31 dicembre 2010

Bonjour tristesse (O. Preminger, 1958)

Bonjour tristesse (id.)
di Otto Preminger – USA 1958
con Jean Seberg, David Niven
**1/2

Visto in DVD.

Dal romanzo giovanile di Françoise Sagan, bestseller-sensazione dell'epoca, Preminger realizza un buon adattamento hollywoodiano che vanta le sue carte migliori nella prova degli interpreti principali e nei magnifici scenari della Riviera francese, ma che forse fatica a coinvolgere appieno lo spettatore nel dramma esistenziale di personaggi tanto egocentrici quanto superficiali. La ricca e viziata diciassettenne parigina Cecile (Jean Seberg, al suo secondo film e nel ruolo che ha fatto innamorare i critici e i registi della Nouvelle Vague) sta trascorrendo un'estate al mare sulla Costa Azzurra, all'insegna del divertimento e della spensieratezza, in compagnia dell'adorato padre Raymond (David Niven), vedovo e dongiovanni, e della più recente fiamma di quest'ultimo, la vacua bionda Elsa (Mylène Demongeot). Ma quando Raymond invita la stilista di moda Anne (Deborah Kerr), una vecchia amica di famiglia, a trascorrere qualche giorno con loro, le cose cambiano: l'uomo si innamora di Anne e le chiede di sposarlo. Preoccupata per i cambiamenti che la donna porterebbe nella loro vita, Cecile complotta per separare i due e impedirne il matrimonio; ma il successo del suo piano condurrà a una tragedia inaspettatata e al rimorso che segnerà il resto delle loro edonistiche esistenze. Strutturato in una narrazione a flashback (le scene nel presente sono in bianco e nero, quelle nel passato a colori: notevole il contrasto fra la grigia Parigi, simbolo di una tristezza ormai consolidata, e l'azzurro mare dei ricordi, quando la tragedia era ancora di là da venire) che mette sempre e comunque il punto di vista di Cecile al centro dell'attenzione, il film racconta la storia di un complesso di Edipo al femminile: la complicità fra padre e figlia finisce con l'escludere dalla loro vita qualsiasi possibilità di crescita e di cambiamento. Da segnalare le brevi comparsate di Juliette Gréco (la cantante nel cabaret) e Walter Chiari (il "sudamericano" Pablo).

29 dicembre 2010

Bad guy (Kim Ki-duk, 2001)

Bad guy (Nabbeun namja)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2001
con Cho Jae-hyun, Seo Won
***1/2

Rivisto in DVD.

Umiliato in pubblico dalla studentessa Sun-hwa, una ragazza pudica e "perbene" che aveva cercato di baciare contro la sua volontà, il taciturno delinquente Han-gi si vendica incastrando la ragazza in una spirale di debiti con la malavita e costringendola a diventare una prostituta. Obbligata a vendere il proprio corpo in una squallida casa del distretto a luci rosse di Seul, dove è sorvegliata a vista da Han-gi e dai suoi due giovani sottoposti, Sun-hwa finirà con lo sviluppare una relazione d'amore e d'odio con il suo aguzzino. E alla fine, nessuno dei due saprà più fare a meno dell'altro. Uno dei film più feroci, crudeli e controversi di Kim Ki-duk, al pari de "L'isola" (e non è un caso se, insieme a quello, è probabilmente anche il suo lavoro migliore), "Bad guy" recupera numerosi temi già affrontati dal regista coreano nei suoi lungometraggi precedenti, per esempio in "Crocodile" o "The birdcage inn": il rapporto sadomasochistico fra uomo e donna, l'amore per l'arte (Sun-hwa è affascinata dai nudi di Egon Schiele), la dolcezza che si nasconde nella violenza, la sopraffazione che dà origine alla dipendenza, e naturalmente – ma questo è un tema universale nel cinema dell'estremo oriente – la difficoltà nel comunicare (nel finale Han-gi rivela la ragione del suo mutismo: la cicatrice sulla gola gli ha lasciato una voce stridula, acutissima, sofferta, che collide comicamente e dolorosamente con il suo aspetto da duro). A questi aggiunge un sordido ma simpatetico ritratto del sottobosco criminale che opera ai margini del mondo della prostituzione: Han-gi e i suoi due complici sono legati da rapporti di solidarietà, di amicizia, di sacrificio ma anche di feroce rivalità. Se Sun-hwa viene esposta in vetrina come una vera e propria "merce", un altro vetro la divide da Han-gi: quest'ultimo, infatti, spia la ragazza mentre fa l'amore con i propri clienti attraverso il finto specchio nella sua stanza, come in una sorta di peep show privato, lasciandosi conquistare sempre più da lei. Scopriremo solo in seguito (attraverso le foto fatte a pezzi e sepolte nella sabbia che Sun-hwa ritrova e incolla sullo specchio della sua stanza: puzzle cui manca il tassello fondamentale, quello con i volti) che la ragazza è una copia esatta della donna che Han-gi aveva precedentemente amato e che forse è morta suicida (in una delle scene più belle del film, quasi onirica, rivediamo proprio questa ragazza materializzarsi a fianco dei protagonisti, come una sorta di fantasma, per offrire un conforto a Sun-hwa e infine immergersi nuovamente nell'oceano, come probabilmente aveva fatto la prima volta). Ferocemente attaccato da una parte della critica, soprattutto femminista, che vi ha visto un'apologia della violenza e dell'umiliazione della donna, in realtà "Bad guy" racconta la storia di un amore estremo perché consente ai personaggi, disperatamente, di ritrovare l'altro guardando dentro di sé. In più è girato e interpretato splendidamente, con una cura per l'immagine (magnifica la fotografia notturna, quasi scorsesiana, così come la scelta dei colori di scenografie e abiti) e per il sonoro (da segnalare una bella canzone in italiano che si sente per ben due volte, la prima proprio nella suddetta scena onirica: "I tuoi fiori" di Etta Scollo) di incisiva bellezza.

28 dicembre 2010

Love letter (Shunji Iwai, 1995)

Love letter
di Shunji Iwai – Giappone 1995
con Miho Nakayama, Miki Sakai
***

Visto in divx, con Hiromi, in originale con sottotitoli.

Due anni dopo la morte del suo promesso sposo durante una scalata in montagna, Hiroko trova nell'annuario scolastico il suo indirizzo ai tempi della scuola media, quando il ragazzo abitava in una cittadina dell'Hokkaido (nell'estremo nord del Giappone), e decide impulsivamente di scrivergli una lettera. Sorprendentemente, riceve una risposta. Presto capirà che ha trascritto l'indirizzo sbagliato, e che nella stessa classe c'era una ragazza con il medesimo nome e cognome, Itsuki Fujii (il nome Itsuki può essere sia maschile che femminile). La corrispondenza fra le due donne (che fra l'altro si assomigliano come due gocce d'acqua, e infatti sono interpretate dalla stessa attrice) si protrae a lungo, con Itsuki che recupera – a beneficio di Hiroko – tutti i ricordi del periodo scolastico trascorso insieme al suo omonimo. I piccoli dettagli che lentamente emergono faranno comprendere a entrambe che il ragazzo era innamorato proprio della compagna e che non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo. Il primo lungometraggio di Iwai è un film delicato e toccante, girato quasi esclusivamente nella cittadina di Otaru (persino le scene ambientate a Kobe, dove vive Hiroko, sono state girate in realtà in Hokkaido) e dunque caratterizzato da paesaggi freddi, innevati e invernali, con un'insolita e triplice relazione a distanza: i tre personaggi sono uniti dai sentimenti e dalle circostanze ma tenuti a distanza dal tempo (i due Itsuki: lei scopre che lui la amava solo dopo dieci anni), dallo spazio (Hiroko e Itsuki ragazza, che vivono in città separate e comunicano solo tramite lettere) e dalla morte (Hiroko e Itsuki ragazzo: emblemantica la scena in cui la donna saluta definitivamente il fidanzato, gridando verso la montagna dove lui è scomparso). Proprio questa "distanza" (l'amore è ideale e platonico, mai fisico) dona alla pellicola – che si fa giusto un po' prevedibile nella seconda parte – un feeling particolare, estremamente giapponese così come i temi dei sentimenti mai espressi, della caducità della vita, dell'accettazione del proprio destino e dal saper andare oltre, ma anche l'importanza dei ricordi e come gli eventi assumino un aspetto diverso a distanza di tempo (non a caso viene esplicitamente citato Marcel Proust: è grazie a una copia de "La recherche" che i veri sentimenti di Itsuki vengono a galla). La brava attrice protagonista (che, come detto, interpreta entrambi i ruoli principali, sia quello della malinconica Hiroko che quello della vivace e perennemente raffreddata Itsuki) è la cantante Miho Nakayama, mentre Miki Sakai, al suo debutto, è Itsuki da studentessa nei numerosi flashback. Il direttore della fotografia è Noboru Shinoda, in seguito collaboratore fisso di Iwai.

27 dicembre 2010

Il diabolico dottor Satana (J. Franco, 1962)

Il diabolico dottor Satana (Gritos en la noche)
di Jess Franco – Spagna/Francia 1962
con Howard Vernon, Julie Hamilton
**

Visto in DVD, con Martin.

Il folle dottor Orloff, medico carcerario ora a riposo, rapisce e uccide ragazze con l'aiuto del suo servo Morfo, un condannato a morte da lui riportato in vita, allo scopo di procurarsi lembi di pelle da trapiantare alla figlia Melissa nel tentativo di restituirle la bellezza dopo che il suo volto è rimasto sfigurato. Su di lui indaga l'ispettore Turner, che ne scoverà il nascondiglio grazie anche alla collaborazione della propria fidanzata, la prosperosa ballerina Tania. Noto anche con il titolo inglese "The Awful Dr. Orlof", è stato uno dei primi film di Franco a ricevere considerazione e notorietà, dando praticamente il via al cinema horror spagnolo. Ispirandosi al classico "Occhi senza volto" di Georges Franju, il regista realizza un thriller gotico che, se non brilla per originalità dal lato della sceneggiatura (i temi sono quelli classici del genere), può vantare una certa qualità surrealista nelle immagini, grazie alla fotografia in bianco e nero, alle atmosfere che ricordano Mario Bava e al montaggio concitato di alcune sequenze (come quella iniziale in cui Morfo rapisce una delle sue vittime, che sembra rifarsi addirittura a "Il gabinetto del dottor Caligari"). Nell'edizione italiana, i nomi del regista e del protagonista sono alterati: Jess Franco diventa Walter Alexander e Howard Vernon è accreditato come John Sullivan. Anche se alla fine del film Orloff muore, il perfido dottore tornerà in diverse altre pellicole dirette da Franco negli anni successivi. E nel 1976 il regista ne realizzerà praticamente un remake, trasformando il protagonista in Jack lo squartatore ("Erotico profondo", con Klaus Kinski).

23 dicembre 2010

Desiderio del cuore (Carl T. Dreyer, 1924)

Desiderio del cuore (Michael)
di Carl Theodor Dreyer – Germania 1924
con Walter Slezak, Benjamin Christensen
***

Visto in DVD.

L'aspirante artista Michael, giovane di bell'aspetto, è il modello prediletto dell'affermato pittore Claude Zoret (personaggio ispirato, secondo i commentatori dell'epoca, allo scultore Auguste Rodin), che lo vorrebbe – oltre che come assistente – anche come figlio adottivo. Ma il rapporto fra i due, già incrinato dal crescente bisogno di indipendenza di Michael (che peraltro non si fa problemi a ricorrere alla ricchezza e ai regali del maestro ogni volta che ne ha bisogno), viene messo a dura prova dall'intromissione della principessa Zamirow, nobildonna in esilio di cui Michael si invaghisce a prima vista. Sceneggiato da Dreyer insieme a Thea von Harbou (sì, proprio la moglie e collaboratrice di Fritz Lang), il film mescola vita, arte, amore, morte, ricchezza e talento attraverso le parabole incrociate dei due protagonisti: Zoret, pur ammirato da tutti, è in declino sia artistico sia fisico, mentre il giovane Michael è l'allievo che sta per sorpassare il maestro (e affrancarsi da lui). Evidente il sottotesto omossessuale del rapporto fra i due personaggi, anche se naturalmente – vista l'epoca – non viene esplicitato: basta comunque per classificare il lungometraggio come una delle prime importanti pellicole a tematica gay nella storia del cinema. Alla vicenda principale si intreccia la storia parallela del Duca di Monthieu, che si innamora di una donna sposata e va fatalisticamente incontro alla morte in un duello per mano del marito di lei. Il "motto" che apre la pellicola ("Ora posso morire in pace, perché ho vissuto un grande amore") sembra riferirsi a entrambe le sottotrame. Esemplare la fotografia di Karl Freund (che interpreta anche una piccola parte, quella del mercante d'arte), caratterizzata da un'eccezionale profondità di campo, e splendide le sontuose scenografie della villa di Zoret. Insolita, invece, la sequenza in cui Michael e la principessa si recano a teatro ad assistere al balletto de "Il lago dei cigni", di cui vediamo i movimenti ma (ovviamente, essendo un film muto) non sentiamo la musica. Fra gli attori brilla soprattutto Christensen (che era a sua volta un regista danese, come Dreyer) nei panni del maestro Zoret. Slezak (Michael), a inizio carriera, diventerà famoso solo negli anni quaranta, specializzandosi in ruoli da "cattivo" come in "Prigionieri dell'oceano" di Hitchcock.

22 dicembre 2010

I lunghi giorni della vendetta (F. Vancini, 1967)

I lunghi giorni della vendetta, aka Faccia d'angelo
di Florestano Vancini – Italia/Spagna 1967
con Giuliano Gemma, Francisco Rabal
**

Visto in TV.

Condannato ingiustamente a trent'anni di lavori forzati per un omicidio che non ha commesso, Ted Garnett evade per vendicarsi di coloro che lo hanno incastrato e hanno ucciso suo padre: il potente fazendero Cobb e il corrotto sceriffo Douglas, in combutta per spadroneggiare nella città di Kartown e commerciare illegalmente in armi con i ribelli messicani oltre il confine. Con l'aiuto della sua ex amante (Nieves Navarro) e di un medico-ciarlatano in viaggio con la nipote, riuscirà a dimostrare la propria innocenza e a far fuori l'intera banda. Ispirato evidentemente a "Il conte di Montecristo", l'unico western del regista Florestano Vancini (che si firma con lo pseudonimo di Stan Vance) gode di un certo riscontro fra gli appassionati del genere: addirittura Quentin Tarantino (che ha inserito un brano della colonna sonora di Armando Trovajoli all'interno di "Kill Bill vol. 1") lo considera uno dei migliori spaghetti western di tutti i tempi. La sceneggiatura di Fernando Di Leo (anche aiuto regista) e di Augusto Carminito non risparmia situazioni tese e violente: su tutte, oltre alla lunga sparatoria finale, la scena in cui Garnett si lascia pericolosamente radere la barba da un membro della gang nemica o quella in cui la sua impiccagione viene interrotta all'ultimo momento dall'arrivo del giudice che lo scagiona. Il personaggio di Gemma è sfaccettato, anche troppo: a volte è un astuto calcolatore, altre un atletico sbruffone (non manca nemmeno una scazzottata nel saloon, in stile "Trinità"). Buona comunque la regia e in generale la qualità visiva della pellicola.

21 dicembre 2010

L'inglese che salì la collina... (C. Monger, 1995)

L'inglese che salì la collina e scese da una montagna (The Englishman Who Went Up a Hill But Came Down a Mountain)
di Christopher Monger – GB 1995
con Hugh Grant, Colm Meaney
**1/2

Visto in TV, con Hiromi.

Siamo nel 1917: quando due cartografi inglesi (Ian McNeice e Hugh Grant) giungono nel villaggio gallese di Ffynnon Garw per misurare l'altezza della vicina altura – di cui tutti gli abitanti sono orgogliosi a tal punto da chiamarla "la prima montagna del Galles" – e giungono alla conclusione che non si tratta di una montagna bensì di una collina, in quanto non raggiunge (seppur di pochissimo) la quota di mille piedi necessaria a essere classificata come tale, l'intera popolazione del villaggio si mobilita: guidati dall'anziano parroco e soprattutto dal proprietario del pub locale, Morgan "il montone" (un simpaticissimo Colm Meaney), gli abitanti cercano in ogni modo di impedire la partenza dei due inglesi dal paese mentre, a loro insaputa, una grande quantità di terra viene trasportata e ammucchiata in cima alla "collina", in modo da incrementarne l'altezza fino alla quota fatidica. Nel contempo, il più giovane dei due inglesi – il più propenso a lasciarsi conquistare dal fascino della vita rurale – troverà anche l'amore in una spigliata cameriera (Tara Fitzgerald). Da un soggetto quasi barksiano (ricorda vagamente "Zio Paperone e la disfida dei dollari"), peraltro ispirato a una storia vera (l'intera vicenda è raccontata in flashback da un nonno al nipotino, e nel finale vediamo i discendenti attuali degli abitanti del villaggio che ne ripetono l'impresa), Monger realizza un filmetto gradevole che si iscrive nel filone di quelle commedie britanniche corali basate su piccole comunità ed elaborati inganni a fin di bene (come "Svegliati Ned" o "L'erba di Grace"). La pellicola è sostenuta da una sola idea, ma la buona ambientazione e il discreto cast di contorno riescono a tener desta l'attenzione fino in fondo.

20 dicembre 2010

La signora di Shanghai (O. Welles, 1947)

La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai)
di Orson Welles – USA 1947
con Orson Welles, Rita Hayworth
***

Rivisto in DVD.

Il marinaio irlandese Michael O'Hara (Welles), avventuriero con un passato di combattente durante la guerra civile in Spagna, viene assoldato dal ricco avvocato Arthur Bannister (Everett Sloane) e da sua moglie Elsa (Hayworth) per condurre il loro yacht di lusso in una crociera lungo la costa messicana. Nel corso del viaggio si lascia conquistare dal pericoloso fascino della donna e cerca di non farsi coinvolgere dagli ambigui giochi di potere fra Bannister e il suo socio Grisby. Quest'ultimo, giunti a San Francisco, gli offrirà cinquemila dollari se lo aiuterà a simulare il proprio suicidio: ma quando Grisby viene ucciso veramente, Michael si ritroverà accusato di assassinio. "Vi sono degli uomini che intuiscono il pericolo. Io no": il protagonista si presenta così, iscrivendosi spontaneamente nella categoria dei tipici protagonisti dei film noir che si lasciano irretire dalla bellezza di una donna o dal fascino della ricchezza, finendo col farsi trascinare in un mondo torbido e autodistruttivo come quello dei coniugi Bannister (esemplare, al riguardo, la metafora degli squali che si azzannano a vicenda). Memorabile la caratterizzazione dei personaggi: l'avvocato è ambiguo, arrivista, disabile (cammina con le stampelle), mentre che il passato della signora Bannister non sia propriamente limpido viene subito lasciato intuire da alcuni frammenti di dialogo (oltre che dal titolo), che rivelano come abbia lavorato come "intrattenitrice" a Shanghai e nel sud-est asiatico. È l'ultimo film girato da Welles all'interno dei grandi studi hollywoodiani (fu costretto a realizzarlo, a partire da un libro che non aveva nemmeno letto, per ripagare un produttore che aveva finanziato un suo spettacolo teatrale). Il plot è un po' contorto e il protagonista è descritto in maniera piuttosto schematica, ma la regia colma di inventiva, le location visivamente splendide e la grandiosa fotografia in bianco e nero (ufficialmente di Charles Lawton, ma ci ha lavorato – senza accredito – Rudolph Matè) donano alla pellicola un fascino del tutto particolare, in grado di far dimenticare i difetti della sceneggiatura. Davvero magistrale, in ogni caso, la surreale sequenza finale nel labirinto di specchi del luna park, ricca di riflessi e sovrimpressioni dei volti e dei corpi dei tre personaggi. Welles riserva numerosi e bellissimi primi piani alla Hayworth, a quei tempi sua moglie (e alla quale aveva imposto, fra le polemiche, di tagliarsi i lunghi capelli rossi e di tingersi di biondo).

18 dicembre 2010

Hollywood Party (Blake Edwards, 1968)

Hollywood Party (The Party)
di Blake Edwards – USA 1968
con Peter Sellers, Claudine Longet
***1/2

Rivisto in DVD, con Marisa.

Qualche giorno fa è scomparso Blake Edwards, re della commedia brillante e irriverente: per ricordarlo mi sono rivisto un suo esilarante classico, una delle numerose collaborazioni con il grande Peter Sellers (da lui lanciato anche nella serie della "Pantera Rosa").

Invitato per errore a un party organizzato nella propria villa hollywoodiana dallo stesso produttore del costosissimo film (una sorta di remake di "Gunga Din") le cui riprese ha appena mandato all'aria con la sua dabbenaggine, l'imbranato attore di origine indiana Hrundi V. Bakshi provocherà disastri a non finire anche nel corso della serata, seminando caos e distruzione nella lussuosa casa e fra gli ospiti. Il personaggio si iscrive nel classico filone comico degli elementi involontariamente perturbatori della quiete all'interno di un establishment più o meno serioso (come sarà anche l'ispettore Closeau interpretato dallo stesso Sellers o, in tempi più recenti, Mr. Bean). Ma attenzione: l'inaccorto Bakshi non è semplicemente una causa di guai che nascono dal nulla, semmai catalizza e innesca quei germi della distruzione che sono già presenti negli ambienti che visita, proprio come faceva Monsieur Hulot (con i film di Jacques Tati ci sono moltissime cose in comune). La villa dove si svolge la festa, infatti, non è certo un luogo perfetto (molti arredi sono malfunzionanti di per sé, senza alcun bisogno dell'intervento di Bakshi), così come non lo sono i suoi proprietari ("La sua signora è caduta nella piscina!" – "Salvate i gioielli!"), la servitù (spicca, su tutti, il cameriere che si ubriaca bevendo i drink che dovrebbe servire agli ospiti) e gli stessi invitati (compresa la figlia dei padroni di casa, che a un certo punto irrompe al party con i suoi giovani amici "contestatori" – siamo nel 1968! – e un elefantino dipinto con slogan e simboli hippie). Gran parte della comicità deriva dallo sviluppo lentissimo ed estenuante delle gag (proprio la lentezza del ritmo può rendere forse il film poco appealing per chi è abituato alla comicità odierna, dai tempi ben più rapidi). Il ridicolo nasce infatti dall'esasperato accumularsi del tempo necessario a concludere una situazione: tre celebri esempi sono dati dalla scena iniziale in cui Bakshi, sul set del film, rifiuta di morire e continua a suonare (sempre peggio) la sua tromba; da quella dove cerca disperatamente di trattenere la pipì mentre la graziosa Claudine Longet canta un'interminabile e melliflua canzone ("Nothing to lose"); e dalla magistrale sequenza della carta igienica nel bagno che non finisce più di srotolarsi. Il film stesso non è che una lunga serie di esilaranti gag e di sketch che si succedono senza soluzione di continuità, spesso con un notevole grado di improvvisazione (Edwards ha dichiarato che si è trattato della sceneggiatura più breve su cui ha mai lavorato), fino alle estreme conseguenze. Tornando al parallelo con Jacques Tati, è indubbio come i lavori del comico francese (soprattutto "Mio zio" e "Play time") siano stati una costante fonte di ispirazione per la pellicola: lo ricordano la struttura narrativa (un elemento "puro" che si introduce in un ambiente fasullo e chiuso in sé stesso); la commistione di linguaggi e di nazionalità dei vari personaggi; l'interazione surreale e comica (ma con tempi calcolatissimi) con i vari arredi e oggetti; la satira contro le "comodità" moderne e tecnologiche, qui evidente nelle gag con la pulsantiera elettronica che controlla il mobilio e i pavimenti mobili; la confusione che monta in un crescendo irresistibile; per non parlare del personaggio femminile "innocente", la graziosa ragazza francese di cui alla fine Bakshi conquista la simpatia. E anche la bizzarra automobile con cui il protagonista arriva alla festa ricorda quella de "Le vacanze di Monsieur Hulot".

16 dicembre 2010

Ti amerò sempre (P. Claudel, 2008)

Ti amerò sempre (Il y a longtemps que je t'aime)
di Philippe Claudel – Francia/Germania 2008
con Kristin Scott Thomas, Elsa Zylberstein
*1/2

Visto in DVD.

Dopo quindici anni trascorsi in prigione per aver ucciso il figlio di sei anni ed essere stata ripudiata dal marito e dai genitori, l'ex medico Juliette viene accolta e ospitata dalla sorella minore Léa, sposata e madre di due bambine adottive. Il reinserimento in famiglia, nel mondo del lavoro e nella vita sarà lento e difficile, anche perché la donna frappone un gelido scudo fra sé e il resto del mondo. Soltanto alla fine la sorella scoprirà che il suo era stato un atto d'amore, visto che il figlio – all'insaputa di tutti – era condannato da un male doloroso e incurabile. Un nucleo narrativo implausibile e melodrammatico caratterizza un film pretenzioso e fasullo, privo di "trasparenza", che centellina le informazioni e i colpi di scena a esclusivo beneficio dello spettatore (più volte sembra che i personaggi, anziché parlare fra loro, recitino davanti a un pubblico). Claudel, scrittore al suo debutto come regista, vorrebbe rifarsi a Rohmer (citato esplicitamente, così come Kurosawa e Lubitsch) ma si rivela incapace di replicarne il naturalismo e la leggerezza, affidandosi invece a dialoghi scontati e ricattatori. La cosa migliore è senza dubbio l'interpretazione di Kristin Scott Thomas, peraltro svilita da un brutto doppiaggio italiano che, non contento di appiattire le performance degli attori, uniforma le diverse lingue (francese e inglese) parlate da alcuni personaggi, come la madre.

15 dicembre 2010

Erotico profondo (J. Franco, 1976)

Erotico profondo (Jack the Ripper)
di Jess Franco – Germania/Svizzera 1976
con Klaus Kinski, Josephine Chaplin
*1/2

Visto in DVD, con Martin.

Uno svogliato Klaus Kinski interpreta Jack lo squartatore in un film deludente, che si trascina senza offrire particolari sorprese allo spettatore (e mantenendo molto meno di quanto prometteva il fuorviante titolo italiano: giusto un paio di nudi fugaci e qualche grossolano tocco di gore). Il misterioso assassino che semina il panico fra le prostitute nella Londra di fine Ottocento è in realtà un medico rispettato e stimato, che di notte rapisce e mutila le donne per poi gettarne i pezzi nelle acque del fiume con la complicità della custode del giardino botanico. Nonostante gli indizi forniti da alcuni testimoni (fra cui un vecchio cieco dagli istinti molto sviluppati), Scotland Yard brancola nel buio: ma un giovane detective riuscirà a risolvere l'enigma grazie all'aiuto della propria compagna, una ballerina che pur di adescare l'assassino corre il rischio di diventare la sua prossima vittima. Luoghi comuni, scenari approssimativi e personaggi senza spessore: gli istinti omicidi del protagonista sono spiegati, un po' superficialmente, attraverso l'odio nutrito nei confronti della madre (interpretata – nella sequenza del sogno – dalla stessa attrice che recita nel ruolo della fidanzata dell'ispettore), che era stata a sua volta una prostituta. Risibile la ricostruzione d'epoca, che per rendere l'atmosfera si affida unicamente a strade invase dalla nebbia e a una fotografia scura e avvolgente. Il film è praticamente un remake a colori di una precedente e più riuscita pellicola in bianco e nero di Franco, "Il diabolico dottor Satana".

13 dicembre 2010

Hana & Alice (Shunji Iwai, 2004)

Hana & Alice (Hana to Arisu)
di Shunji Iwai – Giappone 2004
con Anne Suzuki, Yu Aoi
**1/2

Visto in divx, con Hiromi, in originale con sottotitoli.

Hana e Alice sono due amiche inseparabili, appena passate dalle scuole medie alle superiori. Innamorata di Masashi, un suo distratto compagno di classe, Hana gli fa credere – approfittando del fatto che ha sbattuto la testa – che soffre di amnesia e che dunque non ricorda più di essere il suo ragazzo. Ben presto, per rendere credibile l'inganno, è costretta a coinvolgere anche l'amica Alice, che deve "recitare" la parte dell'ex fidanzata di un sempre più confuso Masashi. Ma questi scoprirà di sentirsi più attratto proprio da Alice, dando vita a un insolito triangolo che metterà a dura prova l'amicizia fra le due ragazze. Come il precedente lavoro di Iwai, "All about Lily Chou-Chou", si tratta di un film dalla genesi bizzarra: nasce infatti da una serie di cortometraggi pubblicitari girati (in digitale) per il trentesimo anniversario della presenza di Kit Kat in Giappone (e questo spiega il product placement del popolare wafer al cioccolato, nonché la struttura episodica e frammentaria della narrazione), poi sviluppati dal regista – autore anche della colonna sonora – fino alle dimensioni di un lungometraggio, con risultati più che buoni: dai toni prettamente adolescenziali, il film è sicuramente più leggero e disimpegnato di altri suoi lavori, tutto basato com'è su amori scolastici, problemi familiari, aspirazioni e passioni di vario genere (sia Hana sia Alice frequentano una scuola di balletto; Alice viene "scoperta" da un talent scout e si sottopone a una serie di provini fotografici e pubblicitari; Hana – per amore di Masashi – si iscrive al circolo di recitazione della scuola e partecipa al festival studentesco), con personaggi delicati, spontanei, goffi, vivaci, timidi, mentitori, dotati di pregi e di difetti. Un film, insomma, che scorre con leggerezza e lascia di buonumore. Simpatiche e carine le due giovani protagoniste: Yu Aoi (Alice) aveva debuttato proprio in "All about Lily Chou-Chou" e nel finale si esibisce in una lunga sequenza di balletto; Anne Suzuki (Hana) si è vista in "Initial D" e in "Kantoku banzai" di Kitano.

12 dicembre 2010

Meltdown 2 (Allun Lam, 1998)

Meltdown 2, aka The black sheep affair (Bi xie lan tian)
di Allun Lam – Hong Kong 1998
con Zhao Wen Zhuo, Shu Qi
*

Visto in DVD.

Un patriottico soldato dell'esercito cinese, eroico ma refrattario agli ordini e incline a mettersi nei guai, viene trasferito all'ambasciata di Lavernia, paese europeo (fittizio, la pellicola è stata girata in Ungheria) che faceva parte dell'Unione Sovietica. Qui ritroverà un vecchio amico e la sua ex ragazza, che era fuggita dalla Cina dopo le rivolte di piazza Tien An Men, ma dovrà anche vedersela con un pericoloso terrorista giapponese a capo di una setta di fanatici. Nonostante il titolo (negli Stati Uniti è noto anche come "Another Meltdown"), il film non c'entra nulla con il precedente "Meltdown" (alias "High Risk") che vedeva Jet Li come protagonista, benché la presenza del suo look-alike Zhao Wen Zhuo (ovvero Vincent Zhao, che già aveva sostituito il buon Jet nel quarto e nel quinto episodio della saga di "Once upon a time in China") potrebbe trarre in inganno uno spettatore distratto. In ogni caso non si tratta d'altro che di un noioso e improbabile action movie come tanti, reso ancora più insopportabile dai tocchi di propaganda nazionalista e – nella versione italiana – da un doppiaggio fiacco e dilettantesco, forse il peggiore che io abbia mai sentito in un film distribuito nei circuiti ufficiali (il livello è talmente basso e gli accenti dei doppiatori così evidenti da far sorgere persino il dubbio che si tratti di una parodia o di una volontaria presa in giro nei confronti dello spettatore). A salvare il tutto non bastano le coreografie di Ching Siu-tung nelle scene d'azione e la bellezza di Shu Qi, che restano comunque gli unici due motivi per vedere il film fino alla fine.

11 dicembre 2010

I love Radio Rock (R. Curtis, 2009)

I love Radio Rock (The Boat That Rocked, aka Pirate Radio)
di Richard Curtis – GB 2009
con Tom Sturridge, Philip Seymour Hoffman
**

Visto in DVD, con Giovanni e Rachele.

Negli anni sessanta, numerose radio "pirata" trasmettevano illegalmente musica pop e rock da navi in disuso o ancorate nelle acque internazionali al largo della costa della Gran Bretagna, sfidando il monopolio delle emittenti di stato e i divieti del governo inglese. Il film racconta la storia di una di queste, Radio Rock, ispirata alla "vera" Radio Caroline. Il diciottenne Carl (Tom Sturridge), espulso da scuola, vi giunge a bordo perché la madre vuole che trascorra un po' di tempo in compagnia del patrigno Quentin (Bill Nighy), l'eccentrico direttore dell'emittente. Qui conosce tutta una serie di bizzarri personaggi che si alternano ai microfoni della radio in qualità di DJ nel corso dell'intera giornata, fra i quali spiccano l'americano "il Conte" (Philip Seymour Hoffman), l'estroverso "dottor Dave" (Nick Frost), il popolarissimo Gavin (Rhys Ifans) e il sempliciotto Simon (Chris O'Dowd). In un'atmosfera spensierata e liberatoria, all'insegna del trinomio sesso, droga e rock'n'roll, il ragazzo vivrà anche le sue prime esperienze sentimentali e conoscerà il suo vero padre. Farsesco, musicale, colorato e leggero, il film è un tuffo nelle atmosfere disimpegnate e lisergiche del rock anni sessanta: ma alla resa dei conti la sceneggiatura manca di spessore, i personaggi non sono altro che macchiette (molto superficiali, in particolare, quelli femminili) e la pellicola si limita a mettere in successione una serie di episodi nello stile corale e goliardico dell'Altman di "MASH" e di "Nashville": è un film più nostalgico che significativo. Nel ricco cast, anche Kenneth Branagh (il ministro che cerca in ogni modo di far chiudere la radio) ed Emma Thompson (la madre di Carl).

9 dicembre 2010

Giungla d'asfalto (J. Huston, 1950)

Giungla d'asfalto (The asphalt jungle)
di John Huston – USA 1950
con Sterling Hayden, Sam Jaffe
***1/2

Rivisto al cinema Greenwich Village di Torino, con Giovanni, Rachele ed Eleonora, in originale con sottotitoli (Torino Film Festival).

Appena uscito di galera, il genio del crimine "Doc" Riedenschneider (Sam Jaffe) organizza con un pugno di complici un audace colpo notturno a una gioielleria. Vi partecipa anche un delinquente di basso calibro, Dix Handley (Sterling Hayden), che si guadagna da vivere con piccoli furtarelli e che ha bisogno di denaro per riacquistare la fattoria appartenuta ai genitori e perduta durante la Grande Depressione. Il colpo, progettato scientificamente, sembra riuscire: ma gli scherzi del destino (un proiettile partito accidentalmente dalla pistola di una guardia uccide un membro della banda) e l'avidità del finanziatore della rapina, l'avvocato Emmerich (Louis Calhern), che vorrebbe tenersi il bottino tutto per sé, mandano il gruppo alla rovina. Gravemente ferito e braccato dalla polizia, Dix – accompagnato dalla donna che lo ama, Doll (Jean Hagen) – sceglie di andare a morire nella fattoria di famiglia, in mezzo ai puledri selvaggi, in un memorabile finale. Caposaldo del genere noir, la pellicola inaugura il filone degli heist movie anticipando titoli come "Rapina a mano armata" di Kubrick o "Rififi" di Jules Dassin (che gli è molto debitore), ma soprattutto è uno dei primi film polizieschi a mostrare con simpatia il sottobosco criminale, raccontando la vicenda dal punto di vista dei "cattivi" e mostrando pregi e difetti di ciascuno di essi con un approccio quasi naturalistico. La sua forza risiede infatti nel ritratto vivo ed efficace dei numerosi personaggi della vicenda, da quelli principali a quelli minori: il geniale e flemmatico "Doc", di origine tedesca, attento a ogni dettaglio ma con un debole per le giovani ragazze che lo perderà; il "traditore" Emmerich, che si barcamena fra problemi finanziari e una giovane amante (Marilyn Monroe, al suo primo ruolo serio, ancora acerba ma già splendente di luce propria); il barista gobbo Gus Minissi (James Whitmore), fedele amico di Dix che partecipa al colpo come autista; l'esperto scassinatore Louie Ciavelli (Anthony Caruso), che deve sfamare una famiglia fin troppo numerosa; il tenente di polizia Ditrich (Barry Kelley), corrotto e avido; l'emotivo Cobby (Marc Lawrence), che gestisce una sala di scommesse clandestine; il commissario Hardy, che si prodiga a estirpare le "mele marce" dalle forze dell'ordine; l'ardito detective privato Bob Brannon (Brad Dexter), che affianca Emmerich nel tentativo di ingannare i complici della rapina; Doll, ballerina sfortunata e innamorata (senza speranza) di Dix; e naturalmente lo stesso Dix, antieroe che rimane vittima del destino e delle circostanze. Huston ebbe carta bianca nell'adattare con Ben Maddow il romanzo di W. R. Burnett, e ricevette in cambio le nomination all'Oscar come miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura (Jaffe vinse invece la Coppa Volpi a Venezia). Magistrali anche la fotografia in bianco e nero di Harold Rosson e la colonna sonora di Miklos Rosza. Numerosi i remake.

7 dicembre 2010

The ward (John Carpenter, 2010)

The ward - Il reparto (John Carpenter's The Ward)
di John Carpenter – USA 2010
con Amber Heard, Lyndsy Fonseca
**1/2

Visto al cinema Massimo di Torino, con Giovanni e Rachele, in originale con sottotitoli (Torino Film Festival).

Kristen, una ragazza ribelle e dal passato misterioso, viene rinchiusa nel reparto speciale di un ospedale psichiatrico (siamo negli anni sessanta), quasi una sorta di prigione, insieme ad altre quattro giovani donne. Ma qui, oltre a progettare la fuga e a difendersi dalle crudeltà di medici e sorveglianti, dovrà vedersela con il fantasma di una delle precedenti ospiti che intende vendicarsi di tutte le ragazze ricoverate, uccidendole una a una. E scoprirà che la cosa la riguarda più da vicino di quanto avesse immaginato. Nove anni dopo "Fantasmi da marte", Carpenter torna al cinema con un horror di impostazione classica, forse non molto originale per temi e contenuti ma sicuramente efficace nel mantenere costantemente alta la tensione per l'intera durata della pellicola e nel mettere paura nei momenti giusti, grazie al sapiente uso di tutti i "trucchi del mestiere" per far sobbalzare gli spettatori nelle poltrone. I colpi di scena nel finale, benché preannunciati da numerosi indizi, sorprendono e riescono a spiegare in maniera coerente tutta la vicenda. Nulla di nuovo, ma girato benissimo e con un interessante cast di giovani attrici semisconosciute (oltre alla protagonista Amber Heard, le altre ragazze sono Danielle Panabaker, Lyndsy Fonseca, Mamie Gummer, Laura-Leigh e Mika Boreem). L'unico ruolo maschile di rilievo, oltre al sorvegliante D. R. Anderson, è quello di Jared Harris nei panni del medico.

6 dicembre 2010

Super (James Gunn, 2010)

Super
di James Gunn – USA 2010
con Rainn Wilson, Ellen Page
***

Visto al cinema Massimo di Torino, con Giovanni, Rachele ed Eleonora, in originale con sottotitoli (Torino Film Festival).

Umiliato dalla vita in più occasioni e abbandonato dalla moglie (Liv Tyler), che lo ha lasciato per mettersi con un gangster e trafficante di droga (Kevin Bacon), l'anonimo e sempliciotto Frank D'Arbo (Rainn Wilson) ha una visione mistica e si convince che Dio vuole che lui diventi un supereroe. Si fabbrica così un costume rosso e comincia a dare la "caccia al crimine" nei panni di Crimson Bolt, usando come arma una chiave inglese da calare sulla zucca dei suoi malcapitati avversari: e non importa se si tratta di ladri, di spacciatori o semplicemente di persone che saltano la fila davanti alle casse del cinema. Con l'aiuto di una giovane ed entusiasta commessa di un negozio di fumetti (Ellen Page), che si offre di fargli da sidekick con il nome di Boltie, darà infine l'assalto alla villa del rivale Jacques per riprendersi la sua Sarah. Mescolando parodia e realismo (non ci sono superpoteri, le persone muoiono davvero) e guardando in parte allo "Zebraman" di Takashi Miike (dove si mette in mostra la follia di un uomo comune che indossa un costume e si aggira per il quartiere a caccia di malviventi), Gunn realizza un film bizzarro, assurdo, insolito e stratificato, che gioca su più registri e passa dalla satira (esilaranti i riferimenti alla cultura pop e al genere supereroistico mainstream, come quando Frank e la sua esuberante partner studiano le possibili armi da usare, per non parlare della scena di sesso in costume) al dramma sociale, da situazioni surreali e visionarie (la sequenza in cui il protagonista è toccato dal "dito di Dio") a sequenze gore ricche di humour nero e di gusto post-tarantiniano, con un protagonista che è allo stesso tempo un folle psicopatico e un individuo sensibile per il quale non si può non provare una sincera simpatia. Pur a continuo rischio di deragliamento, il film riesce a mantenersi in equilibrio fino alla bella conclusione, grazie anche a un buon cast (simpaticissima la Page) e a un ritmo che mantiene alta la tensione pur prendendosi gioco di tutti i cliché del genere supereroistico (più dei supereroi a fumetti, a dire il vero, che di quelli cinematografici). Non per tutti i gusti (James Gunn si è fatto le osse alla Troma, il che spiega molte cose), ma da vedere.

5 dicembre 2010

E venne il giorno (M. N. Shyamalan, 2008)

E venne il giorno (The Happening)
di M. Night Shyamalan – USA 2008
con Mark Wahlberg, Zooey Deschanel
**

Visto in DVD, con Hiromi.

Una misteriosa epidemia che spinge gli uomini al suicidio di massa, causata da una neurotossina portata dal vento e forse prodotta dalle piante e dalla natura come "reazione" alla presenza sempre più dannosa degli esseri umani, si diffonde a partire dal Central Park di New York in tutta la regione nord-orientale degli Stati Uniti. Fra coloro che cercano disperatamente di mettersi in salvo, fuggendo in qualche modo dalla zona contaminata, ci sono l'insegnante di scienze Elliot Moore, sua moglie Alma e la piccola Jessie, figlia di un collega: ma dovranno vedersela con un mondo impazzito nel quale anche la solidarietà umana sembra venire a mancare. Tracciando ardite metafore e collegamenti fra fenomeni naturali diversissimi fra loro (la scomparsa delle api, le alghe che producono tossine per uccidere i pesci, il sistema immunitario degli organismi biologici), Shyamalan si lancia nel catastrofismo a sfondo ecologico, mette in scena una "fine del mondo" singolare e silenziosa, e vorrebbe spaventare gli spettatori costruendo un'atmosfera tesa e inquietante che guarda a Hitchcock ("Gli uccelli"), a Weir ("L'ultima onda") e ai film paranoici degli anni cinquanta (come "L'invasione degli ultracorpi"). Ma nonostante alcuni spunti interessanti (le fronde degli alberi mosse dal vento, percepite dai personaggi come una minaccia; l'assenza di momenti "fracassoni" e gridati, tipici di altri horror catastrofici), la pellicola non decolla mai completamente, anche per colpa di attori non molto in parte, e il messaggio ecologista risulta talmente banale e generalizzato da essere difficile da prendere sul serio (a suo onore, comunque, l'autore ha dichiarato esplicitamente di non aver voluto realizzare nient'altro che un buon B-movie). Se pure avevo difeso il regista di origine indiana in occasione dei suoi film precedenti, stroncati anch'essi – come questo – dalla maggior parte della critica ("Lady in the water", per esempio, non mi era dispiaciuto), stavolta devo riconoscere che c'è poco da salvare. E deve essersene accorto lo stesso Shyamalan, visto che per la prima volta rinuncia al suo consueto cameo (avrebbe dovuto interpretare Joey, il collega con cui Alma si incontrava all'insaputa del marito, ma il personaggio non si vede mai sullo schermo).

3 dicembre 2010

La magnifica preda (O. Preminger, 1954)

La magnifica preda (River of no return)
di Otto Preminger – USA 1954
con Robert Mitchum, Marilyn Monroe
**

Rivisto in DVD, con Martin.

Matt Calder (Mitchum), ex galeotto e ora contadino che vive con il figlioletto presso un fiume ai margini della frontiera, salva dalle rapide e accoglie nella propria casa il giocatore d'azzardo Weston (Rory Calhoun) e la ballerina di saloon Kay (Marilyn), diretti in città dove intendono registrare una concessione d'oro che l'uomo ha vinto alle carte. Pur di giungere alla meta il più presto possibile, Weston ruba il cavallo e il fucile di Calder, lasciandolo disarmato in mezzo ai territori indiani insieme al bambino e alla ragazza: e quando i pellerossa attaccheranno la fattoria, i tre saranno costretti a tentare una difficile fuga con la zattera sulle acque insidiose di quello che gli indiani chiamano "il fiume senza ritorno". Western dall'insolita ambientazione fluviale, il film ha i suoi punti di forza nei bellissimi paesaggi (è stato girato in Canada, e l'ambientazione è resa vivida dalla fotografia a colori e dal Cinemascope che Preminger utilizzava per la prima volta) e nella fisicità carismatica dei due protagonisti, che nel corso del viaggio impareranno a conoscersi e, ovviamente, a innamorarsi. Meno efficace invece la sceneggiatura, ricca di luoghi comuni e povera di dialoghi memorabili. Ma lo showdown finale in città fra Calder (che deve farsi perdonare dal figlio il fatto di aver sparato alle spalle a un uomo per difendere un amico) e l'infido Weston offre alcuni spunti interessanti, con il bambino che deve intervenire per salvare il padre. Marilyn canta diverse canzoni, fra cui "One Silver Dollar" (con corsetto rosso e calze a rete), "Down in the Meadow" e la title song "River of No Return". Sia lei che Mitchum avevano già avuto o avranno a che fare con fiumi e rapide, rispettivamente in "Niagara" e ne "La morte corre sul fiume". Durante la lavorazione, il regista e la diva ebbero da ridire l'uno dell'altra: Marilyn considerava la pellicola come il peggior film della sua carriera, mentre Preminger affermò che "dirigere Marilyn è come dirigere Lassie, ci vogliono quattordici ciak prima che abbai nel modo giusto". In ogni caso, il risultato – pur non facendo gridare al capolavoro – non è completamente da buttar via: si tratta di un piacevole esempio di cinema "medio" hollywoodiano dell'epoca. Poco sensato il titolo italiano.