31 marzo 2009

Fratelli e sorelle della famiglia Toda (Y. Ozu, 1941)

Fratelli e sorelle della famiglia Toda (Todake no kyodai)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1941
con Mieko Takamine, Shin Saburi
***1/2

Rivisto in DVD, con sottotitoli (registrato da "Fuori Orario").

In occasione del compleanno della madre, i numerosi membri della facoltosa famiglia Toda si ritrovano tutti insieme per scattare una foto di gruppo in giardino: da lì a poco, però, la loro fortuna è destinata a mutare. L'improvvisa morte del patriarca lascia la famiglia con numerosi debiti da pagare, per estinguere i quali gli eredi sono costretti a vendere la grande villa dove abitava la madre con i due figli più giovani, la gentile Setsuko, che deve ancora sposarsi, e lo scapestrato Shojiro. Quest'ultimo decide di partire per la Cina, in cerca di fortuna e di un lavoro, mentre le due donne (insieme alla vecchia e fidata cameriera) si trasferiscono in casa del figlio maggiore, Shinichiro. Ma l'ospitalità dura ben poco: fra incomprensioni con la cognata e inaspettate umiliazioni, madre e figlia cominciano un triste vagabondaggio di casa in casa, da fratello a fratello, fino a essere costrette a stabilirsi nella fatiscente casa di famiglia sul mare. In occasione del primo anniversario della morte del padre, Shojiro torna dalla Cina e rimprovera aspramente i fratelli maggiori per le loro mancanze, smascherandone tutte le ipocrisie e le gentilezze di facciata. Invita poi la madre e la sorella a seguirlo in Cina, non prima che Setsuko lo abbia convinto a mettere la testa a posto sposando la sua cara amica Tokiko. E pazienza se quest'ultima è soltanto l'umile figlia di un impiegato: è giunto il momento di mettere da parte l'orgoglio e le pretese di una vita lussuosa (come quelle della sorella Chizuru, che giudicava umiliante il desiderio di Setsuko di mettersi a lavorare) per adattarsi a un futuro che è tutto da costruire e dove la semplicità e la sincerità saranno i veri valori guida.

Realizzato a quattro anni di distanza dall'ultimo lavoro, un periodo durante il quale il regista ha combattutto in guerra (dal 1937 al 1939) e poi ha inutilmente cercato di girare film che vengono bloccati dalla censura e vedranno la luce solo più tardi ("C'era un padre" e "Il sapore del riso al tè verde"), "Fratelli e sorelle della famiglia Toda" è una pellicola fondamentale nella filmografia di Ozu, un passaggio obbligato verso i film degli anni cinquanta (dove il tema della decadenza e della dissoluzione della famiglia sarà una costante) e nella quale è impossibile non riconoscere già in nuce il soggetto di "Viaggio a Tokyo". La trama sembra solo apparentemente estranea agli eventi bellici di quegli anni. Leggendo tra le righe, in realtà, il contesto è ben chiaro (e non potrebbe essere altrimenti): Shojiro va a lavorare in Cina, anche se l'occupazione militare giapponese non è menzionata; ci sono alcuni curiosi riferimenti culturali germanici, seppur in chiave ironica (Shojiro paragona la propria timidezza con le donne al punto debole di Sigfrido); si elogia l'arte di adattarsi a un tenore di vita inferiore a quello cui si era abituati un tempo, e alla necessità di superare le barriere fra le classi sociali; ma soprattutto viene esplicitato in maniera netta come il ruolo della famiglia debba essere quello di mutuo sostegno in tempi di crisi e di bisogno, e come l'unità familiare debba saper resistere agli egoismi della nuova borghesia che la vorrebbero minare. Ozu, comunque, guarda già al futuro, al mondo che verrà dopo la fine del conflitto: che l'insegnamento morale provenga dai membri più giovani della famiglia, secondo alcuni critici (come riportato sull'interessante Castorino di Dario Tomasi) "preannuncia l'affermarsi di una nuova generazione di uomini e donne che adempiranno ai loro doveri verso i genitori e verso la società meglio di quanto non abbiano fatto quelli della generazione precedente". Non a caso il Giappone del dopoguerra sarà caratterizzato da un'enorme frattura generazionale.

Dal lato stilistico, il regista padroneggia perfettamente ogni inquadratura e sfrutta il montaggio in maniera rigorosa ed estremamente funzionale. Nulla viene mostrato per caso, come dimostrano gli inserti con le piantine e la gabbia del merlo che la signora Toda porta con sé ogni volta che si trasferisce in una nuova casa, e che aprono ogni sequenza della pellicola, fungendo da transizione ripetuta, così come le geometrie degli interni (grazie all'uso lineare o prospettico di porte, infissi, pavimenti). Per i ruoli principali, cosa insolita per lui, Ozu ricorre a due attori con i quali non aveva mai lavorato ma che all'epoca erano delle vere star: questo valse al film – oltre al consenso della critica, che non era una novità – soprattutto un grande successo di pubblico, il maggiore mai avuto da Ozu fino a quel momento.

30 marzo 2009

Bersaglio di notte (Arthur Penn, 1975)

Bersaglio di notte (Night moves)
di Arthur Penn – USA 1975
con Gene Hackman, Jennifer Warren
**1/2

Visto in divx.

Harry Moseby, ex giocatore di football e ora detective privato da quattro soldi, viene incaricato di ritrovare una sedicenne scappata di casa. Il caso sembra semplice: Harry rintraccia la ragazza presso il patrigno, che vive con la sua compagna allevando delfini fra le isolette della Florida, e la convince a tornare in California dalla madre. Ma non è finita qui, anzi è solo l'inizio di un intrigo che si lascerà dietro una scia di sangue... Un bel noir, quasi esistenzialista e con una struttura da giallo chandleriano, che potrebbe fare il paio con "Il lungo addio" di Altman o con "Chinatown" di Polanski. Al centro del film, più che la vicenda investigativa, c'è soprattutto il protagonista, un "perdente" che nel proprio lavoro è un mediocre, che scopre che la moglie lo tradisce e che non può contare nemmeno sugli amici. Sullo sfondo scorrono gli anni settanta, con tutte le loro insicurezze (era l'epoca post-Watergate), gli scontri generazionali (la ragazzina, una lolita seduttrice interpretata da una giovanissima Melanie Griffith, appare quasi come un'aliena ai personaggi della generazione precedente), i complotti di una realtà traditrice, la decostruzione del mito del detective infallibile (Harry è tutt'altro che perfetto, e le soluzioni dei misteri gli sfuggono di mano per poi piombargli addosso nel modo più amaro e inaspettato. Come il giocatore di scacchi che cita in una scena, il quale non si accorge che con la mossa giusta avrebbe potuto vincere la partita, Harry non si rende conto di come stanno realmente le cose fino a quando non è troppo tardi). La sceneggiatura si concede qualche "sberleffo cinefilo" (la moglie di Harry va al cinema con l'amante a vedere "La mia notte con Maud" di Rohmer, ma il protagonista preferisce non accompagnarli: "Perché pagare per sbadigliare?"). Nel cast c'è anche James Woods, pure lui a inizio carriera, nei panni del meccanico Quentin.

28 marzo 2009

Hellboy 2 (Guillermo del Toro, 2008)

Hellboy: The golden army (Hellboy II: The golden army)
di Guillermo del Toro – USA 2008
con Ron Perlman, Selma Blair
**

Visto in DVD, con Hiromi.

Il secondo film di Hellboy (chissà perché nel titolo italiano è stato eliminato il numero e mantenuto il sottotitolo in inglese) è migliore del precedente, ma di poco. Stavolta Del Toro – il cui talento visivo continua a dimostrarsi straordinario ma, ahimè, è anche l'unica cosa che davvero vale la pena di salvare nel film, a parte forse il tono ironico e scanzonato del protagonista – punta maggiormente su un ambientazione da fiaba dark, a lui più congeniale, e si distacca sia dal filone supereroistico sia dalle indagini sul paranormale che caratterizzano il fumetto di Mignola. Hellboy e i suoi compagni (l'anfibio Abe e la pirocinetica Liz – che hanno più spazio e sono approfonditi maggiormente rispetto al primo capitolo – ai quali si aggiunge lo scienziato incorporeo Johann Krauss) sono alle prese con il principe di un regno fatato, popolato da elfi e troll, che intende scatenare un esercito di soldati meccanici e indistruttibili contro la razza umana e tornare così a dominare la Terra come avveniva un tempo. Si vedono molte creature fantastiche che non sfigurano di fronte a quelle de "Il labirinto del fauno" e che fanno ben sperare per l'imminente "Hobbit" (la scelta di Del Toro come sostituito di Peter Jackson mi sembra davvero azzeccata!): particolarmente riuscita è la piccola "fatina dei denti", spaventosa ma kawaii al tempo stesso. Bella anche la lotta contro la pianta gigante, mentre certe sequenze (l'incipit, il mercato dei troll) fanno venire in mente Neil Gaiman o Tim Burton. Ottimi i costumi e le scenografie, apprezzabile il rilevante ricorso a pupazzi e al trucco anziché alla computer grafica. Il punto debole continua a essere la sceneggiatura, non tanto per la caratterizzazione dei personaggi (che stavolta, come detto, è decisamente migliore anche nel caso delle figure minori) quanto per il plot, semplicistico e prevedibile; per la tensione, che non monta mai; e soprattutto per il ritmo, visto che la vicenda ha frequenti cadute di tono: la mia attenzione continuava ad avere alti e bassi e spesso non mi importava granché di quello che capitava sullo schermo. Comunque merita una visione, e per fortuna si può anche fare a meno di guardarsi prima il lungometraggio precedente.

27 marzo 2009

Hellboy (Guillermo del Toro, 2004)

Hellboy (id.)
di Guillermo del Toro – USA 2004
con Ron Perlman, John Hurt
**

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Hellboy è una creatura infernale (con la pelle rossa, le corna e la coda) uscita da un portale dimensionale creato nel 1944 dai nazisti (e da Rasputin!) per evocare una forza in grado di mutare le sorti della guerra. Adottato da uno scienziato americano, oggi è diventato un agente di una speciale divisione dell'FBI che si occupa di indagini sul paranormale. Al suo fianco combattono altri "freaks" come l'uomo-pesce Abe Sapien (interpretato dal versatile Doug Jones) e la ragazza pirocinetica Liz Sherman, di cui Hellboy è innamorato (una convincente Selma Blair). Il personaggio e le sue storie, ricche di temi alla "Martin Mystére", provengono dai fumetti di Mike Mignola, di cui questo film condivide pregi e difetti: stile grafico accattivante, ambientazione intrigante, narrazione noiosa. Pur lavorando "su commissione", Del Toro sfoggia tutto il suo talento visivo nel creare atmosfere dark e fumettose che rendono la pellicola un film di supereroi del tutto sui generis. I costumi, le scenografie e gli effetti speciali concorrono a dar vita a un mondo che sullo schermo cinematografico non perde nulla del fascino che aveva sulla pagina disegnata. Peccato però che la storia sia poco interessante, che il ritmo sia malamente dosato e che persino le scene d'azione facciano talvolta sbadigliare. Rasputin, come villain principale, convince poco: molto più memorabile è il personaggio minore del nazista Krönen, con il corpo semi-mummificato. A parte Hellboy, ben impersonato da quel Ron Perlman che si era già fatto notare nei film di Jean-Pierre Jeunet (e che con Del Toro stringe un vero e proprio sodalizio), gli altri "buoni" non lasciano un particolare ricordo. Nel complesso il film mi è parso un'occasione sprecata, con l'unico pregio di confermare le grandi capacità visive del regista messicano.

25 marzo 2009

Peking opera blues (Tsui Hark, 1986)

Peking Opera Blues (Do ma daan)
di Tsui Hark – Hong Kong 1986
con Brigitte Lin, Cherie Cheung, Sally Yeh
***

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

L'Opera di Pechino è una forma tradizionale di teatro cinese, caratterizzata – oltre che dal canto e dalla danza – da grandi acrobazie e combattimenti con arti marziali (non a caso in gioventù l'hanno praticata anche Jackie Chan, Sammo Hung e Yuen Biao). Ai tempi in cui è ambientato questo film (gli inizi del Novecento), in molti teatri era vietato l'ingresso alle donne, e anche i personaggi femminili erano interpretati da attori maschi. Sembra ironico dunque che le protagoniste della pellicola siano invece tre ragazze. Tsao Wan è la figlia del generale Tsao, che governa Pechino con il pugno di ferro nei primi anni della Repubblica Cinese. Wan, che ha studiato all'estero, collabora però con i ribelli della resistenza e complotta in segreto contro il padre. Sheung Hung, una musicista di corte, aspira invece al lusso e alla ricchezza e vorrebbe impadronirsi di una cassetta di gioielli che i soldati hanno sottratto alle amanti di un generale caduto in disgrazia. Pat Neil, infine, è la figlia di un impresario teatrale e sogna di esibirsi sul palcoscenico, ma le viene impedito perché è una donna. Nonostante la diversa estrazione sociale e soprattutto le differenti aspirazioni, gli eventi della storia le portano a diventare amiche e a battersi tutte insieme per riportare la democrazia nel loro paese. La pellicola, un classico fondamentale nella produzione "popolare" e multigenere di Tsui Hark (non ha nulla a che fare con cose tipo "Addio mia concubina", per intenderci!), rivista oggi ha certo i suoi bravi difetti: un tono ingenuo e melodrammatico che la rende un po' datata, una caratterizzazione dei personaggi forse superficiale, una certa mancanza di equilibrio fra le scene più leggere e quelle più violente. Tutto passa però in secondo piano rispetto al sincero gusto per lo spettacolo, al ritmo della narrazione che non si ferma mai, all'ambientazione storica e irreale al tempo stesso (grazie anche a una fotografia dai toni quasi onirici), alla ricchezza delle situazioni e agli improbabili colpi di scena, alle complesse dinamiche che muovono le varie figure della storia e le mettono in relazione tra loro. Certo, per apprezzarla fino in fondo bisogna amare il cinema di Hong Kong con tutti i suoi pregi e i suoi difetti. Fra le tre attrici, davvero ottime, spicca soprattutto l'androgina Brigitte Lin Ching-hsia, che veste abiti maschili per tutto il film (tranne nella "famigerata" e indimenticabile scena in cui le tre le fanciulle indossano candide camicie da notte, bevono champagne e ascoltano musica da un grammofono), è forte e coraggiosa come un vero eroe ma anche estremamente vulnerabile e combattuta fra l'amore per il padre e gli ideali patriottici. Spettacolare la fuga finale sui tetti della città, dove Tsui Hark (con il coreografo Ching Siu-tung) fa le prove generali per film successivi come "Once upon a time in China" o "New Dragon Gate Inn". Bellissime anche le elaborate sequenze di danza in costume sul palcoscenico. Molte scene, infine, fanno riferimento a celebri Opere di Pechino, come quella in cui Tsao Wan conforta Pat Neil sotto un'improvvisa nevicata in piena estate.

24 marzo 2009

Kiss of the dragon (C. Nahon, 2001)

Kiss of the dragon (id.)
di Chris Nahon – Francia/USA 2001
con Jet Li, Bridget Fonda
*1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Un poliziotto cinese (Jet Li), in trasferta a Parigi per collaborare con i colleghi francesi all'indagine su un traffico di droga, si ritrova "incastrato" da un commissario corrotto (Tcheky Karyo). Lo aiuterà una prostituta dal cuore d'oro (Bridget Fonda), che il cattivo ricatta tenendone in ostaggio la figlioletta. Le secche scene d'azione e i combattimenti a base di agopuntura (!) e arti marziali (coreografati da Corey Yuen Kwai) sono l'unica cosa da salvare in un film scontato e prevedibile, che si fa anche stucchevole quando è in scena il personaggio femminile. La sceneggiatura di Luc Besson si basa su un soggetto dello stesso Li, al suo secondo film da protagonista in occidente dopo "Romeo deve morire", ma non sfrutta in maniera adeguata né lo spaesamento del personaggio principale, calato in un contesto a lui estraneo, né l'interazione con i comprimari.

22 marzo 2009

Tre anni

Tomobiki Märchenland compie tre anni! Per festeggiare gli ho regalato un nuovo logo, che spero vi piaccia (fatemi sapere, faccio sempre in tempo a toglierlo). Nell'elenco dei film per regista, inoltre, ho inserito delle stelline "cliccabili" a fianco degli autori più rappresentativi (o di quelli di cui finora ho recensito più film). Come vedete, pur con una veste grafica relativamente immobile, anche questo blog si concede qualche cambiamento, almeno una volta l'anno!

E ora le consuete statistiche: nel suo terzo anno di vita TM ha ospitato le recensioni di 272 film (il totale sale a 864). Di questi, 55 li ho visti al cinema (26 nella rassegna di Cannes), 5 in aereo e 212 a casa. Le prime visioni sono state 191, mentre i film rivisti sono stati 81. Il regista di cui ho visto più film negli ultimi dodici mesi è stato Yasujiro Ozu, con ben 20 titoli. Seguono Lubitsch (8), Demy e Kiarostami (5), Kon, Miyazaki, Raimi, Spielberg e To (4).

21 marzo 2009

Mangiare, bere, uomo, donna (Ang Lee, 1994)

Mangiare, bere, uomo, donna (Yin shi nan nu)
di Ang Lee – Taiwan 1994
con Lung Sihung, Wu Chien-lien
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Il vecchio Chu, vedovo e cuoco provetto ormai in pensione, comunica con le sue tre figlie adulte praticamente soltanto attraverso il cibo: Jia-jen, la maggiore, insegna chimica in un liceo, si è convertita al cristianesimo e sembra ormai incapace di amare dopo aver sofferto per una delusione sentimentale; Jia-chien, la seconda, è una donna d'affari in carriera che aspira ad andare a vivere da sola ed è indecisa se accettare un'interessante proposta professionale; Jia-ning, la più giovane, è una studentessa che lavora in un fast food e che si innamora del compagno di una sua amica. Ogni personaggio, alla faticosa ricerca della felicità personale, nasconde i propri segreti e sembra incapace di condividere sentimenti e paure con le persone più care. Ma lentamente, con il passare del tempo, qualcosa sembra muoversi attorno al tavolo dove i protagonisti si radunano ogni settimana per un sontuoso pranzo domenicale, e anche le situazioni più stagnanti si rivelano in mutazione. Come in un film di Ozu, Ang Lee mette abilmente in scena i conflitti familiari e i contrasti fra modernità e tradizione (e il parallelo con i film del maestro giapponese sembra rispecchiarsi anche in alcune gag, come quella dello studente che si addormenta nella classe di Jia-jien, che pare uscita da "La ragazza che cosa ha dimenticato?") grazie a un cast di prim'ordine: Lung era apparso anche nei precedenti lavori del regista ("Pushing hands" e "Il banchetto di nozze"), mentre le tre sorelle sono la bravissima Yang Kuei-mei (già vista in molti film di Tsai Ming-liang), la bella Wu Chien-lien (apparsa in diversi film di Hong Kong) e la meno nota Wang Yu-wen. In più c'è la cucina cinese, vera protagonista del film sin dal titolo, che ci ricorda come il cibo e l'amore siano le due cose più importanti dell'esistenza umana. Le numerose scene in cui si vede Chu alle prese con pentole e coltelli, intento a preparare piatti tanto buoni quanto esteticamente belli, fanno venire l'acquolina in bocca: è decisamente un film da non vedere a stomaco vuoto!

19 marzo 2009

Gran Torino (Clint Eastwood, 2008)

Gran Torino (id.)
di Clint Eastwood – USA 2008
con Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

La "Gran Torino" del titolo è una storica automobile della Ford (il modello di "Starsky & Hutch", per intenderci) che fa bella mostra di sé nel polveroso garage dell'anziano Walt Kowalski, reduce della guerra in Corea, metalmeccanico in pensione e vedovo da poco. L'anacronistico Walt vive ora da solo in compagnia del cane Daisy in una villetta nei sobborghi di Detroit: il quartiere è ormai degradato e invaso da immigranti del sud-est asiatico, che il burbero protagonista poco sopporta. Ma il suo razzismo è solo apparenza (non molto diverso dal tono sfrontato, di facciata, con cui si rivolge agli amici, come il barbiere italiano): scoprirà di avere molto più in comune con i nuovi vicini che con la sua stessa famiglia (i rapporti con i figli sono infatti ai minimi termini), e si prenderà a cuore le sorti del giovane Thao, introverso e poco propenso a entrare a far parte della gang di teppisti del quartiere che lo ha preso di mira. In fondo Walt è "solo" xenofobo, non razzista (e lo rimane fino alla fine del film, non c'è cambiamento, nonostante le apparenze): detesta il figlio perché compra auto straniere e "adotta" Thao non in quanto immigrato ma perché è un giovane in grado di adeguarsi ai valori americani (casa, ragazza, lavoro onesto e naturalmente auto americana). L'intero film – "piccolo" e intimo, tutto ambientato in un microcosmo (una casetta con giardino, un isolato e poco altro) che riflette l'intero pianeta, e girato con stile classico anche se a tratti caricaturale – è un elogio dell'integrazione all'american way of life, non certo dell'apertura al diverso e del rispetto delle culture straniere. Attento al contesto sociale e indulgente con la sua retorica e gli stereotipi, Eastwood riesce a coinvolgere lo spettatore senza rinunciare a molti dei suoi temi preferiti (il rapporto con la religione, quello fra genitori e figli, l'individualismo, l'uso e i limiti della violenza, la difficoltà del compiere una scelta drastica). Ma in un mondo che sta cambiando e che ha ormai perso la propria identità (la crisi economica, la globalizzazione, la microcriminalità, l'immigrazione), anche l'ispettore Callaghan deve aggiornare i propri metodi e modificare le sue prospettive. Peccato solo per una certa prevedibilità (dopo dieci minuti di film, è facile immaginare come proseguirà). Il valore aggiunto della pellicola, naturalmente, è Clint stesso, con il suo volto rugoso, i grugniti e lo sguardo tagliente: se veramente questo sarà il suo ultimo ruolo da protagonista sul grande schermo, come avrebbe fatto trapelare, non sarà stato in fondo un cattivo epitaffio. E con un finale davvero ironico se riportato alla sua intera carriera.

Romeo deve morire (A. Bartkowiak, 2000)

Romeo deve morire (Romeo must die)
di Andrzej Bartkowiak – USA 2000
con Jet Li, Aaliyah
**

Rivisto in DVD.

Dopo avergli dato una particina da cattivo in "Arma letale 4", il produttore Joel Silver fa esordire Jet Li a Hollywood come protagonista in questo film patinato e dai toni hip-hop che mescola (cercando di ripetere l'exploit del più fortunato "Rush Hour") l'universo degli immigrati cinesi con quello degli afro-americani, il cinema di kung fu e quello a sfondo gangsta-rap. Nessuna pretesa di realismo o di denuncia sociale, però: la pellicola è un fumettone ingenuo e prevedibile, anche se moderatamente gradevole. Le strade di una città californiana (ma il film è stato girato a Vancouver, in Canada) sono contese fra due bande malavitose in guerra fra loro, una composta da neri e una da cinesi. Il delicato equilibrio viene rotto quando il figlio del boss cinese è ritrovato morto. Suo fratello maggiore evade da un carcere a Hong Kong e raggiunge gli Stati Uniti in cerca di vendetta, ma dovrà allearsi con la figlia del capobanda avversario, visto che il "cattivo" è un nemico comune. L'aggancio a "Romeo e Giulietta" è comunque debolissimo, anche perché dal film sono state tagliate all'ultimo momento tutte le sequenze (compreso il bacio finale) che suggerivano una relazione romantica fra i due protagonisti. Jet Li è in forma, e si vede, ma ha poco spazio per mostrare le sue qualità atletiche visto che gli scontri a base di arti marziali sono limitati a poche sequenze (nelle quali, curiosamente, il regista inserisce anche alcuni effetti speciali che permettono di vedere – come in una radiografia – gli effetti dei colpi del nostro eroe sulle ossa degli avversari!). Divertente, in ogni caso, la scena in cui Jet utilizza Aaliyah come "arma" per sconfiggere una motociclista avversaria perché la sua educazione gli impedisce di colpire direttamente una donna. Il regista, all'esordio, è di origine polacca ed era stato un direttore della fotografia. La cantante Aaliyah è morta tragicamente l'anno successivo in un incidente aereo, a soli 22 anni.

17 marzo 2009

Watchmen (Zack Snyder, 2009)

Watchmen (id.)
di Zack Snyder – USA 2009
con Patrick Wilson, Malin Akerman
**

Visto al cinema Orfeo.

In un 1985 parallelo e cupissimo, dove l'America è ancora guidata da Nixon e ha vinto la guerra del Vietnam grazie agli straordinari poteri del Dottor Manhattan (un superuomo la cui esistenza ha però condotto il pianeta sull'orlo di un conflitto nucleare con l'Unione Sovietica), gli altri supereroi – in realtà semplici vigilantes mascherati, privi di superpoteri – sono ormai fuorilegge e invisi al pubblico. L'unico che non si è ritirato a vita privata è il manicheo Rorschach, che indagando sulla misteriosa morte di un collega, apparentemente ucciso da un "killer di maschere", riunirà i suoi vecchi compagni e scoprirà un terribile piano per distruggere il mondo... o forse per salvarlo.

Faccio parte di coloro che ritengono "Watchmen" (scritto magistralmente da Alan Moore e illustrato con precisione da Dave Gibbons) il più bel fumetto di tutti i tempi, per talmente tanti motivi – storici, culturali, formali e contenutistici – che sarebbe troppo lungo elencarli qui. Basti dire che racconta una storia di supereroi, in chiave metaforica, calandola in un contesto realistico mai visto prima nell'ambito del genere mainstream per eccellenza del fumetto nordamericano. Assieme ad altre opere cardine degli anni ottanta (come quelle di Frank Miller o dei fratelli Hernandez) ha avuto il merito di dimostrare come setting e personaggi superomistici potessero essere usati anche al di fuori del mondo puerile, colorato e fantascientifico che li aveva ospitati fino ad allora (e smascherandone in questo modo la natura folle e assolutistica), qualcosa di cui il cinema si è accorto con almeno vent'anni di ritardo (se mai se ne è accorto: un Nolan non fa primavera...). Alla notizia che il film tratto da questo caposaldo dell'arte sequenziale sarebbe stato diretto da Zack Snyder, ho subito temuto il peggio. Nulla in "300", il suo lavoro precedente, faceva infatti pensare che sarebbe stato capace di affrontare le finezze di un testo come quello di Alan Moore (che dopo le delusioni precedenti ha rifiutato polemicamente di essere accreditato nei titoli della pellicola, come d'altronde aveva fatto con "V per Vendetta" e farà in occasione di altri futuri adattamenti cinematografici delle sue opere). Quella di Snyder mi sembrava una scelta dovuta solo a motivi di marketing ("Se ha ottenuto successo facendo un film tratto da un fumetto, facciamogliene fare un altro, anche se non c'entra nulla con il precedente"). E purtroppo i timori si sono rivelati fondati: la pellicola non "respira" e brilla di luce riflessa, un nano che si appoggia sulla spalla del gigante Moore. Per questo motivo, nella recensione che segue ne sottolineerò soprattutto i difetti, dando i pregi (che pure ci sono, ma derivano tutti dal materiale originale) per scontati.

Si ha un bel dire che un film deve essere giudicato a sé stante, senza fare troppi paragoni con l'opera di partenza: quando questa è un capolavoro assolutamente perfetto, è difficile dimenticarsene. In realtà, ciò che si richiede è che l'opera cinematografica abbia una propria identità e sia valida in quanto tale, anche perché spesso l'eccessiva fedeltà al materiale originale può appiattire il risultato, rovinarne il ritmo o – nel caso più estremo – rendere il film superfluo. Snyder ha scelto di restare assai fedele alla trama del fumetto (a dire il vero il finale è cambiato in peggio, diventando più "realistico" ma anche più contraddittorio e illogico), riproponendone pari pari molte scene, sequenze, dialoghi e inquadrature, ma si conferma un cineasta grossolano, attento solo alla struttura esteriore della vicenda e interessato più a elaborare lo storyboard delle scene d'azione che a interrogarsi sui significati del testo originale, sull'opportunità di includere o meno un particolare dettaglio, una chiave di lettura, una metafora. I pregi della pellicola stanno quasi esclusivamente nella capacità di far "risuonare" qualcosa nella mente dello spettatore che ha letto il fumetto (come nel caso degli splendidi titoli di testa, la cosa migliore del film e forse l'unico momento in cui riesce a sintetizzare i contenuti originari, generando da essi qualcosa di nuovo e di emozionante). Tutte le modifiche (che si tratti di singole frasi aggiunte, di piccoli cambiamenti alla trama, di differenti scelte di regia, di decisioni su cosa sacrificare e cosa mantenere) sembrano invece infelici, arbitrarie o anche sciatte, a partire dal combattimento iniziale fra il Comico e il suo assassino (dove non si capisce perché Blake faccia resistenza e lotti anziché consegnarsi volontariamente alla morte). E persino l'ambientazione temporale, che comunque ha un suo fascino, in un certo senso sembra "sbagliata": per il lettore del fumetto, gli anni '80 erano l'attualità e avevano una valenza storica e simbolica ben precisa; nel film, invece, quel periodo è vissuto come distante e in chiave "vintage", e per lo spettatore non si differenzia dai decenni immediatamente precedenti: tanto che, per dargli più caratterizzazione, è necessario l'inserimento di personaggi come Andy Warhol e Lee Iacocca e l'utilizzo di un'invadente colonna sonora a base di Bob Dylan e Leonard Cohen (c'è persino "99 Luftballoons" di Nena!). La sceneggiatura, dopo un buon inizio, procede con l'unico scopo di stimolare il desiderio dello spettatore di rivedere questa o quella scena del fumetto prendere vita sullo schermo.

Il difetto principale, comunque, rimane il regista, che esagera con i ralenti, mirati a "congelare" la sequenza filmica per riprodurre in maniera esatta le vignette del fumetto (cosa che poteva avere un senso con i disegni di Miller, che si basano soprattutto sull'espressività, sulle pose precise dei personaggi e sul dinamismo, non certo con quelli di Gibbons, dove è l'insieme dei piccoli dettagli ad avere importanza); che è incapace di cogliere le simmetrie, i rimandi interni e i giochi di specchi (se apre il film con lo smile insanguinato, perché non lo chiude con lo stesso simbolo anziché con l'inquadratura del diario di Rorschach?); che avrebbe fatto meglio a tagliar via del tutto alcuni personaggi fondamentali, anziché introdurli senza poi sfruttarli pienamente (come il primo Gufo Notturno o lo psicanalista di Rorschach) o addirittura presentarli solo alla fine senza un adeguato aggancio emotivo (il giornalista di destra e il suo assistente scemo; l'edicolante e il bambino). Forse nel DVD verranno inserite le immancabili scene aggiuntive che li riguardano, è vero, ma il fatto che siano state tagliate tutte le parti con i personaggi "normali" (sullo schermo ci sono sempre e solo i sei supereroi protagonisti) dimostra come in fondo regista e produttori le ritenessero – assolutamente a torto – meno importanti, per esempio, di scene d'azione come quelle con Rorschach in prigione. Sul mancato inserimento del fumetto di pirati, vera e propria chiave di lettura metafumettistica del "Watchmen" originale, non me la sento invece di infierire. Mantenerlo tale e quale, in fondo, non avrebbe significato granché: semmai si poteva trasformarlo in un telefilm.

Le speranze che il film si rivelasse per il cinema di supereroi l'equivalente di quello che l'opera di Moore ha rappresentato per il fumetto svaniscono presto: si tratta di un lungometraggio che non farà storia e che probabilmente verrà dimenticato dal grande pubblico nel giro di qualche mese, fagocitato da nuove uscite più popolari: un deciso spreco di potenzialità. Certo, alcune cose buone ci sono comunque, come la resa di personaggi in bilico fra il bene e il male, l'atmosfera opprimente, la cura nelle scenografie e – tutto sommato – l'intero apparato tecnico (la fotografia, i costumi e gli effetti speciali). Mancano invece le emozioni che comunicavano certi passaggi della pagina scritta e disegnata (il racconto di Rorschach sulle sue origini, il dialogo fra Laurie e il Dottor Manhattan su Marte, il Comico sfregiato in Vietnam...: momenti indimenticabili nella versione fumettistica, quando non veri e propri pugni nello stomaco, che qui invece risultano anestetizzati e non si stagliano rispetto a ciò che li circonda). Snyder dà spesso la sensazione di non aver affatto colto lo spirito del testo di Moore, ma in un paio di punti c'è anche il sospetto che il travisamento sia anche colpa dell'edizione italiana (a proposito, davvero pessimo il doppiaggio): i supereroi chiamati "Watchmen" come se fosse questo il nome del loro gruppo (e senza alcun accenno, in tutto il film, alla frase di Giovenale "Quis custodiet ipsos custodes?" da cui proviene il titolo originale dell'opera), l'annuncio della candidatura di Ronald Reagan (anziché Robert Redford: altrimenti dove sarebbe la satira?) a presidente degli Stati Uniti, e così via. Il cast mi è parso adeguato, con nota di merito per Malin Akerman nei panni di Silk Spectre, e il volto di Jackie Earle Haley (Rorschach) mi ha fatto pensare più di una volta a Clint Eastwood. Non mi è piaciuto invece Ozymandias, né come attore né come personaggio, ritratto in maniera esageratamente solenne.

15 marzo 2009

Cinebloggers Connection

Grazie a Gparker (che mi ha nominato) e ad Ale55andra e Luciano (che hanno sostenuto la mia candidatura) sono stato invitato come giudice nella Cinebloggers Connection, una sorta di aggregatore di voti e recensioni ai film in sala da parte di chi gestisce blog che parlano di cinema. Anche se non l'avevo chiesto, accetto con piacere, visto che la cosa non comporterà un impegno eccessivo e non snaturerà la natura personale e individuale di questo blog. D'altro canto potrò contribuire alla pluralità delle opinioni fornendo una voce in più, spesso critica (visto che si parlerà solo di film recenti e sapete come la penso sul declino della cinematografia americana negli ultimi due decenni). Ringrazio dunque ancora Gparker e gli altri giudici e provvedo ad aggiungere il link della Connection nella colonna di sinistra.

14 marzo 2009

L'uomo leopardo (J. Tourneur, 1943)

L'uomo leopardo (The leopard man)
di Jacques Tourneur – USA 1943
con Dennis O'Keefe, James Bell
**1/2

Rivisto in DVD.

Per accrescere la propria notorietà, una ballerina viene convinta dal suo agente a presentarsi nel locale dove lavora portando un leopardo nero al guinzaglio. L'animale, spaventato, scappa però nelle strade e nei giorni successivi semina panico e morte fra la popolazione. Tre donne cadono vittime dei suoi artigli, ma qualcuno inizia a dubitare che la belva sia la vera responsabile degli omicidi: e se si trattasse di un maniaco? Ambientato in una vera e propria città di confine in un New Mexico spagnolo ed esotico, e tratto da un romanzo ("Black alibi") di Cornell Woolrich, il film è un thriller da un lato piuttosto prevedibile (a un certo punto l'identità del colpevole diventa quasi ovvia), dall'altro graziato da almeno tre sequenze magistrali e piene di suspense, quelle degli attacchi notturni alle tre vittime: una ragazzina che ha paura del buio, mandata controvoglia dalla madre a fare una commissione; una giovane che si reca al cimitero per incontrare il suo amante, e che rimane rinchiusa dopo l'ora di chiusura; e una danzatrice di flamengo alla quale una cartomante ha predetto un'imminente sventura. A differenza de "Il bacio della pantera", girato da Tourneur l'anno prima, qui sono assenti temi fantastici o soprannaturali (con l'eccezione del personaggio della cartomante) e il film si muove sui binari del giallo e dell'indagine psicologica. Stile e dialoghi sono moderni e coinvolgenti, e tutti i personaggi sono ben caratterizzati, dai due protagonisti (con i loro sensi di colpa per aver scatenato la belva) alle tre vittime, dallo studioso di antropologia all'indio proprietario del leopardo.

13 marzo 2009

Ho camminato con uno zombi (J. Tourneur, 1943)

Ho camminato con uno zombi (I walked with a zombie)
di Jacques Tourneur – USA 1943
con Frances Dee, Tom Conway
***

Rivisto in DVD.

Il secondo film della coppia Tourneur-Lewton è una delle pellicole che hanno maggiormente contribuito a rendere popolare il mito caraibico degli zombie, qui ancora ammantato di mistero e stregoneria voodoo e molto distante dalle versioni "moderne" di Romero che li hanno trasformati da fantocci controllati a distanza (ricordate il "gongoro" di Barks?) in crudeli mostri antropofagi. Più che un horror si tratta dunque di un dramma d'atmosfera, inquietante e avvolgente, che gioca sulla magica fotografia in bianco e nero e sulle suggestioni sensoriali in cui Tourneur era maestro. La protagonista è un'infermiera canadese che viene assunta da un ricco proprietario terriero delle Indie Occidentali affinché si trasferisca ai Caraibi per accudire sua moglie, caduta in un misterioso stato catatonico e sonnambulistico. Leggende e dicerie affermano che la donna sia stata trasformata in un morto vivente: e nonostante un medico le fornisca spiegazioni ben più razionali, l'infermiera cade preda del fascino esotico e macabro del luogo e comincia a credere che le superstizioni indigene abbiano un fondo di verità. Sarà anche un B-movie (Lewton imponeva ai suoi registi di girare con un budget limitato, in soli 20 giorni, e senza superare mai i 75 minuti di durata della pellicola), ma l'approccio e l'ambientazione (le piantagioni illuminate dalla luna, i simboli della schiavitù, i riti ancestrali, la casa coloniale) hanno un fascino che lo rende memorabile. Senza contare la disumanizzazione dello zombie, il rapporto fra scienza e superstizione, i sensi di colpa dei personaggi, il modo in cui l'elemento fantastico si fonde con sottotrame più "quotidiane" come quelle sentimentali.

12 marzo 2009

L'ultima onda (P. Weir, 1977)

L'ultima onda (The last wave)
di Peter Weir – Australia 1977
con Richard Chamberlain, Olivia Hamnett
**1/2

Rivisto in DVD, con Marisa e altra gente.

Lavorando a una causa che coinvolge un gruppo di aborigeni, un avvocato bianco scopre l'esistenza di un'antichissima comunità tribale che sopravvive segretamente a Sydney ed entra in contatto – attraverso i propri sogni e inquietanti visioni profetiche – con un mondo ancestrale di cui ignorava l'esistenza. Mentre la natura sembra impazzire con inspiegabili ondate di maltempo e forti inondazioni, piogge di rane o di petrolio e grandinate a ciel sereno, il protagonista si rende conto che un nuovo ciclo di "morte e rinascita" è ormai imminente: sarà la fine della civiltà? Dopo "Le macchine che distrussero Parigi" e il bellissimo "Picnic a Hanging Rock", Peter Weir (un regista che amo molto) completa la sua trilogia sui misteri australiani con un film lento e d'atmosfera, suggestivo ma tutt'altro che perfetto, anche perché gli snodi fondamentali sono sottolineati più volte, lasciando poco spazio all'immaginazione dello spettatore, e i concetti metafisici non sufficientemente profondi da far presa su chi (come me) è razionalmente poco propenso ad accoglierli. La pellicola ha però avuto il merito di portare sullo schermi i volti e soprattutto i miti degli indigeni dell'Australia, fino ad allora quasi ignorati non solo dal cinema ma anche da gran parte della cultura bianca stessa ("Sono australiana da tre generazioni e non ho mai conosciuto un aborigeno", dice la moglie del protagonista): "Le vie dei canti" di Bruce Chatwin sarebbe stato pubblicato solo dieci anni dopo, nel 1987. Inquietanti le scene in cui l'aborigeno Charlie domanda ipnoticamente al protagonista "Tu chi sei? ... Tu chi sei? ...", un vero e proprio invito alla riflessione sull'identità, e importante l'uso del sonoro, caotico e invasivo, mentre alcune svolte narrative – soprattutto nel finale – non sembrano del tutto giustificate. Pessimo l'audio italiano del DVD Dall'Angelo.

10 marzo 2009

The wrestler (D. Aronofsky, 2008)

The wrestler (id.)
di Darren Aronofsky – USA 2008
con Mickey Rourke, Marisa Tomei
***

Visto al cinema President.

Dopo aver toccato vent'anni prima l'apice della propria carriera in un incontro ancora leggendario, il wrestler Randy "The Ram" Robinson sopravvive alternandosi fra piccoli lavori e match fra vecchie glorie in palazzetti di quart'ordine. Rimasto solo (cerca inutilmente di riallacciare un rapporto con la figlia), malandato (dopo un infarto, i medici gli hanno proibito di combattere ancora) e ancorato al passato (fra canzoni degli anni ottanta – "gli anni novanta sono stati uno schifo" – e pupazzetti e videogiochi che gli ricordano i suoi giorni di gloria), l'unica cosa che può fare è rialzarsi e continuare a combattere: in fondo il ring è l'unico posto dove The Ram non si senta rifiutato. Devastante ritratto di un personaggio crepuscolare e patetico, che cerca di sopravvivere in un mondo dove non ci sono buoni o cattivi ma solo vincenti o perdenti e dove la solitudine è il peggior nemico, il film non offre facili scorciatoie o concessioni alla retorica e al sensazionalismo (anche se le sequenze melodrammatiche con la figlia le ho mal digerite). Aronofsky contribuisce al buon risultato tenendo parzialmente a freno il suo stile ruffiano e mettendosi per una volta completamente al servizio del personaggio, restandogli continuamente attaccato, seguendolo da vicino ma anche riprendendolo spesso di spalle, come a non voler svelare del tutto le sue espressioni mentre avanza lungo il cammino della vita (evidenti le similitudini fra l'ingresso nelle arene sportive e quello al bancone del supermercato); Rourke, di suo, ci mette invece il viso disfatto, la pelle lacerata e una recitazione intensa e sincera, anche se tutta corporea (motivo per il quale non me la sento di dar torto ai giurati dell'Academy che hanno preferito assegnare l'Oscar a un'interpretazione più completa come quella di Sean Penn in "Milk"), riuscendo però a tirar fuori dalla sua "carne maciullata" anche sorrisi e lacrime. Magnifiche certe battute (come quelle sul film "La passione di Cristo") e divertenti i momenti in cui i wrestler si accordano nel backstage sulle mosse da eseguire. Ma anche se tutto è finto, il sangue e le ferite sono veri. Complimenti infine alla quarantacinquenne Marisa Tomei, brava e coraggiosa nei panni dell'amica-spogliarellista alla quale Randy si appoggia come possibile ancora di salvezza: fra i due personaggi, entrambi sul viale del tramonto nelle rispettive carriere, c'è più di un parallelismo. Il Leone d'Oro al festival di Venezia è senza dubbio meritato: ma quanto è dipeso dalla mediocrità degli altri film in concorso?

9 marzo 2009

La contessa scalza (J. L. Mankiewicz, 1954)

La contessa scalza (The barefoot contessa)
di Joseph L. Mankiewicz – USA/Italia 1954
con Ava Gardner, Humphrey Bogart
***

Visto in DVD.

Nel cimitero di Rapallo, al funerale di Maria Vargas (alias Maria D'Amato, alias contessa Torlato-Favrini), gli uomini che l'hanno conosciuta più da vicino ricordano la sua vita in una lunga serie di flashback. Lo scrittore e regista Harry Dawes (Bogey, in un ruolo che forse Mankiewicz sentiva come parzialmente autobiografico) l'aveva scoperta quando faceva la ballerina in un locale di Madrid, dove si era recato in cerca di volti nuovi per conto del produttore Kirk Edwards, ed era diventato rapidamente il suo confidente, quasi una sorta di padre. L'esperto di relazioni pubbliche Oscar Muldoon (Edmond O'Brien) l'aveva introdotta prima a Hollywood e poi nel mondo dell'alta società, dove era diventata la compagna dell'ambiguo uomo d'affari sudamericano Alberto Bravano. E il conte Vincenzo (Rossano Brazzi) l'aveva sposata e portata in Italia, senza però rivelarle di essere impotente e di non poter dunque avere un erede. Le voci fuori campo e il sofisticato uso dei flashback (ce n'è persino uno, narrato da Maria, dentro un altro, ricordato da Harry; e una stessa scena ripetuta due volte, da punti di vista diversi) danno una patina noir a un film con il quale Mankiewicz attacca pesantemente il dorato mondo di Hollywood, falso, ipocrita e ingannevole; quello dei nuovi ricchi, volgare, dispotico e privo di valori; e quello dei vecchi aristocratici, chiuso in sé stesso, votato al passato e destinato all'estinzione: tre mondi attraversati come una meteora da una donna forte e indipendente, che preferisce camminare a piedi nudi perché le scarpe rappresentano un'insopportabile costrizione, che sembra incapace di amare ("L'amore è una malattia, e io non sopporto le persone malate") e di essere felice ovunque si trasferisca, che non sa resistere all'attrazione per il popolo e la gente semplice, e che – come Cenerentola (anche lei refrattaria alle scarpe!) – è alla continua ricerca di un Principe Azzurro, senza rendersi conto che la realtà e ben differente dalle fiabe o dal cinema (eppure il regista le spiega subito che "un copione deve avere senso, la vita no"). Forse anche per questi motivi, oltre che per la sua romantica tragicità, il film è molto più amato in Europa (e in particolar modo in Francia) che negli Stati Uniti.

8 marzo 2009

O-Sen delle cicogne di carta (K. Mizoguchi, 1935)

O-Sen delle cicogne di carta (Orizuru Osen)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1935
con Isuzu Yamada, Daijiro Natsukawa
**1/2

Rivisto in divx, con sottotitoli in inglese.

Ultimo film muto di Mizoguchi (anche se in realtà una colonna sonora è presente, con brani di musica classica – per esempio di Mussorgsky e Grieg – e un narratore che legge ad alta voce dialoghi e cartelli), è tratto come il precedente "Taki no Shiraito" da un romanzo dello scrittore Kyoka Izumi e si incentra ancora una volta su una figura femminile forte che sacrifica ogni cosa per il successo di un uomo buono ma debole. L'intera vicenda è mostrata attraverso un lungo flashback incorniciato da due sequenze, quelle di apertura e di chiusura, ambientate in un'affollata stazione ferroviaria: fra coloro che attendono l'arrivo dei treni, infatti, ci sono i due protagonisti che – all'insaputa l'uno dell'altra – rievocano la propria vita passata, a partire dal loro primo incontro sotto la luna presso il santuario Kanda Myojin, mentre il vento spazzava via le foglie degli alberi. Il giovane Sokichi era giunto in città con la speranza di iscriversi all'università, ma la mancanza di risorse economiche glielo aveva impedito. Intenzionato a suicidarsi, viene salvato dalla bella O-Sen, che si lascia commuovere dalla sua purezza e lo prende sotto la propria ala protettrice. O-Sen è costretta a lavorare per una banda di malviventi che trafficano in oggetti d'arte e che ne sfruttano la bellezza per organizzare un raggiro ai danni di un anziano monaco. Ma la donna si ribella e, oltre a proteggere Sokichi dalle continue angherie dei banditi, li farà arrestare. Prendendosi cura del giovane come una sorella maggiore (a differenza di Taki no Shiraito, che invece aveva ottenuto dal suo uomo almeno una notte d'amore), accetta di prostituirsi a sua insaputa per pagargli gli studi universitari. Ma verrà accusata di furto e arrestata a sua volta: i due si rincontreranno solo molti anni dopo, quando Sokichi è diventato uno stimato dottore e O-Sen ha ormai perso la ragione.
Il tema del sacrificio femminile è dunque lo stesso del film precedente: un uomo debole e senza personalità riesce ad avere successo nella vita soltanto grazie alla ferrea volontà e al favore di una donna che resta inevitabilmente vittima del destino avverso. Ma lo svolgimento è qui ancor più esplicito ed elaborato: tutti gli uomini che compaiono nella pellicola sono crudeli e insensibili (i truffatori, i poliziotti), oppure deboli o patetici (il monaco e lo stesso Sokichi). I contenuti sono quelli del melodramma, con toni opprimenti e personaggi a tratti un po' stereotipati. La forma, invece, stupisce spesso con rapidi movimenti di camera che a volte appaiono persino superflui (personalmente preferisco la sobrietà di un Ozu). Fra le scene più belle, quella in cui O-Sen estrae dal proprio kimono un origami a forma di cicogna (da cui il titolo del film) e soffiando lo spedisce verso il suo amato prima di essere portata via dalla polizia; e le sequenze nel finale dove la follia della donna è mostrata sovrimponendo le immagini delle sue visioni. La protagonista, Isuzu Yamada, è stata un'attrice prolificissima: oltre ad aver lavorato più volte con Mizoguchi (per esempio nei successivi "Elegia di Osaka" e "Le sorelle di Gion"), la ricordiamo anche in diverse pellicole di Mikio Naruse e ne "Il trono di sangue" e "I bassifondi" di Akira Kurosawa.

5 marzo 2009

36 Quai des Orfèvres (O. Marchal, 2004)

36 Quai des Orfèvres (id.)
di Olivier Marchal – Francia 2004
con Daniel Auteuil, Gérard Depardieu
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Cupo, teso, avvincente polar ambientato nel mondo della polizia parigina (il titolo non è altro che l'indirizzo della sede principale della police judiciaire), con cui il regista e sceneggiatore Marchal (a sua volta ex poliziotto) mette in scena dinamiche violente e personaggi che sembrano quasi i protagonisti di una tragedia greca (o, ancora meglio, di un romanzo d'appendice: nel finale i rimandi a "Il conte di Montecristo" sono evidenti). Ne risulta un film di genere riuscito e avvincente, che mi ha lasciato soddisfatto sotto ogni aspetto. La pellicola si incentra sulla forte rivalità fra Léo Vrinks (Auteuil) e Denis Klein (Depardieu), commissari un tempo amici ma ora in guerra fra di loro sul lavoro (sono a capo di divisioni contrapposte, fra le quali non corre buon sangue), in carriera (sono entrambi in lizza per succedere al capo della polizia) e in amore (la moglie di Vrinks è stata la donna di Klein). Pur di mettere le mani su una banda di sanguinosi rapinatori che assaltano furgoni blindati, Vrinks accetta di scendere a patti con uno dei suoi informatori e di lasciarsi coinvolgere in un delitto: l'ambizioso Klein approfitterà del suo errore ma a sua volta si macchierà di parecchie nefandezze. Una sceneggiatura eccellente, nella quale tutti i particolari si incastrano alla perfezione (vedi il coltello che Titi, Francis Renaud, sottrae all'inizio al malcapitato Bruno, e che tornerà nel finale); personaggi al confine fra il bene e il male (i poliziotti non esitano a usare mezzi illeciti, a dedicarsi a vendette private o a calpestare in continuazione il codice deontologico; e a volte sono più legati da amicizia o rispetto ai rappresentanti del sottobosco, come malviventi o prostitute, che ai propri colleghi); sviluppi inaspettati o inesorabili; colpi bassi di ogni genere e senza concessioni: già a metà film non si tratta più di uno scontro fra poliziotti e criminali, bensì di un duello tutto interno alla polizia. Se Auteuil è intenso e convincente come sempre, Depardieu è bravo a dare vita a un personaggio piuttosto inedito per lui, una vera canaglia. Nel cast ci sono anche André Dussolier (il capo della polizia) e Valeria Golino (la moglie di Vrinks). L'attrice che interpreta alla fine la figlia di Vrinks è la vera figlia di Auteuil, mentre Catherine Marchal (la poliziotta) è la moglie del regista.

4 marzo 2009

Il bacio della pantera (J. Tourneur, 1942)

Il bacio della pantera (Cat people)
di Jacques Tourneur – USA 1942
con Simone Simon, Kent Smith
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Il capostipite, nonché il più celebre degli horror prodotti da Val Lewton per la RKO negli anni quaranta: film di serie B e a bassissimo budget che hanno creato dal nulla un nuovo tipo di cinema di mistero, terrore e suspense, lasciando ampi margini all'immaginazione degli spettatori e basandosi più sul fascino e l'atmosfera, sulle suggestioni esistenziali e soprannaturali, sui giochi d'ombra e sugli effetti sonori, che non sull'esibizione scoperta e sensazionalistica della minaccia sullo schermo come invece accadeva nelle pellicole in voga fino ad allora, come le saghe dei "mostri" della Universal. Lewton (che collaborava spesso alle sceneggiature, non accreditato) e i suoi collaboratori (fra i quali i registi Jacques Tourneur, Mark Robson e Robert Wise) danno invece vita a un cinema fatto di inquietudini, di metafore e di psicologie contorte, uno stile al quale si sono poi ispirati sia i maestri europei del brivido (compresi Argento e Bava) sia quelli asiatici (si pensi agli horror giapponesi).

La protagonista del film è Irina, una bella e tormentata disegnatrice di moda di origine serba. Convinta di essere la discendente di una razza di mutanti in grado di trasformarsi in enormi felini, rifiuta di "consumare" il matrimonio con il marito Oliver perché teme di trasformarsi in una belva e di sbranarlo durante l'amplesso. Di fatto, i suoi continui dinieghi spingono il marito fra le braccia della collega Alice, da sempre innamorata di lui. Ma la gelosia di Irina nei confronti della ragazza sembra incanalarsi verso un'irrefrenabile sete di vendetta, e Alice per ben due volte si accorge di essere seguita da "qualcosa" che minaccia di aggredirla (le due scene, quella della passeggiata notturna e quella nella piscina, con i riflessi dell'acqua proiettati su soffitto e pareti, sono magistrali per tensione e suspense). Immaginazione o realtà? Metafora sessuale o puro escapismo fantastico? Per tutta la sua durata, attraverso simboli di un male ancestrale e immagini ambigue, la pellicola lascia lo spettatore nel dubbio sulla reale interpretazione dei fatti, complice anche il personaggio dello psicanalista che funge da contraltare razionale ai timori e alle convinzioni di Irina, la quale si sente irrimediabilmente attratta dai grandi felini dello zoo e la cui sola presenza terrorizza a morte i piccoli animali. Due anni dopo, Robert Wise ne realizzò un buon seguito con "Il giardino delle streghe". Nel 1982 Paul Schrader ne ha fatto invece un remake con Nastassja Kinski.

3 marzo 2009

Crisi (Ingmar Bergman, 1946)

Crisi (Kris)
di Ingmar Bergman – Svezia 1946
con Inga Landgré, Dagny Lind
**1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Si tratta del primissimo film di Bergman, e non è niente male. Già attento al lato più intimo e psicologico dei suoi personaggi, il regista svedese mette in scena una vicenda minimalista e corale che solo apparentemente è incentrata sul confronto fra la vita moderna nella grande città e quella, più tradizionale, nella campagna. La diciottenne Nelly vive infatti in un tranquillo paesino di provincia, dove sin dalla nascita è stata affidata dalla madre Jenny a un'altra donna, l'insegnante di pianoforte Ingeborg, che l'ha allevata come se fosse sua figlia. Quando Jenny, ora proprietaria di un salone di bellezza in città, torna in paese per riprenderla con sé, tutti i personaggi che gravitano intorno alla ragazza si ritrovano a fronteggiare una "crisi". Sia Jenny sia il suo compagno Jack, un giovane gigolò nichilista, vedono in Nelly una sorta di "ancora nella realtà", una persona di cui hanno bisogno per non sentirsi soli. E la stessa Ingeborg, fra l'altro gravemente malata, teme di non essere diversa da loro e inizia a provare dei forti sensi di colpa: vuole tenere Nelly con sé per il bene della ragazza o per una propria esigenza mai confessata? Di fronte a personaggi complessi e contraddittori (Jack, pur se gigolò di professione, è "innamorato di sé stesso"; Jenny, pur mantenendo economicamente sia Jack sia Nelly, emotivamente "vive a spese degli altri"; Ingeborg, pur affettuosa e disinteressata, viene accusata di "prendere senza mai dare"), all'ingenua ma autentica Nelly non resta altro che tornare al punto di partenza e all'unica persona che l'ama e la desidera per com'è, senza secondi fini, vale a dire il giovane studente Ulf, innamorato di lei, che l'ha aspettata per tutto il tempo.