30 novembre 2009

The hole (Tsai Ming-liang, 1998)

The hole – Il buco (Dong)
di Tsai Ming-liang – Taiwan 1998
con Yang Kuei-mei, Lee Kang-sheng
***1/2

Rivisto in divx, con Martin, in originale con sottotitoli.

Mentre il capodanno del 2000 si avvicina e le piogge torrenziali scuotono la città, Taipei è colpita da una misteriosa epidemia: un virus di origine sconosciuta, trasmesso dagli scarafaggi, spinge gli esseri umani a comportarsi in modo psicotico e a rintanarsi come insetti in cerca di buio e di umidità. Intere aree vengono messe in quarantena, la raccolta dei rifiuti e l'erogazione dell'acqua potabile sono sospese per costringere gli abitanti ad andarsene. Fra coloro che restano nella propria casa ci sono un uomo e una donna che vivono in due appartamenti di un immenso condominio, l'uno sopra l'altro. I due non si conoscono, non hanno alcun contatto e si parlano a malapena, ma un buco scavato nel pavimento/soffitto delle rispettive abitazioni finirà con mettere in comunicazione i loro spazi vitali e a unirli indissolubilmente. E quando lei sembrerà aver contratto la malattia, lui riuscirà a "riportarla alla luce", sottraendola alla solitudine e all'alienazione.

Pellicola geniale, insolita nella forma e ricca nei contenuti: pur con i consueti tempi lenti e l'attenzione ai piccoli gesti quotidiani, Tsai prova stavolta a universalizzare i propri temi (i protagonisti non hanno nome, l'ambientazione fantascientifica è una metafora del mondo intero) e ravviva il contesto della vicenda con bizzarri inserti musicali che esplicitano pensieri e sentimenti e nei quali la donna interpreta – nella propria fantasia – una serie di brani anni '50 della cantante Grace Chang (alla quale è dedicato un ringraziamento finale). Vedere gli abiti colorati e le raffinate coreografie dei balletti prendere vita negli ambienti degradati dell'edificio crea un insolito cortocircuito nella mente dello spettatore. Ma tutto il lungometraggio si mantiene miracolosamente in equilibrio fra il surreale e il quotidiano, senza rinunciare all'ironia e all'assurdo per mostrare il malessere e il disagio esistenziale. Da annoverare fra i migliori lavori del regista, è stato anche il suo primo film che ho visto, quando uscì nelle sale italiane in versione sottotitolata. Indimenticabile – e angosciante – la pioggia scrosciante che cade in continuazione. La pellicola (che fa parte di una serie di lungometraggi, "2000 as seen by...", commissionata a registi di tutto il mondo dal canale televisivo francese Arte) è completamente girata in interni, dalle camere spoglie degli appartamenti con le pareti scrostate per l'umidità, alle scale e ai corridoi del condominio, fino alle vaste sale vuote del mercato coperto dove l'uomo lavora.

28 novembre 2009

Crocodile (Kim Ki-duk, 1996)

Crocodile (Ag-o)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 1996
con Cho Jae-hyun, Ahn Jae-hong
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

L'ottima opera d'esordio dell'autodidatta Kim Ki-duk è quasi una sorta di "Accattone" alla coreana: il protagonista Yong-pae, detto "Coccodrillo", è un senzatetto violento e profittatore che vive sotto un ponte presso il fiume Han, a Seul, insieme a un bambino e ad un altro barbone più anziano, e approfitta dei tanti suicidi che si gettano nel fiume per svuotare i loro portafogli (o addirittura per chiedere ricompense ai soccorritori in cambio di indicazioni su dove si trova il corpo). Una notte salva dall'acqua una ragazza, che – nonostante lui la violenti ripetutamente – decide di restare con il gruppo. La pellicola procede accumulando scene e sequenze che sembrano slegate l'una dall'altra ma che contribuiscono a definire i personaggi e i loro rapporti: "Coccodrillo" si guadagna da vivere costringendo il bambino a vendere gomme da masticare o cianfrusaglie ai passanti, organizza truffe e ricatti destinati a finir male, perde al gioco tutto il denaro che guadagna faticosamente, si affeziona alla ragazza al punto da voler vendicarne la delusione d'amore affrontando il suo ex fidanzato. Nel finale, con l'ingresso in campo di una coppia di killer, le sottotrame si complicano e si infittiscono. Il mondo descritto da Kim in questo suo primo film (e in generale in tutta la prima fase della sua filmografia, molto più "viva" e convincente rispetto allo sterile estetismo che caratterizza invece i suoi lavori più recenti) è un mondo disperato, dove "degrado sociale e umano si mescolano"; un mondo fatto di sbandati e di isolati che vivono – per scelta o per obbligo – ai margini della società; dove però, anche attorno a un personaggio aggressivo e amorale come il protagonista, può lentamente prendere forma una famiglia sui generis che si scopre unita e solidale nelle difficoltà, nonostante gli occasionali litigi (come quando il bambino ribelle cerca inizialmente di proteggere la ragazza addirittura mutilando i genitali del "Coccodrillo"). Criticato per la violenza a volte eccessiva di molte scene (il rapporto sadomasochistico fra uomo e donna si rivedrà comunque in opere successive come "L'isola" o "Bad guy"), Kim ha spiegato di aver voluto rappresentare qualcosa – la violenza fisica e psicologica – che fa comunque parte integrante della nostra esistenza. Il suo, però, non è certo realismo: anzi, non mancano i momenti stranianti, grotteschi (il bicchiere di sangue), onirici o quasi surreali, come le suggestive sequenze subacquee, quando finalmente "Coccodrillo" sembra ritrovarsi nel proprio ambiente naturale, le acque salmastre di un fiume sì inquinato ma comunque in grado di proteggerlo da un mondo esterno crudele e ostile: soltanto sotto la superficie dell'acqua sembra possibile trovare la pace e la libertà (di cui la tartaruga colorata di azzurro, così come le barchette di carta del bambino, sono un evidente simbolo).

27 novembre 2009

Segreti di famiglia (F. F. Coppola, 2009)

Segreti di famiglia (Tetro)
di Francis Ford Coppola – USA/Argentina 2009
con Vincent Gallo, Alden Ehrenreich
***

Visto al cinema Apollo.

Il diciottenne Benjamin sbarca a Buenos Aires in cerca del fratellastro maggiore Angelo, detto "Tetro", fuggito da casa anni prima per insanabili contrasti con l'ingombrante genitore, un direttore d'orchestra dominatore e crudele. Dopo aver attraversato una fase ai margini della follia, Tetro vive ora in compagnia della bella Miranda (Mirabel Verdù, già vista ne "Il labirinto del fauno"), alla quale non ha raccontato nulla del proprio passato; è ancora in fuga dalla famiglia e dal mondo, e ha da tempo abbandonato il sogno giovanile di diventare uno scrittore. Ma Bennie recupera i suoi scritti e li rende pubblici dopo avervi apposto un finale (l'unico possibile: l'inevitabile "uccisione" del padre), senza immaginare che proprio quei testi, ovviamente autobiografici, nascondono un incredibile segreto sui loro legami familiari.

Dopo "Un'altra giovinezza", Coppola continua a tenersi lontano da Hollywood (il film è coprodotto anche da Spagna e Italia) e realizza – su una sua sceneggiatura originale – una pellicola molto personale che forse ha solo il difetto di mettere troppa carne al fuoco e di presentare nel finale qualche lungaggine di troppo. Ai temi prettamente coppoliani della famiglia, naturalmente di origini italiane (con Klaus Maria Brandauer nella doppia parte del padre e dello zio di Tetro), e dello scontro generazionale, si aggiungono quelli dell'arte (letteratura, teatro, musica), dell'amore (con l'iniziazione sessuale del giovane Bennie) e dell'identità (vedi anche gli spezzoni de "I racconti di Hoffmann" con l'automa che balla), persino con l'inserimento di svariati "almodovarismi" (la comunità artistica della Boca, con tanto di autore/interprete gay di una commedia che incrocia "Faust" con il "Rocky Horror Picture Show"; le donne procaci e disinibite; l'ambientazione e il mood latino; gli inserti onirici; la presenza di Carmen Maura nel ruolo di "Alone", potente critico teatrale, inizialmente previsto per Javier Bardem). Vincent Gallo è ottimo a dar vita a un personaggio dalle molte sfaccettature: all'inizio pare semplicemente scostante e geloso, ma in seguito scopriremo le cause e le motivazioni del suo carattere. Molto bella, fra le tante, la scena in cui il protagonista, responsabile delle luci durante uno spettacolo teatrale, si mette a litigare con l'autore del dramma, e suggestiva la fotografia in bianco e nero, alla quale si alternano spezzoni a colori che rievocano i ricordi di Tetro, una scelta stilistica che ricorda "Heimat" anche se qui è usata in maniera più meccanica. L'azione, oltre che a Buenos Aires, si svolge anche in Patagonia, dove i protagonisti si recano per la rappresentazione del dramma di Tetro.

25 novembre 2009

Scandalo internazionale (B. Wilder, 1948)

Scandalo internazionale (A foreign affair)
di Billy Wilder – USA 1948
con Jean Arthur, John Lund, Marlene Dietrich
***

Rivisto in DVD, con Martin.

Una delegazione di politici degli Stati Uniti giunge nella Berlino dell'imminente dopoguerra per far visita alle truppe d'occupazione alleate. Nel gruppo c'è anche una parlamentare repubblicana, integerrima e moralista, che non vede di buon occhio le relazioni sentimentali fra i soldati americani e le ragazze del posto: per distrarla ed evitarle di indagare sulla sua compagna tedesca (una cantante di cabaret che durante il regime si era compromessa con importanti gerarchi), un capitano maneggione e trafficone comincia a corteggiarla e conquista rapidamente il suo cuore... Girando direttamente a Berlino (nella prima parte del film c'è anche una sorta di "gita turistica" fra le macerie della città, all'epoca tagliata dalla versione italiana) e senza risparmiare riflessioni – nemmeno tanto fra le righe – su questioni del momento come i problemi pratici della ricostruzione, i delicati compiti delle forze alleate o le responsabilità morali dei civili coinvolti con il regime nazista, Wilder sviluppa una spumeggiante e originale commedia romantica che fonde il classico "triangolo" con il giallo a sfondo spionistico. Se il personaggio interpretato da Jean Arthur – l'inflessibile e rigida conservatrice che si dimostra vulnerabile e si lascia contagiare pian piano dalle gioie dell'amore – può ricordare la "Ninotchka" di Lubitsch, a farle da contraltare c'è una Marlene Dietrich come al solito seducente e altera, disinvolta e amoralmente cinica, che passa da un uomo all'altro a seconda delle convenienze. Ottimo cinema: d'altronde Wilder è uno di quei registi capaci di brillare anche nei lavori apparentemente minori.

Una curiosità: il motivo che John Lund fischietta la prima volta che si reca da Marlene è "Isn't it romantic?", canzone di Richard Rodgers e Lorenz Hart tratta dal bellissimo film "Amami stanotte" di Rouben Mamoulian, che Wilder evidentemente amava molto: la melodia si sentiva anche in una delle prime scene di "Frutto proibito" e la canzone verrà riutilizzata in "Sabrina".

21 novembre 2009

Gli abbracci spezzati (P. Almodóvar, 2009)

Gli abbracci spezzati (Los abrazos rotos)
di Pedro Almodóvar – Spagna 2009
con Lluís Homar, Penélope Cruz
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa.

Mateo Blanco, un tempo regista cinematografico e ora – divenuto cieco – sceneggiatore con lo pseudonimo di Harry Caine, ricorda l'episodio che ha cambiato la sua vita: l'amore per la giovane attrice Lena, già amante di un anziano e potente uomo d'affari (nonché produttore del film che i due stanno girando) che naturalmente giura vendetta. Narrato attraverso flashback e piani temporali che si intersecano, "Gli abbracci spezzati" è probabilmente il film più "cinefilo" di Almodóvar, e forse proprio in questa caratteristica risiede il senso ultimo di una pellicola che per il resto sembra un po' indecisa su cosa voler raccontare (l'arroganza e la seduzione del potere? una "semplice" storia d'amore? una vicenda di dolorosi segreti e annosi rimpianti? l'arte che trionfa sulla vita e sulla morte?) e sui toni con cui farlo (il melodramma? la commedia, anche scollacciata? il noir? un diario di lavorazione?). Il film è infatti un continuo omaggio al cinema d'autore, visto che cita e menziona Rossellini (la scena di "Viaggio in Italia" con Ingrid Bergman che il protagonista guarda in tv), Malle (Mateo vuole ascoltare la voce di Jeanne Moreau in "Ascensore per il patibolo"), Buñuel (Severine, il nome che Lena usava quando lavorava per una casa di appuntamenti, è un riferimento a "Bella di giorno"), Lang, Ray, Fellini (le cui opere figurano nella videoteca del regista), e così via, senza contare che Lena viene esplicitamente truccata come Audrey Hepburn. Ma è soprattutto un auto-omaggio allo stesso Almodóvar, che gioca a evocare molte delle sue pellicole precedenti (la scena di "Ragazze e valigie", il film diretto da Mateo, è un chiaro spoof di "Donne sull'orlo di una crisi di nervi", con tanto di gazpacho corretto col sonnifero; il tema della disabilità proviene da "Parla con lei" e "Carne tremula", quello del figlio segreto da "Tutto su mia madre", il voyeurismo e l'ossessione per le immagini riprese dalle videocamere da "Kika"). Anche la storia d'amore fra Mateo e Lena, così irreale e perfetta, sembra essere stata scritta apposta per il cinema, con tanto di melodramma, fuga e conclusione tragica. E all'amore per la ragazza da parte del protagonista si sostituisce infine quello per la settima arte: morta Lena, al regista non resta che amare il lungometraggio che ha girato insieme a lei, e ritrova pace e soddisfazione solo quando finalmente riesce a montarlo come aveva sempre desiderato: "i film devono essere finiti, anche se alla cieca". Come le foto strappate possono essere reincollate, così i filmati dei vari ciak possono essere rimontati fino a restituire il quadro d'insieme.
Di una certa importanza è inoltre il tema dei rapporti fra padri e figli (quello, inconsapevole, fra Mateo e Diego, il figlio che non sapeva di avere ma che già aveva adottato scegliendolo come suo assistente; e quello, pieno di ostilità, fra il produttore Ernesto e il figlio gay e represso che porta lo stesso nome e che documenta su pellicola tutta la lavorazione del film a uso e consumo del padre). E comunque sono tante le trovate geniali e le scene memorabili: le sessioni con la lettrice delle labbra (che il produttore assolda perché le immagini "rubate" dal figlio sul set sono senza sonoro), la Cruz che doppia sé stessa per dare l'addio al vecchio amante, il sesso sotto le lenzuola, i paesaggi "alieni" di Lanzarote.

19 novembre 2009

Piano... piano, dolce Carlotta (R. Aldrich, 1964)

Piano... piano, dolce Carlotta (Hush... Hush, Sweet Charlotte)
di Robert Aldrich – USA 1964
con Bette Davis, Olivia de Havilland
***1/2

Rivisto in DVD, con Marisa e altra gente.

Ossessionata da un delitto commesso quarant'anni prima, quando era stata accusata di aver ucciso (e decapitato!) il suo amante nel corso di un sontuoso party, l'anziana, folle e scorbutica Charlotte Hollis vive ormai come una reclusa nella fatiscente dimora di famiglia. E la visita dell'unica parente rimastale, la "premurosa" cugina Miriam, contribuisce a risvegliare ricordi e incubi nella sua mente. Due anni dopo "Che fine ha fatto Baby Jane?", Aldrich sforna un altro thriller psicologico dai toni forti che ha molto in comune con il precedente: lo sceneggiatore (Lukas Heller), l'autore del romanzo dal quale è tratta la storia (Henry Farrell), l'interprete principale (la straordinaria Bette Davis; Joan Craword, a lei invisa, fu invece sostituita dopo pochi giorni di riprese dalla più "malleabile" Olivia de Havilland, che comunque è perfetta nella parte di un personaggio ambiguo come Miriam), alcuni comprimari (Victor Buono, che nel film precedente faceva il pianista e qui è il padre di Charlotte) e soprattutto i temi (faide familiari, incubi e follia), le atmosfere tese e gli spaventosi colpi di scena di una pellicola crudele, "a metà tra l'horror gotico e il melodramma granguignolesco". Uno degli spunti centrali è il forte complesso di padre della protagonista, che le impedisce di abbandonare la casa natale e di staccarsi dal trauma vissuto in gioventù, condizionandole di fatto l'intera esistenza. Il cast è arricchito da Joseph Cotten nei panni di Drew Bayliss, il subdolo medico di famiglia, e Agnes Moorehead in quelli di Velma, la cameriera impicciona. E ci sono anche Cecil Kellaway (il bonario agente delle assicurazioni di Londra che indaga pervicacemente sull'antico delitto) e Mary Astor (la vedova dell'amante di Charlotte). Indimenticabile la canzone-tormentone – intitolata come il film – che si sente ripetutamente nel corso della pellicola, e splendida la fotografia in bianco e nero, capace di accrescere l'angoscia e la suspense così come di rendere irreale e onirica la sequenza dell'allucinazione di Charlotte. Con sette nomination agli Oscar, il lungometraggio fece segnare un record per quanto riguardava il cinema horror (poi superato da "L'esorcista", con 10 nomination, nove anni più tardi).

18 novembre 2009

L'insaziabile (Antonia Bird, 1999)

L'insaziabile (Ravenous)
di Antonia Bird – USA 1999
con Guy Pearce, Robert Carlyle
***

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Trasferito in uno sperduto avamposto sulle montagne della Sierra Nevada per essersi comportato da codardo durante la guerra fra Messico e Stati Uniti (siamo nel 1846), il giovane capitano John Boyd si ritrova ad affrontare un misterioso individuo che attira in trappola tutti i soldati del fortino: l'uomo, che si rivela essere uno spietato cannibale, sembra inoltre capace di rigenerare le proprie ferite e nasconde un incredibile segreto. La lotta fra i due diventa uno scontro fra paranoia e intelligenza, istinto di sopravvivenza e residui di umanità, sullo sfondo di una natura selvaggia e ostile. "L'insaziabile" è un film curioso e ingiustamente sottovalutato, che fonde scenari western (seppure sui generis: non siamo nel deserto, ma nei territori del nord-ovest) con una trama horror e che affronta in maniera originale e sorprendente il tema del cannibalismo, mescolandolo con i miti indiani del Wendigo (una creatura che divora i propri nemici assorbendone così le forze e le energie vitali). La sceneggiatura, impreziosita da numerosi colpi di scena, dà vita a un antagonista che, se da un lato rimane un essere umano in tutto e per tutto (con un'intelligenza superiore e dotato di una forte capacità di adattamento alle circostanze), dall'altro presenta caratteristiche proprie dei vampiri (il nutrirsi di energie altrui per sopravvivere e addirittura per migliorare il proprio stato di salute) e degli zombie (il "contagio": chiunque provi a mangiare carne umana, ne diventa poi dipendente). L'ispirazione storica viene probabilmente dalla vicenda (accaduta realmente nel 1846) della carovana Donner, un gruppo di coloni che rimase bloccato dalla neve sulla Sierra Nevada e che per sopravvivere si risolse a divorare le carni dei compagni morti (l'episodio è anche alla base di una storia di Ken Parker, "La carovana Donovan"). La lavorazione della pellicola fu problematica: avrebbe dovuto dirigerla Milko Manchevski, ma il regista macedone venne licenziato dopo due settimane e sostituito dalla Bird, che a mio parere si è dimostrata all'altezza. Buono il cast: oltre ai due personaggi principali (con nota di merito soprattutto per il mefistofelico e sardonico Carlyle), ci sono anche Jeffrey Jones (il comandante del fortino), David Arquette e Jeremy Davies. I toni ironici e grotteschi stemperano solo parzialmente le atmosfere da thriller sanguigno e gore: non è certo un film per stomaci deboli. Interessante e suggestiva anche la colonna sonora di Michael Nyman e Damon Albarn. La storia avrebbe potuto benissimo essere ambientata ai giorni nostri, ma l'averla collocata temporalmente durante la conquista del west, oltre a fornire un collegamento con la vicenda dei Donner, la rende una metafora dello sviluppo degli stessi Stati Uniti, che hanno "divorato" i territori e le risorse altrui per sopravvivere ed espandersi.

15 novembre 2009

Opera Omnia


Cari amici, oggi nasce ufficialmente un nuovo blog da me curato, che avrà come argomento nientemeno che l'opera lirica.
No, non sono impazzito! Ho semplicemente deciso di dare sfogo in qualche modo a un'altra delle mie grandi passioni, sperando magari di riuscire a far avvicinare al mondo dell'opera chi finora se fosse tenuto lontano per un ingiustificato timore reverenziale o semplicemente per la mancanza di spunti o di occasioni di contatto. Oltre a recensioni varie, su "Opera Omnia" (bel titolo, eh?) pubblicherò infatti una serie di "guide all'ascolto" che analizzeranno celebri opere brano per brano – grazie anche ai video di YouTube – a beneficio dei neofiti.
Dateci un'occhiata, vi aspetto lì!

14 novembre 2009

Belli e dannati (Gus Van Sant, 1991)

Belli e dannati (My own private Idaho)
di Gus Van Sant – USA 1991
con River Phoenix, Keanu Reeves
***1/2

Rivisto in DVD, con Marisa, Giovanni, Eleonora e Ginevra.

Mike (Phoenix) e Scott (Reeves) sono due ragazzi di strada, che vendono il proprio corpo e vivono alla giornata. Il primo è narcolettico (dunque lo vediamo spesso dormire sulle strade o all'aperto), ossessionato dai ricordi d'infanzia e soprattutto da quelli della madre che lo ha abbandonato poco dopo la nascita; il secondo è il rampollo di un ricco e potente uomo politico (il sindaco di Portland) che – anche come atto di ribellione nei confronti del padre – ha scelto di rinunciare a un'esistenza agiata per vivere ai margini della società. Per aiutare l'amico a rintracciare la madre, Scott lo accompagna nel suo viaggio da Seattle all'Oregon, dall'Idaho ("lo stato delle patate") all'Italia. Le loro storie personali si intrecciano: se la ricerca di Mike fa da filo conduttore alla pellicola, la vicenda di Scott è invece ispirata – con tanto di dialoghi "aulici" ripresi pari pari dal dramma originale – all'Enrico IV di Shakespeare, naturalmente con Scott nei panni del principe Henry. William Richert è Bob, il Falstaff della situazione, l'anziano e gaudente "maestro di vita" adorato (e sbeffeggiato allo stesso tempo) dai ragazzi, che viene poi rinnegato da Scott una volta che questi ha ripreso il proprio posto nella società. Molto bella la scena dei due funerali paralleli ma assai diversi fra loro, quello del padre di Scott e quello di Bob. Film folgorante, insolito, ricco di squarci surreali (le copertine delle riviste gay che si animano e parlano fra loro) o iperreali (i paesaggi, le strade infinite, le case), con una bella fotografia dai colori vivaci e dipinti. Come dice Mereghetti, "Van Sant è singolarmente pudico nell'affrontare il tema della prostituzione maschile e dell'amore omosessuale". Il lungometraggio, infatti, non mira a suscitare scandalo ma semplicemente a rappresentare le inquietudini, le pulsioni, gli amori e la solidarietà di personaggi anarchici e "diversi". Manca forse un po' di compattezza e coerenza, con la sceneggiatura che alterna scene intense a sequenze meno riuscite e svolte narrative consapevoli ad altre che sembrano improvvisate: ma anche questo fa parte del suo DNA. Ottima comunque la regia, che rivela già tutte le capacità multiformi del talentuoso Van Sant (il film è così diverso dal precedente "Drugstore cowboy"!). Il titolo originale si riferisce probabilmente al desiderio di Mike di trovare un proprio posto nel mondo dove vivere felicemente: se possibile il luogo delle sue origini, che infatti sogna più volte nel corso del suo viaggio. Le comunità dei "ragazzi di vita" di Portland e di Roma – e qui il pensiero corre a Pasolini – sono incredibilmente simili. Forse si tratta dell'interpretazione più celebre di River Phoenix, che richiama il James Dean di "Gioventà bruciata" (per l'acconciatura e il giubbino rosso) e che vinse a Venezia la Coppa Volpi come miglior attore, due anni prima della sua tragica scomparsa. Nel cast anche Chiara Caselli (la ragazza italiana di cui si innamora Scott) e Udo Kier (l'ambiguo tedesco Hans).

13 novembre 2009

Lady Oscar (Jacques Demy, 1979)

Lady Oscar (id.)
di Jacques Demy – Francia/Giappone 1979
con Catriona MacColl, Barry Stokes
**

Visto in divx.

Oscar François de Jarjayes, allevata come un maschio dall'inflessibile genitore, è il comandante delle guardie della regina Maria Antonietta alla raffinata corte di Versailles alla fine del diciottesimo secolo. Combattuta fra la fedeltà alla sovrana e l'amore che prova segretamente per il conte Fersen (l'amante svedese della regina), chiede il trasferimento nelle guardie francesi: qui entrerà in contatto con il mondo esterno e con gli ideali della rivoluzione, rendendosi conto delle sofferenze del popolo e partecipando – a fianco dell'amico d'infanzia André, che l'ha sempre amata – alla presa della Bastiglia. Tratto dal manga "Versailles no bara" di Ryoko Ikeda, che ha ispirato anche la celebre serie a cartoni animati, questa coproduzione franco-nipponica (girata in inglese) è una pellicola su commissione e poco ispirata, opera di un Demy già in fase calante. Comunque non è del tutto disprezzabile, almeno per le buone scenografie, i costumi e la cura dei lati più "frivoli" e romantici della storia. Se la sceneggiatura presta infatti una certa attenzione alle vicende personali e sentimentali di Oscar (ritratta come un personaggio molto fragile e insicuro, che nasconde a fatica la propria femminilità dietro le apparenze mascoline; l'elemento dominante nella coppia Oscar-André, a differenza che nel manga, è senza dubbio il secondo), meno approfondite e decisamente più superficiali sono invece quelle storico-politiche (gli eventi della rivoluzione francese sono per lo più riassunti da una voce fuori campo). D'altronde da un autore come Demy, da sempre più interessato alle tribolazioni intime e sentimentali dei suoi personaggi che al contesto sociale in cui essi vivono, c'era anche da aspettarselo: se si fosse voluto un respiro più epico e tragico, bisognava cercare altrove. Il cambiamento di Oscar, con la sua decisione di schierarsi dalla parte del popolo, seppur ampiamente anticipato, è raccontato in maniera un po' sbrigativa. E personaggi come la regina, il re e Fersen non sono che macchiette che scompaiono presto dalla storia, abbandonati prima del finale senza che ne venga mostrato il destino. Parimenti, anche figure come Jeanne (l'ambiziosa lavandaia che diventa un'arrampicatrice sociale) e sua sorella Rosalie fanno poco più che una comparsa. Il film, comunque, bene o male resta a galla per merito del tocco leggero del regista. Il finale è sicuramente la parte più debole, anche perché irrisolto: dopo l'assalto alla Bastiglia, che si compie in pochi secondi, Oscar sopravvive (a differenza che nel manga) perché la conclusione originale sembrava troppo tragica agli sceneggiatori. L'attrice che interpreta la protagonista, l'inglese Catriona MacColl, era al suo debutto (ma fu criticata perché "non abbastanza androgina"), mentre Oscar da bambina è una undicenne Patsy Kensit. Fra le scene più curiose, quella in cui Maria Antonietta vorrebbe inscenare una rappresentazione del "Barbiere di Siviglia" di Beaumarchais; fra quelle più "scandalose", la sequenza in cui Oscar si mostra a seno nudo e quella in cui – con l'intenzione di allontanare un suo pretendente (che peraltro si rivela invece più che interessato alle perversioni... non per nulla afferma di leggere Sade) – bacia sulla bocca una dama a corte, esplicitando così il sottotesto lesbico del personaggio.

10 novembre 2009

L'ultima tentazione di Cristo (M. Scorsese, 1988)

L'ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ)
di Martin Scorsese – USA 1988
con Willem Dafoe, Harvey Keitel
***1/2

Visto in DVD, con Giovanni.

Mentre sta per morire sulla croce, dopo un'esistenza trascorsa dapprima nel tentativo di ignorare il richiamo di Dio (suscitando l'ira del suo amico d'infanzia Giuda, che lo voleva più attivo nella resistenza contro i romani) e poi a diffonderne la parola attraverso predicazioni e miracoli, Gesù viene sottoposto a un'ultima tentazione da parte di Satana: spacciandosi per un angelo custode, il diavolo gli rivela infatti che il suo sacrificio non è più necessario. Gesù può così scendere dal Golgota e vivere finalmente come ha sempre desiderato, ovvero come un uomo normale, senza doversi fare carico della salvezza dell'umanità: può sposarsi (con Maddalena), avere figli e raggiungere una serena vecchiaia. Tratto dal libro-scandalo di Nikos Kazantzakis (autore anche di "Zorba il greco"), è una delle opere più controverse e sottovalutate di Scorsese, circondato com'è da un'aura da "film maledetto" che, a ben vedere, non ha in realtà molta ragion d'essere. Il Cristo ritratto dal cattolicissimo regista italo-americano (e interpretato da uno straordinario Willem Dafoe) è forse – è vero – il più "umano" mai visto sullo schermo (ha desideri carnali, incertezze, dubbi e timori), ma proprio per questo il suo sacrificio finale (quando si rende conto di aver "tradito" la propria missione, supplica Dio di riportarlo sulla croce) finisce con l'avere ancora maggior valore. Dopo aver inserito nei suoi lavori precedenti tante figure cristologiche e aver abbondantemente affrontato temi come la colpa e la redenzione, con questo film Scorsese va direttamente "alle fonti" e si occupa dell'argomento senza più metafore o giri di parole. All'uscita della pellicola ci furono picchetti di integralisti cristiani fuori dalle sale cinematografiche(*), la Commissione Episcopale Italiana invitò i periodici cattolici a non recensirlo, e tuttora alcuni ottusi bigotti lo considerano un film blasfemo: ma viene il dubbio che chi lo critica non lo abbia nemmeno visto, o lo abbia fatto molto distrattamente. Molto interessante, in particolare, la lettura che la sceneggiatura di Paul Schrader fa della figura di Giuda (Harvey Keitel), che si rivela in realtà il discepolo più fedele e devoto a Gesù, e che accetta malvolentieri l'ingrato compito di tradirlo pur di servire un bene più grande. Curiosamente, a un certo punto è proprio Giuda ad accusare Cristo di essere un traditore. Altra ironia, all'inizio, sta nel fatto che proprio il falegname Gesù è colui che fabbrica le croci che i romani usano per i condannati a morte (e le trasporta sulle proprio spalle, per autopunirsi di questa collaborazione e per tentare di scacciare la voce di Dio). Notevole, infine, la scena in cui l'anziano Gesù incontra Paolo (Harry Dean Stanton) che sta predicando la sua nuova religione, quella che diventerà il cristianesimo e in cui il Cristo non si riconosce affatto. Ottimo il cast, dove brilla Barbara Hershey nella parte di una sensuale Maria Maddalena, mentre David Bowie è Ponzio Pilato. La confezione è superba sotto ogni aspetto: la regia ipnotica ed elegante, la fotografia dominata dal rosso e dai colori caldi, le scenografie bellissime e minimaliste (il film venne girato in Marocco), la musica "africana" di Peter Gabriel. L'unico grave difetto che mi sento di segnalare non è dovuto al film stesso ma dipende dai maledetti Monty Python: da quando ho visto "Brian di Nazareth" non riesco a evitare di sghignazzare (e ad immaginarmi uomini vestiti da donna che chiedono "un cartoccio di ghiaia per il ragazzo") durante scene come quella della lapidazione. Una curiosità: l'ultima inquadratura, con la pellicola che diventa bianca, è dovuta a un guasto della macchina da presa che provocò una sovraesposizione che Scorsese decise di lasciare nel film.

(*) In Italia il film venne anche denunciato per vilipendio alla religione: ma fu assolto dal tribunale di Venezia con questa magnifica sentenza, che è quasi meglio di ogni recensione cinematografica.

9 novembre 2009

Fra le tue braccia (E. Lubitsch, 1946)

Fra le tue braccia (Cluny Brown)
di Ernst Lubitsch – USA 1946
con Jennifer Jones, Charles Boyer
***

Visto in DVD.

Inghilterra, 1938. Alla giovane Cluny Brown è sempre stato insegnato che deve "saper stare al suo posto": già, ma qual è il suo posto? Nipote di uno stagnino, ingenua, allegra ed esuberante, ha un debole per i lavori di idraulica e sogna di viaggiare in luoghi lontani. Viene però assunta come cameriera a servizio in una grande casa di campagna e cerca in tutti i modi di adeguarsi al suo nuovo ruolo, a costo di accettare la corte del farmacista del villaggio e di rassegnarsi a una vita grigia e senza prospettive. A salvarla sarà l'eccentrico professor Belinski, spiantato esule boemo e aspirante scrittore di gialli, l'unico disposto ad assecondare le sue inclinazioni. Il penultimo film di Lubitsch, in realtà l'ultimo che il grande regista ha completato (morì infatti durante le riprese del successivo "La signora in ermellino", nel 1947), è una sarcastica commedia sul tema delle classi sociali. Belinski e Cluny Brown portano una ventata di freschezza e di ribellione in un mondo miope, conservatore e chiuso in sé stesso, dove le divisioni fra l'alta società e i servitori sono ormai irrigidite da regole immutate da secoli: gli ingessati padroni di casa e i domestici snob, infatti, sono talmente calati nelle proprie parti da non riuscire a comprenderne i limiti. Si tratta naturalmente di un mondo destinato a scomparire da lì a poco con lo scoppio della seconda guerra mondiale, continuamente evocato con una certa inquietudine che serpeggia nascosta per tutta la pellicola. Brillanti come sempre i dialoghi e ottime le caratterizzazioni dei personaggi, compresi quelli di contorno: dall'impettito Hilary Ames (Reginald Gardiner), l'organizzatore del party dove i due protagonisti si incontrano per la prima volta, al farmacista piccolo-borghese Wilson (Richard Haydn) con tanto di madre (Una O'Connor) che si esprime soltanto con colpi di tosse; dall'altezzosa baronessina Betty Cream (Helen Walker), il prototipo della ragazza che "se la tira", al suo spasimante Andrew (Peter Lawford), ossessionato dai venti di guerra e convinto a torto che Belinski sia un attivista antinazista e un perseguitato politico. Bravissimi i due interpreti principali e meraviglioso il finale, senza parole, ambientato a New York davanti alla vetrina di una libreria.

7 novembre 2009

Wanted (T. Bekmambetov, 2008)

Wanted - Scegli il tuo destino (Wanted)
di Timur Bekmambetov – USA 2008
con James McAvoy, Angelina Jolie
**

Visto in DVD, con Martin.

Sbarcato negli Stati Uniti dopo il successo della saga de "I guardiani della notte", il regista russo (di origine kazaka) Bekmambetov si dedica a un adattamento (molto libero, a quanto pare) di una serie a fumetti di Mark Millar. Il protagonista Wesley (McAvoy), una vera nullità nella vita e nel lavoro, scopre che suo padre – che non ha mai conosciuto – apparteneva a una millenaria "confraternita" di assassini che governa segretamente i destini del mondo intero, e soprattutto di averne ereditato gli stupefacenti poteri, che gli consentono – fra le altre cose – di curvare i proiettili in volo. Dopo un faticoso addestramento a opera dell'affascinante Fox (Jolie), Wesley entra a far parte della setta, che si nasconde in uno stabilimento tessile dove riceve gli ordini sugli obiettivi da eliminare da un fantomatico "telaio del destino". Il ragazzo è così in grado di mettersi sulle tracce di colui che ha ucciso suo padre, un misterioso traditore che sta cercando di minare le basi stesse della confraternita: ma non tutto è come sembra... Lo stile estetico-visivo del regista russo si mette perfettamente al servizio di un blockbuster hollywoodiano, e ne risulta una pellicola fracassona, con scene d'azione quanto mai implausibili, da seguire "a cervello spento" ma comunque superiore alla media del genere. Numerosi i paralleli con "Matrix": non solo nello stile (ralenti, bullet time, inseguimenti ipercinetici, ecc.) ma anche nei contenuti (un normale impiegato che scopre l'esistenza di un mondo ben più vasto e parallelo al suo, governato da leggi metafisiche e nel quale è destinato ad eccellere come eroe d'azione). Il cast è completato da nomi come Morgan Freeman, Terence Stamp, Thomas Kretschmann e persino il Konstantin Khabenskiy dei precedenti film russi di Bekmambetov.

6 novembre 2009

Shaolin wooden men (Chen Chi-hwa, 1976)

Shaolin wooden men, aka Shaolin chamber of death
(Shao Lin mu ren xiang)
di Chen Chi-hwa – Hong Kong 1976
con Jackie Chan, Kam Kong
**

Rivisto in VHS, in inglese.

Il giovane Jackie è un discepolo muto del tempio di Shaolin: vorrebbe apprendere le arti marziali per vendicare suo padre, alla cui morte – a opera di un guerriero mascherato – aveva assistito da bambino, ma è costretto invece a svolgere compiti umili e faticosi (come quello di trasportare pesanti secchi d'acqua lungo una scala dal fiume al monastero, indossando calzature di ferro!). Viene infine addestrato al kung fu, oltre che da una suora buddista, anche da un misterioso prigioniero che gli altri monaci hanno incatenato in una grotta sotterranea e del quale diventa un fedele seguace e allievo. Si dimostra così in grado di superare la più difficile prova del tempio, vale a dire sconfiggere i terribili automi di legno che danno il titolo alla pellicola. Ma poi scoprirà che il responsabile della morte del padre è proprio il suo nuovo maestro, in realtà a capo di una banda di malviventi. Sicuramente uno fra i migliori film di Jackie pre-1978 (ovvero prima della sua "esplosione" definitiva con i due lungometraggi diretti da Yuen Woo-ping, "Snake in the eagle's shadow" e "Drunken master"), questo gongfupian ha diversi spunti interessanti, a partire dalla relazione di rispetto/odio fra il protagonista e il maestro. Se la sequenza dei pupazzi di legno non è in fondo nulla di speciale, decisamente apprezzabile è invece il combattimento finale, probabilmente coreografato dallo stesso Jackie (al quale il regista Chen Chi-hwa concede maggior margine di improvvisazione di quanto non facesse Lo Wei, qui accreditato solo come supervisore). Curiosa la scelta di rendere muto il personaggio principale: forse c'erano ancora dubbi sulle capacità recitative del giovane attore. Da notare che si tratta del primo film in cui Jackie compare dopo essersi sottoposto a un piccolo intervento di chirurgia plastica agli occhi (suggeritogli da Lo Wei, secondo il quale Jackie era "troppo brutto" per essere il protagonista di un film).

5 novembre 2009

New fist of fury (Lo Wei, 1976)

Il ritorno di palma d'acciaio (Xin jing wu men)
di Lo Wei – Hong Kong 1976
con Jackie Chan, Nora Miao
*1/2

Visto in VHS, in inglese.

Negli anni immediatamente successivi alla tragica morte di Bruce Lee, il cinema di Hong Kong – rimasto orfano di colui che per la prima volta lo aveva reso popolare in tutto il mondo – si lanciò alla disperata ricerca di qualcuno che potesse raccoglierne il testimone. Nacquero così centinaia di pellicole con sosia e imitatori che ne scimmiottavano lo stile, e spesso con titoli che non avevano altro scopo che quello di ingannare lo spettatore, facendogli credere che si trattasse di film inediti del grande Bruce. Ma ci fu anche chi, come Lo Wei (mediocre regista ma attivissimo produttore), provò effettivamente a battere nuove strade in cerca del "vero" erede di Bruce. Fu proprio Lo a dare una chance al giovane Jackie Chan – fino ad allora relegato in ruoli minori all'interno di pellicole tutt'altro che memorabili – e a renderlo per la prima volta(*) protagonista di un film, fra l'altro il primo vero sequel ufficiale del lungometraggio che aveva dato l'avvio alla fama imperitura di Bruce Lee, quel "Fist of fury" (da noi "Dalla Cina con furore") diretto dallo stesso Lo Wei nel 1972. La pellicola comincia infatti con alcuni personaggi del primo film (tra cui Le-er, la ragazza amata da Chen) che lasciano Shanghai dopo la morte dell'amico per trasferirsi a Taiwan e fondare lì una nuova scuola di arti marziali. Anche nell'isola, però, le forze d'occupazione giapponesi la fanno da padrone; e Okimura, uno spietato maestro nipponico (Chan Sing), intende portare tutte le scuole cinesi sotto il proprio controllo. La "testa calda" Jackie, inizialmente un semplice ladruncolo di strada, guiderà la ribellione contro gli oppressori, in maniera non dissimile da come aveva fatto il personaggio di Bruce Lee nel film precedente. Anche il finale è praticamente identico, il che rende la pellicola più un remake che un sequel. La qualità, però, non è il massimo, soprattutto a livello di sceneggiatura: per la maggior parte del film Jackie Chan sembra entrare e uscire in continuazione dalla storia, mentre il tema del patriottismo (l'unità dei cinesi contro le prepotenze dei giapponesi) è reso in maniera banale e stereotipata, e i personaggi sono poco approfonditi. Da sottolineare comunque le figure femminili, che brillano per la poca convenzionalità: oltre alla coraggiosa Le-er (interpretata ancora da Nora Miao, vero anello di congiunzione con "Dalla Cina con furore", che a un certo punto ripensa con nostalgia a Bruce Lee mentre sullo schermo scorrono alcuni fermo-immagine dei suoi film precedenti), c'è la madre del protagonista, che lavora come prostituta per gli ufficiali giapponesi (una sottotrama interessante ma poi non sfruttata a dovere), e soprattutto la figlia del "cattivo" (Cheng Siu-Siu), un'abile e crudele karateka che combatte alla pari contro gli uomini (e non solo contro Nora Miao, come ci si sarebbe aspettato). In ogni caso, il film rappresenta soprattutto un'occasione mancata: sin dalle prime scene in cui appare sullo schermo, è evidente come Jackie – se lasciato a sé stesso – tendesse già a muoversi in direzione di un kung fu comico e disordinato; eppure Lo Wei lo costringe a "irrigidirsi" nella speranza di farne un alter ego di Chen, con risultati poco soddisfacenti. Scegliendo Jackie Chan come potenziale erede di Bruce Lee, il regista aveva avuto l'intuizione giusta: ma l'ha sprecata, non comprendendo quali fossero le vere peculiarità del giovane attore, che dovette attendere ancora un paio d'anni prima di esplodere nel firmamento delle stelle del cinema d'azione.

(*) C'era già stato in realtà un ruolo di protagonista per Jackie: "Little Tiger of Canton", nel 1971. Ma il film non arrivò mai nelle sale cinematografiche, se non in una distribuzione limitata nel 1973, e venne infine rimontato per uscire nel 1979 con il titolo "Master with cracked fingers".

3 novembre 2009

Fuga da Los Angeles (J. Carpenter, 1996)

Fuga da Los Angeles (Escape from L.A.)
di John Carpenter – USA 1996
con Kurt Russell, Steve Buscemi
**1/2

Visto in DVD.

Dopo che un devastante terremoto ha separato la città di Los Angeles dal resto della California, il regime integralista instauratosi negli Stati Uniti ha trasformato la neonata "isola dei dannati" in una terra di nessuno, dove deportare gli indesiderati e tutti coloro che trasgrediscono le rigide leggi morali del paese. Ma Utopia, figlia ribelle del presidente americano (nel frattempo sull'orlo di una guerra mondiale contro i paesi oppressi del terzo mondo), ha portato laggiù un pericoloso dispositivo che consente di spegnere "a distanza", per mezzo di satelliti artificiali, ogni fonte di energia sulla Terra. L'inossidabile eroe anarchico "Jena" Plissken viene così incaricato di recuperare la preziosa arma, caduta nel frattempo nelle mani di Cuervo Jones, un guerrigliero sudamericano. Più che un sequel (è ambientato nel 2013), è quasi un remake – anzi, una copia 1:1, almeno all'inizio – del classico "1997: Fuga di New York", del quale riprende la maggior parte degli spunti e delle situazioni in un'operazione-nostalgia che oltre all'autocitazione sfiora il plagio. Ma è soprattutto un film autoironico, realizzato dichiaratamente per divertirsi e divertire: sarebbe un peccato mortale prenderlo sul serio o giudicarlo secondo canoni estranei al cinema carpenteriano, fumettistico e con le radici ancora ben salde negli anni '80. Come testimoniano il sottotesto politico e il finale nichilista, però, Carpenter pigia anche (e in maniera ben più radicale che nel prototipo) sul pedale della satira anti-imperialista, criticando la possibile deriva militare e teocratica degli Stati Uniti. Non che gli antagonisti rappresentino un'alternativa migliore: il "cattivo" è un improbabile clone di Che Guevara, mentre fra i comprimari spiccano i buffi personaggi interpretati da Steve Buscemi (il venditore di mappe delle abitazioni dei vip) e Bruce Campbell (il chirurgo folle). Nel cast ci sono anche Valeria Golino, Pam Grier, Peter Fonda e Cliff Robertson. L'ambientazione a Los Angeles consente al regista di presentare luoghi celebri (da Disneyland a Hollywood, passando per Beverly Hills) in versione devastata e apocalittica, e soprattutto di farsi beffe, come in un grottesco specchio deformante, delle ossessioni dei californiani (da quella per lo sport a quella per la bellezza, con la sequenza ambientata nella clinica di chirurgia estetica). Fra le scene clou, l'inseguimento a un'automobile a bordo di una tavola da surf e la sfida sul campo da basket (che si conclude, come l'incontro di lotta nel film precedente, con la folla – inizialmente ostile – che acclama il protagonista).