatura di Porfirio Díaz), accettando con rassegnazione le cattiverie che il mondo e gli uomini gettano su di lui. Per aver protetto e ospitato Andara, un prostituta che ha ucciso una cugina in una rissa, è costretto ad abbandonare la tonaca e a vagare per il paese, camminando scalzo e vivendo di elemosine. È seguito suo malgrado da due "discepole" che vedono in lui un santo: la stessa Andara e la più pura Beatrice. Ma la sua mitezza e la sua bontà d'animo, che lo rendono incapace di fare del male nonché immune da ogni tentazione sessuale (in una scena Beatrice si addormenta appoggiata sulla sua spalla, mentre Andara si lamenta perché si sente da lui trascurata: ma Nazarin non si cura delle ragazze e pensa solo a osservare una lumaca che striscia sulla sua mano), non saranno comprese. Accusato di immoralità e di una convivenza "scandalosa" con le due donne, verrà arrestato e condotto in prigione: mentre la pellicola si conclude, si possono udire in sottofondo i martellanti tamburi di Calanda (il paese natale del regista) che vengono suonati in occasione della settimana santa. È dunque evidente – ed esplicito sin dal titolo – il richiamo alla figura di Cristo, della cui vita però quella di Nazarin è una sorta di parodia o di caricatura all'insegna dell'impotenza e del fallimento. Buñuel ha adattato il romanzo di Benito Pérez Galdós ("il più grande romanziere spagnolo dopo Cervantes") perché era attirato dal personaggio, ma con la sua consueta "cattiveria" mette in luce a più riprese l'inutilità della bontà del protagonista, che in fin dei conti è destinato a fallire su tutti i fronti: un po' per colpa del mondo che lo circonda, incapace ad accogliere tanta purezza, ma anche perché lui stesso pare non rendersi conto di quello che accade intorno a lui. Non solo non comprende l'amore delle due donne che lo seguono, ma nemmeno le dinamiche sociali che attraversa: esemplare la scena in cui scatena (senza volerlo, e senza curarsi delle conseguenze) un litigio fra gli operai e il sorvegliante di un cantiere perché aveva chiesto di essere assunto in cambio del semplice vitto. Ad aprirgli gli occhi, alla fine, è un criminale che in prigione gli spiega che in fondo "lei è buono, io cattivo, ma nessuno dei due è servito a niente". Nazarin, che a dire il vero sembra poco interessato a predicare o a fare proseliti, fallisce anche ogni volta che cerca di dare consigli o indirizzi morali: non riesce a scacciare le due donne che lo hanno eletto a loro maestro, né a combattere le superstizioni (di fronte a una bambina malata suggerisce di ricorrere alla scienza e alla medicina: ma le comari del paese continuano a invocare da lui un miracolo) o a "cambiare" veramente coloro con cui entra in contatto (i suoi superiori, che lo accusano di "degradare" la dignità dell'abito talare; la donna che sta morendo di peste, che preferisce il conforto del marito a quello del prete; e nemmeno Beatrice e Andara, che in fondo terminano la loro funzione nel film allo stesso modo con cui l'avevano cominciata: la prima, sottomessa al dongiovanni Pinto; la seconda, vittima della società senza possibilità di redenzione).

2 commenti:

Marisa ha detto...

E' un film più importante di quel che sembra, ma pochi riescono a coglierne l'ambiguità e la sottile, ma spassionata denuncia del "buonismo". Chi non riesce a concepire e a vedere il male non ha nemmeno un vero atteggiamento etico perchè non fa nessuna scelta. Togliere alla figura di Gesù la possibilità di sentire emozioni e sentimenti negativi quali l'odio o l'invidia e la capacità di avere passioni carnali, come ha fatto per secoli il cristianesimo, è stata la mutilazione più grave alla sua umanità.
Bunuel, attraverso questa controfifura depotenziata, ne mostra i veri pericoli.

Christian ha detto...

Come spesso capita quando si parla di religione, gli autori o i registi atei (penso anche a Pasolini) si dimostrano più sensibili e pronti a coglierne gli aspetti fondamentali, rispetto a quelli più confessionali o integralisti, che sfornano solo banalità.