31 dicembre 2008

Ricomincio da capo (H. Ramis, 1993)

Ricomincio da capo (Groundhog Day)
di Harold Ramis – USA 1993
con Bill Murray, Andie MacDowell
***1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

L'egocentrico meteorologo televisivo Phil Connors, inviato di malavoglia nella cittadina di Punxsutawney, in Pennsylvania, per girare un reportage sul "giorno della marmotta" (un'eccentrica festività locale che si tiene il 2 febbraio, nel corso del quale una marmotta dovrà prevedere se le restanti giornate d'inverno saranno ancora rigide), si ritrova misteriosamente a rivivere più volte la stessa giornata, sempre uguale in ogni dettaglio. Ogni mattina, infatti, si risveglia nella propria stanza d'albergo; e tutto, attorno a lui, si ripete in maniera identica. Dapprima perplesso, poi sconvolto, infine rassegnato, Phil finisce con il conoscere perfettamente ogni dettaglio del paese e dei suoi abitanti: inizialmente sfrutterà la situazione per divertirsi in ogni modo, poi attraverserà una fase di profonda depressione (ma non gli sarà possibile nemmeno suicidarsi: ogni volta si risveglierà come sempre la mattina del "giorno della marmotta") e infine raggiungerà una sorta di serena accettazione, superando i propri difetti e arrivando a vivere una giornata perfetta, nel corso della quale riuscirà anche a conquistare l'amore della sua bella producer. A metà strada fra un episodio de "Ai confini della realtà" sui paradossi temporali e una parabola buddista con il suo ciclo di eterna rinascita e di tendenza verso l'automiglioramento, questo piccolo capolavoro è opera di un regista che aveva recitato come attore al fianco di Murray nel cult "Ghostbusters" (era l'occhialuto Egon Spengler) e che in seguito non ha più saputo realizzare nulla allo stesso livello, pur avendo provato a giocare ancora la carta del fantastico e del soprannaturale (per esempio con "Mi sdoppio in quattro"). Oltre a dirigere un Murray in stato di grazia e a rendere con efficacia il tormentone della ripetizione temporale, Ramis comunque ha il merito di aver apportato alcune variazioni significative alla già bella sceneggiatura di Danny Rubin: inizialmente la vicenda avrebbe dovuto cominciare in media res, con Phil già prigioniero del time loop, e anche la producer Rita avrebbe dovuto sperimentare la stessa esperienza. Nel film non si quantifica quante volte il protagonista abbia rivissuto il "giorno della marmotta", ma nelle versioni iniziali dello script veniva specificato che la giornata si ripeteva identica per migliaia di anni: non a caso Phil utilizza questo tempo per imparare e per affinare numerosissime capacità (come suonare il pianoforte, parlare il francese o scolpire il ghiaccio). Moltissimi i remake o i film basati sullo stesso spunto: dall'italiano "È già ieri" con Antonio Albanese al fantascientifico "Edge of Tomorrow - Senza domani" con Tom Cruise, fino alla commedia "Palm Springs - Vivi come se non ci fosse un domani" di Max Barbakow.

Halloween (John Carpenter, 1978)

Halloween - La notte delle streghe (Halloween)
di John Carpenter – USA 1978
con Jamie Lee Curtis, Donald Pleasance
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Durante la notte di Halloween ("la vigilia di Ognissanti" nel doppiaggio italiano dell'epoca), una tranquilla cittadina del midwest viene funestata dalla furia omicida di un assassino fuggito dal manicomio criminale e tornato sul luogo dove aveva ucciso per la prima volta quando era solo un bambino. Contro di lui dovranno vedersela una giovane babysitter (Jamie Lee Curtis, al suo esordio sul grande schermo) e lo psichiatra che lo aveva in cura (Donald Pleasance). Un film indipendente e a basso budget che ha definitivamente lanciato la carriera di Carpenter e che – nonostante le scene violente siano in realtà ben poche e non particolarmente truci – ha contribuito alla nascita del cosiddetto genere "slasher" che avrebbe caratterizzato gran parte del cinema horror degli anni ottanta e novanta, fino a essere codificato e satireggiato in "Scream" (a partire dalle famose "regole" del genere, come quella che vuole le ragazze più disinibite – in questo caso le amiche della protagonista – destinate a cadere vittima del mostro e quelle più caste – come Lori stessa – a salvarsi). Registicamente è molto interessante, a partire dalle numerosissime inquadrature che mostrano in soggettiva cosa vedono i vari personaggi quando scrutano in strada o fuori dalle finestre. La scena iniziale, tutta mostrata attraverso gli occhi dell'assassino, potrebbe aver ispirato le sequenze simili realizzate da Sam Raimi ne "La casa". Certo, vista oggi la pellicola si dipana in maniera un po' lenta e punta più sull'accumulo di suspense che sull'azione vera e propria: ma fra i suoi punti di forza ci sono la sonnolenta ambientazione di provincia, le protagoniste quasi tutte femminili e la scelta di non mostrare mai chiaramente l'assassino, Michael (sempre in penombra, fuori inquadratura o con una maschera sul volto, al punto da essere interpretato da attori diversi a seconda delle scene), che assume così una connotazione quasi soprannaturale. Tra i film d'epoca che i personaggi guardano in televisione spicca "La cosa da un altro mondo", di cui Carpenter stesso realizzerà un remake quattro anni più tardi. Il regista è anche l'autore delle musiche, ispirate a quelle dei film di Dario Argento e aggiunte dopo che i primi screen test avevano rivelato che al film mancava qualcosa per terrorizzare appieno il pubblico. Tantissimi i seguiti (e i remake).

30 dicembre 2008

Soffio (Kim Ki-duk, 2007)

Soffio (Soom, aka Breath)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2007
con Park Ji-a, Chen Chang
*1/2

Visto in DVD.

Dopo aver scoperto che il marito che la tradisce, una donna comincia periodicamente a far visita a un detenuto imprigionato nel braccio della morte e che ha tentato più volte il suicidio. Gli porterà baci, canzoni, colori e immagini delle stagioni, ma alla fine lo lascerà al suo destino per rappacificarsi con il coniuge. Ennesima pellicola deludente, esile e inconcludente, per un regista che ormai sembra lontano anni luce da quello che avevo amato ai suoi esordi. Ormai il suo cinema è solo aria fritta: qui si salvano le brevi sequenze in cui la donna canta per il prigioniero, dopo aver decorato le stanze della sala delle visite del carcere con fotografie delle quattro stagioni, mentre la mancanza di dialoghi è ai limiti dell'insopportabilità (la protagonista fa scena muta con il marito, il prigioniero non parla perché ferito alla gola). Da diverso tempo Kim non ha più nulla da dire (vedi anche i precedenti "Time" e "L'arco") e realizza film che sembrano essere stati sceneggiati in non più di dieci minuti. Quel che è peggio è che queste insulsaggini, furbette e facili, piacciono a un certo pubblico occidentale disposto ad autoconvincersi di trovarvi dentro chissa che cosa, invece che ammettere che si tratta solo di zen ed estetismo, conditi con i soliti rapporti misteriosi fra i personaggi, le solite azioni compiute senza motivo, il solito irritante intimismo, i soliti poetismi da quattro soldi.

24 dicembre 2008

The millionaire (Danny Boyle, 2008)

The millionaire (Slumdog millionaire)
di Danny Boyle – GB/USA 2008
con Dev Patel, Freida Pinto
***

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

Senza rinunciare al suo stile sempliciotto e folgorante, il sorprendente Danny Boyle confeziona una storia di redenzione e riscatto sociale che al tempo stesso è una favola, una storia d'amore e un ritratto dell'India moderna dove i grattacieli sostituiscono le baraccopoli (o meglio, le spostano altrove) e i format internazionali dei quiz televisivi fanno sognare a occhi aperti milioni (miliardi?) di individui. Quello che il giovane Jamal desidera, partecipando alla versione hindi di "Chi vuol essere milionario", però non è il denaro: spera soltanto di ricongiungersi con la ragazza che ha amato per tutta la vita e dalla quale è sempre stato separato da un destino avverso. Una dopo l'altra, le domande che gli vengono poste dal presentatore dello show fanno affiorare in lui i ricordi più traumatici della sua vita. Il destino ha infatti voluto che ogni quesito fosse legato a una delle svolte epocali della sua infanzia e della sua adolescenza: solo così si spiega come un ragazzino ignorante e cresciuto nelle baraccopoli di Mumbai (l'ex Bombay) possa conoscere tutte le risposte e arrivare fino all'ultima domanda, quella da venti milioni di rupie. D'altra parte anch'io, a volte, provo a immaginare quale potrebbe essere una sequenza di domande fatte "su misura" per me, ovvero interrogativi anche difficilissimi ma di cui so già in partenza la risposta. Naturalmente su Jamal cadono sospetti di essere un truffatore, che però sono destinati a dissiparsi: anche perché ben presto è evidente che il quiz per lui non è che un mezzo per raggiungere un fine ben diverso dal successo, dalla fama e dalla ricchezza, al punto da continuare a giocarsi tutto, in maniera apparentemente incosciente, senza mai fermarsi a nessun traguardo intermedio. La struttura a continui flashback, il ritmo veloce e incalzante, la fotografia vibrante (e un po' ruffiana), gli attori bravissimi, bambini compresi (ma che fastidioso il doppiaggio italiano!) concorrono a rendere il film gradevole e accattivante, magari a volte semplice e ingenuo (proprio come le pellicole di Bollywood, anche se in questo caso filtrate da un occhio occidentale) ma efficace. Curiosamente "Chi vuol essere milionario" era già stato al centro di un'altra bella pellicola, "Il mio miglior amico" di Patrice Leconte. Mi ha un po' lasciato perplesso la progressione delle domande, la cui difficoltà non sembrava crescente: l'ultima, in particolare (quella sui tre moschettieri), non era certo la più difficile: anzi, forse era la più facile di tutte! Nei titoli di coda, riecco Bollywood: i protagonisti danno vita a uno scatenato balletto, out-of-character.

Nota 1: Nel doppiaggio italiano c'è un passaggio decisamente discutibile. Per i dettagli, si legga qui: http://soulfood.blogspot.com/2009/01/laccendiamo.html.
Nota 2: Quando Jamal è accusato di barare, gli viene chiesto se aveva un complice fra il pubblico che tossiva per aiutarlo. È un riferimento alla storia (vera) di Charles Ingram. Cercate con Google o su YouTube per saperne di più!

23 dicembre 2008

Una locanda di Tokyo (Yasujiro Ozu, 1935)

Una locanda di Tokyo (Tokyo no yado)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1935
con Takeshi Sakamoto, Yoshiko Okada
***

Visto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Nel quarto e ultimo film della serie Kihachi-mono, Takeshi Sakamoto interpreta un operaio disoccupato e padre di due figli. Privi di un tetto e di risorse economiche, i tre riescono in qualche modo a sopravvivere catturando cani randagi e consegnandoli al canile in cambio di una ricompensa, ma il denaro è così scarso che sono spesso costretti a scegliere fra un pasto frugale o una notte al coperto nella sala comune della Manseikan, una sorta di ostello popolare. A un certo punto le cose sembrano andare meglio: Kihachi trova un lavoro e conosce una ragazza di cui si innamora. Quest'ultima, però, si trova in una situazione simile alla sua: è povera e sola, senza casa o lavoro e con una figlia a carico. E quando la piccola Kimiko si ammala gravemente, Kihachi decide di compiere una rapina per procurarsi il denaro necessario a farla ricoverare. Dopodiché, si consegna spontaneamente alla polizia. L'ambientazione povera e desolata (gran parte del film si svolge in esterni fra strade e campi, con fabbriche e ciminiere sullo sfondo) e i toni che anticipano il neorealismo (un paragone con "Ladri di biciclette" non sarebbe fuori posto) ne fanno una delle pellicole di Ozu più intense e drammatiche dal punto di vista dei contenuti. Ma non si tratta di un film di denuncia sociale (la sceneggiatura non lancia strali contro nessuno), quanto piuttosto di un ritratto della miseria e della disoccupazione con le quali dovevano fare i conti molti strati della popolazione delle aree industriali durante la depressione, e che mi ha ricordato, con le dovute distanze e forse per la presenza dei bambini, "Una tomba per le lucciole". Per fortuna il finale, seppur non lieto, non è così triste. Fra le scene più belle, quella quasi surreale in cui padre e figli si godono un lauto banchetto immaginario. Il maggiore dei figli di Kihachi è interpretato dal "solito" Tokkan Kozo, ovvero Tomio Aoki, ormai dodicenne.

Kagamijishi (Yasujiro Ozu, 1935)

Kagamijishi
di Yasujiro Ozu – Giappone 1935
con Kikugoro Onoe VI
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Il primo film sonoro di Ozu, nonché l'unico suo documentario, è un cortometraggio dedicato a un celebre attore del teatro kabuki, Kikugoro Onoe VI, qui ripreso mentre si esibisce nella "danza del leone" tratta da un'opera di fine ottocento. Lo scopo del lavoro, eseguito su commissione, era quello di diffondere all'estero la cultura tradizionale giapponese. La danza comincia in maniera rilassata, ma poi – quando il personaggio viene "posseduto" dallo spirito del leone – diventa vigorosa e dinamica. La trasformazione è anche resa evidente dal cambio di costume: inizialmente Kikugoro è vestito da donna, con kimono e ventaglio, e ha movenze delicate ed eleganti, mentre nella seconda parte sfoggia una folta criniera, ha il viso truccato, e si agita con fervore e passione. La regia di Ozu, che naturalmente si trova a proprio agio a riprendere un palcoscenico (mostrando marginalmente anche il pubblico in platea), è completamente al servizio dell'attore, che riprende da una certa distanza e rinunciando (tranne che in un paio di momenti) ai primi piani, probabilmente per motivi legati alla tecnica di ripresa sonora.

22 dicembre 2008

Cane che abbaia non morde (Bong Joon-ho, 2000)

Cane che abbaia non morde, aka Barking dogs never bite (Flandersui gae)
di Bong Joon-ho – Corea del Sud 2000
con Lee Sung-jae, Bae Du-na
**1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Questa bizzarra dark comedy, che segna l'esordio di Bong (autore in seguito di grandi successi come "Memories of murder" e "The host"), è incentrata su un improvvisato serial killer di cani. Il protagonista, un giovane assistente universitario che sta cercando in tutti i modi di diventare professore, è infatti talmente infastidito dal continuo latrato di un cagnolino nel suo condominio che comincia a uccidere tutti i cani del vicinato che gli capitano a tiro. Più tardi, però, scopre con raccapriccio che anche la sua moglie incinta, che lo tiranneggia mica male, ha acquistato un cagnolino: e quando l'animale gli scappa mentre lo stava portando al parco, è costretto a affiggere cartelli per ritrovarlo, proprio come avevano fatto i proprietari delle sue precedenti "vittime". Nella ricerca verrà aiutato da una ragazza che lavora presso l'amministrazione del condominio e che si è presa a cuore la vicenda. La storia coinvolge anche altri inquietanti personaggi, fra i quali un inserviente ghiotto proprio di carne di cane e un barbone che vive nei sotterranei dell'immenso edificio. In quanto a crudeltà sui cagnolini, questa divertente e grottesca pellicola potrebbe fare il paio con "Un pesce di nome Wanda". Il titolo originale del film è un riferimento a "Il cane delle Fiandre", un racconto per bambini piuttosto celebre in estremo oriente (ne fu tratto anche un anime giapponese, una variante della cui sigla si può sentire in sottofondo nel trailer del film).

21 dicembre 2008

Il gobbo di Notre Dame (Trousdale, Wise, 1996)

Il gobbo di Notre Dame (The Hunchback of Notre Dame)
di Gary Trousdale, Kirk Wise – USA 1996
animazione tradizionale
**

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Quando l'avevo visto al cinema dodici anni fa, questo adattamento animato del classico di Victor Hugo non mi era dispiaciuto e avevo apprezzato il coraggio degli animatori nell'aver scelto un testo apparentemente così lontano dallo stile disneyano, pieno di lati oscuri e di ambiguità. Rivedendolo adesso, però, mi ha un po' deluso: l'ho trovato a tratti ipocrita proprio nel suo adattamento "buonista", e ne salverei soltanto alcune sequenze isolate (come quella di apertura). A dire il vero, non comprendo più il motivo per cui è stato realizzato: con tutte le fiabe o i racconti che esistono, perché scegliere un testo del genere se poi bisogna stravolgerlo per renderlo adatto ai bambini? Numerosi aspetti, infatti, sono stati edulcorati: in primis Frollo, il cattivo, che da arcidiacono è diventato un giudice (e l'unico prete che compare nel film è invece buono). Quasi ogni personaggio, comunque, ha visto smussati i suoi lati negativi (il capitano delle guardie Febo, per esempio, ma anche lo stesso Quasimodo) e il finale (ispirato peraltro all'opera lirica di cui lo stesso Hugo aveva scritto il libretto) li lascia praticamente tutti in vita. Ma a parte il discorso sull'adattamento, che lascia sempre il tempo che trova (e in fondo gli stessi problemi erano presenti anche nelle precedenti versioni hollywoodiane), è la pellicola stessa a non brillare particolarmente: disegni e animazioni non sono eccezionali, le scenografie della cattedrale mancano di "personalità" e la sceneggiatura presenta molte parti noiose, soprattutto nella prima metà. Un altro punto debole, infine, sono le musiche e le canzoni, stucchevoli e tutt'altro che memorabili (a parte quella iniziale, "Le campane di Notre Dame", che mi piace molto, e quella di Frollo, "Fiamme dell'inferno"). Eppure, come dicevo, di elementi interessanti (e inediti o controversi per un film d'animazione disneyano) ce ne sarebbero: la passione di Frollo per Esmeralda, la deformità del protagonista, le tensioni razziali, l'attacco al moralismo e la presenza di un tema religioso (appena accennato, a dire il vero). Ma a parte il personaggio di Frollo, al quale non a caso sono legate le scene migliori (l'inseguimento iniziale alla zingara sotto la neve, il ballo nel fuoco del caminetto), il politically correct rovina un po' tutto e gli altri character – da Esmeralda (bella senz'anima, e nell'edizione italiana funestata dalla pessima voce di Mietta) a Febo, dai gargoyle di pietra (inutili comic relief incapaci di far ridere) allo stesso Quasimodo (le cui fattezze si ispirano a quelle di Charles Laughton nella versione di William Dieterle del 1939) – non riescono a "bucare" lo schermo.

20 dicembre 2008

Brevi giorni selvaggi (F. Perry, 1969)

Brevi giorni selvaggi (Last Summer)
di Frank Perry – USA 1969
con Barbara Hershey, Catherine Burns
***

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Nel corso di un'estate al mare, su un isolotto quasi desertico, i giovani Dan e Peter conoscono dapprima la bella, intelligente e carismatica Sandy, da cui rimangono affascinati e con la quale stringono una forte amicizia, e poi l'introversa, timida e bruttina Rhoda, che cerca di entrare a far parte del loro gruppo ma di fatto diventa invece la vittima delle loro provocazioni. Fra "coming of age" e dinamiche adolescenziali, natura selvaggia e minimalismo, il bel film di Perry mostra i giochi, gli scherzi, le crudeltà e le pussioni sessuali che si sviluppano all'interno del quartetto. I rapporti fra i protagonisti, isolati nella natura e lasciati a sé stessi da famiglie assenti, disunite o dileggiate, passano dall'iniziale innocenza a un rapporto sempre più perverso e vorticoso. Ricordo che registrai questo film per puro caso (avevo programmato il VCR per un altro film, ma la programmazione subì un ritardo), senza sapere nulla né della pellicola né del regista (che in effetti oggi sembra quasi dimenticato). E fu una sorpresa positiva. La caratterizzazione dei personaggi è precisa ed esce fuori lentamente, in maniera sottile: Sandy è dominante e quasi psicotica, i due ragazzi sono insicuri e inesperti e si lasciano manipolare da lei (in particolare Dan, che quando si trova invece da solo con Rhoda mostra un'anima gentile), mentre Rhoda è idealista e ingenua ma anche, nonostante l'aspetto, la più matura ed equilibrata del gruppo. La sceneggiatura di Eleanor Perry (moglie del regista) è tratta da un romanzo di Evan Hunter (alias Ed McBain). La scena della violenza finale fu giudicata troppo forte dalla censura americana e venne alleggerita con alcuni tagli per evitare che il film fosse vietato ai minori.

19 dicembre 2008

Amami stanotte (R. Mamoulian, 1932)

Amami stanotte (Love me tonight)
di Rouben Mamoulian – USA 1932
con Maurice Chevalier, Jeanette MacDonald
****

Visto in divx.

Un esuberante sarto parigino si reca in una tenuta aristocratica di campagna per esigere il pagamento degli abiti che ha realizzato per un giovane visconte. Viene però scambiato per un barone (anche perché il visconte vuole tenere lo zio all'oscuro dei propri debiti) e si innamora di una principessa che ignora le sue umili origini. L'amore trionferà o durerà solo lo spazio di una notte? Splendida commedia musicale che, per quanto non offra nulla di imprevedibile a livello di trama (ma la sceneggiatura è abile a dare a tutta la vicenda una patina fiabesca e irreale che avrebbe affascinato Demy), è davvero superlativa dal punto di vista tecnico e artistico. Dialoghi scoppiettanti e impertinenti, pieni di doppi sensi e di satira sociale, quasi alla Lubitsch, e numeri musicali che non fungono da semplice riempitivo ma fanno avanzare la storia fondendosi meravigliosamente con la scenografia e il montaggio (a ulteriore dimostrazione di come bastarono pochissimi anni dall'introduzione del sonoro per padroneggiare il mezzo alla perfezione) sono al servizio di una sorta di operetta tradizionale che recupera lo spirito della commedia francese con grazia, leggerezza, ironia e stravaganza. Per realizzare questo capolavoro gli sceneggiatori sono partiti dalla colonna sonora composta ex novo da Richard Hodgers e Lorenz Hart e da una pièce già popolare ("La principessa e il sarto" di Paul Armont e Léopold Marchand). Il resto lo hanno fatto gli interpreti, perfettamente in parte, e soprattutto Mamoulian, con i suoi movimenti di macchina, i giochi di luce e di ombre sulla parete, le movimentate coreografie (alcune canzoni, come la trascinante "Isn't it romantic?", la dolce "Mimi" e la buffa "That son-of-a-gun is nothing but a tailor", sono talmente contagiose che passano da personaggio a personaggio in un crescendo di situazioni comiche e di ambientazioni sia nobili sia proletarie), il fascino di Parigi (la sequenza di apertura, con i rumori del quartiere che si trasformano in colonna sonora, è da antologia; e la prima canzone di Maurice, mentre si reca alla sua bottega, potrebbe aver ispirato l'incipit de "La bella e la bestia" disneyana) e lo sfarzo delle ville dell'aristocrazia (di cui si sarebbe sicuramente ricordato Jean Renoir ne "La regola del gioco": c'è persino una battuta di caccia!). Chevalier canta in inglese ed è affiancato da un cast di primordine, che oltre alla MacDonald (che nel finale si lancia arditamente a cavallo all'inseguimento del treno sul quale il suo uomo sta scappando, mettendosi sui binari per fermare il convoglio, con un insolito rovesciamento dei classici ruoli fra maschio e femmina di questo tipo di film), vede una giovane e radiosa Myrna Loy nei panni di una contessa ninfomane e maliziosa e ottimi caratteristi come Charles Ruggles (lo squattrinato visconte), Charles Butterworth (il flemmatico conte) e C. Aubrey Smith (lo zio duca). Da non dimenticare nemmeno le tre vecchie zie della principessa, che sembrano le parche del destino. Fra le mie scene preferite c'è quella in cui viene presentato il cavallo Solitudine, che si chiama così "perché torna sempre da solo". Magistrale, comunque, anche la sequenza della caccia, con scene prima velocizzate e poi rallentate (il regista gioca molto con tecniche insolite per l'epoca, come zoom, split screen e sovrapposizioni di immagini, e persino con effetti speciali: vedi il ritratto che partecipa a una canzone collettiva) e il montaggio alternato nel finale fra il treno in corsa e il cavallo al galoppo. Curiosamente i due personaggi principali hanno gli stessi nomi degli attori che li interpretano, Maurice e Jeanette. Il film, uscito prima dell'introduzione del codice Hays (e si vede!) ebbe comunque molti problemi con la censura per le frequenti battute o situazioni a sfondo sessuale e venne tagliato a più riprese. Proprio per questo motivo, purtroppo, la copia oggi esistente manca di alcune sequenze (e, pare, di alcune canzoni) che sono andate distrutte.

17 dicembre 2008

Lumière et compagnie (aavv, 1995)

Lumière et compagnie
di registi vari – Francia 2005
film a episodi
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Nel centenario dell'invenzione dei fratelli Lumière, il museo del cinema di Lione ha chiesto a quaranta registi (di cui due in coppia) in giro per il mondo di realizzare un cortometraggio con gli stessi metodi e la stessa attrezzatura dei due leggendari fratelli. Armati della camera cinematografica originale, dunque, gli autori hanno dovuto girare un film di 52 secondi, in bianco e nero, in un unico piano sequenza, con luce naturale e senza suono sincronizzato (anche se quasi tutti hanno comunque aggiunto poi una colonna sonora). In più avevano a disposizione solo tre take. Il film mostra i frutti del loro lavoro, intervallandoli con riprese dei registi all'opera e mentre rispondono (a volte in maniera vaga e fumosa) a tre domande, sempre le stesse: "Perché avete accettato di girare con la camera Lumière?", "Perché fate film?", "Il cinema morirà?". Ma se l'idea alla base dell'operazione è interessante, soprattutto nella sua natura di tributo alle origini della settima arte, alla resa dei conti il risultato è un po' deludente, a tratti discretamente noioso, e in fondo lascia il tempo che trova. La qualità dei cortometraggi, com'era prevedibile, è altalenante: non tutti i registi coinvolti sembrano all'altezza della sfida e i filmati che valgono la pena di essere visti sono pochi. Fra i miei preferiti ci sono quelli di Lelouch, Kiarostami, Corneau e Konchalovsky. Il segmento di Lynch condensa in pochi secondi una delle sue storie inquietanti e quasi incomprensibili, mentre Greenaway gioca come al solito con immagini e numeri, ma anche con l'illuminazione. Non male nemmeno Zhang Yimou, Bigas Luna, Chahine e Angelopoulos. Alcuni dei corti catturano grazie all'ambientazione, mentre altri puntano tutto su un'elaborata messinscena; c'è chi si affida alla simbologia e chi si limita a riprendere uno scenario o un paesaggio. Fra i temi più ricorrenti ci sono i bambini: sull'argomento, però, nessuno riesce a mostrare qualcosa di più emozionante del frammento degli stessi Lumière che compare nella pellicola, "Premiers pas de bébé". Ecco, in ogni caso, i cortometraggi contenuti nel film:

1) Patrice Leconte – Un treno arriva alla stazione di La Ciotat, ma questa volta non si ferma.
2) Gabriel Axel – Vari artisti si esibiscono in un parco a Copenhagen, segue poi un duello a colpi di pistola.
3) Claude Miller – Una bambina vuole salire su una bilancia, ma gli adulti la sopravanzano. Infine, un uomo la prende sulle spalle.
4) Jacques Rivette – Una bambina gioca al parco, mentre una giovane pattinatrice si scontra con un uomo che legge il giornale.
5) Michael Haneke – Un estratto dal telegiornale del 19 marzo 1995 (anniversario del primo giro di manovella dei Lumière). Contravvenendo alle regole, Haneke utilizza ampiamente il montaggio.
6) Fernando Trueba – Il film mostra l'uscita dalla prigione di uno scrittore incarcerato per essersi sottratto al servizio militare obbligatorio.
7) Merzak Allouache – Una coppia che passeggia si ferma per farsi riprendere dalla camera.
8) Raymond Depardon – Alcuni bambini giocano con la statua di un antico egiziano.
9) Wim Wenders – Gli angeli de "Il cielo sopra Berlino" (Bruno Ganz e Otto Sander) osservano i cantieri della città.
10) Jaco Van Dormael – Davanti a una chiesa di Bruxelles, due down si baciano appassionatamente.
11) Nadine Trintignant – Una carrellata davanti al Louvre, con un uomo che cammina nella fontana.
12) Régis Wargnier – Una passeggiata del presidente Mitterrand.
13) Hugh Hudson – Una classe di bambini davanti al monumento commemorativo di Hiroshima.
14) Zhang Yimou – Due artisti tradizionali si esibiscono sulla muraglia cinese e a un certo punto si trasformano in moderni rocker.
15) Liv Ullmann – Il cameraman Sven Nykvist ripreso mentre è al lavoro.
16) Vicente Aranda – Le auto dei repubblicani e degli anarchici sfilano durante la guerra civile spagnola.
17) Lucian Pintilie – Dopo un matrimonio, gli sposi vanno via in elicottero seguiti da una folla che cerca di salire sul velivolo.
18) John Boorman – Le immagini mostrano il "dietro le quinte" di un film con Liam Neeson e Stephen Rea.
19) Claude Lelouch – Due amanti che si baciano vengono immortalati da una serie di cameramen di tutte le epoche, dai più antichi ai più moderni.
20) Abbas Kiarostami – Un uomo si cucina due uova al tegamino mentre ascolta il messaggio che una donna gli ha lasciato sulla segreteria telefonica. L'inquadratura non si stacca mai dal tegame e dai fornelli.
21) Lasse Hallström – Una donna con un bambino in braccio saluta un treno che passa.
22) Costa-Gavras – Un gruppo di ragazzini guarda in camera da oltre una transenna.
23) Kiyu Yoshida – Racchiusa fra due immagini del regista e del cameraman, una lunga inquadratura del palazzo simbolo di Hiroshima. In sottofondo si ode il rumore dell'esplosione atomica.
24) Idrissa Ouedraogo – Un uomo si tuffa in un fiume, ma viene spaventato da un altro uomo travestito da alligatore.
25) Gaston Kaboré – Alcuni bambini sono incuriositi dai rulli di pellicola che un camion sta scaricando davanti a un cinema.
26) Youssef Chahine – I fratelli Lumière riprendono le piramidi, ma un militare li caccia via: la censura esisteva già allora.
27) Helma Sanders – Louis Cochet, capo elettricista che ha lavorato nella fabbrica Lumière dal 1931, dirige i fari d'illuminazione come se fosse un direttore d'orchestra.
28) Francis Girod – Due imbianchini imbrattano un gigantesco televisore che mostra un ritratto di Fellini al lavoro: dopodiché diversi spettatori si radunano a guardare l'ìmmagine deturpata.
29) Cédric Klapisch – Due amanti-ballerini provano una scena più volte, prima discutendo e poi baciandosi.
30) Alain Corneau – Una danzatrice balla in abiti tradizionali. I vestiti cambiano colore più volte (sono colorati a mano sulla pellicola).
31) Merchant & Ivory – Una strada di Parigi ripresa dal Pantheon fino all'ingresso di un McDonald's.
32) Jerry Schatzberg – Una barbona contende alcuni rifiuti a un netturbino.
33) Spike Lee – Un primo piano di sua figlia di pochi mesi, alla quale il regista cerca di strappare qualche parola.
34) Andrei Konchalovsky – Zoom su una carcassa di cane sul ciglio di uno strapiombo fra le montagne: morte e decomposizione in un paesaggio splendido.
35) Peter Greenaway – In un museo, le inquadrature spaziano su varie sale e in particolare su un elenco di anni scritti su una parete. Anche il regista inglese, contravvenendo alle regole, ricorre al montaggio.
36) Bigas Luna – Una donna nuda allatta un bambino in mezzo a un campo arato.
37) Arthur Penn – Un letto a castello, all'aperto: sotto c'è un uomo legato e con il braccio ingessato, sopra una donna di colore incinta.
38) David Lynch – Strani sogni e premonizioni legati a un fatto di sangue e a misteriosi esperimenti medici.
39) Theo Angelopoulos – Ulisse approda dal mare sulla terraferma e si chiede "In quale terra straniera sono giunto?"

16 dicembre 2008

Il castello errante di Howl (H. Miyazaki, 2005)

Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro)
di Hayao Miyazaki – Giappone 2004
animazione tradizionale
**1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

In un paese mitteleuropeo immaginario, il regno di Ingary, caratterizzato da un'avanzata tecnologia steampunk e dalla diffusa presenza della magia, l'umile cappellaia Sophie viene coinvolta nella rivalità fra Howl, giovane incantatore che vive in un castello in grado di muoversi da solo nelle brughiere, e la perfida Strega delle Lande: quest'ultima trasforma con un incantesimo Sophie in una vecchietta, ma anche così la ragazza riuscirà a conquistare il cuore di Howl. Nel frattempo il re di Ingary si appresta a scatenare una guerra contro il paese vicino e tutti i maghi e gli stregoni vengono invitati a partecipare al conflitto. Howl, spirito libero e indipendente, non ha alcuna intenzione di combattere: ma scenderà in campo lo stesso, rischiando di trasformarsi definitivamente in un mostruoso uomo-uccello, nel tentativo di fermare la distruzione e di proteggere le persone a lui care. Tratto da un romanzo fantasy di una scrittrice inglese, Diana Wynne Jones, questo film di Miyazaki mi ha sempre lasciato con sensazioni ambivalenti: da un lato è – come di consueto – affascinante per i disegni, le scenografie (curatissime), l'ambientazione, i personaggi e le dinamiche fra di loro, sempre in evoluzione. Dall'altro, però, la trama è confusa e a volte eccessivamente complicata, e la sceneggiatura è poco equilibrata: difetti che possono essere fatti risalire quasi in toto al processo di adattamento del romanzo e al fatto che inizialmente non si trattava di un progetto del maestro (Miyazaki è subentrato alla regia, dopo aver dichiarato di non voler fare più film, quando Mamoru Hosoda se ne è tirato fuori). Non ho letto il libro, ma pare che il regista abbia cambiato notevolmente la trama e il tono della seconda parte della vicenda. E così gli elementi che all'inizio sembrano più importanti (come l'incantesimo che invecchia Sophie) vengono pian piano dimenticati o risolti senza particolare enfasi, mentre quelli che parevano messi lì soltanto sullo sfondo, magari per caratterizzare meglio il mondo in cui si svolge la storia (la guerra stessa, per esempio), balzano in primo piano. Ci sono inoltre lunghissime scene che ai fini della trama non servono quasi a niente e personaggi introdotti per essere poi ignorati, come la sorella di Sophie, mentre il finale è spaventosamente affrettato: tutti i punti rimasti in sospeso vengono risolti in pochi minuti (il voltafaccia di madame Suliman è troppo repentino). Addirittura la canzone dei titoli di coda parte sovrapponendosi ai dialoghi dei personaggi quando ancora le loro vicende non si sono concluse. Per questi motivi, e nonostante visivamente sarebbe uno dei più belli, è il film di Miyazaki che mi è piaciuto di meno. Fra i personaggi minori (ma non troppo) spicca Calcifer, il simpatico demone del fuoco, legato a doppio filo a Howl da un patto segreto e responsabile del potere magico del castello. Fra gli spunti narrativi, invece, ho trovato particolarmente intrigante la capacità del castello di aprire la propria porta su luoghi lontanissimi fra loro (il che consente a Howl di gestire più "identità" contemporaneamente). Nella sua media (quindi comunque ottima) la colonna sonora di Joe Hisaishi, che punta quasi tutto sul bel tema principale che ritorna a più riprese.

15 dicembre 2008

Ong-bak (Prachya Pinkaew, 2003)

Ong-bak - Nato per combattere (Ong-bak)
di Prachya Pinkaew – Thailandia 2003
con Tony Jaa, Petchtai Wongkamlao
**1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Per recuperare la testa del buddha Ong-Bak, la statua che protegge il suo villaggio rurale e che è stata rubata da un trafficante di oggetti d'arte, il giovane e sempliciotto Ting si reca a Bangkok: qui dovrà affrontare una banda di malviventi che opera nel sottobosco della criminalità e convincere Humlae, un tempo suo compaesano e ora attratto dallo stile di vita cittadino, ad aiutarlo. La storia e i personaggi non potrebbero essere più ingenui o banali, e se fosse per loro il film non reggerebbe a una seconda visione, ma in fondo non costituiscono che un pretesto per mettere in piedi le scene d'azione: quello che rende il film un vero "must see" sono esclusivamente le abilità atletiche e marziali del protagonista, esperto nello stile di combattimento Muay Thai, una sorta di boxe che utilizza soprattutto gomiti e ginocchia. Tony Jaa è l'equivalente thailandese di Jackie Chan (per la capacità di interagire con l'ambiente circostante: vedi la magnifica scena dell'inseguimento per le strade del mercato) e di Bruce Lee (per l'impiego delle arti marziali al servizio dell'orgoglio nazionale: vedi i continui scontri con avversari occidentali, giapponesi, birmani, spesso scorrettissimi), e sfoggia un talento acrobatico pari a quelli di Jet Li o Donnie Yen. Jaa ha curato anche le coreografie, facendo un ottimo lavoro, anche se in certi momenti c'è quasi un effetto videogioco. Le azioni più spettacolari vengono ripetute e riproposte più volte e da più angolazioni, o addirittura al ralenti, proprio come avveniva un tempo nei film di Hong Kong.

14 dicembre 2008

L'armata delle tenebre (Sam Raimi, 1992)

L'armata delle tenebre (Army of darkness)
di Sam Raimi – USA 1992
con Bruce Campbell, Embeth Davidtz
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Proiettato da un vortice spazio-temporale nell'Inghilterra del medioevo, l'ormai tamarrissimo Ash (già protagonista de "La casa" e "La casa 2") si ritrova ad affrontare nuovamente le forze del male scatenate dal leggendario Necronomicon, il libro dei morti. Al terzo film, la saga di Raimi attenua i toni horror per trasformarsi in un'avventura fantasy-comica che deve molto al cinema di Ray Harryhausen (gli scheletri che marciano e combattono sono un chiaro omaggio a "Gli argonauti"). Rispetto alle pellicole precedenti, i mostri non fanno più paura e il protagonista sembra chiaramente in grado di cavarsela sempre, anche nelle situazioni più assurde. Ash, inizialmente con la caratteristica sega elettrica innestata sul braccio (che poi sostituisce con una più "normale" mano meccanica), è costretto ad affrontare delle minuscole copie di sé stesso e poi deve impadronirsi del Necronomicon, custodito in un cimitero maledetto. Ma non avendo recitato correttamente le parole magiche che lo avrebbero protetto dai mostri ("Klaatu barada nikto", un omaggio al classico film di fantascienza "Ultimatum alla Terra" di Robert Wise: la scena in cui Ash cerca di coprire la parola finale – che ha dimenticato – con un colpo di tosse è davvero esilarante), risveglia inconsapevolmente un intero esercito di demoni e scheletri, l'armata che dà il titolo alla pellicola. Nonostante qualche occasionale calo di tensione, il film diverte in maniera viscerale ed è pervaso da un amore per il genere fantastico che spazia a tutto campo: horror, heroic fantasy, slapstick e avventura si fondono senza sosta, dalla prima all'ultima inquadratura. Mitica la locandina, in puro Frazetta-style.

13 dicembre 2008

La casa 2 (Sam Raimi, 1987)

La casa 2 (Evil dead II)
di Sam Raimi – USA 1987
con Bruce Campbell, Sarah Berry
***1/2

Visto in DVD, con Hiromi.

Girato sei anni dopo il primo film, "La casa 2" ne è contemporaneamente il sequel e il remake. La storia che racconta è infatti essenzialmente la stessa (un gruppo di persone, chiuse in una baita fra i boschi, viene aggredito dalle forze del male scatenate dalla lettura del Necronomicon, il leggendario libro dei morti), ma gli eventi della pellicola precedente vengono condensati nei primi sette minuti (in maniera semplificata, eliminando tre dei personaggi originali, per ragioni di tempo e di budget: Raimi non aveva ottenuto dai distributori il diritto di riutilizzare sequenze del primo film) mentre il seguito porta la vicenda verso nuove direzioni. Il risultato è una pellicola divertente e impressionante al tempo stesso, un piccolo capolavoro che merita un posto d'onore nella storia del cinema horror e fantastico. Il sorprendente finale, che all'epoca sembrava solo l'ennesimo sberleffo o colpo di scena, diventerà poi lo spunto per un terzo lungometraggio dai toni più fantasy che horror, "L'armata delle tenebre". Rispetto al primo capitolo, la violenza e l'orrore assumono toni maggiormente cartoonistici (c'è chi ha tirato in ballo Tex Avery) e persino comici (come quando Ash viene attaccato dalla sua stessa mano), anche se la violenza non è assolutamente edulcorata, mentre i riferimenti lovecraftiani sono più evidenti e il "libro dei morti" ha maggior spazio. Campbell mette in mostra capacità recitative di prim'ordine, grazie a una forte presenza scenica e a una formidabile mimica facciale, e l'intera pellicola diventa così un viaggio nell'incubo e nell'orrore che non può non affascinare chi è disposto a stare al gioco. Gli attacchi dei demoni non risparmiano nessuno (a un certo punto persino Ash si trova a essere posseduto). Il protagonista acquista qui le sue caratteristiche fondamentali, compresa la motosega che si innesta sul braccio al posto della mano. Notevoli, ancora una volta, gli effetti speciali artigianali. Una delle mie gag preferite consiste nel titolo del libro che Ash utilizza per bloccare la sua mano dopo essersela amputata: "A farewell to arms".

11 dicembre 2008

La casa (Sam Raimi, 1981)

La casa (The evil dead)
di Sam Raimi – USA 1981
con Bruce Campbell, Ellen Sandweiss
***1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Un gruppo di cinque amici si reca a passare la notte in una casa isolata nei boschi: complice un arcano testo di magia (il mitico "Necronomicon" di lovecraftiana memoria), i ragazzi risveglieranno spiriti e forze del male che si impossesserano dei loro corpi. Il primo lungometraggio di Raimi (realizzato quando aveva solo vent'anni) è uno dei più celebrati cult horror di tutti i tempi, che mescola con efficacia toni splatter e suggestioni soprannaturali, costruendo una tensione efficacissima nonostante la povertà di mezzi (il film fu girato con un budget ridottissimo, e gran parte del cast e della troupe era costituito da amici del regista: il protagonista Bruce Campbell, per esempio, era un suo compagno del liceo). Gli effetti speciali artigianali (che comprendono anche magnifiche sequenze a passo uno, come il "disfacimento" finale dei demoni) riescono a terrorizzare gli spettatori nonostante risultino anche, inevitabilmente, ingenui e persino comici. L'atmosfera notturna e maledetta è amplificata dalla notevole "violenza grafica" (come la chiamano gli americani) e dal folgorante stile di ripresa. La regia, le inquadrature e il montaggio sono ricchi di idee e di soluzioni ardite, come le celebri "soggettive" delle forze del male che si aggirano intorno alla casa. Per dare un'idea del metodo di lavorazione, basti ricordare che la prima sequenza (quella con la macchina da presa che si muove a pelo d'acqua sulla palude) è stata realizzata con Raimi sdraiato su una zattera e Campbell che lo spingeva a braccia! Fra le scene indimenticabili, c'è sicuramente quella in cui una delle ragazze viene aggredita e violentata dagli alberi e dalle liane. L'automobile gialla dei protagonisti (una Oldsmobile Delta 88 del 1973) era la macchina di Raimi stesso, che in seguito l'ha inserita in quasi tutti i suoi film. In una scena si intravede su una parete il poster (strappato) de "Le colline hanno gli occhi" di Wes Craven: si trattava di una sorta di gioco, perché nel film di Craven era presente a sua volta il poster strappato de "Lo squalo", come se ciascun film volesse affermare di essere più terrorizzante dell'altro. Il titolo originale avrebbe dovuto essere "The book of the dead", ma il distributore Irvin Shapiro volle cambiarlo perché temeva che sembrasse "troppo letterario" per un pubblico giovane. Il film si rivelò anche un grande successo in home video, in un periodo in cui questo canale era snobbato dalle major hollywoodiane e riservato solo alla distribuzione indipendente. Anni dopo, Raimi accettò di girarne un sequel/remake, che gode di un identico status di cult movie.

9 dicembre 2008

Lupin III: Il castello di Cagliostro (H. Miyazaki, 1979)

Lupin III: Il castello di Cagliostro (Rupan sansei: Kariosutoro no shiro)
di Hayao Miyazaki – Giappone 1979
animazione tradizionale
***1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi, in originale con sottotitoli.

Già responsabile di diversi episodi della serie televisiva, con questo brillante film dedicato al celebre ladro gentiluomo (ideato dal fumettista Monkey Punch come un discendente del personaggio di Leblanc) Miyazaki realizza il primo lungometraggio cinematografico della sua lunga carriera (in precedenza aveva collaborato, oltre che a serie tv, ai film diretti dall'amico Isao Takahata, come "La grande avventura del piccolo principe Valiant"). L'interessante ambientazione (Cagliostro è una nazione fittizia, dal sapore antiquato, ispirata forse al Liechtenstein e situata nelle Alpi), la cura per i dettagli, i bei disegni e l'animazione morbida contribuiscono a dar vita a una pellicola gradevolissima, con una trama vivace e ricca di momenti dinamici (entusiasmante, per esempio, l'inseguimento iniziale sulle strade del paese di Cagliostro). La sceneggiatura (dello stesso Miyazaki) dona ai personaggi caratterizzazioni un po' diverse dal solito e cerca di farli uscire dai loro ruoli stereotipati: Lupin mostra così una natura più romantica e il suo lato cinico ed egoista viene smussato, mentre Jigen, Goemon, Fujiko e Zenigata sono comprimari funzionali alla vicenda e mai invadenti. I personaggi ideati per l'occasione – la giovane Clarissa e il malvagio Conte di Cagliostro – sono invece miyazakiani in tutto e per tutto. Memorabile la Fiat 500 gialla che il nostro eroe utilizza per i suoi spostamenti in compagnia di Jigen. Alcuni spunti della trama sono stati poi riciclati da Miyazaki nei suoi film successivi: la situazione iniziale, per esempio, con una ragazza in fuga da misteriosi inseguitori che vogliono impadronirsi di un gioiello in suo possesso (un anello, in questo caso) e che la lega a un'antica eredità, ricorda molto da vicino quella di "Laputa". In Italia il film ha avuto ben tre differenti doppiaggi: il primo, per la tv, non eccelleva per le voci (diverse da quelle della serie regolare) e trasformava curiosamente il nome di Fujiko in Rosaria; il secondo, per l'home video, era pieno di errori di traduzione: faceva comicamente passare un vescovo barbuto per "il papa" e la città romana sommersa per "Roma" stessa! Il terzo, infine, è quello della recente riedizione per le sale cinematografiche: non l'ho vista, ma mi aspetto che si tratti della versione più fedele.

7 dicembre 2008

L'ottava moglie di Barbablù (E. Lubitsch, 1938)

L'ottava moglie di Barbablù (Bluebeard's eighth wife)
di Ernst Lubitsch – USA 1938
con Gary Cooper, Claudette Colbert
**1/2

Visto in DVD, con Albertino.

Il ricchissimo magnate americano Brandon incontra a Nizza la graziosa Nicole, figlia di un nobile decaduto, e se ne innamora immediatamente. Ma il giorno stesso delle nozze, la ragazza scopre che lui ha già avuto sette mogli e che ha divorziato da tutte entro pochi mesi. Fa allora inserire nel contratto di nozze una clausola che le farà guadagnare un cospicuo vitalizio in caso di un nuovo divorzio e comincia a rendergli la vita difficile in ogni modo per spingerlo a rompere il matrimonio... Movimentata commedia sulla guerra dei sessi e sul dualismo fra interessi e sentimenti, sceneggiata da Charles Brackett e Billy Wilder con dialoghi veloci e scoppiettanti: in molte cose sembra in effetti una pellicola quasi più wilderiana che lubitschiana (anche se naturalmente proprio Lubitsch è stato il maestro e il faro illuminante di Wilder). Fra gag-tormentoni basate su frasi, oggetti o situazioni che sembrano spuntare da contesti assurdi (come il pigiama a righe che fa incontrare i due protagonisti, la vasca da bagno di Luixi XIV che il padre di Nicole vuol vendere a Brandon, la parola "Cecoslovacchia" da compitare all'indietro per addormentarsi), l'utilizzo della musica come commento sonoro ai movimenti dei personaggi, o il gioco di gelosie e di ripicche che i due coniugi mettono in atto l'uno nei confronti dell'altro, la storia si dipana in maniera a tratti sorprendente. L'unica cosa che non mi ha convinto sono stati i due attori protagonisti: non ho mai trovato Cooper particolarmente adatto ai ruoli comici, mentre la Colbert mi è un po' antipatica. Nel cast ci sono anche Edward Everett Horton (il marchese de Loiselle, padre di Nicole) e un giovane David Niven (amico e spasimante di Nicole, nonché impiegato di Brandon, in un ruolo alla Charles Ruggles). Proprio all'inizio c'è una delle gag migliori: un cartello nella vetrina di un negozio di Nizza recita "Si parla l'inglese, si capisce l'americano".

6 dicembre 2008

Alba tragica (Marcel Carné, 1939)

Alba tragica (Le jour se lève)
di Marcel Carné – Francia 1939
con Jean Gabin, Jacqueline Laurent
**1/2

Rivisto in VHS, con Hiromi.

Un uomo ne uccide un altro a colpi di pistola e si barrica nel proprio appartamento per tutta la notte. All’alba, proprio mentre la polizia sta facendo irruzione nel palazzo con i lacrimogeni, sceglierà il suicidio. Nel frattempo, attraverso una serie di flashback, viene ricostruita tutta la vicenda di amori, menzogne e gelosie che ha condotto al tragico epilogo. Secondo dei tre celebri "capolavori" (su sette titoli) della coppia Carné-Prévert, è un film che gode di grande fama per aver saputo mettere in scena una tragedia privata e proletaria (il protagonista è un operaio) che materializzava sullo schermo tutta l'angoscia e l'inquietudine del suo periodo storico, quello della Francia pre-bellica. Era un cinema "di rottura" per l'epoca, capace (per citare da un commento di Gparker di qualche giorno fa al mio post su "Il porto delle nebbie") di "mostrare gente che fuma, che lavora, filmare la vita". Ma a uno spettatore di oggi, per il quale queste cose non sono più una novità o una sorpresa, la pellicola ha poco da offrire. E infatti, francamente, non mi ha mai emozionato troppo: nonostante l’originale costruzione temporale e narrativa, la storia di fondo è semplicistica e i personaggi non particolarmente profondi, anche se probabilmente – vista nel contesto di quegli anni – la pellicola poteva colpire lo spettatore per il suo tragico e cinico romanticismo. Restano le atmosfere, queste sì memorabili, come nel precedente "Il porto delle nebbie", e il tema dell’amore puro e ideale contaminato da una realtà ingiusta. Gabin deve gran parte del suo alone leggendario a queste due pellicole, mentre Arletty nei panni della sua amante "di ripiego" convince più della giovane e "innocente" Laurent, vero oggetto del desiderio dei due uomini.

5 dicembre 2008

Storia di erbe fluttuanti (Y. Ozu, 1934)

Storia di erbe fluttuanti (Ukigusa monogatari)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1934
con Takeshi Sakamoto, Koji Mitsui
**1/2

Rivisto in DVD (registrato da "Fuori Orario").

Una compagnia itinerante di attori teatrali (le "erbe fluttuanti" del titolo) torna dopo alcuni anni a far tappa nel villaggio di montagna dove vive il ventenne Shinkichi, che all'insaputa di tutti è il figlio illegittimo del capo della troupe, Kihachi. La madre del ragazzo, proprietaria di un negozio di liquori, lo ha allevato senza rivelargli mai l'identità del padre. L'attuale amante di Kihachi, un'attrice della compagnia, scopre il suo segreto e chiede alla giovane collega Otoki di sedurre per gioco Shinkichi: ma i due ragazzi si innamoreranno davvero. Quando la verità verrà fuori, padre e figlio avranno un duro scontro. Riciclando come al solito alcuni temi e situazioni di pellicole precedenti (il personaggio di Shinkichi ricorda il protagonista di "Una madre deve essere amata", la scena in cui gli attori cantano insieme dopo aver deciso di sciogliere la compagnia sembra provenire da "Il coro di Tokyo"), ma con un'inedita ambientazione rurale anziché quella urbana più consueta, Ozu racconta una storia ambientata nel mondo del teatro, setting frequentato spesso dal cinema giapponese dell'epoca (si pensi a Mizoguchi). La vita dei teatranti è descritta come un'esistenza di stenti e di ripiego, qualcosa che il padre non augura al proprio figlio: proprio per questo motivo, infatti, gli ha sempre tenuto nascosta la propria identità, continuando però segretamente a mantenerlo e a pagargli gli studi. Allo stesso modo, Kihachi non approva la relazione del figlio con Otoki perché considera chi lavora nel mondo dello spettacolo (compreso sé stesso) come un poco di buono. E nel finale, prima di riconciliarsi con l'amante e di partire con lei in cerca di una nuova scrittura, dice ai suoi colleghi: "chi riesce a trovare un lavoro onesto, abbandoni questo mestiere". Le scene che descrivono i rapporti fra i personaggi sono intermezzate da numerose gag che riguardano la troupe, e in particolare il piccolo Tomio Aoki/Tokkan Kozo, presenza costante nei lavori muti di Ozu. Nel 1959 il regista girerà un remake sonoro e a colori del film, intitolato semplicemente "Erbe fluttuanti".

4 dicembre 2008

Play time (Jacques Tati, 1967)

Play time - Tempo di divertimento (Play Time)
di Jacques Tati – Francia 1967
con Jacques Tati, Barbara Dennek
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Quarto lungometraggio di Tati, realizzato a ben nove anni di distanza dal precedente "Mio zio" e con uno sforzo produttivo di proporzioni gigantesche: l'attore/regista fece costruire un set grande come un intero quartiere, battezzato "Tativille", per girarvi la prima parte della pellicola (la seconda è invece ambientata quasi interamente in un ristorante). Come di consueto il suo stile mescola gag prevalentemente visive a situazioni paradossali e riduce il linguaggio parlato quasi a un rumore di fondo, spesso del tutto ininfluente ai fini della comprensione di quel che si vede sullo schermo. Protagonista (ma meno del solito) è ancora una volta il personaggio stralunato di Monsieur Hulot, alle prese con un mondo moderno, tecnologico e impersonale, nel quale si trova come un pesce fuor d'acqua. Inizialmente lo vediamo aggirarsi in un futuristico palazzo di metallo, nel disperato tentativo di interloquire con uno sfuggente burocrate. Poi lo seguiamo all'interno di una fiera commerciale, fra invenzioni bizzarre e clienti curiosi. In seguito viene invitato da un amico a visitare il suo nuovo appartamento, le cui pareti di vetro consentono ai passanti di osservare tutto ciò che avviene fra le mura domestiche. E infine trascorre la serata in un ristorante di lusso, proprio la sera dell'inaugurazione, dove tutto – per la disperazione dei camerieri – sembra andare storto. Sotto accusa, oltre allo stile di vita moderno (come nei film precedenti), ci sono la pianificazione architettonica, il design urbano, l'organizzazione aziendale e la scomparsa dei rapporti umani. La sola anima affine, Hulot la trova nella giovane turista americana che – unica del suo gruppo – trova il tempo di fotografare una vecchia fioraia o di ammirare i monumenti di Parigi riflessi nelle porte a vetro dei palazzi moderni, mentre il tour guidato al quale sta partecipando la trascina attraverso scenari metropolitani che non hanno nulla di parigino (come sottolineano, ironicamente, i manifesti dell'agenzia di viaggi che mostrano le diverse località del mondo attraverso immagini di un edificio sempre uguale). Pur se meno bello dei lavori precedenti, il film si lascia apprezzare per il ritmo lento e svagato, la perfezione formale (l'uso dei colori o dei suoni, la direzione delle comparse, la ricchezza delle scenografie) e il crescendo nella scena del ristorante. Truffaut lo definì "un film venuto da un altro pianeta". Girato in 70 mm con un procedimento tecnologico innovativo, fu un insuccesso commerciale che portò Tati al fallimento e di fatto pose fine alle sue ambizioni artistiche indipendenti.

3 dicembre 2008

Il re leone (R. Allers, R. Minkoff, 1994)

Il re leone (The Lion King)
di Roger Allers, Rob Minkoff – USA 1994
animazione tradizionale
****

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Questo magnifico film rappresenta forse l'apice del rinascimento disneyano, quel periodo che va da "La sirenetta" (1989) a "Tarzan" (1999) e che ha visto la casa di Burbank tornare a produrre lungometraggi animati di alto livello qualitativo, paragonabili ai grandi classici dell'epoca in cui il fondatore Walt era ancora vivo (oggi, purtroppo, il livello è sceso nuovamente). Considerata da alcuni come una rilettura dell'Amleto, la pellicola racconta la storia del leoncino Simba, figlio del re della savana Mufasa. Convinto di essere il responsabile della morte del padre (in realtà provocata dal perfidio zio Scar), Simba fuggirà nella giungla e trascorrerà gli anni dell'adolescenza in compagnia di due amici spensierati, il suricato Timon e il facocero (chiamato "maiale" nel doppiaggio italiano) Pumbaa. Ma una volta adulto, il senso di responsabilità lo spingerà a tornare nelle sue terre per riappropriarsi del trono. Sin dalle immagini iniziali, con tutti gli animali che accorrono alla Rupe dei Re per la cerimonia di presentazione del leoncino, e dalla splendida canzone di apertura, "Circle of life", il film colpisce per la potenza visiva e la forza narrativa. I personaggi tridimensionali, la storia appassionante, la violenza non sottaciuta (non ci si fa scrupolo di mettere in scena la morte!) lo rendono uno dei lungometraggi disneyani più memorabili di sempre, capace di avvincere lo spettatore adulto come il bambino, e al tempo stesso di rispettarne l'intelligenza. Sfumature psicologiche e temi archetipici sono profusi a piene mani (un esempio: la "terra desolata" che soffre sotto il regno del re usurpatore, in attesa di essere "curata" dal legittimo sovrano, come nel mito del "Re pescatore"). E poi c'è la meravigliosa colonna sonora di Hans Zimmer, vincitrice del premio Oscar, che da sola vale mezzo punto in più, con melodie epiche e struggenti che hanno ispirato decine di imitatori (se ne sentono echi persino nello "Shaolin soccer" di Stephen Chow!), e le belle canzoni di Elton John e Tim Rice (da segnalare "I just can't wait to be king" / "Voglio diventare presto un re", e "Can you feel the love tonight" / "L'amore è nell'aria stasera"). Ai tempi di Walt le dinamiche familiari passavano quasi esclusivamente attraverso il rapporto con la madre/matrigna (basti pensare a "Dumbo" e a "Bambi", ma anche alle fiabe come "Biancaneve" o "Cenerentola"), mentre i genitori maschi erano spesso assenti. Con questa pellicola, invece, si assiste all'inversione del trend e la figura paterna diventa il filo conduttore e la guida del giovane Simba. Evidenti le ispirazioni, oltre che all'Amleto di Shakespeare (con un pizzico di Enrico IV), al "Jungle taitei" ("Kimba, il leone bianco") di Osamu Tezuka (persino nel nome del protagonista: Kimba/Simba!), non riconosciute però dalla Disney, i cui autori hanno sempre negato di aver letto il manga giapponese. La sequenza in cui Scar fa sfilare davanti a sé le malvage iene ("Be prepared" / "Sarò re") ricorda invece le adunate naziste come ritratte ne "Il trionfo della volontà". Spettacolare, per intensità e tecnica (è stato uno dei primi e più celebri casi di utilizzo del computer in una sequenza d'animazione), la scena della carica degli gnu. Curioso come Timon e Pumbaa, due personaggi umoristici portatori (attraverso il motivetto-tormentone "Hakuna Matata", che in swahili significa "senza pensieri") di una filosofia di vita puerile e disimpegnata, e dunque in antitesi con il reale messaggio del film, diverranno protagonisti di spin-off e serie parallele: d'altronde sono le spalle comiche. Nella versione italiana spiccano le voci di Vittorio Gassman (Mufasa) e Tullio Solenghi (Scar). L'edizione speciale su DVD comprende una sequenza aggiuntiva con una canzone inedita, "Il rapporto del mattino", che però non è nulla di speciale.

1 dicembre 2008

Il porto delle nebbie (M. Carné, 1938)

Il porto delle nebbie (Le quai des brumes)
di Marcel Carné – Francia 1938
con Jean Gabin, Michèle Morgan
***

Visto in DVD.

Jean, taciturno soldato coloniale che ha probabilmente disertato dall'esercito, giunge nel porto di Le Havre in cerca di un'occasione per lasciare il paese imbarcandosi per il Sud America. Nel frattempo trova ospitalità in una baracca sulla costa, rifugio di altre anime perse, dove si innamora di una giovane ragazza: rinuncerà a partire per proteggerla dal suo viscido tutore e da un gangster di mezza tacca, ma rimarrà coinvolto nella misteriosa sparizione del suo ex spasimante. Terza collaborazione del regista Carné con lo sceneggiatore Jacques Prévert, il film ha segnato un'epoca del cinema francese e ha dato vita a quel particolare genere chiamato "realismo poetico" (perché filtra la realtà e la società attraverso la poesia e l'ispirazione letteraria), considerato un precursore del noir americano per il fatalismo disperato, le atmosfere sospese e soprattutto i personaggi ai margini della società, pieni di illusioni e di disillusioni, destinati a uscire sconfitti dalla loro eterna lotta contro il destino. Protagonisti come Jean e Nelly, che vagano fra ombre e nebbia in compagnia di un cagnolino randagio e che devono affrontare la propria solitudine, non si dimenticano tanto facilmente. Ma non mancano i punti deboli: il film è un po' impalpabile, quasi chiuso in sé stesso, con svolte prevedibili e sviluppi poco interessanti, e in fondo si capisce come mai Godard e i suoi compagni della Nouvelle Vague non amassero questo tipo di cinema (che pure ha prodotto capolavori assoluti come il monumentale "Les enfants du Paradis", sempre della coppia Carné-Prévert), soprattutto in confronto alla maggior concretezza degli autori di noir americani, e gli riconoscessero pregi più letterari che cinematografici, al punto da attribuire la "patente di autore" al solo Prévert. Anche se come tipo di film non c'entra nulla, la scena dello scontro con il gangster presso le automobiline del luna park mi ha ricordato "Altrimenti ci arrabbiamo" con Bud Spencer e Terence Hill. La versione nel DVD Ermitage presenta evidenti tagli (nella scena iniziale dell'incontro con il camionista, per esempio) e infatti ha una durata di circa dieci minuti inferiore a quella riportata sui testi.