30 settembre 2009

District 9 (Neill Blomkamp, 2009)

District 9 (id.)
di Neill Blomkamp – Sudafrica/USA/NZ 2009
con Sharlto Copley, David James
**1/2

Visto al cinema Plinius.

Una gigantesca nave extraterrestre si ferma "in panne" nel cielo sopra Johannesburg. Lo scafo è colmo di alieni-crostacei, denutriti e in condizioni pietose, che vengono evacuati in un campo di permanenza temporaneo. Ma questo in breve tempo si trasforma in una squallida baraccopoli ai margini della città, con tutto il corollario di criminalità e illegalità che ne segue: vent'anni dopo è sorto un nuovo apartheid e l'ostilità fra umani e alieni è alle stelle, con i primi che non tollerano più la presenza dei secondi. Una potente organizzazione militare privata organizza quindi lo sgombero dello slum, ma durante le operazioni uno degli addetti viene contaminato dai fluidi extraterrestri e il suo dna comincia a mutare: di colpo il suo organismo diventa preziosissimo, anche perché è l'unico essere umano in grado di usare le tecnologie (e soprattutto le armi) degli alieni, che funzionano soltanto se a impugnarle sono loro. Prodotta da Peter Jackson, l'opera prima di Blomkamp colpisce subito per l'originalità della messinscena e la lettura in chiave fantascientifica di questioni sociali e politiche come lo sbarco dei clandestini e il modo in cui vengono accolti nei paesi più avanzati. Peccato solo che dopo una prima mezz'ora accattivante, caratterizzata da toni satirici e grotteschi (finanche esagerati), le idee si esauriscano e la pellicola si trasformi in un action movie hollywoodiano come tanti, che punta tutto su confuse scene d'azione (gli effetti speciali, soprattutto per quanto riguarda i mecha, si fanno invadenti e ricordano "Transformers") e su sviluppi e caratterizzazioni straviste e improbabili (il protagonista, da sempliciotto e razzista, stringe amicizia con uno dei "gamberoni" e diventa eroico e disinteressato). Inoltre, oltre ad abbandonare completamente il parallelo con i profughi (non si fa accenno al motivo del viaggio degli extraterrestri, e tutto lascia intendere che la loro nave si sia fermata sulla Terra soltanto per una banale mancanza di carburante) viene meno anche l'impostazione da mockumentary con le finte interviste e i reportage televisivi che avevano dominato la prima parte, che lascia spazio a una narrazione più convenzionale, al cui servizio c'è per di più una regia fastidiosa e moderna (camera a mano, montaggio frenetico). In fin dei conti, dunque, nonostante gli indubbi pregi della pellicola, si resta soprattutto amareggiati per l'occasione sprecata e per la mancanza di coerenza e di coraggio nel portare fino in fondo le scelte stilistiche iniziali.

29 settembre 2009

Re Lear (Jean-Luc Godard, 1987)

Re Lear (King Lear)
di Jean-Luc Godard – USA 1987
con Peter Sellars, Molly Ringwald
*

Visto in DVD, con Marisa.

Ispirandosi soltanto superficialmente alla tragedia di Shakespeare e lasciandosi guidare da un ostico intellettualismo, Godard realizza un film che – come suo solito – rinuncia da subito alla coerenza e all'impostazione narrativa per presentarsi come un flusso casuale di concetti, scritte e immagini, rendendo alquanto difficile il coinvolgimento dello spettatore: e infatti, mentre lo vedevo, i miei pensieri vagavano spesso altrove e ho perduto quasi subito il contatto emozionale con la pellicola. Dopo un incipit nel quale agiscono in prima persona lo sceneggiatore Norman Mailer e sua figlia Kate, l'attenzione del regista si sposta su un discendente del bardo inglese, William Shakespeare Junior Quinto (Sellars, autore in parte anche della sceneggiatura), incaricato di recuperare le opere del suo antenato che sono andate perdute dopo il disastro di Chernobyl, in seguito al quale tutta l'arte e la cultura del mondo è scomparsa. Il giovane si reca a Nyon, in Svizzera, dove incontra il gangster mafioso Don Learo (Burgess Meredith) e la figlia Cordelia (l'ottima Ringwald), oltre ad altri bizzarri personaggi. Da qui la vicenda si fa confusa e sfilacciata, e a chiarirla o a risollevarla non bastano le apparizioni (tutte rigorosamente non accreditate) di attori del calibro di Julie Delpy, Leos Carax e persino Woody Allen (in un brevissimo cameo). Godard stesso recita nel ruolo dell'eccentrico professor Pluggy.

28 settembre 2009

Disastro a Hollywood (B. Levinson, 2008)

Disastro a Hollywood (What Just Happened)
di Barry Levinson – USA 2008
con Robert De Niro, Robin Wright Penn
*1/2

Visto in DVD, con Albertino, Ghirmawi ed Enzo.

Non funziona quasi niente in questa commedia satirica che fa parte del ricco filone in cui Hollywood ironizza su sé stessa. De Niro è un produttore che attraversa un momento di difficoltà: non solo nella vita familiare (sta cercando di riallacciare i rapporti con la seconda ex moglie) ma soprattutto sul lavoro, con contrattempi piccoli e grandi che vanno dal dover spingere un bizzoso regista europeo a tagliare alcune scene dalla sua ultima pellicola prima che questa venga inviata al festival di Cannes (in particolare la scena in cui i cattivi ammazzano sullo schermo il cane del protagonista, pesantemente contestata durante gli "screen test" con il pubblico) al convincere il riottoso Bruce Willis a tagliarsi la folta barba, invisa ai finanziatori, prima dell'inizio delle riprese del suo nuovo blockbuster. Il "povero" produttore viene raffigurato come l'anello debole della filiera cinematografica, quello che deve mediare fra tutte le parti e che viene considerato responsabile di ogni possibile intoppo. Ma risulta poco convincente che a dipingerne il ritratto, puntando il dito sulle distorsioni, le ipocrisie e i difetti del sistema, dove l'unica cosa che conta sono gli incassi e i film (e gli autori) vengono definiti letteralmente "bestie da domare", non sia una pellicola indipendente ma proprio un lungometraggio hollywoodiano, mainstream e ricco di star (alcune delle quali, come Bruce Willis e Sean Penn, interpretano sé stesse, mentre altre, come De Niro, John Turturro, Catherine Keener o Stanley Tucci, recitano il ruolo di personaggi fittizi, con una distonia e un'arbitrarietà che si fa fatica ad accettare). La riflessione sulla caducità del potere, infine, è quanto mai risaputa e deboluccia. De Niro, comunque, si impegna e sforna una delle sue migliori performance recenti.

24 settembre 2009

Venezia e Locarno 2009 – conclusioni

Dopo 32 film visti in 8 giorni, e dopo aver riveduto e corretto alcuni giudizi scritti forse troppo in fretta e a caldo, è giunto il momento di riflettere sulla rassegna appena conclusa, che si è rivelata soddisfacente sotto molti punti di vista. Fra i film che ho gradito di più citerei "Lourdes" (forse il migliore della panoramica), le divertenti commedie multietniche "Soul Kitchen" e "Akadimia Platonos" e il tragicomico russo "Kakraki". Anche il cinema di genere ha dimostrato grande vitalità, sparando ottime cartucce come il prison movie spagnolo "Celda 211", l'horror francese "La horde", il thriller hongkonghese "Accident", il giallo franco-svizzero "Complices" e in fondo anche il Leone d'Oro "Lebanon", che resta pur sempre un film di guerra. Le delusioni maggiori vengono invece dal cinema italiano.

La cosa più bella è stata comunque la varietà delle pellicole proiettate, sia per temi e generi sia per provenienza geografica: ho potuto vedere film russi, cinesi, giapponesi, mongoli, egiziani, iraniani, israeliani, serbi, albanesi, slovacchi, greci, tedeschi, danesi, spagnoli, francesi, argentini, peruviani, colombiani, il tutto nello splendore delle lingue originali. Che differenza con il desolante panorama attuale della distribuzione nelle sale, dove ormai si vedono solo film italiani e americani, questi ultimi perdipiù doppiati sempre peggio.

22 settembre 2009

Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans (W. Herzog, 2009)

Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans
(Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans)
di Werner Herzog – USA 2009
con Nicolas Cage, Eva Mendes
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Remake, più nominale che di sostanza, del capolavoro di Abel Ferrara con Harvey Keitel: ma sarebbe ingiusto fare confronti fra le due pellicole (che andrebbero probabilmente a svantaggio di Herzog, poco a suo agio con i lavori su commissione), visto che in realtà si tratta di film piuttosto diversi e con minimi punti in comune, giusto quello di un poliziotto corrotto e alla deriva come protagonista. Già lo spostamento dell'azione da New York a New Orleans, città con un'identità forte e molto differente da quella della Grande Mela, contribuisce a dare a questo film una caratterizzazione del tutto autonoma. Cage (decisamente convincente, soprattutto in lingua originale: magnifica la scena in cui si scatena contro due vecchiette) è un tenente di polizia incaricato di indagare sul massacro di una famiglia di immigrati clandestini da parte di alcuni trafficanti di droga. Diventato a sua volta tossicodipendente e cocainomane per problemi di salute, non esita a compiere ogni sorta di nefandezza per procurarsi illegalmente la droga per sé e per la sua amante, la prostituta di lusso Frankie, e per tirarsi fuori dai numerosi guai che lo affliggono: debiti di gioco (un altro tratto in comune con il vecchio film), vendette di potenti a cui ha pestato i piedi, piccoli e grandi problemi familiari, l'impossibilità di arrestare i malviventi su cui sta indagando. Ambientato in una New Orleans appena sopravvissuta alla furia dell'uragano Katrina, con serpenti che nuotano nell'acqua e coccodrilli che invadono le strade provocando incidenti stradali, la pellicola è permeata da un'atmosfera malsana e allucinata (memorabile la scena dell'iguana e quella dell'"anima danzante") che si sposa molto bene con la discesa all'inferno e la successiva risalita del protagonista. Rispetto al film di Ferrara sono del tutto assenti gli elementi religiosi e quindi manca il tema della redenzione: la riabilitazione del protagonista non è spirituale bensì materiale, il che rende forse meno efficace il finale di un film che comunque ho gradito parecchio: non sarà certo da annoverare fra i maggiori capolavori di Herzog, ma il regista tedesco dimostra di saper realizzare un lavoro professionale anche a Hollywood, aggiungendo un tocco personale a una sceneggiatura non sua e a un genere che di solito non frequenta.

Cosmonauta (S. Nicchiarelli, 2009)

Cosmonauta
di Susanna Nicchiarelli – Italia 2009
con Marianna Raschillà, Pietro Del Giudice
**1/2

Visto al cinema Eliseo (rassegna di Venezia)

Primi anni sessanta: la giovane Luciana, cresciuta sin da bambina nel mito del comunismo ma affascinata – come il fratello maggiore Arturo – più dai successi sovietici nella conquista dello spazio che dalle tematiche sociali, si barcamena in un quartiere alla periferia di Roma fra i primi turbamenti amorosi, le tensioni familiari e l'impegno politico a livello giovanile. Pur con diversi difetti (una regia ordinaria, una sceneggiatura che cerca sempre la soluzione più facile, una colonna sonora ruffiana), resta il migliore dei quattro film italiani che ho visto alla rassegna di Venezia. La militanza politica e il fascino per le conquiste spaziali si riducono ben presto a far solo da sfondo a disagi e turbamenti del tutto personali e comuni a ogni adolescente: amori, amicizie, risentimenti, frustrazioni, conflitti familiari. E il fatto che ci siano episodi e situazioni non risolte (come il rapporto con il patrigno, interpretato da Sergio Rubini) non va a discapito di un film che ha i suoi pregi nella leggerezza e nella naturalezza con cui viene seguito il personaggio principale e il suo rapporto con il mondo che la circonda. Bravi i giovani attori, mentre fra gli adulti spicca Claudia Pandolfi nel ruolo della madre di Luciana. La regista, al suo esordio, interpreta invece il ruolo della sensibile militante Marisa. Una nota: "cosmonauta" è il termine che designa i viaggiatori spaziali russi; il termine "astronauta" è invece riservato agli americani. Il film è preceduto da un breve corto d'animazione a passo uno dedicato alla prima missione spaziale (la Sputnik 5, del 1960) che ha mandato nello spazio e poi riportato vivi a terra degli esseri viventi (topi, cagnolini e insetti).

The horde (Y. Dahan, B. Rocher, 2009)

The horde (La horde)
di Yannick Dahan, Benjamin Rocher – Francia 2009
con Jean-Pierre Martins, Claude Perron
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Quattro poliziotti penetrano nottetempo in un palazzo di periferia per eliminare una banda di criminali che si nasconde al suo interno: si tratta di una spedizione non autorizzata e a scopo vendicativo, visto che i malviventi avevano ammazzato uno di loro, "uno di famiglia". Ma la sanguinosa resa dei conti è interrotta improvvisamente dal violento attacco di un'orda di zombi che hanno circondato l'edificio e messo a ferro a fuoco l'intera città. Poliziotti e criminali saranno dunque costretti a un'indesiderata alleanza per cercare di aprirsi una via di fuga fino al piano terra. Zombie movie sporco e violento che sfrutta tutti i luoghi comuni del genere e che, come spesso capita, non fornisce spiegazioni sull'origine dell'epidemia, limitandosi a mostrare il massacro e la lotta continua fra i sopravvissuti e gli infettati. A differenza delle creature di Romero, qui i mostri sono forti, veloci e quasi indistruttibili, mentre fra i protagonisti le differenze fra buoni e cattivi cadono da subito. Un film girato con potenza ed energia, con buone interpretazioni e una sceneggiatura senza sbavature, anche se di sorprese ce ne sono poche.

21 settembre 2009

Accident (Soi Cheang, 2009)

Accident (Yi ngoi)
di Soi Cheang – Hong Kong 2009
con Louis Koo, Richie Ren
***

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Bel thriller psicologico prodotto dalla Milkyway di Johnnie To e diretto con freddezza ed eleganza dal regista di "Love battefield", già suo assistente. "Mente", "Trippa", "Zio" e "Donna" sono quattro killer professionisti che portano a termine i propri incarichi facendo passare gli omicidi per elaboratissimi incidenti, inscenati senza lasciare mai nulla al caso. Le loro vittime sembrano soccombere a fatalità bizzarre e casuali, ma in realtà dietro ogni sciagura si nasconde un'accurata regia. Dopo aver concluso l'ennesimo lavoro su commissione, però, uno dei suoi uomini viene ucciso da un autobus impazzito e "Mente" si convince che qualcuno li abbia presi di mira usando i loro stessi metodi. In un crescendo di paranoia e di tensione, il film si dipana fino al colpo di scena finale, fra ossessioni e inganni, giochi di specchi e una follia autodistruttiva che porta a caricare di significati particolari anche gli eventi più banali. I lunghi appostamenti e le indagini del protagonista con microfoni e registrazioni possono far pensare addirittura a "La conversazione" di Coppola, mentre un ruolo particolare lo giocano gli ambienti: dalle strade (illuminate dai neon, affollate di passanti, percorse dal traffico o battute dalla pioggia) agli interni (appartamenti vuoti, uffici asettici, vasti capannoni, parcheggi deserti).

Yona yona penguin (Rintaro, 2009)

Yona yona penguin
di Rintaro – Giappone 2009
animazione digitale
*1/2

Visto al cinema Ariosto, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

La piccola Coco, una bambina che adora i pinguini al punto da vestirsi come loro, viene trascinata da uno strano gatto meccanico in un'altra dimensione: qui dovrà difendere il paese dei folletti dalle prepotenze dei diavoli, aiutata nel finale anche da un angioletto caduto dal cielo e dai leggendari sette dei della fortuna. Film d'animazione rivolto esclusivamente a un pubblico infantile, con un'estetica da libro illustrato e una dinamica da videogioco. Incipit a parte, non è nemmeno troppo originale, visto che le situazioni e gli sviluppi sono piuttosto stereotipati. Inoltre, anche se i disegni sono belli e colorati, non mi è piaciuto lo stile di animazione, con personaggi che restano dei pupazzetti sempre uguali a sé stessi: sembra quasi che gli artisti, una volta completato il lavoro di character design e di modellizzazione, non abbiano più messo mano alla pellicola e che questa sia stata realizzata solo da tecnici.

Cella 211 (Daniel Monzón, 2009)

Cella 211 (Celda 211)
di Daniel Monzón – Spagna 2009
con Alberto Ammann, Luis Tosar
***

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Tesissimo prison movie che si svolge tutto nell'arco di poche ore senza lasciare un attimo di respiro allo spettatore. Il giovane Juan, assunto come secondino in un carcere di massima sicurezza, si ritrova coinvolto in una violenta rivolta organizzata dai prigionieri, isolato dalle altre guardie e rinchiuso insieme ai detenuti. Poiché nessuno lo conosce, visto che avrebbe dovuto cominciare a lavorare solo il giorno dopo e si trovava ancora in abiti borghesi, riesce a farsi passare per un carcerato e ad accattivarsi persino le simpatie del carismatico Malamadre, il capo dei detenuti. Ma la situazione, con il passare delle ore, precipita anziché migliorare. E mentre Juan comincia a rendersi conto che i rivoltosi non hanno tutti i torti e che le loro rivendicazioni sono giuste, il drammatico svolgersi degli eventi lo condurrà a scelte radicali. Tensione alle stelle, ottime caratterizzazioni ed eccellente confezione per un film di genere che porta le vicende dei personaggi fino alle estreme conseguenze. In particolare è interessante l'evoluzione del rapporto fra i due protagonisti, che giunge a sfociare in una solidarietà a doppio senso, resa efficacemente sullo schermo anche grazie alle buone prove degli interpreti.

Honeymoons (G. Paskaljevic, 2009)

Honeymoons (Medeni mesec)
di Goran Paskaljevic – Serbia/Albania 2009
con Nebojsa Milovanovic, Jelena Trkulja
**

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Due fastosi matrimoni vengono celebrati lo stesso giorno, uno in Albania e uno in Serbia: fra gli invitati, in entrambi i casi, c'è una giovane coppia che ha deciso di abbandonare il proprio paese in cerca di una vita migliore in Europa. L'albanese Nick vuole portare in Italia Maylinda, la fidanzata di suo fratello, disperso da tre anni e probabilmente morto in mare; il serbo Marko ha sposato Vera contro il volere di suo padre e ora progetta di trasferirsi in Austria per suonare nella Filarmonica di Vienna. I loro sogni, però, cozzeranno contro la burocrazia e i pregiudizi dei sorveglianti di frontiera. Un film incisivo dal regista de "La polveriera", con due storie che corrono in parallelo senza incrociarsi mai e diviso nettamente in tre parti. Le prime due, quelle dedicate ai matrimoni, mostrano difficili rapporti familiari, il contrasto fra l'arretratezza delle campagne e la ricchezza delle città, l'incomunicabilità generazionale, e tutto l'odio che scorre fra i vari popoli della penisola balcanica (esemplificato dalla faida tra i fratelli protagonisti dell'episodio serbo). La terza parte, invece, racconta i "viaggi di nozze" delle due coppie verso l'Europa e il loro precipitare in una sorta di limbo dettato dai regolamenti e dalle autorità. Lascia rabbia e amaro in bocca, ma è questo il suo scopo.

Scheherazade, tell me a story (Y. Nasrallah, 2009)

Scheherazade, tell me a story (Ehky ya Scheherazade)
di Yousry Nasrallah – Egitto 2009
con Mona Zaki, Hassan El Raddad
**

Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Hebba, bella e benestante anchorwoman progressista, è la conduttrice di un seguitissimo programma televisivo che si occupa di denuncia sociale. Ma i contenuti della trasmissione, spesso sgraditi ai politici, rischiano di mettere a repentaglio la carriera del marito, un giornalista sempre pronto alla genuflessione verso i potenti e che aspira a dirigere un importante quotidiano governativo. Lui le chiede pertanto di addolcire temporaneamente i temi dello show, e lei decide di intervistare una serie di donne su argomenti quali il sesso, il matrimonio e il tradimento. Non ha però fatto i conti con una semplice verità: "ogni cosa è politica". I racconti delle intervistate, infatti, mettono in luce tutto un mondo che vede le donne come vittime di continui inganni, maltrattamenti e sopraffazioni da parte degli uomini... A suo modo originale nell'affrontare il tema in maniera affabulatoria, non documentaristica e lontana dal classico cinema di denuncia, è quasi un film a episodi che all'interno della cornice rappresentata dalla vicenda di Hebba racconta tre storie al femminile (la più bella è quella delle tre sorelle che dapprima si contendono il ragazzo che gestisce il negozio di famiglia e poi vengono da lui ingannate). Non mancano frecciate di ogni tipo verso la sharia e le discriminazioni di natura sociale e religiosa, ma l'argomento è affrontato a tutto tondo e la sceneggiatura mostra come nemmeno le classi più abbienti, apparentemente moderne e "aperte", siano immuni dal fenomeno.

20 settembre 2009

Lebanon (Samuel Maoz, 2009)

Lebanon (id.)
di Samuel Maoz – Israele 2009
con Itay Tiran, Yoav Donat
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Uno dei film più claustrofobici che mi sia mai capitato di vedere. A parte la prima e l'ultima inquadratura, si svolge infatti completamente all'interno della torretta di un carro armato: e anche quando osserviamo il mondo esterno, questo viene mostrato soltanto attraverso il mirino del veicolo. La pellicola racconta il primo giorno della prima guerra del Libano (giugno 1982) seguendo un gruppo di giovani militari israeliani impegnati in quella che avrebbe dovuto essere una missione di routine in un villaggio appena bombardato. Ma si ritroveranno intrappolati in una zona sotto il controllo siriano e dovranno attraversare una notte da incubo per tornare tra le fila amiche. Gli orrori della guerra, il sangue e la morte sono descritti con rara efficacia e crudo realismo, e i quattro protagonisti esibiscono tutte le debolezze e le paure di ragazzi che si sono trovati coinvolti in qualcosa di orribile e di più grande di loro. Il mirino del tank diventa una sorta di occhio puntato sugli scenari di un mondo assurdo e disumano: e per fortuna l'antispettacolarità evita il rischio di generare l'effetto della soggettiva di un videogioco. All'interno del veicolo corazzato, una scritta recita "L'uomo è d'acciaio, il carro armato è solo ferraglia", ma lo svolgersi degli eventi sembra contraddirla e il carro si rivela l'unica protezione e l'unica speranza di sopravvivenza per quattro ragazzi deboli e terrorizzati. Il film ha vinto il Leone d'Oro, premio in fondo meritato per l'idea alla base della pellicola e per l'ottima realizzazione, anche se forse sarebbe bastato un riconoscimento minore.

Good Morning Aman (C. Noce, 2009)

Good Morning Aman
di Claudio Noce – Italia 2009
con Said Sabrie, Valerio Mastandrea
*

Visto all'Auditorium San Fedele (rassegna di Venezia)

Aman, giovane somalo che vive a Roma, conosce per caso Teodoro, ex pugile depresso che non esce mai di casa, e gli salva inconsapevolmente la vita. Ma entrambi hanno i propri problemi: la mancanza di lavoro spingerà infine Amam a trasferirsi a Londra, mentre Teodoro cercherà inutilmente di riallacciare i rapporti con il proprio passato. Pellicola bruttarella che indispone sin dai titoli di testa, in puro stile anni ottanta, e prosegue con una regia irritante che fa un uso indiscriminato della camera a mano e soprattutto con una sceneggiatura che non dice nulla di davvero interessante, non offre alcun guizzo e non sembra andare da nessuna parte.

Paraíso (Héctor Gálvez, 2009)

Paraíso
di Héctor Gálvez – Perù 2009
con Joaquín Ventura, Yiliana Chong
**

Visto al cinema Gnomo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

"I giardini del Paradiso" è il nome di un villaggio di case e baracche ai piedi delle Ande, non lontano da Lima, dove vivono i cinque ragazzi protagonisti di questa storia. Si barcamenano fra casa, scuola e umili lavoretti, commemorano il compleanno di un amico morto qualche mese prima, e intanto sognano in qualche modo di fuggire da un luogo desertico e violento, le cui strade di giorno sono desolate e polverose e di notte sono preda di bande di ladri e di guerriglieri. Ci riuscirà soltanto Joaquín, che si unirà a un circo come trapezista, mentre l'amica Antuonet dovrà rinunciare ai propri sogni di diventare giornalista, Lalo verrà bocciato agli esami scolastici, Sara scoprirà di essere nata da uno stupro e Mario mediterà se arruolarsi nell'esercito. Prima opera di fiction di un documentarista (anche sceneggiatore e direttore della fotografia), abile a descrivere con stile sobrio e senza artifici retorici un ambiente privo di speranza e un malessere giovanile che non pare trovare alcuna sponda o conforto nel mondo che lo circonda, e in particolare negli adulti.

Piccole volpi (Mira Fornayová, 2009)

Piccole volpi (Lištičky)
di Mira Fornayová – Irlanda/Rep. Ceca/Slovacchia 2009
con Reka Derzsi, Rita Banczi
*1/2

Visto al cinema Ariosto, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Nulla a che vedere con la commedia di Lillian Hellman e il film di Wyler con Bette Davis: il titolo si riferisce esplicitamente alle volpi che scendono di notte nelle strade di Dublino in cerca di rifiuti, e implicitamente alle donne che immigrano dai paesi dell'est in cerca di lavoro. La sceneggiatura segue le vicende di Betka, una ragazza slovacca che ha seguito in Irlanda la sorella Tina. Mentre quest'ultima si è integrata, con una casa, un buon lavoro e un fidanzato (Steve), Betka sembra incapace di ottenere o trattenere alcunché e finirà col distruggere anche la felicità di Tina. Scopriremo però che alla base di tutto c'è un trauma di qualche anno prima, quando Steve aveva tradito Tina con Betka e quest'ultima si era procurata un aborto spontaneo. Una pellicola un po' ostica, dalla visione faticosa e che scorre senza lasciare quasi niente.

Il compleanno (M. Filiberti, 2009)

Il compleanno
di Marco Filiberti – Italia 2009
con Massimo Poggio, Maria de Medeiros
*1/2

Visto al cinema Apollo (rassegna di Venezia)

Due coppie di amici quarantenni trascorrono l'estate al mare, in una villa sul Tirreno. Diego (Alessandro Gassmann), eterno bambinone, frequenta da vent'anni Shary (Michela Cescon), affascinante americana; Matteo (Massimo Poggio), intellettuale e psicanalista, è sposato con Francesca (Maria De Medeiros), patetica e inadeguata. Quando vengono raggiunti da David (l'esordiente Thyago Alves, il classico attore più bello che bravo), figlio di Diego e Shary che fa il modello di costumi da bagno negli Stati Uniti, scoppiano le tensioni nascoste: in particolare Matteo si scopre attratto dal ragazzo... Troppa carne al fuoco per un film che parte come una commedia (soprattutto grazie al personaggio di Gassmann), si dipana come una versione cialtrona di "Morte a Venezia" (con un pizzico di "Teorema") e si conclude con una tragedia male inscenata. Il brutto finale, in particolare, dona alla pellicola una connotazione punitiva e moralmente riprovevole. Temi e caratterizzazioni dei personaggi strabordano: si va dai rapporti di coppia alle questioni generazionali, e non manca nemmeno l'eutanasia, visto che il fratello di Shary, Leonard (Christo Jivkov), ha ucciso la fidanzata malata. Ma tutto è esplicitato in maniera diretta, spesso senza senso della misura (vedi la scena della masturbazione con Loretta Goggi in sottofondo) e senza dire in fondo nulla di nuovo allo spettatore. A parte l'impresentabile Alves, bravi comunque gli altri interpreti (su tutti Poggio e la Medeiros). In sala era presente il regista, che ha sottolineato come il film sia stato prodotto senza la partecipazione né della Rai né della Medusa. Certo, se i risultati di tanta libertà sono questi...

19 settembre 2009

Soul Kitchen (Fatih Akin, 2009)

Soul Kitchen (id.)
di Fatih Akin – Germania 2009
con Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu
***

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Dopo "La sposa turca" e "Ai confini del paradiso", Akin si conferma un regista di razza e sforna un'altra ottima pellicola. Stavolta si tratta di una scatenata commedia, ambientata – come quasi tutti i suoi film – ad Amburgo: ma al posto dei soliti immigrati turchi, i protagonisti in questo caso sono greci. Zinos gestisce uno scalcinato ristorante, il "Soul Kitchen", dove serve agli avventori pietanze di dubbio gusto. Sommerso da problemi vari (la fidanzata Nadine si trasferisce a Shanghai; un colpo della strega gli procura un forte dolore alla schiena, impedendogli di lavorare; il fisco esige il pagamento dei debiti pregressi; l'ufficio d'igiene ha qualcosa da dire in merito alla cucina; il fratello Ilias esce di galera in cerca di un lavoro; un losco affarista vorrebbe impadronirsi del terreno su cui sorge il locale), ha la bella pensata di assumere uno bizzarro chef, licenziato da un ristorante di lusso a causa del suo caratteraccio: ma la sua cucina troppo raffinata ha il solo effetto di allontanare persino i pochi clienti abituali. Eppure, dopo le prime difficoltà, il locale comincia a diventare immensamente popolare, grazie a una commistione fra musica e cibo che rende finalmente onore al suo nome, "la cucina dell'anima"... Personaggi variopinti e simpatici (ci sono anche un pittoresco marinaio, un'attraente cameriera, una cordiale fisioterapista, e molti altri), situazioni paradossali ed esilaranti, il connubio fra musica e gastronomia: tutto contribuisce a creare un cocktail efficace e soddisfacente. Molto belli i titoli di coda, realizzati attraverso una serie di poster e manifesti.

Dieci inverni (Valerio Mieli, 2009)

Dieci inverni
di Valerio Mieli – Italia 2009
con Michele Riondino, Isabella Ragonese
**

Visto al cinema Apollo (rassegna di Venezia)

Camilla e Silvestro si incontrano a Venezia, sul vaporetto, nel giorno in cui arrivano entrambi in città per iscriversi all'università. Nell'arco di dieci anni assistiamo al loro tira e molla sentimentale, attraverso alti e bassi, fino a quando l'amicizia finalmente sfocerà nell'amore. Filmetto italiano senza infamia e con poca lode, tutto costruito a tavolino eppure superficiale e decisamente prevedibile, visto che il finale non poteva essere più scontato. Il personaggio maschile è di rara antipatia, quello femminile piuttosto insulso. Per fortuna nell'opera prima di Mieli ci sono anche alcune cose da salvare: su tutte l'ambientazione, con una Venezia grigia, fredda e priva di turisti (ma alcune scene si svolgono anche a Mosca, dove Camilla è andata a specializzarsi in letteratura e teatro russo): in questo senso la scelta di raccontare la storia dei due personaggi soltanto attraverso gli inverni (dal 1999 al 2009, ma si sa che nel nostro paese la matematica è un'opinione) aiuta a costruire una certa atmosfera.

18 settembre 2009

Lourdes (Jessica Hausner, 2009)

Lourdes (id.)
di Jessica Hausner – Austria 2009
con Sylvie Testud, Léa Seydoux
***

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Lo Spirito Santo, Gesù e la Madonna siedono su una nuvola, e discutono su dove andare in vacanza. "Andiamo a Betlemme", dice lo Spirito Santo. "No, ci siamo già stati mille volte!", risponde Gesù. "Allora andiamo a Gerusalemme", dice lo Spirito Santo. "No, ci siamo già stati mille volte!", ribatte Gesù. "Allora andiamo a Lourdes", dice lo Spirito Santo. "Che bello, non ci sono mai stata!", dice la Madonna.

Questa barzelletta, raccontata da un prete che accompagna i pellegrini a Lourdes, forse non è il modo migliore per presentare un film che si mantiene felicemente in equilibrio fra fede e razionalismo nel raccontare la visita e la breve permanenza nella cittadina pirenaica di un gruppo di pellegrini, e dei loro accompagnatori, in cerca di un segno o di una guarigione miracolosa. La pellicola è ottima, fra inquadrature rigorose e misurate e una sceneggiatura arguta che mostra tutti i dubbi, le contraddizioni e i misteri che circondano il celebre luogo di pellegrinaggio. La giovane Christine, paralizzata dalla sclerosi multipla e costretta su una sedia a rotelle, è colei che – fra tutti – riceve in dono una misteriosa guarigione: proprio lei che non ha una fede così salda e che candidamente ammette di essere guarita nel corpo ma di non sentirsi affatto cambiata interiormente. Le vie del signore sono imperscrutabili, sempre che a dominare il mondo non sia il caso: e così, fra domande semplici ma inevitabili (perché è stata guarita proprio lei?), l'ammirazione e l'invidia degli altri pellegrini, il rancore e la gioia, i drammi e i momenti più leggeri, il film mostra le mille sfaccettature e le ambiguità di quella che ormai è diventata quasi un'industria turistica, internazionale e organizzatissima (c'è persino il "premio per il miglior pellegrino"), dove spesso cinismo e concretezza hanno la meglio sui valori cristiani, senza tuttavia ricorrere a provocazioni iconoclaste e affiancando a Christine tutta una serie di personaggi ottimamente caratterizzati. Fra questi spiccano la giovane infermiera Maria, attratta da un affascinante accompagnatore (che invece pare avere interesse per Christine) e che si accontenta poi di flirtare con gli altri giovani volontari; un'anziana e silenziosa pellegrina che si prende a cuore le sorti di Christine; le due donne che cercano di razionalizzare ogni evento e che tempestano il prete di domande scomode, alle quali lui non può che dare risposte nebulose; ma anche la volontaria Cécile, che nasconde a tutti la propria malattia e che mette in pratica alla lettera gli insegnamenti di San Paolo. Alla fine restano parecchi dubbi: la guarigione di Christine è momentanea o permanente? Dio è giusto o ingiusto? Cosa sono davvero i miracoli, e qual è il loro reale valore? La regista ha dichiarato di essersi ispirata a "Ordet" di Dreyer, e di sicuro questo film non sfigurerebbe al fianco di quel capolavoro in un elenco delle migliori pellicole che affrontano il tema dei miracoli.

The informant! (S. Soderbergh, 2009)

The informant! (id.)
di Steven Soderbergh – USA 2009
con Matt Damon, Scott Bakula
*1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Mark Whitacre, biochimico e dirigente di una potente compagnia che produce aminoacidi per uso alimentare, rivela ai propri superiori che un concorrente giapponese avrebbe infiltrato una talpa nella società, e subito dopo confida a un agente dell'FBI (Bakula) che i capi stessi dell'azienda sono responsabili di un cartello illegale dei prezzi sul mercato internazionale. In realtà molte delle cose che afferma sono inventate, perché Mark è un mentitore compulsivo e soffre di disturbo bipolare. Diventato informatore dell'FBI, ne condizionerà per anni le indagini in un crescendo di finzioni e di bugie, sottraendo nel contempo una gran somma di denaro alla compagnia e nutrendo megalomani sogni di successo. Il solito Soderbergh, compiaciuto e inconcludente: nonostante il tono da commedia spigliata, il film – ambientato negli anni '90 e tratto, pare, da una storia vera – gira in tondo senza costrutto, in maniera cervellotica e pure un po' monotona, fra scene sempre uguali e le continue divagazioni mentali di Mark, anche se nel finale i conti tornano. Certo, ha i suoi momenti carini, ma nel complesso è una sciocchezzuola, tutt'altro che memorabile o imperdibile.

Kakraki (Ilya Demichev, 2009)

Kakraki
di Ilya Demichev – Russia 2009
con Mikhail Efremov, Olga Sun
**1/2

Visto al cinema Gnomo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Una commedia grottesca e amara che ironizza sui burocrati (e non solo) della Russia post-sovietica, ma soprattutto che tratteggia un ritratto malinconico di una generazione che ha dovuto abbandonare i sogni di gioventù per adattarsi a un'esistenza grigia e infelice. Kakraki, che significa "come gli scampi", è il termine che il protagonista Mikhail utilizza per descrivere alla giovane Nastya l'aspetto delle aragoste, che la ragazza non ha mai mangiato. Mikhail è un funzionario di mezza età del ministero dell'edilizia di Mosca che conduce una vita triste e insoddisfacente, fra la routine familiare e assurde riunioni-fiume con i suoi colleghi. Abbandonate le velleità artistiche di un tempo, cerca inutilmente di riempire le proprie giornate provando a prendere lezioni di nuoto o imparare il cinese. Ma quando incontra Nastya, graziosa studentessa di teatro e commessa di libreria, se ne innamora a prima vista e pur di aiutarla economicamente si azzarda a chiedere una mazzetta a un imprenditore per far avanzare la sua pratica. Scoperto, verrà incarcerato e avrà tempo di rileggersi "Il cappotto" di Gogol. Proprio il misto di satira e di realismo che caratterizza le opere dello scrittore russo (il film si apre con le immagini del suo funerale, sognato da Mikhail) è uno dei fili conduttori di una pellicola multiforme e sorprendente, cinica e romantica, pungente e paradossale, tragica e nichilista, che alterna in continuazione scene ironiche e drammatiche per indagare in profondità l'animo del protagonista. Notevole la cura dei dettagli, dai personaggi di contorno (alcuni, purtroppo, poco sfruttati, come la moglie di Mikhail e gli altri funzionari del ministero) ai tratti salienti del personaggio principale (per esempio, la sua passione per le scarpe alla moda e quella per i cremini alla panna), fino all'ambientazione in una Russia moderna che in fondo non sembra poi così diversa da quella di Gogol. Ottimo Efremov, incantevole la giovane Olga Sun (di origine cinese).

17 settembre 2009

Chengdu, I love you (Cui Jian, F. Chan, 2009)

Chengdu, I love you (Chengdu, wo ai ni)
di Cui Jian, Fruit Chan – Cina 2009
con Anya, Guo Tao
*1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Film diviso in due episodi, ambientati entrambi nella città di Chengdu ma l'uno nel futuro e l'altro nel passato, con poco in comune fra loro se non un ampio ricorso a simboli e riferimenti storico-geografici che forse sfuggono a uno spettatore digiuno di storia cinese, e collegati da una strana sequenza in cui il tempo sembra scorrere a ritroso. Nel 2029, una ragazza riconosce in un giovane atleta di arti marziali l'uomo che qualche anno prima aveva aggredito suo cugino, ma anche il compagno di scuola che le aveva salvato la vita durante il terremoto dello Sichuan nel 2008. Nel 1976, una giovane cameriera di una sala da tè scopre che il "pazzo" Zhao, ultimo a conoscere l'arte di utilizzare le caraffe dal bricco lungo, non è affatto folle ma finge di esserlo per espiare la colpa di aver denunciato il proprio maestro al regime comunista. Anche la loro vicenda si svolge sullo sfondo di un devastante terremoto, quello di Tangshan. Ho trovato un po' banalotto il primo episodio, girato dalla rockstar Cui Jian con diversi effetti digitali, mentre ho apprezzato maggiormente il secondo di Fruit Chan, anche per l'ambientazione storico-politica, ma nel complesso si tratta di un film del tutto dimenticabile, che fatica a trasmettere emozioni o contenuti.

Donne senza uomini (Shirin Neshat, 2009)

Donne senza uomini (Zanan-e bedun-e mardan)
di Shirin Neshat – Germania/Austria/Francia 2009
con Pegah Ferydoni, Arita Shahrzad
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Ennesimo film sulla condizione femminile in Iran, anche se stavolta la prospettiva è sui generis, visto che la pellicola è ambientata nell'estate del 1953 – ai tempi della deposizione del primo ministro Mossadegh e dell'instaurazione di un'autocrazia militare – e che al tema delle donne mescola quello delle proteste di piazza e dei moti politici contro la dittatura. In questo modo il film si fa più universale, sostenuto anche da immagini e visioni surreali e soprannaturali, ben lontane dall'approccio (neo)realistico che contraddistingue solitamente la cinematografia iraniana (si tratta, comunque, di un film girato e prodotto all'estero, come testimoniano scene – anche di nudo! – e argomenti che ben difficilmente la censura islamica avrebbe fatto passare!). La regista, che vive a New York e che è al suo esordio (aveva realizzato alcuni corti e filmati di videoarte, oltre a essere anche apprezzata fotografa) racconta quattro storie, intrecciate fra loro, di donne oppresse in maniera diversa dall'universo maschile. Munis, segregata in casa dal fratello che vorrebbe costringerla a sposarsi, desidera invece uscire per le strade e interessarsi di politica internazionale: sceglie il suicidio, ma "rinasce" (come fantasma?) per unirsi a un gruppo di attivisti di sinistra. Faezeh, la sua migliore amica, sogna un matrimonio tradizionale con Amir, il fratello di Munis: dopo essere stata violentata per strada, però, sviluppa una coscienza femminista e sceglie di stare da sola. La ricca Fakhri, sposata con un dispotico generale ma attratta dalla cultura e dagli artisti filo-occidentali, abbandona il marito e si ritira a vivere in una tenuta di campagna. Zarin, una giovane prostituta malata e febbricitante, fugge dal bordello e si rifugia proprio nella dimora di Fakhri, che la accudisce come una figlia. Sogni e visioni, squarci surreali, tramonto delle speranze, rivolte di piazza, inni all'indipendenza, al femminismo e alla libertà: tanta carne al fuoco per un lungometraggio molto curato. Visti i trascorsi artistici di Neshat, non stupisce che il film punti molto sull'immagine, sulla fotografia, sui colori e sulle scenografie. La musica è di Ryuichi Sakamoto. Premio a Venezia per la miglior regia.

Tehroun (Nader T. Homayoun, 2009)

Tehroun
di Nader T. Homayoun – Francia 2009
con Ali Ebdali, Sara Bahrami
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Anche questo film "iraniano", come "Donne senza uomini" di Shirin Neshat, è stato in realtà prodotto all'estero (pur essendo girato, quasi clandestinamente, proprio a Teheran) ed è l'opera prima di un regista che vive ormai da anni in Occidente. Si tratta infatti di un insolito thriller che affronta temi scomodi e sicuramente inaccettabili per il regime e la censura della repubblica islamica, mostrando una Teheran ("Tehroun" è il nome della città in dialetto) ostile, violenta e immorale, abitata da banditi e prostitute. Parte come una pellicola realista, sembra trasformarsi per un momento in una versione iraniana di "Tre uomini e un bebè", e si rivela infine essere un gangster movie dai toni decisamente pessimisti. Il protagonista Ibrahim si è trasferito a Teheran in cerca di lavoro, dove condivide un appartamento con lo studente Madjid e il tassista Fatah, ma è costretto all'accattonaggio: per avere maggior successo, "affitta" un neonato per impietosire i passanti. Quando però l'amico Madjid si fa rubare il piccolo da una prostituta che lo aveva abbordato, il malvivente che gestisce la compravendita di bambini minaccia una sanguinosa vendetta. Cupo e non consolatorio, il film sceglie paradossalmente la strada del cinema di genere per descrivere una realtà tragica e disperata. Forse un po' lungo e confuso, ma comunque innovativo e coraggioso.

La sangre y la lluvia (J. Navas, 2009)

La sangre y la lluvia
di Jorge Navas – Colombia/Argentina 2009
con Quique Mendoza, Gloria Montoya
**

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

"Tutto in una notte" per le strade buie e piovose di Bogotà. Il tassista Jorge, che ha visto da poco morire il fratello in un misterioso agguato, viene contattato da un gruppo di gangster che forse ha a che vedere con l'omicidio; la bella Angela, che gira per locali notturni in cerca di alcol, cocaina e trasgressione, lo soccorre dopo un incidente e rimane al suo fianco per tutta la nottata, restando coinvolta nella guerra fra bande di gangster e guerriglieri. La pioggia battente, le strade insanguinate e il mondo della notte fanno da sfondo a una vicenda urbana confusa e disperata. Ma se la prima parte del film non è male, incentrata com'è sull'incontro fra due personaggi solitari e alla deriva, la seconda si trascina un po' troppo (la scena in cui i due protagonisti vengono tenuti prigionieri in auto dai banditi è decisamente troppo lunga) e così si giunge alla fine, e all'alba, quasi stremati. Peccato.

Francia (Israel Adrián Caetano, 2009)

Francia
di Israel Adrián Caetano – Argentina 2009
con Milagros Caetano, Natalia Oreiro
**

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

La piccola Mariana ha problemi comportamentali a scuola, desidera farsi chiamare Gloria e non ama la lettura, preferendo ascoltare musica e scattare fotografie con il suo cellulare; forse il suo disagio e la sua irrequietezza dipendono da quelli dei genitori, che si sono separati poco dopo la sua nascita. Cristina lavora come cameriera in una villa di ricchi signori, dove deve tenere a bada gli impulsi suicidi della padrona di casa, mentre Carlos si occupa di una piccola fabbrica metallurgica, ma gli affari vanno male così come il rapporto con la sua nuova compagna. Uno psicologo propone alla famiglia il celebre indovinello delle tre case da collegare ad acqua, luce e gas: anche se l'enigma non ha soluzione, non si può smettere di provare a cercarla. Di Caetano avevo già visto, in una rassegna di qualche anno fa, il bel "Cronaca di una fuga", un film sui desaparecidos. Qui cambia totalmente genere, dedicandosi con leggerezza e sensibilità ai rapporti familiari, filtrati soprattutto dagli occhi storti di una bambina un po' bizzarra e anticonformista. Ma la pellicola lascia un po' il tempo che trova e, con ogni probabilità, si dimenticherà facilmente. Il titolo viene dal verso di una poesia citata nei titoli di testa.

16 settembre 2009

Akadimia Platonos (F. Tsitos, 2009)

Akadimia Platonos (De tha gineis ellinas pote)
di Fillipos Tsitos – Grecia 2009
con Antonis Kafetzopoulos, Anastasis Kozdine
***

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno)

Il titolo del film è il nome del quartiere di Atene che nell'antichità ospitava l'accademia di Platone e dove ora vive Stavros, negoziante che trascorre le giornate a oziare davanti alla porta della propria scalcinata bottega in compagnia di tre amici, chiacchierando di calcio e lamentandosi dell'invasione degli albanesi che immigrano in Grecia in cerca di lavoro. Uno dei suoi compagni ha addirittura addestrato il proprio cagnolino, "Patriota", ad abbaiare solo agli stranieri. Ma la vita di Stavros, che si trascina stancamente ascoltando musica rock e accudendo l'anziana madre, cambia completamente il giorno in cui scopre di avere un fratello albanese, anzi di essere forse albanese lui stesso. E persino i suoi amici cominciano a tenerlo a distanza, prendendo alla lettera il coro da stadio che tutti insieme intonavano contro gli immigrati: "Albanese, non sarai mai un greco". Una magnifica pellicola dolce-amara sul tema del razzismo e della multiculturalità, dai toni ironici e leggeri e popolata da personaggi ottimamente caratterizzati (e interpretati da attori dai volti buffi e pittoreschi). Gran parte dell'azione si svolge nel piccolo e poco frequentato incrocio di fronte al negozio e alla casa di Stavros, teatro di confuse partite a pallone, dove il comune vorrebbe costruire un monumento alla solidarietà culturale e dove un numeroso gruppo di cinesi ("è impossibile contarli!") sta aprendo una bottega di moda italiana (!). Le piccole meschinità, i valori dell'amicizia e i paradossi linguistici e filosofici espongono efficacemente sullo schermo, senza alcuna retorica, tutte le contraddizioni e la relatività dei nazionalismi di ogni tipo, anche quelli su scala piccola e familiare. E in cima a tutto, ecco il tema dell'identità personale: quella che Stavros, in piena crisi (anche per via dell'insonnia e del rapporto irrisolto con l'ex moglie), rischia di perdere e finisce col ritrovare nel momento e nell'occasione più impensata.

Valhalla Rising (N. Winding Refn, 2009)

Valhalla Rising - Regno di sangue (Valhalla Rising)
di Nicolas Winding Refn – Danimarca/GB 2009
con Mads Mikkelsen, Maarten Steven
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Anno 1000, estremità settentrionale delle isole britanniche: il guerriero guercio e muto One-Eye, tenuto prigioniero da un clan di scozzesi e costretto a battersi come un gladiatore, uccide i propri carcerieri e fugge in compagnia del piccolo Are, figlio del suo precedente padrone. I due si uniscono a un gruppo di vichinghi convertiti al cristianesimo che vorrebbero recarsi in Terrasanta, ma finiscono invece nel Nuovo Continente, dove se la vedranno con i selvaggi. Cupo, sporco, onirico, lento e angosciante, ma anche molto interessante dal lato estetico e visivo (con una notevole fotografia digitale ed effetti sonori stranianti), è un film intessuto di fango, sangue e violenza, pieno di personaggi barbarici alla mercé di una natura selvaggia che si trasforma in un vero e proprio inferno in Terra. L'oscurità e la nebbia avvolgono i destini degli uomini, mentre le loro ambizioni li portano alla morte, fra squarci di preveggenza e di follia. In poche parole, è come se "Aguirre" fosse stato diretto dal Lars von Trier di "Antichrist"!

Barking Water (S. Harjo, 2009)

Barking Water
di Sterlin Harjo – USA 2009
con Richard Ray Whitman, Casey Camp-Horinek
*1/2

Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

L'anziano seminole Frankie, malato terminale, esce dall'ospedale per visitare per un'ultima volta i luoghi dove è vissuto e dare l'addio ad amici e parenti. Nel suo viaggio lo accompagna Irene, che un tempo era stata sua compagna e che lui aveva lasciato anni prima. Buoni sentimenti, banalità simboliche, luoghi comuni, cavalli, tramonti e indiani d'America: un cocktail quasi insopportabile per un viaggio spirituale, religioso e nel finale anche ricattatorio. Ma vere emozioni, zero. Il titolo è la traduzione del nome seminole della città di Wewoka, la meta finale del viaggio, dove vive la figlia di Frankie.

Gordos (D. Sánchez Arévalo, 2009)

Gordos
di Daniel Sánchez Arévalo – Spagna 2009
con Antonio de la Torre, Roberto Enríquez
**1/2

Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Simpatica pellicola che affronta da molteplici punti di vista il tema dell'obesità, intercalandolo – fra dramma e ironia – con quelli del sesso, della famiglia e della religione. Alle riunioni del gruppo di sostegno guidato dal terapeuta Abel si incontrano infatti alcuni personaggi afflitti dal problema del peso: Enrique era un tempo il testimonial pubblicitario di un farmaco per dimagrire, ma è stato estromesso dal suo socio perché è ingrassato troppo; Sofia fa parte di una comunità religiosa e non riesce ad accettare le proprie forme; Leonor vorrebbe perdere peso prima che il fidanzato ritorni dagli Stati Uniti; Andres ama essere grasso ma teme di fare la stessa fine dei suoi parenti, tutti morti di infarto prima dei cinquant'anni. Le diverse storie si intrecciano fra loro e con quelle di parenti e conoscenti: e così Enrique, dopo aver accidentalmente provocato il coma del suo socio, pur essendo gay dà inizio a una relazione con la moglie di questi; Nuria, la figlia di Andres, gioca un brutto scherzo al pestifero fratello Luis; Paula, la sportiva moglie di Abel, rimane incinta e scopre che il marito non è più attratto da lei; Sofia si rende conto che i suoi desideri sessuali non possono essere soddisfatti dal bigotto fidanzato Alex; Leonor scopre un legame fra obesità e insoddisfazione sentimentale. Forse un po' lungo e con qualche problema a concludere le storie, il film è comunque molto piacevole nel mescolare situazioni surreali ed esilaranti a drammi esistenziali, crisi coniugali o familiari a provocazioni alla Almodóvar, senza voler imporre il lieto fine a tutti i costi e tratteggiando con abilità e ironia una decina di personaggi con pregi e difetti, contraddizioni e fobie, certezze e insicurezze.

15 settembre 2009

She, a Chinese (Guo Xiaolu, 2009)

She, a Chinese
di Guo Xiaolu – Cina/GB 2009
con Huang Lu, Wei Yi Bo
**1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno)

Il film che ha vinto il Pardo d'Oro a Locarno è in realtà una coproduzione europea che segue, in maniera felicemente lineare (la pellicola è divisa in capitoletti di più o meno breve durata) le vicende di Mei, una ragazza cinese che non si è mai allontanata più di pochi chilometri dalla sua casa natale, in campagna. Attraverso incontri ed episodi casuali, si ritrova però a lasciare dapprima il proprio villaggio per andare a lavorare in una grande città, e poi a trasferirsi addirittura in occidente, a Londra. Spostandosi costantemente di casa in casa, di lavoro in lavoro, di uomo in uomo, l'irrequieta Mei scorprirà che tra oriente e occidente non ci sono poi molte differenze, che le persone sono simili ovunque e che trovare il proprio posto nel mondo è sempre difficile, non importa se si lavora in una fabbrica in Cina, se si fa la prostituta nei bassifondi, se si è immigrata clandestina in Europa, se si sposa un benestante vedovo inglese, se si frequenta un musulmano di origine indiana... Il pregio del film, il cui stile si colloca tra naturalismo e iperrealismo, sta nella presentazione degli eventi, che non vengono mai caricati di significati morali o simbolici, ma sono lasciati fluire con regolarità. La regista non ricorre a scene madri o gridate, e soprattutto non interviene per declamare le proprie verità, delegando allo spettatore il compito di trarre dalla vicenda di Mei gli insegnamenti e le lezioni che desidera.

The two horses of Genghis Khan (B. Davaa, 2009)

The two horses of Genghis Khan (Chin Gisiyn Hoyor Zagal)
di Byambasuren Davaa – Mongolia/Germania 2009
con Urna Chahar-Tugchi, Hicheengui Sambuu
**

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno)

Quasi un documentario che mostra la cantante tradizionale Urna nel suo viaggio dalla Mongolia Interna (la regione autonoma che fa parte della Cina) alla Mongolia Esterna (la nazione indipendente), alla ricerca dei frammenti di un'antica canzone popolare – quella che dà appunto il titolo al film – fino all'incontro con una vecchia pastora che ne ricorda parole e melodie. Parte del testo della canzone, che richiama la turbulenta storia della Mongolia e la sua doppia identità, è incisa sul manico di un antico violino "dalla testa di cavallo", tramandato a Urna da sua nonna e che la donna chiede a un esperto liutaio di restaurare. I paesaggi della steppa mongola, le campagne che vengono scavate in cerca dell'oro, costringendo pastori e contadini a riversarsi in città, antiche musiche e canzoni popolari, incontri con giovani e vecchi, il tentativo di salvare qualcosa della cultura e della tradizione prima che questa venga distrutta: è un film con un suo particolare fascino, praticamente senza alcuna tensione drammatica e di interesse puramente antropologico ed etnografico. Gli attori recitano tutti nei panni di sé stessi. E alla fine dei titoli di coda, una didascalia spiega che, terminate le riprese, tutti i costumi e gli strumenti sono andati distrutti nel corso di scontri di matrice politica. La regista è già nota da noi per "La storia del cammello che piange" e "Il cane giallo della Mongolia" (che non ho visto).

(500) giorni insieme (Marc Webb, 2009)

(500) giorni insieme ((500) Days of Summer)
di Marc Webb – USA 2009
con Joseph Gordon-Levitt, Zooey Deschanel
**1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno)

Originale commedia sentimentale, narrata con spigliatezza e ironia. Una voce fuori campo ci informa subito che non si tratta di una storia d'amore, almeno non una di quelle a lieto fine: se infatti Tom (mancato architetto e ora copywriter in un'agenzia che produce biglietti di auguri) si invaghisce a prima vista della collega Summer (Sole, nell'edizione italiana), convincendosi che si tratta dell'anima gemella con cui dovrà trascorrere tutta la vita, la ragazza accetta la sua amicizia ma non ne ricambia gli slanci romantici, sicura com'è che non esista l'amore vero. Nell'arco dei 500 giorni in cui dura la loro relazione, mostrati attraverso continui salti temporali in avanti e indietro che tengono sempre desta l'attenzione (con un apposito "contagiorni" che aiuta a non perdere il filo della storia), assistiamo ad alti e bassi, gioie e tristezze, speranze e delusioni, il tutto narrato sempre dal punto di vista del ragazzo, costringendo lo spettatore a partecipare emotivamente e a "soffrire" con lui. Molte le trovate accattivanti, fra cui parodie di altri film (come quelli di Bergman che Tom vede al cinema, o il balletto alla Jacques Demy che lo accompagna per la strada), battute divertenti, ribaltamenti di situazioni stereotipate. Deliziosa Zooey Deschanel.

Complices (Frédéric Mermoud, 2009)

Complices
di Frédéric Mermoud – Francia/Svizzera 2009
con Cyril Descours, Nina Meurisse
**1/2

Visto al cinema Gnomo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno)

Curiosa ma efficace commistione fra giallo, teen movie sentimentale e cinema di denuncia (sulla prostituzione giovanile), raccontata attraverso la continua intersecazione di due piani temporali: seguiamo infatti in parallelo sia una coppia di poliziotti (lui, Gilbert Melki, con istinti paterni da sfogare per aver abbandonato, vent'anni prima, la compagna incinta; lei, Emmanuelle Devos, che va in cerca di un anima gemella sui siti internet di incontri) che indagano sul cadavere di un ragazzo ripescato nel fiume; sia la storia del ragazzo stesso, Vincent, che si guadagnava da vivere incontrando "clienti" conosciuti online, prima di conoscere la coetanea Rebecca e innamorarsi di lei. Buona la caratterizzazione dei personaggi, così come la costruzione narrativa. Nel finale, c'è anche spazio per un po' di speranza.

Frontier Blues (Babak Jalali, 2009)

Frontier Blues
di Babak Jalali – Iran 2009
con Mahmoud Kalteh, Abolfazl Karimi
**

Visto al cinema Gnomo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno)

Fra silenzi, sguardi in macchina e ironia stralunata e surreale, quasi alla Kaurismäki, il film segue le vite di alcuni individui di etnia turkmena che vivono presso la frontiera settentrionale dell'Iran, ai confini appunto con il Turkmenistan. Il ritardato Hassan trascorre i suoi giorni gironzolando in compagnia di un asino; suo zio Kazem gestisce un piccolo negozio d'abbigliamento, sempre vuoto; il giovane Alam lavora in un allevamento di polli, sogna di sposarsi e intanto studia l'inglese per poter andare all'estero; un anziano cantastorie e musicista, infine, viene ripetutamente ritratto in abiti tradizionali da un fotografo di Teheran che intende pubblicare un libro illustrato su quei luoghi e quelle persone. Solitudini, attese e la routine dei piccoli gesti, per una pellicola lenta e con un certo fascino malinconico ed esistenziale. Certo, vederla come quinto film della giornata può provocare qualche attacco di sonnolenza, ma non è colpa sua.

14 settembre 2009

Venezia e Locarno 2009

Da oggi seguirò la rassegna milanese dove verrà proiettata una selezione di pellicole provenienti dall'appena concluso festival di Venezia. A differenza della scorsa edizione, quest'anno il programma della rassegna mi pare soddisfacente (anche se si partiva da un concorso decisamente povero di nomi eccellenti). Ci sono molti dei titoli che mi interessavano "a scatola chiusa" (come i film di Herzog e Akin) e pure il Leone d'Oro, "Lebanon" dell'esordiente Samuel Maoz. C'è anche tanto cinema asiatico, fra cui Rintaro, Fruit Chan e cinesume vario. Purtroppo niente Tsukamoto, Romero, Rivette... Curiosa l'assenza di "Baaria" di Tornatore, visto che di solito i film italiani non mancano mai. I primi giorni della rassegna, comunque, saranno dedicati a una decina di film dal festival di Locarno, compreso il Pardo d'Oro (cinese pure questo).

13 settembre 2009

Blue in the face (W. Wang, P. Auster, 1995)

Blue in the face (id.)
di Wayne Wang, Paul Auster – USA 1995
con Harvey Keitel, Mel Gorham
**1/2

Rivisto in VHS, con Marisa.

Girato in pochi giorni sullo stesso set di "Smoke", lasciando ampio spazio all'improvvisazione degli attori e approfittando della presenza occasionale di amici di passaggio (fra i quali Lou Reed, Madonna, Jim Jarmusch, Michael J. Fox, Mira Sorvino, Lily Tomlin), "Blue in the face" è un film disordinato, insolito e senza un vero filo narrativo, con una miriade di scenette, discussioni, gag e confessioni filosofiche che ruotano attorno alla tabaccheria di "Auggie" Wren, già al centro della precedente pellicola. Keitel è ancora il mattatore, William Hurt è assente, mentre alcuni dei comprimari del film originale (come Giancarlo Esposito, Jared Harris e Victor Argo) hanno stavolta maggiori opportunità di mettersi in mostra: Fra i temi trattati: ancora il fumo, naturalmente (esilaranti le testimonianze di Lou Reed e Jim Jarmush); la convivenza fra le tante etnie che vivono a Brooklyn (in un certo senso il quartiere è il vero protagonista della pellicola), con numerose interviste in stile documentario ai suoi abitanti; il doloroso trasloco della squadra di baseball dei Dodgers, che da Brooklyn venne spostata in California alla fine degli anni cinquanta; il culto delle cialde belghe. Fra i (deboli) filoni narrativi: il rapporto fra Auggie e la bella ispanica Violet (Mel Gorham); e il rischio che la tabaccheria, punto di riferimento e d'incontro degli abitanti della zona, venga chiusa per motivi economici. Fra i cameo e le partecipazioni più insolite: quella di Madonna, che porta a Keitel un telegramma cantato; e quella di Lily Tomlin, nei panni di una barbona sciroccata. Il film non nasconde la sua natura di opera improvvisata, e anzi può essere goduto solo se si è ben consapevoli che si tratta di un divertissement dei due autori e degli attori coinvolti, autoindulgente e senza pretese. Non ha lo spessore di "Smoke", ma ne è una gustosa appendice e ne conserva il calore e l'umanità.

10 settembre 2009

Smoke (Wayne Wang, 1995)

Smoke (id.)
di Wayne Wang, Paul Auster – USA 1995
con William Hurt, Harvey Keitel
***

Rivisto in DVD, con Marisa, Augusto e Lucia.

Scritto da Paul Auster, l'autore della "Trilogia di New York" (che – non accreditato – lo ha anche co-diretto con Wayne Wang), "Smoke" è un piccolo film indipendente e di culto che deve gran parte del suo fascino all'ambientazione minimalista, ai dialoghi letterari e alla profonda umanità dei personaggi, uno dei quali (quello interpretato da William Hurt) è quasi una controfigura di Auster stesso. Storie ed esistenze si incrociano a Brooklyn attorno a una piccola tabaccheria gestita da Augustus "Auggie" Wren (Keitel), un uomo dal passato burrascoso: fra i suoi clienti spicca soprattutto Paul Benjamin, scrittore in crisi creativa dopo la morte della moglie. Fra bevute e fumate, le vite dei due amici si intrecciano con quella di Thomas (Harold Perrineau), un diciassettenne di colore fuggito da casa per rintracciare il padre (Forest Whitaker) che non vede da diversi anni e che ora gestisce una piccola stazione di servizio; e quella di Ruby (Stockard Channing), ex fiamma di Auggie, alle prese con la figlia ribelle Felicity (Ashley Judd). La vita di quartiere, i piccoli e grandi drammi urbani (spesso legati al rapporto fra genitori e figli), l'amore per il tabacco, i sigari e il fumo in generale (un tema quanto mai "scomodo" negli Stati Uniti e spesso boicottato dall'industria cinematografica), aneddoti e passioni bizzarre (come quella di Auggie, che fotografa ogni mattina alle ore 8.00 lo stesso incrocio da anni e anni) e soprattutto l'elogio dell'amicizia: tutto questo concorre a farne un piccolo gioiellino, anche grazie alle eccellenti performance degli attori. Magistrale il finale, con la "storia di Natale" raccontata da Auggie e poi scritta da Paul, che viene mostrata allo spettatore dapprima soltanto attraverso le parole (la regia si limita a un lungo piano sequenza sul volto di Harvey Keitel che parla, zoomando sempre di più) e poi – sui titoli di coda – in un affascinante bianco e nero accompagnato dalla canzone "Innocent when you dream" di Tom Waits: una doppia dimostrazione del potere, rispettivamente, del racconto orale e di quello cinematografico! Sempre sui titoli di coda non poteva mancare, naturalmente, la classica "Smoke gets in your eyes", in una versione però riarrangiata. Da vari spezzoni e frammenti girati durante le riprese e nelle pause della lavorazione, Wang e Auster hanno poi improvvisato una sorta di sequel, "Blue in the face".

8 settembre 2009

The yards (James Gray, 2000)

The yards (id.)
di James Gray – USA 2000
con Mark Wahlberg, Joaquin Phoenix
**1/2

Visto in divx, con Marisa.

Appena uscito di prigione, dove era stato rinchiuso per un furto d'auto commesso insieme ad altri amici (ma l'unico ad aver pagato era stato lui), il giovane Leo vorrebbe mettere la testa a posto. Chiede così un lavoro a Frank, suo zio acquisito, la cui impresa si occupa della manutenzione dei vagoni ferroviari della metropolitana, aggiudicandosi – attraverso mezzi non sempre leciti – gli appalti e le sostanziali commesse dalla municipalità di New York. Ma quando Leo viene coinvolto dall'amico d'infanzia Willie (che nel frattempo si è fidanzato con sua cugina Erica, della quale lo stesso Leo è innamorato sin da bambino) in un'operazione di sabotaggio ai danni di una compagnia concorrente, le cose precipitano: il ragazzo si ritrova infatti sospettato dell'omicidio di un sorvegliante, commesso in realtà da Willie, e deve darsi alla macchia. Tradito tanto dallo zio quanto dall'amico, Leo si stuferà di fare il capro espiatorio e saprà trovare il coraggio di smascherare e denunciare la corruzione che unisce politica e affari. Il secondo film – e forse il migliore – della trilogia d'esordio di Gray dedicata al binomio crimine e famiglia: la cruda descrizione ambientale (vero punto di forza di tutti i lavori del regista), i sogni di successo e di rispettabilità che nascono all'interno della working class, le contraddizioni e le ambiguità celate dietro i rapporti familiari e i dilemmi morali di personaggi avvolti da tonalità di grigio ne fanno un film solido e ricco di momenti interessanti. Il titolo si riferisce ai depositi e ai centri di smistamento dei vagoni ferroviari. In un cast di tutto rispetto (ci sono anche James Caan, Charlize Theron, Ellen Burstyn, Faye Dunaway e Tomas Milian!), l'anello debole è proprio il protagonista, l'inespressivo Mark Wahlberg, che reciterà al fianco del ben più efficace Joaquin Phoenix anche nel successivo film di Gray, "I padroni della notte".

6 settembre 2009

Reds (Warren Beatty, 1981)

Nota: facendo bene i conti, pare che questo sia il 1000° film di cui scrivo su questo blog!

Reds (id.)
di Warren Beatty – USA 1981
con Warren Beatty, Diane Keaton
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Visto in divx, con Marisa.

In una pellicola lunga (quasi tre ore), epica e intima allo stesso tempo, Beatty racconta gli ultimi cinque anni di vita (dal 1915 al 1920) del giornalista americano John "Jack" Reed, militante socialista e comunista, convinto pacifista e autore del libro "I dieci giorni che sconvolsero il mondo", nel quale descrisse i momenti salienti della rivoluzione bolscevica del 1917, vissuti in prima persona durante la sua permanenza in Russia. La sceneggiatura mescola abilmente le vicende pubbliche di Reed (il supporto ai sindacati operai, il coinvolgimento nelle lotte politiche e nella fondazione del primo partito comunista d'America, i viaggi in Russia, la partecipazione al secondo congresso dell'Internazionale Comunista) con quelle personali (soprattutto il rapporto romantico e tumultuoso con la moglie Louise Bryant, giornalista come lui), e lascia che i dialoghi, i discorsi, i dibattiti, i litigi e le riflessioni fluiscano in totale libertà, con le voci che a volte si sovrappongono come in un film di Altman. Se la prima ora del lungometraggio – quella che descrive la vita di Jack e Louise a New York nel quartiere bohémienne di Greenwich Village – ha qualche lungaggine di troppo ed è a tratti forse un po' noiosetta, quando l'attenzione si sposta sui grandi eventi storici della prima guerra mondiale e della rivoluzione d'ottobre la pellicola riesce a comunicare in maniera convincente il senso di cambiamento, le speranze, le illusioni (e le successive, quasi immediate, disillusioni) di un momento fondamentale nella storia del ventesimo secolo. Beatty (anche produttore, oltre che regista, interprete e co-sceneggiatore) affronta inoltre la questione della memoria, inserendo a più riprese – a mo' di documentario – spezzoni con le testimonianze di persone più o meno celebri (fra le quali Henry Miller e Scott Nearing) che conobbero i coniugi Reed o che vissero a modo loro gli eventi di quegli anni, nonché la questione delle lingue, come indicano le difficoltà di traduzione di cui è vittima Jack durante i dibattiti in Russia. Jack Nicholson impersona con cinismo il commediografo Eugene O'Neill, con cui Louise ha una breve relazione. Il film ebbe ben 12 nomination agli Oscar, e ne vinse tre (per la miglior regia, per la fotografia di Vittorio Storaro e per Maureen Stapleton come attrice non protagonista).

5 settembre 2009

Chéri (Stephen Frears, 2009)

Chéri (id.)
di Stephen Frears – GB/Francia 2009
con Michelle Pfeiffer, Rupert Friend
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa.

Nella Francia della Belle Époque, la cinquantenne cortigiana Léa, mantenuta di professione, ha una relazione con il ventenne Fred, detto Chéri, vanitoso e viziato figlio di una sua "collega". Entrambi gli amanti vivono inizialmente il loro rapporto in maniera leggera, frivola e dissoluta: quando decidono di separarsi perché il ragazzo deve sposarsi con una coetanea, però, scopriranno di amarsi veramente. Per lui, in realtà, si tratta di un rapporto inconsapevolmente incestuoso e "materno", per lei un modo di illudersi di non invecchiare. Dopo il recente "The Reader" – e, volendo, "Benjamin Button" – ancora un film su una relazione fra un ragazzo giovane e una donna più grande: una nuova tendenza del cinema contemporaneo? Questa volta, però, lo spunto viene da lontano: si tratta infatti di un testo di Colette (anzi, di due romanzi: "Chéri" e "La fine di Chéri"), disinibita scrittrice francese di inizio secolo, quasi una sorta di Oscar Wilde al femminile. Frears è a suo agio nel narrare "relazioni pericolose", aiutato anche da buoni attori (c'è pure Kathy Bates), anche se alcuni momenti (come quelli in cui i due protagonisti si struggono d'amore quando sono lontani) funzionano meglio di altri. Nonostante sembri una commedia, alla fine la pellicola – che si conclude prefigurando lo scoppio della prima guerra mondiale e la fine di un'era edonistica e disimpegnata, una rivoluzione alla quale molti non sarebbero sopravvissuti – lascia sicuramente tristezza e un po' di amaro in bocca.

4 settembre 2009

Dieci piccoli indiani (R. Clair, 1945)

Dieci piccoli indiani (And then there were none)
di René Clair – USA 1945
con Barry Fitzgerald, Walter Huston
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Prima versione filmata del celebre giallo di Agatha Christie che ha ispirato, fra le altre cose, anche un memorabile episodio di Lamù ("E poi non rimase nessuno"). Dieci persone, che non si conoscono fra loro ma che hanno tutte qualcosa da nascondere nel loro passato, vengono invitate da un misterioso anfitrione in una villa su un'isola disabitata: qui, una dopo l'altra, sono vittime di una serie di delitti, ciascuno dei quali si ispira a un verso di una canzoncina per bambini, "Dieci piccoli indiani" (che nella prima stesura erano "negretti"): che l'assassino si nasconda fra loro? La pellicola è piuttosto fedele al testo originale, pur alleggerendone i toni con alcune situazioni e caratterizzazioni spiritose (quasi da black comedy), ma ne cambia il finale facendo sopravvivere due dei dieci personaggi, come nella versione teatrale curata dalla stessa Christie. La tensione va di pari passo con l'atmosfera di paranoia che si diffonde quando i vari invitati cominciano a sospettarsi a vicenda, mentre l'abile ed esperta regia di Clair non si fa mai sfuggire le redini della storia. Nel cast anche Louis Hayward e C. Aubrey Smith. Il tema musicale della funerea canzoncina è del compositore italiano Mario Castelnuovo-Tedesco.

3 settembre 2009

The reader (Stephen Daldry, 2008)

The reader - A voce alta (The reader)
di Stephen Daldry – USA/Germania 2008
con Kate Winslet, Ralph Fiennes
**

Visto al cinema Colosseo, con Marisa.

Germania, anni '50: il quindicenne Michael si innamora di Hanna, una donna dal passato misterioso che gli fa scoprire il sesso e gli chiede ogni sera di leggerle un libro a voce alta. Ma la relazione dura una sola estate, dopo la quale la donna scompare all'improvviso. Qualche anno dopo, Michael – ora studente in legge – scoprirà che durante la guerra Hanna era stata una sorvegliante delle SS nei campi di concentramento e sarà costretto ad assistere al suo processo. Un film interessante e con molti pregi: la regia è buona, le interpretazioni ottime (la Winslet continua a confermarsi una delle migliori attrici in circolazione, ma anche Fiennes e il giovane David Kross – che interpreta Michael da giovane – sono all'altezza, e vedere Bruno Ganz in una piccola parte, quella del professore di legge, fa sempre piacere) e soprattutto la sceneggiatura affronta ben tre temi “di peso”, vale a dire la relazione fra un minorenne e una donna adulta (che condiziona in negativo tutta la vita sentimentale di Michael), la questione della colpa e della responsabilità dei cittadini tedeschi coinvolti nelle atrocità del nazismo (memorabile il momento in cui Hanna, processata, domanda al giudice "Lei cosa avrebbe fatto?", ma anche quello in cui gli studenti accusano il professore, simbolo della generazione precedente, di non aver fatto nulla per fermare l'orrore) e infine il problema dell'analfabetismo e l'importanza della lettura: Hanna, come si scoprirà a un certo punto, non sa né leggere né scrivere, ed è per questo motivo che aveva lasciato un lavoro tranquillo per accettare il posto di sorvegliante; dopo la sua condanna, Michael continuerà a inviarle per anni in carcere delle cassette dove ha inciso i capolavori della letteratura (degli audiolibri ante litteram!), che lei imparerà quasi a memoria (un richiamo a "Fahrenheit 451"?) e utilizzerà per imparare, faticosamente, a scrivere. Ma proprio lo spunto dell'analfabetismo, elemento centrale nello sviluppo narrativo del film, mina in realtà la credibilità di fondo di tutta la vicenda: sembra davvero esagerato, per non dire assurdo, che Hanna si lasci condannare all'ergastolo pur di non ammettere in pubblico di essere illetterata (e, prima ancora, che cambi più volte vita, lavoro e città per lo stesso motivo, senza mai tentare di imparare a leggere e scrivere a un livello almeno elementare, visto anche l'amore che in ogni caso nutriva per la letteratura). E la pellicola non lascia nemmeno il dubbio che a spingerla a comportarsi così siano i rimorsi o i sensi di colpa per i crimini cui aveva preso parte (sensi di colpa che comunque prova, nonostante lo neghi manifestando un'ottusa indifferenza: lo dimostra la scena in cui piange in chiesa). Un'altra cosa che non mi è piaciuta è il fatto che, nonostante la storia si svolga in Germania, tutti i testi e le pagine scritte che si vedono sono in inglese. Sbavature che lasciano qualche perplessità su un film bello ma che potenzialmente avrebbe potuto essere migliore.
Nota: con questo film la Winslet ha vinto l'Oscar come miglior attrice. Giusto così, anche se forse avrebbe meritato di più per la sua performance in "Revolutionary Road".