31 agosto 2011

L'enfant (Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2005)

L'enfant (id.)
di Jean-Pierre e Luc Dardenne – Belgio/Francia 2005
con Jérémie Renier, Déborah François
***

Visto in DVD alla Fogona, con Marisa e Lucia.

Il balordo Bruno e la sua ragazza Sonia hanno appena avuto un figlio. Se la giovane madre lo accudisce con amore, il padre – che vive di furtarelli e di espedienti – non ci pensa due volte a vendere il neonato a un'organizzazione clandestina che si occupa di adozioni illegali, pur di guadagnare qualche soldo. Ma di fronte alla reazione della ragazza capisce di aver fatto una sciocchezza: e per recuperare il bebè si ficcherà in guai sempre più grossi, ma troverà anche la via per la redenzione. Palma d'Oro al Festival di Cannes, è forse il miglior film dei fratelli Dardenne, quello in cui le loro capacità di collocare una vicenda morale e semifiabesca in un realistico setting di periferia urbana, lasciando trasparire lo studio psicologico dei personaggi semplicemente dall'osservazione delle loro azioni, emergono con meno sbavature. Ottima la prova di Jérémie Renier, che dà vita a un personaggio in costante crescita: inizialmente del tutto disinteressato a suo figlio ("Ne faremo un altro", dice con noncuranza a Sonia per giustificare il fatto di averlo venduto) e apparentemente incapace di instaurare con lui un legame affettivo (cosa che forse è legata alla sua stessa situazione famigliare, come ci viene lasciato intendere dalla breve sequenza in cui si reca a casa della propria madre), nel corso della vicenda Bruno cresce e matura, al punto da decidere di "sacrificarsi" (consegnandosi alla polizia) per alleggerire la posizione del ragazzino che aveva coinvolto in un furto, forse anche vedendo in lui quello che un giorno potrebbe essere proprio suo figlio cresciuto. La macchina da presa, sempre mobile, segue il personaggio in lunghe sequenze che coinvolgono lo spettatore a 360 gradi, trasportandolo nel suo mondo e nella sua difficile vita. Arduo non emozionarsi.

Tuta blu (Paul Schrader, 1978)

Tuta blu (Blue Collar)
di Paul Schrader – USA 1978
con Richard Pryor, Harvey Keitel
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Tre operai che lavorano alla catena di montaggio in una fabbrica di automobili di Detroit (Richard Pryor, Harvey Keitel e Yaphet Kotto) sono alle prese con problemi di vario genere, sul lavoro come nella vita. Messi alle strette dalle tasse e dai debiti, sotto la costante pressione dai datori di lavoro e sentendosi tutt'altro che tutelati dai sindacalisti, progettano una rapina notturna proprio nella sede locale del sindacato: ma anziché denaro, nella cassaforte troveranno documenti scottanti che mettono in luce attività illegali, corruzione e legami con il crimine organizzato. Divisi sul come agire (ricattare i rappresentanti sindacali? denunciarli alla polizia, ovvero ai "padroni", rischiando di essere bollati come traditori dagli altri operai? accettare un compromesso, sotto forma di una promozione per mettere tutto a tacere, entrando così a far parte dello stesso meccanismo corrotto?), i tre finiranno per dividersi e scontrarsi l'uno contro l'altro, proprio come uno dei personaggi – riferendosi all'establishment – aveva cinicamente preannunciato: "Mettono i vecchi contro i ragazzi, gli anziani contro i nuovi, i negri contro i bianchi... Fanno qualsiasi cosa per tenerci alla catena". Già sceneggiatore – due anni prima – di "Taxi Driver", Schrader esordisce alla regia con un film intenso e realista, che dietro una trama "gialla" e ricca di momenti di tensione (in particolare la rapina notturna, a malapena stemperata da inserti comici, come le maschere da carnevale che i tre indossano per celare il proprio volto) parla di contraddizioni e ingiustizie sociali: ne risulta uno spaccato esistenzialista che mostra come alla resa dei conti i lavoratori siano lasciati soli a sé stessi, stretti in una morsa senza via di uscita fra le aziende approfittatrici e un sindacato menefreghista e corrotto.

30 agosto 2011

I cattivi dormono in pace (A. Kurosawa, 1960)

I cattivi dormono in pace (Warui yatsu hodo yoku nemuru)
di Akira Kurosawa – Giappone 1960
con Toshiro Mifune, Masayuki Mori
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Visto in DVD alla Fogona, con Marisa e Lucia.

Per vendicarsi dei dirigenti corrotti di una società che cinque anni prima avevano costretto suo padre – un semplice funzionario – a suicidarsi come "capro espiatorio" di uno scandalo, un uomo pronto a tutto (Nishi, interpretato da un Mifune insolitamente compassato) assume una falsa identità, riesce a sposare la figlia del vicepresidente Iwabuchi (la dolce e zoppa Yoshiko) e ne diventa il segretario personale; sfruttando la sua posizione, trama per rivelare al pubblico i segreti della corruzione dei tre dirigenti Iwabuchi, Moriyama e Shirai, portando alla pazzia il terzo (facendogli apparire il "fantasma" di Wada, un altro impiegato che i tre credevano di aver fatto "suicidare", ma che Nishi aveva salvato in extremis) e sequestrando il secondo per costringerlo a rivelare dove sono nascosti i documenti che dimostrano le azioni illegali da loro commesse. Ma Iwabuchi, padre affettuoso in privato e "pescecane" senza scrupoli in pubblico, si rivelerà un osso duro e saprà sfruttare gli affetti a suo vantaggio. Continuando ad alternare film di samurai ad altri di ambientazione contemporanea (ma soltanto i primi, complice la miopia dei distributori, arrivavano nel nostro paese), nel 1960 Kurosawa – per la prima volta produttore di sé stesso – realizza uno spietato atto d'accusa contro la corruzione dei dirigenti pubblici, degli imprenditori e dei politici che stavano gestendo il "boom" economico del Giappone del dopoguerra. L'attacco alla classe dirigente è feroce, e non risparmia nemmeno gli ingranaggi più piccoli (i funzionari minori, come Wada, sono "burocrati nell'anima" e sottomessi ai potenti, pronti a sacrificare persino la propria vita per la salvezza dei loro capi e della loro società: e in questo, tipicamente giapponesi). Il meccanismo narrativo, fondato nella prima parte sulla suspense (fino a metà film si ignora chi sia il misterioso individuo che sta tramando contro i dirigenti), fa sorgere paralleli di tutto rispetto, come quelli con Amleto (la messinscena organizzata da Nishi al proprio banchetto di nozze – con la torta nuziale, che allude al delitto precedente, fatta preparare allo scopo di osservare le reazioni dei tre "assassini" del padre – ricorda la rappresentazione teatrale organizzata a corte dallo stesso Amleto) e il Conte di Montecristo. La pellicola, che a cinquant'anni di distanza risulta tutt'altro che datata e anzi ancora attuale, ha ispirato non poco i mangaka Sho Fumimura e Ryoichi Ikegami nella realizzazione del loro "Sanctuary", incentrato sulla commistione fra politica, economia e malavita.

Le déclic (Jean-Louis Richard, 1985)

Declic - Dentro Florence (Le déclic)
di Jean-Louis Richard – Francia 1985
con Florence Guérin, Jean-Pierre Kalfon
*

Visto in divx alla Fogona.

L'ingegnoso Dottor Fez mette a punto un marchingegno che, tramite la suggestione post-ipnotica, provoca a distanza uno stato di eccitazione sessuale, e lo sperimenta sulla giovane e bella Claudia, fredda e inibita moglie di un losco uomo d'affari, trasformandola in una ninfomane. Tratto dal fumetto "Il gioco" di Milo Manara (che ha collaborato allo storyboard, oltre ad aver fatto da "consulente" per scenografie e costumi: sui titoli di coda ci sono i suoi disegni), di cui sposta l'ambientazione in Louisiana (lo scenario "esotico" è un classico delle pellicole softcore), è un film pruriginoso goffo e senza stile. A parte le grazie della Guérin (che però si conferma incapace di recitare), offre soprattutto svariati momenti di ridicolo involontario, cui non giova certo una colonna sonora fin troppo invadente. Alcune scene sarebbero state girate da Bob Rafelson.

29 agosto 2011

Mother (Bong Joon-ho, 2009)

Mother (Madeo)
di Bong Joon-ho – Corea del Sud 2009
con Kim Hye-ja, Won Bin
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Messa da parte la vena catastrofica e fracassona del sopravvalutato "The host", Bong torna ad atmosfere simili a quelle del suo film migliore, "Memories of murder", sfornando una pellicola che – pur non raggiungendo gli stessi livelli di quella precedente – non lesina allo spettatore spietati colpi di scena e tragici dilemmi morali. L'anziana protagonista, erborista e agopunturista abusiva, vive in una cittadina di campagna insieme al figlio ritardato Do-joon, cui è legatissima. Quando l'ingenuo ragazzo viene arrestato dalla polizia con l'accusa di aver ucciso una liceale, la donna – convinta della sua innocenza – comincia una propria indagine parallela che la porterà a scoprire una tremenda verità. Uscito un anno prima di "Poetry", ne anticipa curiosamente alcuni temi (e trattandosi di film entrambi coreani, chissà se la cosa è casuale): è infatti anch'esso incentrato su una madre alle prese con il dolore di vedere il figlio accusato di un orribile crimine. Ma i toni (e gli intenti) sono ben diversi: se nella pellicola di Lee Chang-dong si esplorano con attenzione e sensibilità le conseguenze di un simile delitto, i sensi di colpa (presenti o assenti) e i legami fra individuo e società, qui si rimane più "semplicemente" dalle parti del thriller, per quanto ricco di intensità. La pellicola parte un po' lentamente, a dire il vero: ma dopo una prima parte moderatamente noiosa comincia a crescere e si fa davvero interessante verso il finale, quando la sceneggiatura ribalta le carte in tavola. Le due scene migliori, comunque, restano probabilmente quelle di apertura e di chiusura, con il ballo della donna tra i campi di spighe e sull'autobus.

28 agosto 2011

La locanda del gabbiano (N. Ogigami, 2006)

La locanda del gabbiano (Kamome shokudo)
di Naoko Ogigami – Giappone 2006
con Satomi Kobayashi, Hairi Katagiri
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa e Monica, in originale con sottotitoli.

La minuta Sachie apre una locanda in Finlandia per servire agli avventori caffè, dolci alla cannella e pietanze giapponesi (pesce alla griglia e onigiri). Dapprima i clienti latitano, e l'unico frequentatore abituale è un timido ragazzo con la passione per gli anime (i cartoni animati nipponici); ma pian piano, grazie anche all'aiuto di altre due "giapponesi in trasferta" – l'emotiva e stravagante Midori e la più formale Masako, che si trasferiscono da lei e le danno una mano in cucina – la locanda arriva a riempirsi, superando la diffidenza e il sospetto dei compassati finlandesi. Un "piccolo" film sull'amicizia e il cibo, incentrato su tre donne sole che si ritrovano – per motivi casuali o bizzarri (come l'aver puntato a caso il dito su un atlante) – sperse e isolate in un paese lontano (lost in translation), e che punta le sue carte sulla strana commistione fra Giappone e Finlandia; commistione, comunque, che è meno insolita di quanto possa sembrare, come dimostra lo stile minimalista della pellicola, caratterizzato da un umorismo surreale, sottile e rarefatto che, pur essendo tipicamente giapponese, ricorda anche le pellicole di Aki Kaurismäki. Non a caso le parole che Masako usa per descrivere i finlandesi, "gente che prende seriamente cose così stupide", e che "sembrano tutti così calmi e pacifici, liberi dai legami con il mondo", potrebbero adattarsi anche a certi abitanti del paese del Sol Levante. Il cast è prevalentemente femminile: attorno alla protagonista Satomi Kobayashi spiccano, per simpatia, i volti di Hairi Katagiri (dalle fattezze e dalle espressioni impareggiabili, a tratti sembra un Kitano al femminile) e di Masako Motai. Ma ci sono anche attori kaurismäkiani come Markku Peltola.