31 agosto 2009

Dragon Gate Inn (King Hu, 1967)

Dragon Gate Inn (Long men kezhan)
di King Hu – Hong Kong 1967
con Shih Chun, Polly Shang-kwan, Bai Ying
***1/2

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Noto anche semplicemente come "Dragon Inn", questo classico wuxiapian – uno dei capolavori di King Hu – è un film fondamentale nel genere "cappa e spada" cinese, nella cinematografia di Hong Kong e in quella dell'intera Asia continentale, come testimoniano i ripetuti omaggi, riferimenti e citazioni di cui è stato fatto oggetto negli anni a seguire (basti pensare al moderno remake prodotto da Tsui Hark nel 1992 con un cast stellare, "New Dragon Gate Inn", o alla malinconica dichiarazione d'affetto di Tsai Ming-Liang, che in "Goodbye Dragon Inn" del 2003 identifica il film con le sale cinematografiche di una volta, ormai popolate solo da spettatori fantasma e destinate a sparire con l'avvento dei circuiti multisala). Ambientato nel quindicesimo secolo, all'epoca della dinastia Ming, quando gli eunuchi spadroneggiavano alla corte imperiale e di fatto detenevano il potere, narra la storia di un manipolo di valorosi eroi che si battono per salvare i figli del generale Yu, ministro caduto in disgrazia a causa dei complotti del perfido e potente eunuco Zhao. Decapitato Yu, infatti, i suoi giovani figli vengono spediti in esilio oltre confine con una scorta. Ma Zhao, in segreto, invia una truppa di suoi fedelissimi per sterminarli prima che varchino la frontiera. I soldati attendono le loro prede ai margini dell'impero, presso uno scalcinato ostello isolato fra le montagne, la Locanda del Drago, dove però fanno sosta anche un misterioso spadaccino di nome Xiao e una coppia di ribelli (un fratello e una sorella, lei vestita da uomo) che intende aiutare i ragazzi a scappare. E anche l'oste nasconde qualcosa, visto che in passato era stato generale e collega di Yu. Fra i numerosi personaggi alloggiati alla locanda, quasi tutti in incognito, si svolge così un gioco di tattiche e sotterfugi, con la tensione che monta a mille, fra duelli con la spada, agguati notturni, bevande avvelenate, trappole, tradimenti e inganni, fino a quando le carte vengono definitivamente scoperte con l'arrivo dei figli di Yu e della loro scorta (e il successivo intervento di Zhao in persona, provetto spadaccino ed esperto di arti marziali, interpretato da un grande Bai Ying al suo esordio sullo schermo). Quasi tutta l'azione, con l'eccezione dell'incipit e dello scontro finale fra le montagne, si svolge all'interno e nei dintorni della vecchia locanda, spazio fisico chiuso e ristretto, un vero e proprio microcosmo che, in contrasto con la spaziosità e l'ampiezza di altre pellicole del genere, garantisce un inconsueto rispetto drammaturgico delle unità d'azione, di tempo e (soprattutto) di luogo, consentendo anche allo spettatore, nonostante i numerosi personaggi e i continui colpi di scena, di non perdere mai il filo della vicenda. Efficacissime le coreografie dei numerosi duelli; potente, anche se un po' invadente, il commento sonoro; ottima, infine, la confezione visiva: l'abile e vigorosa regia di King Hu è ben servita da uno spettacolare cinemascope, mentre il technicolor fa risaltare i costumi, le scenografie e gli splendidi paesaggi di frontiera.

New Dragon Gate Inn (R. Lee, 1992)

New Dragon Gate Inn (Sun lung moon hak chan)
di Raymond Lee – Hong Kong 1992
con Maggie Cheung, Brigitte Lin, Tony Leung Ka-fai
***

Rivisto in DVD alla Fogona, in originale con sottotitoli inglesi.

Remake del classico "Dragon Gate Inn" di King Hu (1967), realizzato dalla factory di Tsui Hark in piena "new wave" hongkonghese ("Once upon a time in China" era uscito appena l'anno precedente) e con un cast pieno di stelle. La regia è accreditata al solo Raymond Lee, un carneade, ma pare che in realtà il coreografo Ching Siu-tung e lo stesso Tsui Hark abbiano diretto numerose scene. Anche se la sceneggiatura presta maggior attenzione al lato intimo dei personaggi e alle relazioni fra di loro, rispetto alla pellicola originale lo scheletro della vicenda cambia ben poco: all'epoca della dinastia Ming, il perfido eunuco Cao fa sterminare la famiglia di un ministro ribelle e intende usare i suoi figli come esca per attirare in trappola i suoi alleati. Presso la Locanda del Drago, desolato avamposto dalle pareti di fango e dai pavimenti di legno che sorge praticamente nel nulla fra il deserto e le montagne ai margini dell'impero, si ritrovano così sotto false identità tanto i seguaci del ministro deposto quanto gli agenti segreti inviati da Cao, costretti a una prolungata e difficile convivenza a causa del maltempo che imperversa all'esterno; al gioco di duelli notturni segreti e silenziosi partecipa però anche una terza fazione, quella guidata dalla seducente Jin (una Maggie Cheung splendida e ammiccante), proprietaria della locanda e in realtà capo di un gruppo di banditi che non esitano ad uccidere gli ospiti sgraditi e ad usarne i cadaveri per preparare la cena! L'aggiunta di un pizzico di sesso e di gore rende il film più vicino al gusto dello spettatore moderno, come testimonia anche lo stile che fa ampio uso di ralenti e wire work per mettere in scena combattimenti "volanti" e irrealistici, più spettacolari ma anche più confusi e meno rigorosi rispetto a quelli del film originale. Straordinari i paesaggi di frontiera, con il deserto roccioso la cui polvere sollevata dalle tempeste di sabbia o dai cavalli al galoppo contribuisce a rendere quasi oniriche le scene d'azione, che sembrano così svolgersi davvero ai confini del mondo conosciuto. In più c'è anche una sottotrama romantica e melò, con il triangolo fra il prode Tony Leung Ka-fai, la sua amata Brigitte Lin (che, come spesso le capita, si traveste da uomo per tutto il film) e la "terza incomoda" Maggie Cheung, subdola e intrigante. Imperdibile, in particolare, il combattimento-spogliarello fra le due attrici. Nel finale il film si colora anche di grottesco, con il cuoco dazi (una minoranza etnica del nord della Cina) – fino ad allora personaggio del tutto secondario – che spunta dalla sabbia nel momento in cui il cattivo sembra trionfare e "spolpa" gamba e braccio con il suo coltellaccio al malcapitato Donnie Yen. La fotografia, che sarebbe piaciuta a Ridley Scott, sfrutta la luce che filtra dalle pareti e i granelli di polvere sospesi nell'aria per costruire un'atmosfera onirica e ovattata, dominata dal colore bianco e a tratti anche più claustrofobica di quella del suo predecessore.

30 agosto 2009

Quattro minuti (Chris Kraus, 2006)

Quattro minuti (Vier Minuten)
di Chris Kraus – Germania 2006
con Monica Bleibtreu, Hannah Herzsprung
**

Visto in divx alla Fogona.

In un carcere femminile di massima sicurezza, un'anziana pianista insegna musica alle poche detenute interessate. La donna, la cui esistenza è stata segnata da una tragica esperienza durante la guerra (crocerossina in un reparto delle SS, aveva visto condannare a morte la ragazza che amava perché colpevole di idee comuniste), si accorge del grande talento della giovane Jenny, ex bambina prodigio ora condannata per omicidio, e decide di prepararla per un concerto. La collaborazione fra insegnante e allieva non è però facile, anche perché le loro personalità – entrambe dure, solitarie e chiuse in sé stesse – sembrano inconciliabili: tanto arcigna e scontrosa è la prima, tanto irriverente e ribelle è la seconda. I quattro minuti del titolo sono quelli necessari per l'esibizione di Jenny, che però – anziché per suonare il previsto Schumann – li utilizza per fare musica improvvisata, personale e in totale "libertà". Film interessante ma con qualche difetto, a partire da una certa artificialità della vicenda, personaggi costruiti a tavolino e troppi elementi melodrammatici forse inutili (il tema lesbico, il racconto del parto). Il contrasto fra le due protagoniste, oltre che generazionale e caratteriale, è legato anche a diversi tipi di musica: rigorosamente classica per l'insegnante, jazz e sperimentale per la ragazza. Monica Bleibtreu, scomparsa proprio qualche mese fa, è la madre dell'attore Moritz (quello di "Lola corre").

29 agosto 2009

Still walking (Hirokazu Koreeda, 2008)

Still walking (Aruitemo, aruitemo)
di Hirokazu Koreeda – Giappone 2008
con Hiroshi Abe, Yui Natsukawa
***

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Una gran bella pellicola, delicata e con una punta di malinconia, sui rapporti familiari (soprattutto quelli fra padri e figli), sull'incapacità di cogliere le occasioni al momento giusto, sulle speranze e le delusioni. In una calda domenica d'estate, i membri della famiglia Yokoyama si riuniscono nella casa degli anziani genitori nell'anniversario della morte del figlio maggiore, Jumpei, scomparso in mare dodici anni prima. Ma la ricorrenza porta con sé incomprensioni e dolorosi ricordi. Il vecchio padre Kyohei (Yoshio Harada), scontroso medico in pensione, fatica ad accettare la vecchiaia e rimpiange che nessuno dei figli abbia seguito le sue stesse orme; la madre Toshiko (Kirin Kiki) lo sopporta con pazienza e nel frattempo cerca di convivere con rancori e risentimenti; la figlia Chinami (You, un'attrice dalla voce strana e infantile) vorrebbe trasferirsi a vivere nell'ex ambulatorio del genitore, insieme all'inetto marito Nobuo e ai suoi due bambini, anche se la madre non è convinta; il figlio Ryota (l'ottimo Hiroshi Abe), infine, è quello che ha il rapporto più problematico con il padre, che gli aveva sempre preferito Jumpei: il suo lavoro di restauratore di quadri gli dà poche garanzie per il futuro, e come se non bastasse si è sposato con una vedova, Yukari (Yui Natsukawa), che aveva già un bambino, Atsushi (Shohei Tanaka), cosa che i genitori faticano ad accettare. Nell'arco delle 24 ore in cui si svolge il film (con l'eccezione di un breve epilogo ambientato qualche anno dopo) assistiamo a chiacchierate, ricordi e interazioni di ogni tipo, fra gesti semplici (la preparazione del pranzo, i giochi dei bambini, il bagno) ed emozioni complesse (i conflitti generazionali, l'elaborazione del lutto, l'accettazione della vecchiaia, il bisogno di autodeterminazione), mentre continuamente aleggia la consapevolezza della morte e dello scorrere del tempo. Il pregio maggiore del cinema di Koreeda, che davvero può essere considerato l'erede moderno di Ozu, sta sicuramente nel realismo e nella naturalezza con cui presenta i sentimenti, che non vengono mai ostentati o gridati eppure emergono con grande chiarezza e sincerità. L'ottima sceneggiatura, opera dello stesso regista, scorre che è un piacere (i dettagli della morte di Jumpei, per esempio, vengono fuori poco a poco): nonostante la sua leggerezza, il film è talmente denso che le scene e i dialoghi fondamentali si succedono senza sosta dall'inizio alla fine, contribuendo a caratterizzare magnificamente ogni personaggio. Il titolo originale ("Camminiamo, camminiamo, ma...") proviene da un verso di una canzone anni '70 ("Blue Light Yokohama", cantata da Ayumi Ishida) che si sente nel film. In occidente il film è noto anche come "Even if you walk and walk...".

Maborosi (Hirokazu Koreeda, 1995)

Maborosi (Maboroshi no hikari)
di Hirokazu Koreeda – Giappone 1995
con Makiko Esumi, Takashi Naito
**1/2

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Dopo la morte del marito (apparentemente e inspiegabilmente suicida), la giovane Yumiko accetta di risposarsi con un uomo che vive in un remoto villaggio di pescatori e si trasferisce lì con il figlio di primo letto. La sua nuova vita trascorre con calma e lentezza: dalle finestre si sente il rumore del mare, le stagioni si succedono pigramente, piccoli incidenti movimentano la vita del paese (come quando si teme per la sorte di un'anziana pescatrice, uscita in mare durante una tempesta), ma sogni e incubi non smettono di tormentarla mentre continua a interrogarsi sulla morte del primo marito. La nostalgia e il rimpianto per il passato, però, verranno superati dalla serena accettazione del presente. Il primo lungometraggio di finzione di Koreeda è una pellicola delicata e intima, dominata dagli scenari e dall'atmosfera, e in cui per lunghi tratti sembra non accadere nulla. Il soggetto è semplicissimo, e i temi sono quelli – che diverranno consueti per il regista – della perdita e dei ricordi. Se a tratti si ha quasi l'impressione che in fondo il film non abbia poi molto da dire, nel complesso lascia buone sensazioni, anche e soprattutto per merito dello stile, sobrio e controllato: molti campi lunghi, assenza quasi totale di primi piani, camera fissa, inquadrature e inserti-transizioni alla Ozu. Bella e statuaria l'attrice Makiko Esumi. Il titolo originale significa "La luce di un fantasma".

28 agosto 2009

Brother (Aleksei Balabanov, 1997)

Brother (Brat)
di Aleksei Balabanov – Russia 1997
con Sergei Bodrov Jr., Viktor Sukhorukov
***

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Un ottimo esempio di film di genere proveniente dalla cinematografia russa recente, con uno stile originale, coerente e moderno: il regista, anche sceneggiatore, è coadiuvato dai contributi fondamentali del direttore della fotografia Sergei Astakhov, che vira tutte le immagini in una tonalità di rosso cupo, e dell'autore della colonna sonora Vyacheslav Butusov (a un certo punto citato persino nei dialoghi dai personaggi, come già era capitato a Michel Legrand ne "Les demoiselles de Rochefort" di Demy). In patria ha avuto grande successo e un sequel. Il protagonista è Danila, detto Danny, un ragazzo che ha appena concluso il servizio militare e che, senza prospettive di un lavoro nel proprio paese, lascia la campagna per recarsi a San Pietroburgo, dove il fratello maggiore Viktor si guadagna da vivere come sicario per la mafia russa. Inizialmente suo protetto e apprendista, il ragazzo saprà però ribaltare i ruoli e si dimostrerà persino più abile di lui nel farsi strada nel corrotto mondo della malavita. Il prezzo da pagare sarà però la solitudine. Se la trama e le situazioni sono forse già viste, spicca invece la caratterizzazione del giovane protagonista, che compie le sue azioni in un misto di impulsività, leggerezza e disinvoltura: freddo killer ma anche persona normale, appassionato di musica, fan del gruppo punk-rock Nautilus, in cerca di amore, di amicizie e di affetti, disposto a fraternizzare con i più deboli e gli emarginati e a perdonare persino i tradimenti.

In Bruges (Martin McDonagh, 2008)

In Bruges (id.)
di Martin McDonagh – GB/USA 2008
con Colin Farrell, Brendan Gleeson
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Bruges è una cittadina fiamminga in Belgio, con poco più di centomila abitanti, soprannominata la "Venezia del nord" per i suoi canali solcati dai cigni e le stradine medievali acciottolate. Sembrerebbe il rifugio più improbabile per due sicari londinesi, eppure è proprio lì che il boss (Ralph Fiennes) ordina loro di rintanarsi, furibondo dopo che un incarico è stato portato a termine con conseguenze impreviste. Se il placido Ken (Gleeson) si lascia conquistare dalla quiete del luogo e si trasforma in interessato turista, il tormentato Ray (Farrell) è invece insofferente e annoiato da una città che ai suoi occhi manca di ogni attrattiva. Ma in mezzo al nulla qualcosa sta per accadere, e la vendetta del boss sta per piombare su di loro... Un filmetto insolito e originale, che trascende il genere del gangster movie travestendolo da noir esistenzialista, con un ritmo lento e rilassato (non distante da certe cose di Kitano): il suo punto di forza sta proprio nell'ambientazione mitteleuropea che lo spettatore impara ad apprezzare, piano piano, insieme ai personaggi. La mimica facciale di Colin Farrell, gli improvvisi squarci grotteschi e surreali alla Bosch (citato esplicitamente), i rapporti d'onore fra i gangster e il loro capo, i colpi di scena nel finale lo rendono un oggetto simpatico e originale all'interno del suo genere. Come sempre, il doppiaggio italiano fa danni: per distinguere i personaggi nordamericani da quelli inglesi, i primi vengono fatti parlare con un accento assurdo e inspiegabile.

27 agosto 2009

Le ricamatrici (E. Faucher, 2004)

Le ricamatrici (Brodeuses)
di Éléonore Faucher – Francia 2004
con Lola Naymark, Ariane Ascaride
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

La giovane Claire vive in un villaggio di campagna nelle Alpi francesi, proviene da una famiglia di agricoltori, lavora come commessa in un supermercato ed è una provetta ricamatrice. Quando scopre di essere incinta, decide di tenere nascosta a tutti la gravidanza e di partorire in anonimato, con l'intenzione di dare poi il bambino in adozione. Nell'attesa si trasferisce dalla signora Mélikian, esperta ricamatrice che di recente ha perduto il figlio in un incidente stradale e soffre di depressione. Fra le due donne – quella che ha perso un figlio e quella che sta per darne alla luce uno – nasce lentamente lentamente una sorta di legame empatico. E mentre realizzano raffinati ricami, riescono poco alla volta a superare i rispettivi traumi, l'una a elaborare il lutto e l'altra ad accettare l'imminente maternità. Grazie a un tono dolce e delicato, a un'ambientazione realistica e all'ottima recitazione delle due protagoniste, la pellicola (tutta al femminile) evita evita per fortuna il rischio di precipitare nel buonismo e soprattutto nel poetismo, restando all'interno dei confini del piccolo film ben riuscito.

Le nozze di Muriel (P.J. Hogan, 1994)

Le nozze di Muriel (Muriel's wedding)
di P. J. Hogan – Australia 1994
con Toni Collette, Sophie Lee
**

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

La ventunenne Muriel, bruttina, sovrappeso e disoccupata, ha un unico sogno nella vita: sposarsi, non importa con chi, e nemmeno se ci sia o meno l'amore. Vive con la famiglia in un paesino sulla costa australiana, dove è continuamente umiliata dal padre (un politico locale che non perde occasione per rinfacciarle la sua mediocrità) e derisa dalle ex compagne di scuola (perché del tutto fuori moda per gusti, vestiario e stile di vita). Si trasferisce allora a Sydney con l'intenzione di cominciare una nuova vita e, magari, di trovare l'uomo giusto per farsi portare all'altare. Il regista de "Il matrimonio del mio migliore amico" (e di un bel "Peter Pan") si è fatto conoscere proprio con questa commedia vivace, agrodolce e spigolosa, a volte fin troppo sopra le righe, condita da una forte dose di cinismo e travestita da satira di costume. I toni sono tragicomici e grotteschi, e le ipocrisie e le bugie dei personaggi si scontrano con un retroterra culturale che sembra uscito da "Schegge di follia". La colonna sonora è completamente a base di canzoni degli Abba, di cui Muriel e l'amica Rhonda (l'unica con cui la protagonista si trova in sintonia) sono grandi fan.

26 agosto 2009

Last hurrah for chivalry (John Woo, 1978)

Last hurrah for chivalry (Hao xia)
di John Woo – Hong Kong 1978
con Wei Pai, Damian Lau
**1/2

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

L'unico wuxiapian realizzato da Woo a inizio carriera, in gran parte ispirato allo stile e alle opere del suo mentore Chang Cheh (di cui era stato assistente alla regia), è una pellicola nella quale i classici temi del regista sono già tutti presenti in dosi massicce, in particolare l'elogio dell'amicizia virile, la lealtà (la "cavalleria" del titolo inglese), il tradimento e la vendetta. I protagonisti sono lo spadaccino attaccabrighe Chang, detto "Magic Sword", ritiratosi a vita privata per non dover più affrontare in duello i numerosi sfidanti che lo cercano a causa della sua fama, e l'assassino a pagamento Green, che rifugge dal mondo e dall'amore di una bella prostituta e che beve in continuazione per dimenticare gli uomini che ha ucciso. I due, diventati casualmente amici, vengono coinvolti nella faida familiare che oppone il giovane Kao, figlio di un maestro d'arti marziali, al perfido Pai, che ha sterminato la sua famiglia. Ma dopo aver sconfitto Pai, scoprono che il vero cattivo è proprio il traditore Kao, che li ha manovrati come pedine. I combattimenti con la spada o a mani nude, accesissimi e cruenti (gli abiti dei personaggi si macchiano ben presto di abbondante sangue), sono intervallati da inconsuete gag che stemperano i toni melodrammatici della pellicola, virando spesso verso la commedia (per esempio nelle scene in cui Chang se la prende con il povero vasaio che non intende sposare sua sorella) e dando all'intero film un'impronta svagata e disinvolta. Molto interessanti alcuni personaggi minori, come il "Mago Dormiente" che combatte mentre russa, o il braccio destro di Kao che rifiuta di rimanere al fianco del suo padrone quando si rende conto della sua vera indole. L'incipit, con Pai che fa irruzione nella dimora di Kao, intenzionato a vendicarsi per non essere stato invitato alle sue nozze, è – come hanno sottolineato alcuni critici – una situazione tipicamente fiabesca che contribuisce da subito ad allontanare ogni pretesa di verosimiglianza storica.

25 agosto 2009

Anima e corpo (R. Rossen, 1947)

Anima e corpo (Body and soul)
di Robert Rossen – USA 1947
con John Garfield, Lilli Palmer
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

La storia di Charley Davis, giovane promessa del pugilato che diventa un campione grazie agli intrallazzi di un losco promoter. Proveniente dai bassifondi, il protagonista sfrutta lo sport per uscire dalla povertà e per raggiungere la gloria e la ricchezza. Ma dopo aver sacrificato ogni cosa, compresi gli amici, la famiglia e l'amore, all'ultimo momento riesce a ribellarsi ai meccanismi in cui si trova rinchiuso e rifiuta di lasciarsi sconfiggere in un incontro truccato. Narrato quasi tutto in un lungo flashback, tranne l'incipit e l'incontro finale sul ring (assai realistico), il film può contare su una sceneggiatura efficace e venata di noir, che descrive bene le commistioni fra sport e criminalità, sulla buona regia di Rossen e su un'affascinante fotografia in bianco e nero, mentre la recitazione non sempre è all'altezza (vedi per esempio la Palmer). All'epoca fu salutato come il primo, grande capolavoro cinematografico sulla boxe: anche se mi è parso inferiore al di poco successivo "Stasera ho vinto anch'io" di Robert Wise, bisogna dargli atto di aver anticipato temi che verranno ripresi più volte negli anni a venire in moltissimi film (come "Il grande campione" o "Il colosso d'argilla", entrambi di Mark Robson). Prodotto dallo stesso protagonista John Garfield, è stato rifatto nel 1981 ("Il guerriero del ring", di George Bowers) con Leon Isaac Kennedy e una particina per Cassius Clay nella parte di sé stesso, ma il remake – a quanto leggo – risulta decisamente più moralistico e scontato.

Rischiose abitudini (S. Frears, 1990)

Rischiose abitudini (The grifters)
di Stephen Frears – USA 1990
con John Cusack, Anjelica Huston
*1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Il giovane Roy Dillon è un truffatore di piccolo cabotaggio che sta iniziando a pensare di non essere tagliato per quella vita; la sua ragazza Myra (Annette Bening), ambiziosa e disinvolta, ha un passato di "adescatrice di polli" per un grande esperto di "stangate" e vorrebbe rimettersi in attività entrando in società proprio con Roy; la madre di quest'ultimo, Lilly, piazza invece scommesse di copertura per il racket delle corse ippiche e fa la cresta sui guadagni all'insaputa del boss. Ambizioni, interessi, rivalità e contrasti fra i tre scateneranno un conflitto di caratteri che si concluderà nel sangue. Una bruttura di film, prodotta da Martin Scorsese e sceneggiata da Donald Westlake (da un romanzo di Jim Thompson), fra personaggi amorali, sviluppi snervanti e noiosi, e un finale che non lascia scampo a nessuno, anche se è apprezzabile il tentativo di uscire dagli schemi classici del genere grazie a un maggior approfondimento dei personaggi e persino all'inserimento di un maldestro risvolto edipico. Incredibilmente candidato a quattro premi Oscar (miglior film, sceneggiatura, attrice e non protagonista), senza peraltro vincerne nessuno.

24 agosto 2009

Zebraman (Takashi Miike, 2004)

Zebraman (id.)
di Takashi Miike – Giappone 2004
con Sho Aikawa, Kyoka Suzuki
**1/2

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Poco rispettato dai suoi studenti ed emarginato dalla famiglia, un timido insegnante di scuola elementare trova una valvola di sfogo nel cosplay, travestendosi da Zebraman (supereroe protagonista di un oscuro serial televisivo degli anni settanta, cancellato dopo pochi episodi) con un rudimentale costume che si è cucito in segreto con le proprie mani. Ma quando nel quartiere di Yokohama in cui vive cominciano a verificarsi strani incidenti (provocati da una misteriosa forma di vita aliena che si impadronisce del corpo degli esseri umani e li spinge a commettere delitti, aggressioni e vandalismi di ogni tipo), scopre di possedere autentici superpoteri e si trasforma in un vero eroe, salvando la città dalla minaccia extraterrestre. Anche se lo scontro finale è spettacolare, con grande dispiego di effetti digitali, la parte migliore del film è la prima, più low tone, ironica e realistica, quasi una parodia semi-malinconica del filone dei guerrieri mascherati alla Ultraman o Kamen Rider. In mezzo, anche qualche momento di stanca. Non siamo comunque di fronte al Miike più estremo: essenzialmente è una stupidaggine per un pubblico generalista, per quanto godibile. Da cult, comunque, la scena onirica in cui la donna amata dal protagonista compare vestita da infermiera, Zebra Nurse.

Full metal yakuza (T. Miike, 1997)

Full metal yakuza (Full metal gokudo)
di Takashi Miike – Giappone 1997
con Tsuyoshi Ujiki, Yasu Kitamura
**

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Hagane, gangster imbranato e fallimentare, rimane ucciso in uno scontro a fuoco quando il suo superiore Tosa, al quale è devotissimo, viene tradito dal boss della banda. Ma uno scienziato pazzo e otaku lo riporta in vita, innestando il suo cervello e alcuni organi di Tosa (compreso il pene!) in un corpo d'acciaio e trasformandolo così in un cyborg dalla forza sovrumana, che mangia metallo per accumulare energia e va in tilt se si lascia dominare dalle emozioni. Delirante e sconclusionato incrocio fra "Robocop" e "Tetsuo" (non a caso c'è anche Tomorowo Taguchi, il protagonista del film di Tsukamoto, nel ruolo del creatore dell'uomo-macchina), a opera del folle regista di "Ichi the killer", che alterna momenti brillanti e sopra le righe ad altri decisamente più convenzionali (la sottotrama romantica con l'ex ragazza di Tosa, per esempio, non è forse all'altezza del resto). Naturalmente non mancano combattimenti sanguinosi e splatter. Rudimentali ma efficaci gli effetti speciali, in un ironico pastiche che va dai "Power Rangers" a "Terminator" (oltre a citare, nel titolo, il capolavoro di Kubrick "Full metal jacket"). Nel cast anche Shoko Nakahara, Koji Tsukamoto (il fratello di Shinya) e Ren Osugi.